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Autore: BlueButterfly93    19/12/2017    2 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
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Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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Capitolo 27

Il segno del tempo








"Devo parlarti urgentemente. Raggiungimi nella stanza n.89 alloggio nel tuo stesso hotel. Non darmi buca..."

Avevo imparato a memoria quelle parole scritte sullo schermo bianco del mio cellulare. Ero stata ferma, bloccata a leggere e rileggere quelle frasi schiette. Non mi ero mai fidata di lei, ma quella volta l'istinto mi fece percepire qualcosa di diverso. Così senza pensare ulteriormente mi alzai di scatto e superato quel separé ridicolo che la Lamberto aveva posizionato tra il mio letto e quello di Castiel mi accertai che il rosso stesse dormendo e per mia fortuna stava persino russando. L'istinto mi suggeriva di avvicinarmi a lui per accarezzare quel volto privo di difese, fragile mentre sonnecchiava, ma quel poco di ragione che era rimasta mi fece abbandonare in punta di piedi la stanza prima di compiere azioni di cui mi sarei pentita in un secondo momento. 

Chiusi delicatamente la porta alle mie spalle e tirai un sospiro di sollievo. Stavo trattenendo il fiato e non me n'ero neanche resa conto. In realtà di troppe cose perdevo la concezione quando Castiel era nelle vicinanze. E non andava bene. Lui non provava niente per me, non mi voleva o almeno non voleva ciò che cercavo io in lui. Era capace di amare solamente una donna e quella non ero io. Aveva versato tutto l'amore che possedeva in corpo e nell'anima, nelle mani sbagliate, nel cuore sbagliato ma non potevo farci nulla. Non potevo inscenare ancora il ruolo della sua crocerossina, sarebbe stato ridicolo. Avrei dovuto farmene una ragione. Castiel non poteva essere salvato, non da me perlomeno. Dovevo dimenticarlo a tutti i costi. Ce l'avrei fatta prima o poi. 

Scossi la testa per eliminare quei pensieri in quel momento inutili e partii alla ricerca della fantomatica stanza numero 89. Non era molto lontana dalla mia stanza, la numero 93, ci misi davvero poco a trovarla. Quando fui davanti quella porta, fissai attentamente il numero come se fosse la cosa più interessante del mondo. Osservai per parecchio tutte le curve e linee di quei due numeri, non perché ne fossi attratta ma perché cercavo in quelle curve dipinte d'oro il coraggio di bussare a quella porta. Non avevo idea di cosa mi spettasse, avevo provato a pensarle tutte ma conoscendo il soggetto che mi stava aspettando oltre quel masso di legno, in cuor mio sapevo di non poter prevedere le sue mosse, i pensieri loschi che il suo cervello emetteva. 

Avevo le mani sudate e tremanti. 

Come mi capitava sempre nelle occasioni di forte ansia. 

L'ignoto mi metteva paura, angoscia, nervosismo. Non sapevo cosa aspettarmi da quella ragazza maligna e inoltre avevo già provato sulla mia pelle parte della sua cattiveria, del suo odio nei miei confronti. A pensarci bene, in quei mesi, non ero riuscita ad individuare il motivo per il quale le stavo così tanto stretta, antipatica. Insomma, lei era la ragazza dei sogni di Castiel, il ragazzo che mi piaceva; io in un certo senso ero anche legittimata a provare una certa rabbia nei suoi confronti tra l'altro dopo tutto il male provocato allo stesso Castiel, ma lei? Per quale motivo avevo meritato il suo odio? Lei aveva tutto. TUTTO quello che desideravo io. Lei aveva il suo cuore, il suo amore, poteva svegliarsi accanto a lui ogni mattina, osservarlo, contemplarlo nelle sue fragilità che stava attento a tenere nascoste; poteva ammirare le sfumature dei suoi cambi di espressione, poteva abbracciarlo, stringerlo, baciarlo, assaporarlo; poteva curarlo, ascoltarlo, saziarlo. 

Rabbrividii davanti a quella lista immaginaria che la mia mente aveva tirato fuori in un momento poco opportuno.

Ed inebetita, ancora inerme continuando a fissare quella porta venni a contatto con la realtà, con l'evidenza. Debrah aveva lui, aveva tutto e non si rendeva conto della sua fortuna. 

Io invece cosa avevo? Un due di picche, momenti brevi e sporadici vissuti con lui che continuavano a tormentarmi giorno e notte. Perché avevo provato sulla mia pelle cosa significasse sentire le labbra, le braccia di Castiel Black addosso. Quella sensazione non sarei mai riuscita a lavarla, ne ero sicura. Mi sarei portata per sempre dietro il peso dei miei istinti, il peso della sconfitta.

Castiel mi aveva tatuato la sua presenza addosso ed era diventato TUTTO senza neppure esserci.

Io invece cosa ero per lui? La sua ruota di scorta, la sua bambola da tirare fuori nei momenti di noia. Semplicemente niente.

Ero niente per Castiel e mai sarei stata qualcosa. Quindi l'unica a poter provare odio ero io, eppure non ci riuscivo a pieno. Non ancora. 

Non dovetti neanche trovare il coraggio di bussare perché la porta oggetto della mia attenzione -da ormai cinque minuti buoni- si aprì apparentemente sola. Sembrava quasi una scena di un film horror visto che non mi si presentò nessun soggetto davanti al volto.

L'ansia aumentò incredibilmente.

Scacciai i pensieri che mi avevano attanagliato la mente fino ad un secondo prima e facendomi coraggio, ma ancora titubante, ingoiai il groppo formatomisi in gola ed avanzai lentamente sporgendomi dentro la stanza. 

Appena misi piede in quella camera singola, simile alla mia solo poco più piccola, mi pervase l'odore acre di fumo; storsi il naso istintivamente. 

« C'è nessuno? » chiesi in un sussurro.

Non feci neanche in tempo a sbirciare ogni angolo della stanza alla ricerca di Debrah che subito dei suoni e rumori provenienti da un computer attirarono la mia attenzione facendomi destare lo sguardo verso il letto singolo, al centro della stanza, dove era adagiato un computer portatile. 

Partì un filmato. C'era Castiel, ovviamente.

Ed il mio cuore si fermò per qualche istante. 

Non potevo credere ai miei occhi.

Dopo qualche minuto, partì un secondo filmato. C'erano Castiel e Debrah, ovviamente.

Delle fitte lancinanti tra il petto e lo stomaco mi fecero portare entrambe le mani sul cuore, come a volerlo reggere e proteggere per evitare di farlo sprofondare distrutto sul pavimento di quell'hotel maledetto. 

Restai immobile in quella posizione, spettatrice di quelle scene. Avrei tanto voluto chiudere gli occhi e cercare di alleviare il dolore, ma sapevo che non sarebbe servito. Li avrei visti anche ad occhi chiusi, li avrei sentiti anche da sorda. Quelle immagini, quei suoni, quelle voci erano entrati sotto la mia pelle e difficilmente sarebbero usciti. Non riuscii a vedere tutto il video, durava venti minuti era scritto sul timer al di sotto delle immagini. Avevo già visto troppo. Così mi smossi da quella posizione assunta da ormai dieci minuti, sembrava quasi avessi dei mattoni al posto dei piedi ma nonostante la fatica riuscii a precipitarmi velocemente e dolorante su quel letto per stoppare quel video velenoso per il mio cuore. 

Le immagini si fermarono finalmente e nella stanza soggiunse un silenzio tombale. Di Debrah nessuna traccia anche se avevo quella strana sensazione di essere osservata sin da quando era partito il primo filmato. 

Non sapevo come reagire, non avevo idea di cosa avesse architettato quella ragazza. Una brutta sensazione iniziò a radiarsi per tutto il mio corpo e l'ansia aumentò incredibilmente. Iniziai a respirare affannosamente, le mani tremavano e sudavano molto più di prima. Quelle immagini non le avrei mai più dimenticate, soprattutto quelle del secondo video. Certo, entrambi avevano dei contenuti pesanti ma l'ultimo sembrava toccarmi da più vicino anche se non avevo alcun diritto di agire con gelosia, apprensione o altro. Eppure sapevo bene che quel genere di "atti" avvenivano quotidianamente nella vita di Castiel. Ma una cosa era immaginarlo e un'altra era vederlo. Come recitava quel detto? Occhio non vede, cuore non duole. Ecco. Ed era vero; l'avevo provato sulla mia pelle proprio qualche istante prima.

Quel dannato filmato non era recente, da come avevo letto sul display risaliva a quasi tre anni prima, ma nonostante quel particolare sentivo uno strano fastidio partire dai piedi e salire fino alle mani. Avevo un'improvvisa voglia di urlare, scappare e nello stesso tempo menare la ragazza che aveva ritenuto opportuno mettermi al corrente di quei video. 

Avrei vissuto meglio senza sapere.

All'improvviso il rumore provocato dallo sbattere di una porta mi fece voltare in direzione dell'uscita. 

« Ma come? Hai stoppato proprio sul finale? Era coi fiocchi » la voce stridula di Debrah e la sua apparizione mi fecero capire che era stata lei l'artefice di quel rumore. Era entrata in scena a mani conserte e con un'espressione sbeffeggiante in viso. Indossava una minigonna di pelle e dei tacchi a spillo; era truccata perfettamente con neanche un capello fuori posto. Era bella, come lo era sempre stata.

Non le risposi, non volevo dimostrare il mio troppo interesse per il materiale che mi aveva mostrato, non potevo darle ciò che voleva sin da subito. 

« Perfetto! Ora che sai bene cosa contengono quei video possiamo iniziare a parlare di affari ».

Aggrottai la fronte nell'udire quelle parole e l'ansia iniziò di nuovo a circolare e pulsare nel mio corpo come il sangue. A breve avrei scoperto il motivo del suo messaggio mandatomi mezz'ora prima. 

