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Autore: Deceptia_Tenebris    16/12/2017    1 recensioni
Cecilia è la classica ragazza piena di problemi ma con sempre un sorriso sarcastico a dipingerle le labbra, con una madre divorata dai demoni del passato, di cui la vita è scandita tra momenti a scuola, a casa e fuori casa, dove nessuno dovrebbe vederla. E' acida, fragile, un po' egoista e sentimentale ma vorrebbe portare le sue emozioni a uno stato di sterilizzazione.
Alice invece è di poco differente; è una ragazza dal passato misterioso, dal carattere difficile da inquadrare, forte, spiritosa anche nelle situazioni più impensabili, a cui le capitano di tutti i colori.
Cosa avrebbero in comune queste due ragazze, a parte la loro dipendenza per il fumo? Forse qualcosa del passato.
Oppure qualcuno che sconvolgerà le loro piccole, grandi esistenze.
Genere: Dark, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Alice

 

 

«No…no! NO! Lasciami andare, LASCIAMI ANDARE!».
Cercai di divincolarmi con tutte le forze, mentre quella mano mi stringeva e mi trascinava rudemente in un vicolo all’angolo della strada, con il freddo della sera che trapassava i vestiti, dato che non avevo nemmeno il giubbotto addosso. Un attimo prima ero in uno strato di trance, avvolta dall’atmosfera da discoteca con la musica che mi esplodeva nelle orecchie mentre mi ero seduta momentaneamente sul divanetto, non abituata a un ambiente così affollato e caotico. E poi di colpo mi ero ritrovata in piedi, per strada, mentre tentavo disperatamente di liberarmi da una stretta ferrea che mi scavava la pelle del polso. O ero decisamente ubriaca o avevano messo qualcosa nel mio drink. Suppongo la seconda perché non avevo bevuto molto.
Nel frattempo, l’uomo non faceva altro che darmi strattoni in silenzio quando tentavo di fermarmi o oppormi, sussurrando una qualche imprecazione di volta in volta. Ma per il resto del tempo non emetteva un fiato, non mi guardava nemmeno e una paura folle, angosciante mi accalappiò il cuore. Cazzo, stavo per morire. Probabilmente quello voleva stuprarmi e sgozzarmi, per poi buttare il mio cadavere in qualche cassonetto dell’immondizia.
A quel pensiero, lacrime copiose iniziarono a scivolare sul mio viso e uno strano squittìo, probabilmente un singhiozzo represso, uscì dalle mie labbra.
I polmoni divampavano disperatamente in cerca di ossigeno mentre mi sembrava di ingerire fuoco.
Sudori freddi sgorgarono dai pori della mia pelle, creandomi ancora più ansia e vari capogiri mi bombardarono le tempie come i battenti di un castello infestato. Iniziai a divincolarmi con sempre maggiore forza, i muscoli a reagire ai miei istinti disperati di sopravvivenza con scatti e tremori, facendomi apparire, e sentire, come un preda nelle spire velenose del suo predatore che cercava inutilmente di liberarsi. Tanto intensa era la paura che stava prendendo possesso di me che non riuscivo nemmeno a comprendere dove mi stesse trascinando, in quale parte della città avesse deciso di sancire la mia fine dato che le vie apparivano, nel buio della notte, tutte identiche fra di loro. Le stesse strade lastricate, gli stessi archi che precedevano i portici. Solo lampioni e pochi bar.
Da lì a poco, lo percepivo in un preambolo della mia mente come un presagio nebuloso, mi sarebbe giunto un attacco d’ansia che mi avrebbe bloccata completamente.
Non riuscivo a riflettere in quelle condizioni, tutto in me presagiva allarme senza reazione. Ero nella merda fino al collo e quell’uomo continuava a stringere il mio polso, neanche volesse staccarlo dal braccio. Tentai di deglutire ma avevo la bocca secca. Mi sembrava d’impazzire, i battiti del mio cuore erano talmente intesi che li percepivo nelle gambe e nello stomaco come i rintocchi di un orologio. E ogni rintocco era un vuoto che mi scavava dentro.
Poi, come un lampo in un temporale, sentii per la prima volta la sua voce.
«Vedi di calmarti, tipa. Non ti voglio mica mangiare» sbuffò quasi annoiato.
Tipa. Ma che…? Istintivamente mi fermai, come se avessi preso una forte scossa e con uno scatto, lui mollò la presa su di me e si fermò dinnanzi alla mia figura, quasi volesse inghiottirla. E poi vidi il suo sguardo e mi sentii avvampare dal petto alla gola, fino a farmi bruciare le orecchie.
