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Autore: Nadja_Villain    20/12/2017    0 recensioni
Prima che il mondo intero iniziasse ad appassire, Trish era solo un'adolescente turbolenta, cresciuta nei bassifondi della stessa città dei Dixon, tra piccola criminalità e svaghi al limite del legale.
Nel presente ha perso anche sé stessa. Quando Negan l'ha trovata era ridotta ad uno straccio, sia a livello fisico che mentale.
Era convinta che sarebbe riuscita a smettere di soffrire se avesse chiuso le porte alle emozioni. Era convinta che fosse rimasta sola, che tutti coloro che conosceva fossero morti, ma non è così...
Riuscirà il ritrovo con Daryl ad aiutarla a ritrovare qualcosa per cui lottare?
Genere: Azione, Drammatico, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa per cui lottare | The Walking Dead

6.1 # Per un paio di nastri


Presente

Mentre torturavo la mia ultima unghia superstite, con il sedere incastonato nella pelle del divano, in un angolo appartato dell’ampia sala annebbiata dal fumo di sigaretta, seguivo con gli occhi le sagome dei lavoratori chini sui loro banchi o trafficare con pesanti casse in braccio, avanti e indietro dall’orto, ininterrottamente, come formiche all’opera. La mia mente cullata dal mite mormorio generale e la voce graffiata e consolante di Janis Joplin allo stereo. Le freccette di Arat colpivano il centro del bersaglio appeso alla parete ad ogni lancio. Appena finiva il mazzo, andava a recuperarle e ricominciava da capo.

-Ti sta cadendo la cenere.

Doveva aver staccato gli occhi dal quadrante giusto un istante, mentre raccoglieva una freccetta che le era caduta tra i piedi. Il corpo snello, i pantaloni che le fasciavano le gambe asciutte che tuttavia, nonostante il deperimento inesorabile, potevano ancora vantare di una certa imbottitura sui fianchi. Mi ricordava la me di qualche anno prima, ai tempi in cui riuscivo a tirare un pugno ad un sacco da boxe senza sentire i nervi accavallarsi, o stare in piedi ai concerti per ore continuando ad urlare e saltare, o correre sotto il sole senza dovermi fermare dopo mezzo minuto per riprendere fiato o recuperare la vista persa in un capogiro.

Stavo essiccando come una pianta. Lentamente, sprofondavo in qualcosa in cui non mi riconoscevo, qualcosa che non mi calzava bene, come i pantaloni da cui spuntavano le mie rotule appuntite che più toccavo e più mi sembravano dei pezzi di legno. Costringevo il mio corpo in prolungati strati di tessuto per evitare di sbandierare il mio tentativo conscio – seppure non dichiarato – di trascurare la mia salute. Simon non era l’unico ad essersi accorto del mio intimo piano di suicidio. Lo aveva ingigantito, come faceva di solito, psicanalizzandomi come una ragazzina anoressica. Anche Arat mi teneva d’occhio. L’ultima spedizione che avevamo fatto insieme era quasi finita a scazzottate, perchè aveva evidenziato con una battuta presumibilmente amichevole, il fatto che non riuscissi a tenere dritto il fucile senza che mi tremassero le mani. E Laura, che per l’ennesima volta si era messa in mezzo con un commento di troppo, si era quasi guadagnata una coltellata, la stessa che per merito di Regina andò a finire contro il furgone alle spalle della faccia-da-schiaffi, a pochi centimetri di quel codice a barre che la faceva assomigliare ogni giorno di più ad una vacca marchiata. Regina mi aveva tirato uno schiaffo a mano piena davanti a tutti, facendomi vergognare. Mi aveva minacciata di fare rapporto a Negan sulla mia cattiva condotta. La prossima volta che avrei alzato un’arma contro la sua protetta, potevo considerarmi già mezza sfregiata. Non ero certa che quelle due passassero le nottate a discutere di profondi argomenti filosofici, guardandosi graziosamente nelle palle degli occhi. D’accordo, dovevo riconoscere che spesso mi facevo prendere dai raptus, ma che colpa ne avevo se Laura si divertiva a lanciare benzina sul fuoco ed il mio umore era facilmente infiammabile?