« Non essere così confusa, tesoro! A breve capirai tutto » mi sorrise falsamente e avanzò in direzione del letto dove si sedette e accavallò le gambe con aria sensuale. Imparai a conoscere che quello era un aspetto facente parte del suo DNA. 

Io restai immobile senza muovere un passo e senza battere ciglia. Sembravo come pietrificata, vuota, senza emozioni eppure di emozioni all'interno del mio corpo ce n'erano anche troppe e si sovrastavano tra di loro. Purtroppo era una mia caratteristica di reagire all'ansia in quello strano modo.

« Se non sentissi il tuo respiro affannato da qui, potrei dire tranquillamente di avere davanti una sottospecie di ragazzina imbalsamata... » 

« Smettila di farneticare e va' dritta al punto. Non ho tempo da perdere con te! » sbottai interrompendo finalmente il suo monologo inutile. Il mio stato di trance derivato dall'ansia si era interrotto, per fortuna. Quando accadeva non ero padrona del mio corpo, pensavo, osservavo, reagivo all'interno ma non riuscivo ad esternare. Mi capitava qualcosa d'inspiegabile.

« Ok, eccoti accontentata allora: il mio amato Castiel ha compiuto ben due reati ed io povera e innocente Debrah Duval potrei benissimo denunciarlo. Quei video racchiudono delle prove schiaccianti e sai anche tu che già la situazione di Castiel con la legge non è delle migliori. Verrebbe arrestato, rinchiuso in cella e butterebbero via anche la chiave! » 

E fu davanti a quelle parole che capii quanto quella ragazza fosse meschina, cattiva, senza cuore. Voleva far arrestare il proprio ragazzo o ex -ancora non mi era chiaro il loro status sentimentale- e già quella era una cosa assurda. Quale ragazza sana di mente e innamorata del proprio ragazzo, lo accuserebbe davanti alla legge? Evidentemente Debrah Duval. Solo lei sarebbe stata in grado di compiere un atto del genere. Poi ripensai alle sue parole e aggrottai istintivamente e maggiormente la fronte, confusa. Il primo video era compromettente, non poteva ribattersi niente purtroppo. Ma il secondo? Entrambi parevano essere consenzienti in quello che facevano, era palese. 

Come se leggesse il mio pensiero Debrah continuò il suo discorso assurdo « Oh certo che ero consenziente; eccome se lo ero » si leccò le labbra per enfatizzare ciò che intendeva « E poi... Detto tra donne: Castiel è bravissimo a letto, forse uno dei più bravi secondo la mia "modesta" esperienza. Fa certi lavoretti di lingua ch... »

« NO! Frena, frena » mossi le mani in direzione del suo volto come per fermare il suo racconto. Non avevo nessuna intenzione di ascoltare altro sui loro incontri piccanti, avevo già visto troppo.

« Dimmi per quale motivo sono qui, oppure me ne vado. Sono stanca! » il mio tono di voce era disperato, esausto e non m'importava più di mascherarlo. Ne avevo abbastanza di lei, di Castiel e di tutta quella storia insulsa. 

« Castiel mi stava riprendendo senza che io ne fossi a conoscenza. E come se non bastasse dopo la fine della nostra storia è andato in giro a far vedere i nostri video ad alcuni nostri amici in comune che ovviamente mi hanno subito avvertita. Per non rovinare la mia carriera, il mio nome ho dovuto pagare profumatamente tutte le persone che avevano saputo o visto in qualche modo i contenuti di quei video. Sono ben tre le volte in cui mi ha ripresa. Ti piace ancora come un tempo adesso che hai saputo di cosa è capace Castiel Black? »

E mi crollò il mondo addosso. Era pesante, troppo da riuscirlo a sostenere sola. Sin dal primo giorno avevo difeso Castiel e condannato Debrah per i suoi comportamenti, ma solo perché l'altra faccia della medaglia era ignota fino a lì. E fu in quel momento che tante cose iniziarono ad essere chiare. Tanti tasselli che sembravano essere parti di più puzzle diversi, alla fine si erano rivelati parti centrali di un unico e grande puzzle. Il tentato suicidio, quel disperato bisogno di farla finita, la droga, la gente che iniziava ad evitarlo, tutto era ricollegato a quei dannati video. Per un motivo ancora a me ignoto aveva registrato i suoi atti sessuali con la ragazza che amava e alla fine della storia -forse per ripicca- aveva mal deciso di mostrare i contenuti di quei video a persone scelte a caso. Quelle stesse persone poi avevano iniziato ad evitarlo per quel motivo e a causa di altri. Lui, dapprima popolare e ben voluto da chiunque, si era sentito improvvisamente abbandonato da tutti così aveva pensato di drogarsi così tanto per poi tentare di uccidersi. "Mossa intelligente, i miei complimenti Castiel!"

Nathaniel mi aveva avvertita tante volte, diceva sempre che nulla era come sembrava, che Castiel non era un tipo raccomandabile. Aveva ragione. Forse avrei dovuto fidarmi di lui, di quel viso d'angelo perfetto. Se gli avessi dato ascolto mi sarei salvata, ma ormai era troppo tardi. Castiel mi piaceva più di quanto ero riuscita ad ammettere a me stessa e mai come in quei minuti faceva male. Faceva male aver dato via l'unica parte viva del mio cuore ad una persona del genere. Perché era così; il mio cuore gli apparteneva anche se non ne era a conoscenza, anche se tra noi non c'era stato nient'altro che qualche bacio. Avevo creduto alla sua parte dannata, sofferente e non avevo dubitato di lui neanche una volta. Ero andata contro tutto e tutti per difenderlo, credevo nella sua innocenza ma evidentemente mi sbagliavo. 

Castiel era il diavolo, persino i suoi capelli lo testimoniavano ed io ero caduta in sua tentazione. Ci sarebbe stata una via di ritorno? Forse no. Le fiamme del suo inferno avevano già iniziato a bruciarmi viva. Sarei bruciata all'inferno insieme a lui; forse un po' lo meritavo. Più le fiamme ardevano, più mi bruciavano e più cercavo un appiglio, un misero appiglio che mi facesse credere all'innocenza di Castiel. Quella piccola parte sana di mente che mi era rimasta cercava in tutti i modi, anche quella volta, di difenderlo. 

Perché secondo il mio cuore, la mia anima, la mia testa, lui non poteva essere così cattivo come aveva descritto Debrah poco prima. Lei voleva metterci contro, voleva fare di tutto per allontanarmi da lui. Ci doveva essere un'altra spiegazione, doveva esserci per forza. E con quel briciolo di speranza uscii per un attimo dal caldo e ormai confortante inferno per poter difendere ancora una volta il ragazzo che aveva rubato me stessa senza scrupoli. 

« A dir la verità mi piace ancora di più. Questa storia dà quel tocco in più di... » presi il mento tra pollice e indice e alzai gli occhi al soffitto pensante « Mmm, che so... bad boy dark? Chiarito ciò, puoi dirmi gentilmente cosa c'entro in tutto quest'ambaradan? » le risposi con scherno, con tono di sufficienza, come se a me non toccasse minimamente il suo racconto, incrociai le braccia e la guardai dritta negli occhi senza sentirmi intimorita.

Non seppi neanche come riuscii a mostrarmi a lei con quella freddezza e sicurezza mentre dentro stavo esplodendo per la frustrazione. E c'era solo una spiegazione: Castiel. Il bisogno di proteggerlo era troppo forte tanto da farmi riuscire a mascherare le emozioni. Neanche un'ora prima mi ero autoconvinta di doverla smettere di giocare il ruolo della sua crocerossina e invece eccomi lì di nuovo pronta a difenderlo. Il destino si divertiva a scherzare con me ultimamente ed anche il mio cuore, forse.

Davanti a quella mia reazione Debrah restò sorpresa, infatti sgranò leggermente gli occhi. Si aspettava che piangessi, mi disperassi per la sua rivelazione di un Castiel diverso da come immaginavo. Si sbagliava. Inizialmente non avevo pensato in bene di lui, vero, ma poi ero giunta ad una conclusione alternativa. Ci doveva essere per forza un'altra spiegazione, la versione dei fatti dal punto di vista di Castiel ad esempio e prima o poi l'avrei avuta. Parecchie volte avevo agito d'impulso rovinando molte, troppe situazioni, e quindi mi ero ripromessa di non compiere mai più un errore di quel genere, avevo iniziato ad agire con diplomazia proprio in quella situazione complessa. Per la prima volta fui fiera di me stessa. 

Debrah si ricompose dopo quella mia inaspettata risposta e finalmente mi rese partecipe degli affari: « Bene, allora se non vuoi che io denunci il mio » marcò sull'aggettivo possessivo «ragazzo; e se non vuoi vederlo tra le sbarre, devi iniziare a prendere le distanze da lui. Seriamente questa volta. Non credere che io non sappia cosa è accaduto tra di voi. Ma non m'importa. Ti sei divertita alle mie spalle fino a ieri, ora non capiterà mai più» aggrottai la fronte, ero incredula. Come aveva saputo dei miei precedenti con Castiel? Lui non era così stupido da raccontarle anche quello.

« Parlerai con lui solo il giusto indispensabile e farai tutto quello che ti comanderò io. Per prima cosa rinuncerai all'ingaggio ricevuto per la pubblicità di Rabanne, ti romperai una gamba prima delle riprese se necessario e ovviamente proporrai me come tua sostituta. Semplice, no? »

Senza prendermi del tempo per riflettere alle sue parole esplosi in una valanga d'insulti: « Lo sapevo. Sapevo che c'era qualcosa di sotto. Di Castiel a te non è mai fregato. Tu.. tu non lo hai mai amato, non gli hai mai voluto neanche un po' di bene. Ma certo, perché tu vuoi bene solo a te stessa. E poi è così che si diventa famosi, eh Debrah? Ricattando la gente? Sei la persona più schifosa che io abbia mai visto, sei... sei.. sei malvagia, ma davvero malvagia. Sai cosa fotte a me di quella stupida pubblicità? Ho accettato solo perché il ricav...» mi bloccai sul colpo quando mi resi conto di star rivelando un patto di cui nessuno ne era a conoscenza; solo io e Rabanne. 