Mi rivolse un mezzo sorriso, quasi un ghigno divertito.
Mi stava palesemente deridendo. «Cosa hai? Il gatto ti ha mangiato la lingua?».
Quelle parole furono l’atto finale in cui riuscii a recuperare il dono della parola.
Feci un passo indietro e con un’occhiataccia, gli sputai in faccia quello che avevo da dire.
«Chi cazzo sei?». Feci di nuovo un passo indietro, pronta a correre verso la discoteca per recuperare tutto ciò che avevo e chiamare qualcuno per farmi recuperare da quel pazzo. Non sapevo nemmeno spiegarmi il perché non avessi semplicemente alzato le chiappe per levarmi dai guai invece di rimanere qui a sbraitare contro sto qui, per avere spiegazioni.
Spiegazioni che non mi avrebbe mai fornito. “Stupida” mi rimproverai.
Mi fece di nuovo un altro sorriso. Più sincero. «Hai recuperato la lingua, molto bene».
Poi il suo sorriso svanì e si fece serio, gettando delle strane ombre sul suo sguardo già indecifrabile. I tratti del suo viso sembravano mutare in base a ogni suo sentimento e non sembrava possedere un volto suo, sebbene i colori e le forme restassero statici.
«Non voglio farti del male». Una dichiarazione dal nulla che nessuno aveva preteso che chiarisse.
Roteai gli occhi al cielo a quella incoerenza, sentendo ancora il polso pulsare.
«Eh, come no» sbuffai a mezza voce. Ormai  mi ero calmata ma pronta a scappare da un momento all'altro, la mano che istintivamente cercava il cellulare che non avevo con me.
«Beh, di certo non sarei qui a chiacchierare amabilmente con te» ribatté.
“Touché. Che poi chi utilizza più il termine “amabilmente”?” pensai.
Ero però anch’io fuori di testa se pensavo a certe frivolezze mentre un ragazzo mi aveva trascinata in un angolo della città contro la mia volontà. Gli lanciai un’occhiata per osservarlo meglio.
Era giovane, massimo sui ventitré anni, alto, con i capelli chiari sconvolti dal vento e vestito di scuro, tanto che si mimetizzava con l’atmosfera; le uniche cose spiccavano in lui era la carnagione bianchissima, praticamente nivea e il spessore del suo sguardo. Le labbra parevano dipinte con acrilico bianco. Sembrava un vampiro. Incrociai le braccia con atteggiamento difensivo.
Era una situazione adir poco surreale e mi girava ancora la testa, ma questa volta non per il panico.
Non mi sentivo molto bene. «Chi sei?» ribadii.
Il ragazzo ritornò a sorridere. Sembrava che non aspettasse altro che quella domanda.
Come se avessi detto l’unica cosa giusta del momento. «La persona che ti cambierà la vita.».
Ci un attimo di silenzio non solo fra di noi, ma anche nella mia testa. Come se dovessi assimilare e realizzare quella frase un attimo in più del solito. Poi il mio cervello riprodusse solo: “Oddio, da che ospedale psichiatrico sei uscito?”.
Mi sforzai a sorridere, ma ne uscì una smorfia nervosa. «Tu saresti chi?».
Non so perché ma mi ricominciai a tremare come un fuscello e mi resi conto che ero coperta solo da uno straccio di vestito che avevo scovato infondo all’armadio per quella sera. Mi strinsi le spalle.
Di certo non avevo programmato questo fine serata. Il tipo, accorgendosi che ero un essere umano dotata di una temperatura corporea incostante e che non ero un termosifone umano, mi lanciò uno sguardo stranamente premuroso e con un gesto di nonchalance infilò la mano nella tasca del suo cappotto, rovistando per trovare qualcosa. “Ecco, adesso starà cercando un coltello per sgozzarti”.
Fu un pensiero fulmineo ma che morì così come era nato. Mi sentivo poco bene.
Con un sospiro di sollievo, il tipo tirò fuori quello che dalla forma mi sembrò un pacchetto di sigarette e un accendino. Respirai affondo e percepii il mio sguardo illuminarsi, neanche avessi assistito ad un miracolo. Avevo bisogno di una cicca in quell’esatto momento, lo sentivo dal mio corpo che si era proiettato verso quel pacchetto come un magnete.
Il ragazzo, con calma snervante, sfilò fuori un paio di cicche e me ne porse una senza dire nulla. Io per un momento non sapevo se accettare o meno, ma il corpo reagì prima della morale e la mano afferrò quella che sembrava un oggetto di tregua o intesa. Optavo per l’ultima.
La mia pelle sfiorò casualmente la sua e un moto di stupore mi colse inatteso: era…calda.