I tempi morti avevano un significato vitale per i miei nervi, ma dovevo riempirmi la testa di qualsiasi cosa che potesse ammortizzare il pericoloso centrifugare dei miei pensieri. Janis Joplin era stata la mia salvezza per un po’. Non l’avevo mai ascoltata prima di allora così intensamente. L’avevo riscoperta nella casa di un paio di vecchi, schiantati prima che arrivasse il mio gruppo a fare razzia. Di rock, metal e simili avevo trovato poco in giro. La musica buona doveva tenersela qualche buon intenditore, gelosamente custodita nella propria cassaforte segreta. Avevo riempito un sacco di tutte le porcherie con cui il mediocre essere umano aveva arredato la mia stanza, credendo che potessi davvero accontentarmi dello scarto piuttosto di rimanere senza niente. Videocassette di soup operas anni novanta di milioni di puntate ripetitive e di scarsa ambizione intellettuale, musicassette e CD sprecati con canzonette frivole e sdolcinate. Avrei potuto uccidere persino per un po’ di Vivaldi o di Chopin. E quando avevo trovato quelle due musicassette impolverate, timbrate da un pennarello dalla calligrafia rotonda, “Il meglio di Janis”, me le ero intascate senza dar conto a nessuno, come fosse stata la cosa più preziosa che avrei potuto trovare. Non mi ero sentita così su di giri per della musica nuova da quando mi ero scaricata l’intera discografia dei Led Zeppelin. Adesso sì che il mio stereo aveva ragione di suonare!

-Maia?

-Che vuoi?! – Sbottai innervosita, per essere stata strappata al mio meditare.

-Ehi! Ti dai una calmata?! Comunque ti è caduta tutta la cenere addosso.

Quando me ne accorsi, ce l’avevo già sulla maglia, era rotolata lungo pantaloni, rannicchiata in un minuscolo gomitolo grigio e spruzzata ovunque.

-Cazzo…

La spolverai col palmo immediatamente, ma quella si schiacciò contro le trame del tessuto e mi macchiò di strisce su cui dovetti insistere. Sbeccai la sigaretta che avevo dimenticato a morire tra le dita e ritornai alla contemplazione delle formiche laboriose, a stuzzicarmi il dito con gli incisivi.

-A cosa stai pensando?

Strappai l’unghia e la sputai sul pavimento. Ammirai il filo rosso sotto la pellicina. Schiacciai l’angolino di pelle perché ne fuoriuscisse una goccia più sostanziosa, finchè il dolore non diventò quasi piacevole e mi portai il pollice alla bocca. Il sapore metallico del mio stesso sangue sulla lingua mi ricordava che fossi vulnerabile, che avessi ancora una possibilità per lasciare quel mondo infame, malgrado il mio corpo non volesse rassegnarsi alla resa. Che cosa c’era di così importante per cui dovessi protrarre una vita macilenta con tanto impegno? Per cosa o per chi sarei dovuta rimanere in piedi ancora a lungo? Non c’era più nessun destino. Nessun futuro in cui sperare. C’era solo un eterno e perenne presente che strascicava i piedi come del carcame ansante, da poco più di due anni.

Avevo contato due estati e due inverni da quando era iniziato tutto. Due estati e due inverni che avevano stravolto l'aspetto di ogni cosa, dall'ambiente esterno, alla vita quotidiana, al carattere di chiunque avesse imparato a sopravvivere. Era strano pensare come solo ventiquattro mesi potessero sfilacciare i tratti di una personalità come lo spago di una collana usurata... come quella che tenevo custodita in un cassetto che non avevo il coraggio di aprire. Ogni tanto mi tornava in mente. Ogni tanto sbucava all'improvviso per ricordarmi che non potessi dimenticare, che il mio passato fosse ancora presente, che l'avessi solo rinchiuso in una gabbia e che da dietro alle sbarre potesse ancora abbaiare e ringhiare e ferirmi.

Arat aveva smesso di giocare. Ora sorseggiava dalla sua lattina di aranciata. Mi fissava pretendendo una risposta con un’espressione ingrigita. Spesso faceva così. Si fermava, si adattava al mio tempo, alle mie pause... Cercava di capire in quale rovo cogitabondo mi ero incastrata. Puntualmente si accorgeva che non l’avessi ascoltata. In realtà in quel momento non sapevo nemmeno se mi avesse parlato. Tirai il filtro e il fumo denso si unì alla foschia già galleggiante nell’aria.