« Hai accettato solo per cosa? Mia cara Micaela ti converrà parlare, sai bene di essere in una posizione delicata. Non puoi permetterti il lusso di tenere segreti con me. Altrimenti sai come andrà a finire.. » a lei interessava solo della fama. L'avevo insultata e avevo aperto discorsi ben più gravi e importanti di quello, eppure aveva occhi e orecchie solo per i soldi, la fama e lo spettacolo. Quanto era subdola. 

Stetti in silenzio con lo sguardo incollato alla sua figura. Non mi mettevano paura i suoi ricatti. Avrei trovato un modo per uscirne, dovevo trovarlo. Castiel non poteva finire in carcere. Avrei trovato il modo per rubarle quei video, era l'unico modo per scolparlo. Ma non potevo mettere subito in atto un piano, mi sarebbe servito del tempo. Per il momento avrei solo dovuto agire d'astuzia. Così con un lungo respiro decisi di cambiare repentinamente il mio approccio con quella pazza ragazza.

Sospirai quasi sconfitta prima di parlare. " È l'unico modo, è l'unico modo" continuavo a ripetermi nella testa per infondermi coraggio. Poi le raccontai tutto:

« Demon, il cane di Castiel, ha una brutta malattia non ho capito come si chiama di preciso. Comunque Rabanne me lo ha riferito perché io ero restia ad accettare e così per convincermi, mi ha spiegato la ragione per cui a Castiel serviva urgentemente del denaro. Doveva operare Demon e per farlo aveva bisogno di una somma molto alta di denaro, così ho accettato di fare la pubblicità SOLO per questo motivo e ho deciso di cedere il mio guadagno a lui senza che sapesse niente, ovviamente. Sai com'è fatto Castiel, non avrebbe mai accettato il mio aiuto. Il punto è: credo che Rabanne abbia già dato i soldi a Castiel perché Demon non poteva aspettare molto, quindi non credo accetterà di cambiare il contratto e in più se inscenassi una rottura di gamba o altro chiamerebbe una modella vera come mia sostituta, non si farebbe di certo consigliare da me. Quello stilista è un osso duro, è testardo, irremovibile e... »

« Non mi frega niente del carattere di quel vecchiaccio. Io voglio fare quella pubblicità e la farò. Tu troverai un modo. Usa l'intelligenza e risolvi questa cosa! Quanto alla ricompensa: per questa volta chiuderò un occhio. Se diventerò famosa di nuovo, ne guadagnerò a bizzeffe di soldi » sorrise malvagiamente. Non aveva neanche sprecato una parola per Castiel e Demon. 

Dopo quell'incontro ravvicinato con Debrah entrai maggiormente in confusione. Non riuscivo a capacitarmi di come Castiel si fosse innamorato di lei. Era bella sì, ma solo esteriormente; dentro non aveva nient'altro che cattiveria. Era senza cuore, senza anima, era vuota di ogni tipo di sentimento. 

« Ovviamente a lui non dovrai raccontare nulla di quello che ci siamo dette oggi. Altrimenti la denuncia è assicurata. Al minimo passo falso Castiel è fregato. Ricorda bene queste parole cara e piccola Micaela » continuò a ridere soddisfatta. Era felice di complicare la vita delle persone. 

Mi ero già autoimposta di prendere le distanze da Castiel dopo la mia pessima dichiarazione e dopo il suo rifiuto; sicuramente quel piccolo ricatto mi avrebbe aiutata a mantenere quella promessa. Debrah non poteva immaginare che in realtà, almeno per quell'aspetto mi aveva fatto un favore. 

"Non tutto il male viene per nuocere" mi dissi. Non mi sarei mai perdonata se Castiel fosse finito in carcere a causa mia. Sebbene i fatti commessi fossero illegali, non potevo lasciare che lui trascorresse il resto della sua vita in galera. Mi sarei impegnata per trovare un modo ed uscire da quella situazione come vincitrice, nel frattempo avrei obbedito alle richieste di Debrah. Dopotutto non sembrava così difficile. 

« Va bene. Accetto! Farò tutto quello che vuoi. Ma attenzione: se denuncerai Castiel senza che io te ne abbia dato motivo, anch'io posso rovinarti. Tieni bene in mente queste parole, cara Debrah Duval » le feci l'occhiolino e con un sorriso soddisfatto mi voltai in direzione della porta per uscire finalmente da quella stanza.

E forse lo avevo realmente un modo per rovinarla. 

« Sono di parola, tranquilla cara » marcò sull'ultima parola a mo' di sfottò, come aveva fatto per l'intera conversazione e come io stessa avevo fatto con lei.

« Ah quasi dimenticavo... tua mamma vuole incontrarti e parlare. Mi ha supplicato di convincerti e di portarti da lei. Pensaci e scrivimi quando deciderai. Il mio numero ora ce l'hai. » mi aveva sbattuto la verità in faccia con poco tatto. A lei non importava, a lei nulla la toccava tanto da provocarle compassione o emozioni.

Davanti a quelle parole sgranai gli occhi. Teresa aveva chiesto di me. Di vedermi. Sapevo bene che non avrei dovuto fidarmi di lei, non lo meritava. Eppure c'era una parte di me, la più piccola, che voleva sapere cosa avesse da dirmi. Forse una volta per tutte avrei eliminato ogni dubbio, ogni senso di colpa. Con il passare degli anni ero giunta persino a colpevolizzarmi per la sua fuga. Forse ero una pessima figlia, forse si vergognava di me, pensavo. Ne avevo pensate di possibilità, di verità ma poi le avevo scartate; perché l'unica verità era custodita dalla donna che mi aveva messo al mondo, ed io non la conoscevo così bene da riuscire a capirla.

« Lasciami l'indirizzo. Se deciderò di andarci lo farò sola; non voglio nessuno e tantomeno te. »


 

CASTIEL

La mattina dopo riprendemmo il quarto giorno di quell'insulsa visita guidata con quell'inutile guida di nome Stefania. Visitammo la famosa Via del Corso, Piazza di Spagna con la sua scalinata chilometrica e la fontana della Barcaccia al centro della piazza. Dopo ancora la Chiesa della Trinità dei Monti. Nel pomeriggio invece passammo tutto il tempo a Villa Borghese girovagando tra il Bio-parco, le opere architettoniche e le mostre di arte. Era inutile dire quanto la mia noia crebbe ora dopo ora, ma non poteva dirsi lo stesso di Miki. Guardava la sua città ammaliata, nostalgica, innamorata, le brillavano gli occhi soprattutto in Via del Corso e Piazza di Spagna. Eppure conosceva Roma ancor meglio di me, evidentemente non la stancava mai. 

Capii quanto quella ragazza fosse legata positivamente all'Italia molto più di quanto voleva far credere. 

Io invece quasi mi pentii di aver accettato quel viaggio. Roma mi aveva portato più grattacapi che il resto. A tutta la situazione si era aggiunta anche Miki. Non mi rivolgeva più la parola, neanche uno sguardo per sbaglio. Continuava a fare compere, a dialogare con Stefania mentre io ricevevo solo il suo silenzio. Purtroppo sapevo bene a cosa erano dovuti quei suoi comportamenti. 

Mi aveva confessato di provare una qualche strana attrazione nei miei confronti ed io non avevo reagito come si aspettava, evidentemente. Ma lei non poteva sapere quanto di sbagliato ci fosse nella mia inutile esistenza. Avevo troppi problemi, troppi segreti da nascondere ed io ero troppo complicato per lei. Avevo sbagliato tutto anche con lei. 

Eppure inizialmente il mio istinto suggeriva che Micaela fosse come Ambra; avevo già architettato tutto. Potevamo diventare amici di letto o scopamici, una qualche scemenza del genere e tutto sarebbe finito lì. Invece no, Miki era diventata molto di più. In meno di un anno di conoscenza si era già insinuata inesorabilmente sotto la mia pelle in uno strano modo, senza alcuna etichetta. Non eravamo amici, non eravamo più che amici, non stavamo insieme e non saremmo mai potuti diventare qualcosa di più, fino a quel giorno sembrava anche che le stesse bene; eravamo solo due persone bisognose di sentire la propria vicinanza a vicenda. Io la difendevo, lei mi difendeva; io la baciavo, lei non mi rifiutava e ricambiava il bacio, io la volevo, lei mi voleva. Era un circolo vizioso senza fine ma destinato ad un termine per quegli stupidi ricatti che avevo dovuto accettare per evitare di finire in galera. 

Eppure ero testardo, sembrava continuasse a non importarmi delle conseguenze dei miei gesti, neanche quel giorno, visto che iniziai a stuzzicarla per attirare la sua attenzione. 

Mi avvicinai silenziosamente a lei e strappai un capello dalla sua testa sperando di provocare una reazione. Mi piaceva incredibilmente farla innervosire e poi.. non sopportavo quel silenzio assordante tra noi. Dovevamo litigare, urlarci contro, stuzzicarci; noi eravamo quelli e non un misero silenzio. 

Miki di risposta si portò la mano sulla testa, la massaggiò e si voltò nella mia direzione con gli occhi a due fessure e la fronte aggrottata.

« Ma dico, sei scemo? » urlò.

Io sorrisi, era il minimo che potessi fare davanti alla sua espressione furibonda « avevi un capello bianco, dovresti ringraziarmi » ovviamente non era vero, ma trovai la prima scusa che mi venne in mente. 