Calda e asciutta, confortevole da turbarmi ancora più di prima. L’unica fonte di calore in una nottata di gennaio. Un brivido di piacere formicolò dal punto esatto in cui avvenne il contatto ma cercai di non avvicinarmi di più e di rimanere al mio posto, sebbene morissi di freddo. «Grazie».
«Di nulla» sospirò. L’ombra di un sorriso sembrava non abbandonare mai la sua bocca e i suoi occhi mi stavano ispezionando per bene il viso. Cosa cercasse, non lo capivo.
«Comunque sì, sono la persona che ti cambierà la vita. Hai capito bene» riprese.
Appariva tranquillo, come se stessimo discutendo del tempo. Si mise la cicca fra le labbra e l’accese, inspirando con calma. Lo guardai sconcertata. Era perfettamente serio.
«E avresti un nome “persona che mi cambierà la vista”?»
Fece un altro tiro, poi un sorriso in silenzio. Con l’accendino in mano, lo accostò alla mia faccia e mi accese la cicca cercando di catturare il mio sguardo, che evitavo palesemente di incrociare. Svoltai la testa verso la strada e inspirai lentamente, realizzata. Malboro rosse, riconobbi. Ci voleva. Feci un altro tiro e questa volta lasciai che restasse a intossicare i miei polmoni più del solito per poi espirare. Mi girò la testa e mi appoggiai alla parete, cercando di non svenire o vomitare dato che non avevo mangiato nulla.  Aspettavo che mi rispondesse.
«Federico».
Mi voltai a guardarlo e lui ricambiò lo sguardo. Altro silenzio. Non accennai ad aprir bocca.
«Tu invece sei Alice» concluse. Accennò una risata fra le nubi velenose vedendo la mia espressione. «Sì, so chi sei» dichiarò, come se mi si leggesse in fronte il nome che mi avevano affibbiato. Questo era un maniaco. «Questo dovrebbe inquietarmi parecchio, lo sai vero?».
«Lo so, è per questo che mi diverto».
 “Tu non sei apposto”. Erano le parole che erano scandite chiaramente in faccia.
Rise e la sua risata era venata da una strana amarezza. Me le aveva lette in faccia.
«Non sei la prima che me lo dice» sibilò, per poi recuperare quasi immediatamente il buon umore. «Devo proporti una cosa». No, sto tipo non era lunatico. Per carità.
«E non potevi propormela in una strada più affollata e richiamando la mia attenzione in modo meno drastico? Sai, senza farmi venire un attacco di cuore» sbottai sarcasticamente.
Giurai a me stessa che se aveva fatto tutta quella scena per chiedermi il numero di telefono o simili, gli avrei spento la cicca sulla lingua o in fronte. Che poi non me la sentivo di sopportare simili stronzate se poi riuscivo a malapena di finire la sigaretta da quanto stavo male: il sudore aveva incominciato a imbrattare la fronte, mi girava troppo la testa e vari attacchi di nausea iniziarono a farsi stadio in gola. Volevo solo buttarmi a terra o stendermi da qualche parte, pur di essere comoda.
«Nah, non sarebbe stata la stessa cosa».
«Immagino» tagliai corto.
«Allora, vuoi ascoltare la mia proposta?» domandò.
«Mi hai trascinata senza dire una parola, facendomi pensare che volevi stuprarmi o non so che altro e tu pretendi che ascolti quello che vuoi propormi –così a caso- perché sì, perché dovrei? Ma che cazzo di gioco malato è? Cos’è uno scherzo, una scommessa?» gli ringhiai contro. Il polso non la smetteva di bruciare e stava superando il limite.
«Beh, sai il mio nome» ribadì con calma, «E non è uno scherzo né niente di simile. Noi alla fine ci conosciamo più di quanto tu possa credere, veramente.».
Ma che…? «Ah beh, allora a sto punto sposiamoci» insinuai velenosa.
Troppe stronzate in una volta, davvero. E il fatto che lui ne sembrava seriamente convinto!
Doveva essere un pazzo scatenato, quasi quanto me, che non ero ancora scappata a gambe levate.
«Alice?».
«Ehm?».
«Ti senti poco bene?» . Appariva come una voce lontana. Si era spento ormai la cicca da un po'.
Respirai affondo e svoltai lo sguardo su un lampione non poco lontano che emetteva una luce adir poco abbagliante. Provai a fare un altro tiro, non riuscendo nemmeno a rispondere a Federico, ma la testa questa volta girò troppo forte e la cicca mi cadde di mano. Chiusi gli occhi e cercai di respirare aria fredda per ristabilire un po’ di lucidità. Sentivo tutto ma non volevo reagire.
Volevo solo chiudere gli occhi un attimo e vedere il buio.

 

   
 
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