« Io. Non ho. I capelli. Bianchi » scandì bene ogni parola, incrociò le braccia e mi guardò dritta negli occhi ancora più nervosa di prima. Sapevo quanto ci tenesse a risultare perfetta e sapevo d'incrementare la sua rabbia, ma era proprio quello il mio intento. 

« OH, sì invece. Se avessi ancora il capello tra le mani ti farei vedere che ho ragione. Ma ops, peccato mi è caduto! » le risposi con nonchalance sollevando le spalle. 

« Stronzo! » alzò il dito medio, mi guardò di sbieco per qualche altro secondo e poi si voltò seguendo Stefania che nel frattempo si era incamminata per entrare in un museo. 

Risultato di quel piccolo battibecco demenziale? Miki era bellissima anche da nervosa. 

Non avevo mai desiderato una ragazza come invece desideravo lei giorno e notte. La notte faticavo persino a prendere sonno sapendo fosse nella mia stessa stanza, a pochi metri da me. Avrei tanto voluto prenderla e sbatterla ad un muro, farle vedere cosa provocava al mio corpo anche solo la sua vicinanza, ma non potevo. Ogni notte, per la prima volta nella mia vita, facevo prevalere la ragione sull'istinto. E facevo bene.

Continuavo a convincermi che bramassi il corpo di Miki in quel modo esagerato solamente per il semplice motivo di non essere riuscito ad averla in tutti i sensi, doveva essere per forza per quello. Non poteva essere altro. Era per provare quel brivido della conquista con una ragazza difficile, mi dicevo. Doveva essere per forza quello il motivo.

Nessuna prima d'allora aveva mai suscitato in me quell'attenzione e importanza. Neanche Debrah. Con la ragazza dagli occhi di ghiaccio era partito tutto per uno scopo, Debrah era un modo per perdere la verginità, per essere il figo della situazione davanti a tutta la scuola. Debrah era la ragazza più bella e desiderata di tutto il liceo e solo io ero riuscito a sedurla, a portarmela a letto. L'amore, quello.. era scattato in un secondo momento. Mentre con Miki, io... Stavo impazzendo, me lo sentivo. A breve sarei uscito fuori di testa a causa sua. Cazzo! 



 

MIKI

"Tua mamma vuole incontrarti e parlare. Mi ha supplicato di convincerti e di portarti da lei."

Avevo riflettuto parecchio su quelle parole. Una parte del mio cuore voleva conoscere le scuse di Teresa, risentire la voce della donna che mi aveva abbandonata otto anni prima; l'altra parte invece voleva proteggersi, restare in hotel e non voler sentire mai più nominare neanche il suo nome. Sapevo che rivederla mi avrebbe fatto del male, sentire le sue scuse insulse ed inutili mi avrebbe fatto soffrire. Continuavo a dirmi che se non mi avesse incontrato per puro caso nel ristorante di quell'hotel, avrebbe continuato a far finta che io non esistessi, come se fossi morta. E forse non sarebbe stato meglio? La mia morte avrebbe fatto comodo a chiunque, la mia vita avrebbe fatto comodo a pochi o addirittura a nessuno. 

Tornare a Roma aveva riaperto tutte le ferite; Roma aveva fatto rinascere la parte tremendamente pessimista di Micaela Rossi e di conseguenza aveva abbassato la mia autostima. Incontrare Teresa ancor di più. 

Eppure in quel momento mi ritrovavo davanti al palazzo di casa sua, davanti alla sua nuova casa. Aveva vinto la parte del mio cuore nostalgica, mi sentii quasi sconfitta. 

Avevo tra le mani un post-it di colore verde con su scritto l'indirizzo. Il bigliettino aveva la calligrafia di Debrah, la figliastra di Teresa. La mia sorellastra. Mi faceva un brutto effetto anche solo pensarlo. Debrah Duval era per davvero una sottospecie di sorellastra. Incredibile. 

Sin dalla partenza dall'hotel fino all'arrivo in quel quartiere continuavo a torturare quel bigliettino, si era stropicciato per le infinite volte in cui lo avevo piegato e arrotolato tra le mie mani sudate. L'inchiostro sul foglio si era persino sbiadito, ma poco importava. Avevo imparato a memoria il luogo in questione viste le infinite volte in cui avevo fissato quel post-it verde; verde il colore della speranza, dicevano. Ma quale speranza? Dove avevo lasciata la mia di speranza? Forse a Parigi o forse addirittura nella mia vecchia casa, molti anni prima. 

In realtà da quell'abitazione non speravo di uscire con la consapevolezza di avere di nuovo una mamma, no. Neanche la volevo più una mamma. A cosa mi sarebbe servita dopo tutto quel tempo? Avevo già imparato a vivere da sola, avevo imparato a soffrire, ad auto-consigliarmi, ogni volta ero caduta e rialzata, ed anche se ammaccata lo avevo fatto in solitudine senza far rumore, senza dover dire grazie a nessuno. Tranne a zia Kate, sulla parte economica ovviamente. Per quanto io debba ringraziare quella donna, però, in realtà non era mai stata una mia guida. Non era stata una seconda mamma, un'amica o altro, era stata semplicemente una zia tutrice legale di una minorenne orfana. Ero stata sola tutto quel tempo, nonostante avessi avuto qualche vicino di casa interessato a me solo per avere un compenso economico che la zia mandava da Parigi. Era triste la mia vita dopotutto, ogni aspetto della mia esistenza era basata sui soldi. La gente mi aiutava, dimostrava interesse solo dopo aver avuto una giusta retribuzione per quel compito. Era questo quello che ero; un maledetto compito, un lavoro, mi sentivo quasi un oggetto a volte, soprattutto un peso. Ed anche per quel motivo avevo imparato a sanarmi senza l'aiuto di nessuno, a leccare via il dolore provocato da ferite esterne ma soprattutto interne, proprio come avrebbe fatto un cucciolo bastardo. Perché in realtà non ero nient'altro che quello. Un essere umano bastardo di padre e bastarda di madre. Non ero nient'altro. 

Incontrando Teresa quel giorno non speravo neanche di chiarire ogni mio dubbio. In realtà non speravo niente. Volevo solo vedere come se la cavasse a fare la mamma, volevo capire se Teresa fosse cambiata realmente come avevo intuito in quei pochi minuti d'incontro qualche giorno prima. 

Mi trovavo nel quartiere Parioli, una delle zone più ricche di Roma. In quel quartiere viveva la gente disgustosamente benestante e lei non poteva che abitare lì, dovevo immaginarlo. Era moglie di un uomo d'affari, proprietario di una catena di ristoranti ed ex musicista, uno come lui non avrebbe potuto vivere altrove. Erano le sei di sera, il sole -essendo pieno inverno- era tramontato da un pezzo, su quelle strade e marciapiedi lussuosi incombeva la notte, un po' come nel mio cuore. Era buio. In quel posto persino le illuminazioni erano diverse rispetto alla Roma dei comuni mortali. Emettevano una luce più forte e i pali erano eleganti. Ogni cosa urlava lusso, persino l'erbetta, le piante, i fiori al di fuori di ogni palazzo. 

Un palazzo di ben dodici piani incombeva su di me. Ero riuscita a contarli tutti mentre cercavo il coraggio di suonare il citofono o anche solo di avvicinarmi. In uno di quegli apparentamenti viveva Teresa e la sua allegra famigliola felice; entusiasmante, pensai. Tre gradini stretti di pietra anticipavano il portone d'entrata enorme. Anche quello urlava lusso da tutte le grade. Era composto da una vetrata abbastanza grande e da grade di ferro dipinte in oro con ghirigori molto elaborati. 

Feci qualche passo e mi fermai proprio sotto il primo gradino. Iniziai a fissare con attenzione la lista di nomi sui citofoni -a destra del portone- e anche quella era in ferro dorato, ovviamente . Da quella distanza non riuscivo a leggere, non possedevo ancora i superpoteri, ma fissai ugualmente il dorato del ferro giusto per sembrare ancor di più un'ossessa, una pazza da rinchiudere. 

Spostai lo sguardo a sinistra, all'interno del palazzo notai ed intravidi un uomo in completo elegante nero con tanto di cravatta, era accanto al portone doveva essere il portiere di condominio. Di male in peggio. 

Mi sentivo come una vecchia barca a vela in balia delle onde. Sarei andata in direzione del vento, non sapevo dove mi avrebbe portata eppure continuavo a seguirlo. Il vento era il mio cuore. Non ero per nulla convinta e per nulla pronta ad incontrare Teresa eppure giacevo lì di fronte casa sua in attesa e alla ricerca del coraggio che mi avrebbe permesso di entrare in quel portone. Ero confusa, abbattuta, ferita, tanti sentimenti che credevo di aver represso stavano di nuovo fuoriuscendo dalla mia anima. 

« Ehi Miki ciao. Devi entrare? La mamma ti starà di sicuro aspettando.. » una voce leggermente familiare mi distolse dai miei pensieri.

Mi voltai nella sua direzione. Gli occhi chiari ed innocenti della bambina mi scrutavano in attesa di una mia risposta.

Era Flora, la figlia di Teresa e Marcel. Cavolo!

« Oh... ecco, i-io... ehm... ciao » sembrava avessi dimenticato come si parlasse l'italiano. 

"Stupida! Ti fai intimidire da una ragazzina di nove anni"

« Su vieni » mi rivolse un sorriso e rispose sicura facendomi segno di entrare. 

Quella forma di odio provata la prima volta nei suoi confronti svanì nel nulla. Mi stupii. Ai miei occhi risultò essere persino matura per la sua età. Più o meno conosceva i precedenti e avrebbe avuto tutto il diritto di detestarmi per quello che pensavo di lei. Invece non lo aveva fatto. Ma dopotutto lei non aveva colpe, non aveva scelto di nascere o di essere figlia di Teresa. 

"Eppure quel briciolo di gelosia restò sempre nei suoi confronti, anche dopo quell'accaduto, perché lei aveva avuto l'infanzia da me tanto desiderata e l'aveva avuta con una mamma, la mia mamma. Ero legittimata, credo".

Il portiere ci aprì gentilmente il portone squadrandomi da capo a piedi, probabilmente non rispecchiavo gli ideali di eleganza di quel palazzo. Forse aveva ragione. Da quando avevo rimesso piede a Roma -quattro giorni prima- avevo quasi cambiato le mie abitudini, avevo iniziato a trascurarmi o a vestirmi normale, dipendeva dai punti di vista. Anche quel giorno, come la sera prima, indossavo una felpa, dei jeans chiari un po' strappati sulle ginocchia e delle Converse. Ero stanca d'indossare quei tacchi scomodissimi e quelle minigonne troppo corte, senza togliere il fatto che ero perennemente raffreddata a causa del mio guardaroba. Ero stanca della mia maschera. Salendo le scale di quel posto, per evitare di pensare chi avrei incontrato da lì a poco, mi promisi che al ritorno in Francia avrei rivoluzionato il mio modo di vestire e quindi avrei cambiato totalmente o quasi tutti i capi dell'armadio. A dire il vero avevo già iniziato a farlo la mattina prima, quando la Signorina Lamberto ci aveva permesso di fare shopping tra i negozi di Via del Corso. Se avessi avuto il vecchio Ciak accanto avrebbe stentato a riconoscermi. 

All'entrata, alla sinistra del portiere vi era un'ascensore ma Flora aveva preferito salire le scale. La ringraziai mentalmente, in quel modo avrei avuto più tempo per metabolizzare ciò che avrei dovuto affrontare. Le scale di quel palazzo erano di marmo beige e i corrimano di ferro dorato, richiamavano le stesse decorazioni del portone d'entrata. Era tutto banale, quasi un cliché oserei dire. Le porte degli appartamenti che man mano superavamo salendo erano tutte uguali, erano anch'esse di ferro ma questa volta nero ed erano decorate. Erano molto alte, superavano di gran lunga i due metri. 

Salimmo ancora e ci fermammo al settimo piano. Avevo contato i piani mentalmente, giusto per deviare i miei pensieri e per evitare di cercare una via di fuga e scappare come una codarda o un'immatura. Prima o poi quella situazione si sarebbe dovuta affrontare, tanto valeva non aspettare ulteriormente. Il confronto con lei era inevitabile.

Inspirai ed espirai rumorosamente quando vidi Flora tirare una chiave dalla tasca del cappotto ed avvicinarsi ad una porta. 

Eccoci. 

Era giunto il momento.

A breve avrei rivisto Teresa.

Avrei avuto delle risposte ai miei dubbi e alle mie domande.

Avrei chiuso con lei e con quella situazione. Per sempre.

Forse. 

Avrei fatto invidia ad un lago per quanto mi stavano sudando le mani. Mi toccai la fronte ed era persino quella sudata. Era un sudore freddo, il sudore del timore, della paura, dell'ansia. Fuori c'erano forse sette gradi ed io sudavo. Ero patetica. 

Quando Flora aprì la porta si voltò verso di me per incoraggiarmi e farmi segno di entrare. Non mi aiutava per nulla la sua commiserazione, anzi il contrario m'innervosì maggiormente. 

Cercai d'ingoiare il groppo in gola e a passi lenti entrai nell'appartamento. Appena misi piede nella casa m'invase un'ondata di calore, segno dei riscaldamenti accesi. Eppure dentro continuavo ad avere freddo. 

Mi si presentò una casa con le mura "stranamente" dorate e i mobili in stile antico. All'entrata ad accoglierci ci fu un enorme tappeto accanto ad una lampada in ferro battuto che illuminava la zona. Non feci in tempo a guardarmi ulteriormente intorno che Flora iniziò a parlare.

L'ansia aumentò insieme ad un improvviso mal di stomaco.

« Mamma sono a casa e oggi ho anche una sorpresa con me » sorrise nella mia direzione.

Ad un tratto la vidi spuntare dalla porta di una stanza: « no Flora, lo sai che oggi non sono in vena di... » si bloccò quando mi vide. 

Ed io feci lo stesso. Ci guardammo negli occhi come non facevamo non da otto ma almeno da dieci anni. Nei suoi occhi vidi i miei. Erano incredibilmente identici ai miei, purtroppo. Perché purtroppo le somigliavo incredibilmente. Chiunque ci avrebbe riconosciute essere mamma e figlia. Una semplice apparenza però, perché io non conoscevo lei e né lei conosceva me. Non sapevo quale fosse il suo film preferito, se le piacesse leggere romanzi, gialli, polizieschi, fantasy o se non le piacesse proprio leggere. Non sapevo quale fosse il suo cibo o gusto di gelato preferiti. Non sapevo niente, dai particolari più stupidi alle cose più importanti. Perché ero troppo piccola per ricordare, per memorizzare anche le sue abitudini. 

Ero troppo piccola quando mi aveva abbandonata.

« Oh Mi-Miki sei venuta... » sgranò gli occhi, sospirò sorpresa ed imbarazzata, riordinò le sue idee e continuò: « Vieni accomodati » cercò di non far trapelare il suo nervosismo, ma non ci riuscì.

La seguii senza proferire parola mentre Flora accennò un saluto sparendo in un'altra stanza. Eravamo rimaste sole. Io e lei. Figlia e mamma; come non accadeva da otto anni. 

Entrammo in una camera con al centro un divano enorme bianco in pelle e davanti a questo si presentava una televisione al plasma parecchio grande. Dietro al divano vi era un tavolo da sei posti rotondo e vicino a questo una vetrina in legno. Non avevo aperto bocca da quando Flora mi aveva beccata davanti al portone immobile come un sasso. L'ansia aveva di nuovo iniziato a giocarmi quel brutto scherzo. Dentro avevo mille emozioni contrastanti e fuori sembravo essere fredda, senza sentimenti. In quell'occasione però fui contenta di dimostrare quello. Teresa non meritava di conoscere i miei veri sentimenti. 

Mi fece segno di accomodarmi sul divano.

« No! » sbottai all'improvviso, Teresa quasi saltò per il mio tono di voce spaventoso « Senti, ora dimmi solo per quale stupido motivo mi hai voluta incontrare dopo otto anni.. Così poi potrò di nuovo sparire dalla tua vita, ma sappi che questa volta sarà per sempre; e per mio volere! » finalmente riuscii a parlare. Fuoriuscì un tono di voce duro e freddo anche se un po' insicuro.

« Ma io non voglio che tu esca di nuovo dalla mia vita, Micaela » scosse la testa e parlò piano, quasi dolcemente. Rabbrividii e sgranai gli occhi. 

Micaela. Mi aveva chiamato col mio nome senza alcun diminutivo come solo lei mi chiamava; come solo lui mi chiamava quando ancora potevamo considerarci una famiglia, quando ancora ero troppo piccola per riuscire a memorizzare, a capire cosa fosse la felicità. 

Era quel suono. Lo stesso tono di voce della mia mammala mia vera mamma, la mamma che avevo fino all'età di quattro anni. All'improvviso sentii il bisogno di piangere partire dallo stomaco, dall'anima; volevo chiudermi in me stessa, mettermi in un angolino e disperarmi in solitudine come avevo sempre fatto. 

Lei non poteva.

Lei non doveva. 

E fu lì che capii.

L'amara verità mi sbatté in faccia violentemente. 

Lei non poteva... non doveva mancarmi, non era previsto, non era giusto. Ed io non potevo accettarlo. Non potevo accettare un sentimento del genere per lei. Lei che non aveva pensato due volte prima di abbandonarmi, che non mi aveva calcolata per otto anni. Vivevamo nella stessa città ma non le era mai passato per la testa di cercarmi. Perché aveva dovuto farlo proprio quando stavo per chiudere con la mia vecchia vita? Quando mi ero trasferita in un altro paese? Perché doveva continuare a rovinarmi la vita?

Eppure nonostante tutte quelle domande girovaganti nella mia testa, la verità restava una.

Teresa mi era mancata. 

La presenza di una vera mamma, la mia vera mamma mi era mancata. Era bastato solo quel tono di voce calmo e dolce per farmene rendere conto. Ogni mia certezza si era tramutata in dubbio improvvisamente, ma io... io non potevo permettere che accadesse proprio a me. Io non avevo bisogno di nessuno né tantomeno di una donna che non aveva fatto nient'altro che ferirmi e dimenticarmi. Forse quelle sensazioni erano dettate dalla suggestione del momento, sì era di sicuro quello il motivo del mio stato d'animo, ma fatto stava che mi sentivo tremendamente instabile. Un attimo prima sostenevo una cosa, l'attimo dopo ne pensavo un'altra. Non ero mai stata confusa come in quegli attimi. 

A distogliermi da quello stato di trance che non seppi da quanto durava, fu una leggera carezza in pieno viso. Non avevo visto nessuno avvicinarsi alla mia figura, ero totalmente assente fino a poco prima. Il mio corpo era in quella casa nel quartiere Parioli di Roma e la mia mente era altrove, in posti sconosciuti e astratti. 

Quando però vidi che quella mano apparteneva a Teresa mi spostai e scacciai violentemente la sua mano: « non toccarmi! » urlai. Non ero più in me stessa, mi sentivo fuori di testa, pazza ancor più del solito. Sentivo la pelle bruciare, proprio lì dove il tocco leggero di mia madre era stato poco prima. Lei era stata delicata, ma aveva fatto male dentro. Non aveva il diritto di oltrepassare la distanza di sicurezza che avevo autoimposto, lei non poteva, non doveva. Non ero pronta a quel tipo di vicinanza e forse non ero pronta neanche ad un dialogo. 

Non avrei dovuto lasciare l'albergo per dirigermi a casa sua. Avevo sbagliato. Maledizione! 

« Miki ascolta » socchiuse gli occhi quasi ferita per la mia reazione «dobbiamo parlare. Non possiamo continuare così. Non più».

Non sembrava la donna fredda e distante che mi aveva parlato solo due giorni prima davanti all'hotel. Anzi sembrava avesse avuto uno sdoppiamento di personalità o qualcosa di simile. Perché mi stava parlando con quel tono di voce? Era il mio debole, oggetto dei miei sogni e dei miei incubi da anni. Era il suono di voce dolce ed armonioso che mi cullava la notte prima di addormentarmi, quando ancora ero troppo piccola per sopportare il suo abbandono e la violenza di un padre ingrato. Quando lei era andata via avevo memorizzato il suono della sua voce, delle sue ninna-nanne, mi addormentavo con i suoi ricordi prima che s'incrementasse il disprezzo verso di lei. Infondo speravo in un suo ritorno e fino all'età di tredici anni mi era bastata quella speranza, poi però crescendo quella speranza si sciolse come sale in acqua. 

« Nulla può continuare se non c'è neanche un inizio. Quindi cosa non dovremmo continuare? Ad ignorarci? Beh fino a cinque secondi fa non mi pare ti pesasse così tanto far finta che io non esistessi » risposi con tono pungente.

Lei sospirò « ci sono cose che non sai Miki. Non è tutto come sembra. »

« Ah no?!? Illuminami, allora » sollevai un sopracciglio. 

« Va bene, ci provo... » sospirò sconfitta, si prese qualche istante poi continuò:

« Marcel aveva promesso di farmi cambiare stile di vita ed io non ci ho pensato due volte di andare con lui visto che avevo scoperto di aspettare una figlia da lui. Sapevo di dover tenere te in considerazione, ma credevo che Luis si sarebbe assunto tutte le responsabilità una volta rimasto solo. Non ho riflettuto abbastanza, lo so, ma amavo Marcel e non Luis. E... » la interruppi pretendendo di prendere la parola. Ero stata in silenzio per otto anni e per otto anni avevo pensato e ripensato alle parole da sputarle in faccia.

« Oh ma sì... pensiamo solo all'amore, infondo una figlia come me non meritava di essere considerata, avrei messo solo i bastoni tra le ruote alla tua nuova famiglia. E poi sì, direi che Luis è stato un ottimo padre; era solo un tossico e un ubriacone cosa vuoi che sia?!? » sorrisi amareggiata e falsamente. Fui quasi tentata di mostrarle le ferite che per colpa sua avevo sulla mia pelle, ma riuscii a trattenermi e lasciai perdere. Lei non meritava di sapere. Avrebbe potuto risparmiarsi il racconto della sua storiella d'amore felice, avrei vissuto anche senza sentire quelle parole uscire dalla sua bocca. 

Aveva scelto l'amore invece che una figlia. Cosa c'era da commentare davanti all'evidenza? 

« Non dire così, Micaela... »

« Hai finito con questi piagnistei o ne hai ancora per molto? » man mano che i minuti passavano quella situazione diveniva sempre più irritante e non riuscii a nasconderlo.

« No, non ho finito di raccontarti la mia versione dei fatti » mi disse quasi sconfitta ed io le feci segno con la testa per permetterle di continuare. 

« Mi è stato impedito di vederti. So che non crederai alle mie parole, so che è difficile credermi, ma per favore abbi fiducia della mamma che ero prima di tutto questo » sembrava disperata dal tono di voce utilizzato.

Ed io risi amaramente « potevi inventarti qualcosa di diverso, di meno banale, saresti stata più credibile ».

Non potevo credere alle sue parole. Non potevo fidarmi di una donna che a parte il nostro legame di sangue era una sconosciuta davanti ai miei occhi. E poi era assurdo ciò che era fuoriuscito dalla sua bocca. Nessuno avrebbe potuto impedirle di cercarmi, insomma... ero perennemente sola, abbandonata a me stessa. 

« Sapevo di andare incontro a questo » mi mostrò con le mani  « quando ho deciso fosse giunto il momento di raccontarti la verità, ma credimi non mento. È l'ultima cosa che farei con te. Hai già sofferto abbastanza per colpa di altri. »

E fu lì che non vidi più niente. Avevo sentito già troppo.

« Tu » le puntai il dito contro « TU. Non permetterti mai più. Non provare a capire, non ci provare neanche a fare la comprensiva del cazzo perché TU non puoi sapere cosa ho passato io. Tu brutta stronza, sei l'ultima persona a poter parlare di sofferenze e colpe. Non puoi neanche lontanamente immaginare quello che ho subito, quello che ho passato per colpa tua. Sì, perché la colpa non è di nessun altro se non tua. Ogni cosa è solo ed unicamente colpa tua. Per due anni dopo la tua fuga d'amore ho subito di tutto e di più. Guarda... » mi sbottonai il giubbotto che portavo e poi alzai la felpa, sembravo una pazza « guarda lurida stronza cosa mi ha fatto il tuo abbandono.. guarda cosa mi ha fatto Luis per colpa tua.. »

Le feci vedere quei segni sotto al seno sinistro, quei segni che in tutti quegli anni ero stata brava a nascondere. Nessuno li aveva visti prima, nessuno ne era a conoscenza e non avrei voluto mostrarli a lei, non avevo bisogno della sua compassione, ma non ero riuscita a trattenermi. Era una ferita profonda ma non troppo grande -un giorno l'avrei coperta con un tatuaggio- da tempo ormai non sentivo alcun fastidio; quella cicatrice ormai era solo un simbolo che nascondeva tutto il dolore interno, quello sofferto nel corso degli anni. 

Perché quella cicatrice era il segno del tempo. Il segno del tempo che passava, delle cose che cambiavano, della vita che peggiorava. "Il tempo guarisce le ferite" dicevano, ma per me non era stato così. Avevo otto anni all'epoca ma ricordavo tutto perfettamente come se non fosse passato neanche un giorno, e lo testimoniò il brivido lungo la schiena formatomisi in quei secondi di pensiero rivolti a quelle scene. Da quando lui mi aveva lasciato quei segni cercavo di non pensarci troppo, cercavo di focalizzare i ricordi ad altri momenti perché non volevo odiare una persona morta. Ma in momenti come quello che stavo vivendo non potevo evitare di pensarlo. Mio padre aveva segnato per sempre il mio tempo, la mia pelle, la mia vita. Era lui l'origine del mio odio verso gli uomini, verso gli affetti in generale. Ma nonostante quel particolare non riuscivo ad affibbiargli tutta la colpa, cosa che invece facevo con la persona in quel momento accanto a me con gli occhi fuori dalle orbite per la ferita mostratole. Lei non sapeva di quelle cicatrici e forse non sapeva neanche del male fisico provocato da mio padre. Ma certo, come poteva esserne a conoscenza se lei non c'era? Lei non c'era mai stata quando avevo avuto bisogno di lei. Lei non esisteva nella mia vita.

« L'uomo che credevi si fosse preso le responsabilità una volta rimasto solo, passava invece il suo tempo ad ubriacarsi e colpevolizzarmi di essere uguale a te. Mi picchiava, mi faceva del male credendo di punire te in quel modo. » 

Lo vedevo. Lo vedevo il dolore sul suo volto una volta scoperta la verità, eppure non m'interessava. Le dissi di tutto il male che Luis mi aveva fatto. Teresa doveva ricevere almeno la metà del dolore che avevo subito io. Le raccontai di quei ricordi ed io mi sentii vuota, senza emozioni. Ma nel rivelarle tutti i dettagli non ebbi la soddisfazione che immaginavo. Non volevo soffrisse, io non ero come Luis. 

« Kate non mi ha detto nulla... » riuscì solo a sussurrare ancora scossa per quello che le avevo mostrato e detto. Sembrava non si fosse neanche accorta di aver parlato ad alta voce. 

« Kate, zia Kate? Cosa c'entra lei adesso? Cosa doveva dirti?!? Appena la conoscevi... » aggrottai la fronte e chiesi cercando di capire. Nel frattempo avevo abbassato la felpa, ricomponendomi. Ero riuscita anche a calmarmi. Nonostante non provassi piacere a farle sentire il mio dolore, mi aveva fatto bene urlare, sfogarmi contro la fonte dei problemi. 

« È quello che stavo cercando di dirti prima » dopo un respiro d'incoraggiamento continuò «ecco, vedi... io... dopo aver saputo della morte di tuo padre ho contattato Kate, le ho rivelato tutte le mie paure, il mio timore nel ripresentarmi davanti alla tua faccia perché volevo farlo.. credimi, ma non sapevo da dove cominciare, come approcciarmi a te così le ho chiesto una mano, ma lei si è rifiutata di aiutarmi e anzi mi ha impedito di vederti. Diceva che tu non volessi più avere a che fare con me, che già avevi sofferto abbastanza, quindi mi ha avvertita che semmai avessi provato ad avvicinarmi a te anche solo da lontano mi avrebbe rovinata. E sai... sai che lei ne è capace, tra l'altro aveva possibilità e prove visto il mio passato discutibile. Nonostante questo, i primi tempi ho insistito, mi sono presentata davanti la nostra vecchia casa con l'intenzione di venirti a parlare o almeno di osservarti da lontano.. mi sentivo sporca ed ero preoccupata per te che già ne avevi viste troppe, ma lei aveva incaricato alcune persone di prendersi cura di te e soprattutto di tenermi lontana da te qualora mi fossi presentata davanti la tua faccia e...»

« No okay, questa storia è già abbastanza assurda fino a qui. Smettila. Non continuare ti prego, basta così! » la bloccai incredula e disgustata per la marea di menzogne fuoriuscite dalla sua bocca.

Quindi era questo quello che era diventata. Da prostituta a bugiarda, di male in peggio; complimenti a lei davvero. 

« Sapevo non mi avresti creduta, è comprensibile che non ti fidi di me. Ma di tua zia Kate ti fidi, giusto?!? Chiamala pure, è giusto che tu sappia la verità ».

Quella sua richiesta mi sorprese. Sentii una fitta tra il cuore e lo stomaco dolorosissima perché mi colpì una strana consapevolezza. E se quei discorsi assurdi non fossero nient'altro che la verità? Una bugiarda non sarebbe arrivata a tanto, non mi avrebbe detto di chiamare per scoprire la verità se non fosse stata sicura dei fatti rivelati. 

E se zia Kate mi avesse mentito per tutti quegli anni, come l'avrei presa? Si aggiunsero altre domande senza risposta che girovagarono senza sosta nella mia mente confusa. 

Ero esausta, senza forze, non ne potevo più di combattere; così decisi di scoprire la verità senza girarci troppo intorno. Presi il cellulare dalla tasca posteriore dei miei jeans e composi il numero di zia Kate. 

Uno squillo, le mani sudate.

Due squilli, l'ansia allo stomaco.

Tre squilli, il cuore in gola.

Quattro squilli « Miki? Ehi come va? Pronta per tornare? » lei rispose tranquilla mentre io sentivo improvvisamente un senso di nausea derivata dalla troppa ansia di quel giorno maledetto.

Volevo parlare ma non avevo voce. Volevo chiederle spiegazioni ma non trovavo il coraggio.

« Miki stai bene? » continuò zia Kate dall'altra parte del telefono probabilmente dopo aver sentito il mio respiro accelerato e rumoroso. 

Guardai il volto di Teresa preoccupato e vidi come il tempo aveva lasciato i segni anche su di lei. Era invecchiata, ma non troppo. Le stava bene qualche ruga in più, le dava un'aria più matura. L'ammirai per la sua bellezza naturale; non si direbbe visto il suo vecchio lavoro ma aveva sempre avuto un'espressione ingenua, dolce, giovanile, un viso da invidiare e continuava a mantenere la stessa espressione anche dopo otto anni.

« Ehi Miki? » zia Kate continuava a chiamarmi, così presi un po' di coraggio, chiusi gli occhi e mi decisi a parlare:

« Dimmi che non è vero... » riuscii a malapena a dire.

« Cosa? Miki vuoi dirmi cosa sta succedendo? » immaginai la sua espressione aggrottata. 

« Ah questo forse dovresti spiegarmelo tu.. » non seppi il motivo, ma in cuor mio a quel punto sentii che Teresa mi aveva raccontato la verità e non riuscii ad evitare un tono di voce duro nei confronti di zia Kate.

Rise non capendo a cosa mi riferivo « Certo che sei incredibile. Non ci vediamo da cinque gior... »

« Sei stata tu ad allontanare Teresa dalla mia vita? » interruppi le sue supposizioni futili andando dritta al punto. 

Ero riuscita a zittirla solo con quella domanda. 

"Chi tace acconsente", dicevano dalle mie parti. 

Dopo circa un minuto sentii un sospiro lungo provenire dall'altra parte del telefono « Chi... chi te l'ha detto? » esitò. Per una delle poche volte nella sua vita, esitò. Da sempre era lei quella sicura, austera, tendeva a mantenere anche nella vita il tipico comportamento da avvocato. 

« In casi come questo non è indispensabile conoscere il peccatore ma basta il peccato, non credi? » la mia era una calma apparente. La calma prima del disastro, la quiete prima della tempesta. Reagivo stranamente in alcune situazioni, al contrario di come ci si aspetterebbe. 

« Teresa, vero? L'hai incontrata lì... ma certo » sussurrò incredula e direi sconfitta.

« Zia ma la smetti? Dimmi cosa cazzo hai fatto in questi otto anni. Dimmelo! » sbottai. L'inizio della mia tempesta era vicino. Non le piaceva che mi rivolgessi in quel modo nei suoi confronti, ma non m'importava. Non più. Ero legittimata ad essere furiosa con lei dopotutto.

« Non è facile come credi, dopo tutti questi anni... Molte volte avrei voluto parlartene, non ho mai trovato il coraggio, non volevo soffrissi... ma in cuor mio sapevo sarebbe arrivato il momento del tuo confronto con lei prima o poi. » 

Tutti sembravano sapere cosa mi avrebbe fatto soffrire e cosa mi avrebbe fatto stare bene. Tutti decidevano al posto mio, ma nessuno trovava il coraggio di parlarmi. Ma qualcuno aveva mai pensato realmente solo e soltanto a me? Qualcuno aveva mai conosciuto la vera me prima di sparare sentenze su cosa fosse giusto per me e cosa invece non lo era? La risposta era negativa, evidentemente. 

« Rispondi a quello che ti ho chiesto senza tergiversare per fav... »

« Sì... » m'interruppe sospirando nuovamente. 

« ... Ma è una storia lunga. Vedi... io non volevo tu soffrissi per colpa sua. Conoscendola ti avrebbe abbandonata nuovamente, non era una degna madre per te. Ed io... ho pensato a te quando ho deciso di non fartela incontrare, ho pensato a proteggerti ma la storia è più complicata di come sembra. Senti.. » si fermò per qualche secondo per respirare, sembrava scombussolata « ne possiamo parlare quando torni? »

Il mondo mi cadde addosso per l'ennesima volta quel giorno. Teresa mi aveva detto la verità. Zia Kate mi aveva mentito per otto dannati anni. Bastava un attimo per distruggere anni e anni di convinzioni, attribuzioni di colpe, odio, rabbia. In un battito di ciglia erano mutati i ruoli. Zia Kate era divenuta l'artefice del mio dolore.

Incredibile ma vero. La mia tutrice legale, l'unica persona rimasta accanto a me era nello stesso tempo la persona che più mi faceva soffrire. Mi aveva tenuta lontana dalla verità senza scrupoli e non era stata capace di rivelarmi tutto quel che c'era dietro. 

Teresa aveva le sue colpe. Mi aveva abbandonata e cercata solo due anni dopo, solo quando era venuta a conoscenza della morte di Luis, il mio donatore di sperma; quando ormai le cicatrici che avrebbero segnato il mio tempo erano ben salde sulla carne. Eppure improvvisamente non riuscii più ad odiarla come avevo continuato a fare per tutto quel tempo. Il mio odio, la mia rabbia si divise tra lei e zia Kate in un breve istante.

Zia Kate. Forse era lei la persona che mi aveva fatto più male di tutte. Perché lei c'era stata. Lei c'era stata quando scoppiavo a piangere al telefono, quando avevo gli incubi la notte. Lei c'era stata quando ancora piccola cercavo mia mamma, quando mi chiedevo dove fosse, se mi stesse pensando. Improvvisamente tutto il quadro mi fu chiaro. Compresi la freddezza di zia Kate in quelle situazioni, non aveva mai speso una parola di consolazione, non mi aveva mai fatto sperare in un suo ritorno, anzi al contrario continuava a dirmi che io non avessi bisogno di una mamma come Teresa. Quando viaggiava continuamente tra Francia e Italia era per assicurarsi che Teresa continuasse a stare lontano da me. Tutto fu più limpido. Finalmente ebbi le idee chiare sui suoi comportamenti. Non era il suo carattere freddo a farla reagire in quel modo davanti alla mia disperazione; quelle sue reazioni erano semplicemente verità nascoste, menzogne, conoscenza di fatti a me ignoti. 

Non sapeva delle cicatrici, del male che Luis, suo fratello, mi aveva fatto eppure conosceva tutto il resto.

« Co... C-come hai potuto? Sei una stronza, bugiarda! » riuscii a pronunciare di getto prima di chiudere la chiamata e lanciare il cellulare con forza che sbatté sul pavimento di quella casa lussuosa. 

Mi portai entrambe le mani sul viso e poi le trascinai fino ai capelli tirandoli in senso di frustrazione. La mia intera vita era stata costruita su una menzogna. Che schifo!

Non avrei voluto sentir parlare di zia Kate almeno per qualche altro giorno. Era una bugiarda. 

Non guardai più Teresa, non vidi se si mosse, non ne avevo più le forze. Mi diressi verso il divano bianco di quella stanza e mi lasciai cadere a peso morto. E morta lo ero un po' per davvero. Morta come lo era la mia anima dopo quelle rivelazioni, dopo tutte quelle emozioni negative. Poggiai i gomiti sulle gambe e mi portai le mani davanti alla faccia.

Ero disperata ed incredula. Stavo di nuovo provando quel dolore, quel senso di smarrimento, di abbandono. E poi c'era il sentimento di odio e poi c'era quella rabbia che sovrastavano tutti gli altri. Tornai indietro negli anni e quella ferita, quella cicatrice si riaprì. 

Era il segno del tempo che trascorreva ma che nello stesso tempo lasciava ancorati al passato, perché per quante maschere avessi potuto indossare, per quanto potessi dire che più nulla mi avrebbe scalfita, mi ritrovavo di nuovo al punto d'inizio. Senza andata e né ritorno, lì bloccata in quel circolo vizioso. Sembrava quasi ci fosse una strana legge che m'imponesse di non poter chiudere le porte con il passato, una legge della natura che mi ordinasse di non poter vivere e ricominciare perché il passato prima o poi si sarebbe ripresentato rivelandomi pezzi mancanti di quel puzzle infinito che era la mia infanzia. 

L'ansia si ripresentò insieme ai respiri scostanti ed affannati come se avessi corso una maratona.

E scoppiai inevitabilmente in lacrime. Era appena iniziata ufficialmente la mia tempesta. Le emozioni che trattenevo nel mio corpo ormai da qualche ora, fuoriuscirono tutte in un colpo insieme alle mie lacrime annunciando un disastro imminente. Ecco perché odiavo reagire in quel modo alle varie situazioni. Trattenevo, trattenevo e poi scoppiavo.

Sentii qualcuno sedersi accanto a me. Sapevo chi fosse ma non avevo più la forza di scacciarla e forse neanche la volontà. Poggiò una mano sulla mia spalla in segno di conforto ed io mi lasciai cullare dalle sue braccia. Con ancora le mani sul volto posai la testa sulle sue di spalle e continuai a piangere, a disperarmi. 

Avevo abbassato tutte le difese, ero appena tornata ad essere una bambina. Mi sentivo patetica. Non dovevo mostrarmi a lei in quelle condizioni, lei mi avrebbe fatto soffrire ancora. Eppure in quei minuti fu quasi rassicurante sentirmi accarezzare i capelli dalla sua mano delicata. 

E fui egoista. Decisi di fermare i pensieri negativi e i problemi, di rimandare ogni cosa, avrei avuto altro tempo per urlarle contro tutto il male che mi aveva provocato. Sebbene non me ne rendessi conto mi era mancato incredibilmente il calore materno, quella rassicurazione che solo una mamma poteva dare. Per tutto quel tempo avevo mentito a me stessa dicendo di stare bene in solitudine. Non era vero. Mi era mancata la sensazione di avere il cuore leggero, spensierato. 

Le carezze di Teresa come l'effetto di un tornado avevano spazzato via ogni dolore, smisi persino di piangere. 

Avevo di nuovo una mamma. Mamma Teresa. La mia mamma era tornata.

In cuor mio sapevo fosse una presenza e stabilità temporanea, ma a me andò bene così. 
 

 

***


La Signorina Lamberto quando le avevo chiesto il permesso di uscire per tre ore -prima di dirigermi a casa di Teresa- mi aveva imposto di tornare in albergo per l'ora di cena. In realtà nei giorni precedenti, prima di aver disobbedito ai suoi ordini quelle ore seriali dovevano essere libere e avremmo potuto sfruttarle come meglio credevamo, ma quella regola era stata eliminata dopo aver distrutto la fiducia di Stefania. A dir la verità io ero la sua preferita, aveva una certa simpatia nei miei confronti forse dovuta al giusto rispetto che le mostravo, ma fatto stava che mi aveva concesso il permesso di uscire con la sola condizione di ritornare in hotel per le ore venti e trenta. Non volevo approfittare della sua disponibilità così dopo aver superato la mia crisi di pianto momentanea, mi alzai da quel divano bianco di casa Duval e mi diressi verso la porta d'uscita.

« Siamo arrivati.. » sentii una voce snervante ma inconfondibile provenire dall'entrata, quando ancora mi trovavo sulla soglia della porta nella stanza in cui mi aveva portata Teresa. 

Bloccai la mia camminata e diventai un pezzo di ghiaccio, persino mia madre lo notò e mi guardò con un'aria di chi la sapeva lunga. Non sapevo cosa sapesse, ma in quel momento sembrava conoscesse i retroscena almeno in parte e non riuscii a capire come e per quale motivo.

« Oh bene, bene. Tutte le sorellastre riunite. Se mi aveste avvertita prima mi sarei preparata per l'occasione » la voce d'oca di Debrah si fece sempre più vicina fino ad essere difronte alla mia figura. Era affiancata da Flora ignara della malvagità della sorella.

Non risposi, la guardai semplicemente di sbieco, incrociai le braccia sullo stomaco ed assunsi un'espressione quasi disgustata fino a quando dietro di lei non spuntò la figura imponente di Castiel che mi fece ricadere le braccia lungo il mio corpo e per la sorpresa strabuzzai gli occhi. 

Cosa ci faceva lui nella casa di Teresa? Ci era già stato altre volte? Mi nascondeva qualcosa? Mille domande si sovrapposero nella mia mente già sovraccaricata. Dovevo abbandonare quella casa all'istante, sentivo che sarebbe bastato poco per farmi riavere una crisi di nervi e non sarebbe stato il caso davanti quel genere di spettatori. 

Guardai Castiel con la coda dell'occhio per qualche istante ed anche lui mi sembrò sorpreso di vedermi lì. Evidentemente nessuno dei due sapeva quanto invece conosceva perfettamente Debrah, la quale si gustò la scena con un'espressione trionfante. Aveva architettato quell'incontro, ovviamente c'era da aspettarselo. Voleva forse dimostrarmi che lei e Castiel stavano effettivamente ed ancora insieme? Che niente e nessuno li avrebbe separati tantomeno io? Bene, ci era riuscita. Perché l'unica spiegazione alla loro presenza in quella casa poteva essere quella. La loro storia proseguiva talmente seriamente da aver ufficializzato la loro relazione persino con i loro genitori. Magari anche Adelaide l'aveva accettata. 

Non seppi dire esattamente quanti minuti passarono -io sembravo essere nuovamente in uno stato di trance- quando Teresa mi smosse con la sua richiesta: « So che è affrettato, ma ti va di restare a cena? »

Era decisamente troppo affrettato.

Aggrottai la fronte e la guardai, si era avvicinata e aveva parlato con tono basso per non farsi sentire dagli altri presenti. Ma arrivati a quel punto poco importava se ci fossero spettatori o meno. Sicuramente il mio volto era inguardabile per il mio pianto esagerato avuto fino a quindici minuti prima, dovevo avere il trucco colato ed un'espressione distrutta eppure non m'importò. Vi erano ben altre cose più pesanti di cui gli altri presenti in quella casa avrebbero dovuto vergognarsi. Debrah stava con Castiel solo per ridiventare famosa e passava il suo tempo a ricattare la gente, Castiel da depravato qual era aveva filmato i suoi atti sessuali e commesso altri reati, era un deficiente già solo per il fatto di stare con una come Debrah, amava una donna superficiale e maligna; Teresa era un ex prostituta che aveva abbandonato la propria figlia per inseguire una vita felice. Flora, la cui unico peccato pareva essere quello di esser nata in una famiglia disastrosa, era l'unica con peccati meno gravi. Quindi un po' di trucco colato ed un'espressione distrutta non erano poi così gravi come potevo ritenere essere fino a qualche tempo prima. Un tempo m'importava troppo del mio aspetto e di come potevano vedermi gli altri, da quel giorno non più.

« No, direi che per oggi può bastare. Ho bisogno di stare sola » le risposi con ancora la voce rotta, forzai un sorriso finto e senza aspettare ulteriore risposta mi diressi verso la porta d'uscita. 

Castiel non mi aveva salutata ed io non avevo salutato lui. Andava bene così. Doveva per forza andare bene così. 

« Ciao Miki, spero ci vedremo presto, magari in occasioni più felici di questa » mi affiancò Flora quando ero quasi alla porta. 

Mi sorprese avvicinandosi troppo, dandomi un bacio sulla guancia e sparendo subito dopo in un'altra stanza. Non ebbi il coraggio e la forza di allontanarla. Era stata delicata, non invadente ed innocente, un atteggiamento tipico di una bambina felice e forse troppo matura per la sua età. Sorprendentemente mi fece piacere quel contatto, iniziavo già a tollerare la sua presenza. 

Quanto a Teresa: non conoscevo ancora i sentimenti nei suoi confronti. Non l'avevo perdonata era impossibile da fare in poche ore. Non potevo cancellare gli anni di solitudine, di dolore, di ferite. Avevo solo iniziato a tollerare la sua presenza. Poco prima mi ero lasciata coccolare dalle sue carezze semplicemente per debolezza, egoismo, necessità. Volevo provare sulla mia pelle cosa significasse avere una mamma. Era una sensazione bellissima, quasi di liberazione ma passato quel momento il peso di quegli anni, il peso dei suoi errori era ritornato a gravare sulle mie spalle. Però in un certo senso ero contenta che lei non mi avesse dimenticata. Aveva fatto degli sforzi per rivedermi anche se a parer mio avrebbe potuto insistere maggiormente. Zia Kate le avrebbe concesso di rientrare nella mia vita se solo avesse insistito di più, ne fui sicura. Ero quasi tentata di rendere partecipe Teresa di quei miei pensieri, ero quasi tentata di chiedere ulteriori spiegazioni, ma per il momento non volevo pensarci. Per quel giorno avevo ottenuto già troppe informazioni e sorprese. 

Poteva bastare così.

« Ci rivedremo? » mi chiese speranzosa Teresa. Quasi mi fece tenerezza. 

Era tutto molto confuso. Stavo provando emozioni inimmaginabili per la donna che non avevo frequentato e vissuto per tutti quegli anni.

« Ti cercherò io quando sarò pronta » accennai un sorriso sincero, mi voltai, feci qualche altro passo ed abbassai la maniglia della porta per uscire finalmente da quell'appartamento che pareva avermi risucchiato tutte le energie.

« Ah Micaela... » avrei potuto sciogliermi per quanto dolce ed incerto era il suo sussurro. 

L'istinto mi suggeriva di voltarmi ed abbracciarla come, seppur lo nascondessi, volevo fare da anni. Ma per fortuna feci vincere la ragione e restai incollata al pavimento come un pezzo di ghiaccio. Non potevo annullare del tutto le distanze, non ancora. Avrei sofferto troppo.

« ... Un'ultima cosa » ero bloccata sulla soglia della porta le davo le spalle e così continuai a fare; non mi voltai per sentire cos'altro aveva da dirmi, non ne avevo più le forze.

« Non allontanare Castiel, non fare il mio stesso errore, lui ci tiene a te più di quello che vuole dimostrare. »

  
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