-Posso farti una domanda seria? - le chiesi.

-Dimmi.

-Devi rispondere seriamente.

-Okay. Dimmi.

-Quante persone, di quelle che conoscevi, erano ancora vive, quando hai iniziato a lavorare per Negan?

-Poche. Credo.

Dovette addolcire l’argomento con un sorso di aranciata. Un ricciolo bicolore le scese sul naso e dovette scostarlo con uno scatto del capo.

-Che fine hanno fatto?

-La fine che hanno fatto tutti... Sono morte.

-Non hai più rivisto nessuno?

-No.

-E se scoprissi che qualcuno fosse ancora vivo? Che faresti?

-Gli direi di unirsi a noi.

-E se si rifiutasse?

Sollevò le spalle, scosse un po' la testa.

-E per quale motivo dovrebbe? Abbiamo tutto ciò che ci serve qui. Un tetto, un letto, del cibo, alcol, armi per difenderci, delle mura, libri, musica, distrazioni...!

-E se avesse un altro luogo in cui tornare? Una famiglia… una casa?

Aggrottò le sopracciglia, fissando nel buco buio della lattina, mentre l’agitava in senso rotatorio per mescolare il fondo. Si lasciò distrarre dalla voce di qualcuno che stava urlando contro un lavoratore impigrito.

-Non lo so.

Schiacciai la sigaretta scroccata ad un collega, scavando uno spazio tra le carcasse arancioni e bianche raggrinzite nel posacenere. Tornai con la schiena affondata nel divano, tornai a mordermi un’altra unghia a filo della carne. Sfilai il coltello dalla cinta, il cui fodero spingeva contro il mio fianco con insistenza, per mancanza di spazio. Mi allungai per prendere la cote sul tavolo e mi misi a molare la lama che da tempo non vedeva ombra di cura.

-Uccideresti qualcuno a cui volevi bene… per Negan?

Alzai lo sguardo per assicurarmi che la domanda fosse arrivata a destinazione. Arat allontanò il bordo di latta dalle labbra, mi guardò fisso, con quegli occhi neri che si gelarono come se quel pensiero si fosse concretizzato nell’acciaio che stavo affilando e glielo avessi piantato nella schiena.

-Adesso esistono priorità che vanno oltre un semplice legame affettivo. – Rispose fredda, ma senza guardarmi negli occhi.

-Priorità… - Ripetei, tra me e me, riprendendo a molare. - Quindi non ci penseresti due volte a piantare una pallottola in mezzo alla fronte ad un tuo amico se te lo ordinasse Lui?

-Noi stiamo alle regole. Le regole esistono per una ragione. E le punizioni fanno parte delle regole. Quindi no. Non ci penserei due volte se un mio amico ci tradisse, uccidesse qualcuno dei nostri o cercasse di recarci danno. Va da se che non sarebbe più un amico, ma una minaccia.

Tornai muta, insoddisfatta delle risposte che ricavai. Notammo una sagoma avvicinarsi. Arat poggiò la lattina al tavolo e si rimise a lanciare freccette. Io abbassai la testa sul mio lavoro.

-Sei d’accordo con me, vero? - Mi domandò all'ultimo.

-Mh-mh.

L’equilibrio del nostro silenzio complice venne interrotto da un intruso. Dwight gettò malamente la sua borsa sul tavolo, tirò fuori un panino bruciacchiato, un barattolo di latta con un cane stampato sul lato, un aprilattine, un coltello, un cucchiaio. Si fermò a guardare Arat piuttosto innervosito.

-Non ti stufi mai a giocare con quelle ridicole freccette?

-È un allenamento. Con quell’occhio strabico che ti ritrovi, ti converrebbe farne un po’ anche tu. - Ribatté lei senza nemmeno voltarsi.

-Ah-ah! Che simpatica! Non sono strabico. E tiro meglio di te.

-Ti piacerebbe.

-Mi stai sfidando?

-Per carità! Non ho tempo da sprecare per umiliarti.

Dwight sogghignò, non troppo divertito. Percepii il suo occhio posarsi sulla mia figura, ma feci finta di non accorgermene.

-Chi ha messo questa lagna?! – sbottò, avventandosi sullo stereo.

Gli diedi una pacca sulla mano, l’impugnatura del coltello ancora stretta tra le dita.

-Se non vuoi che ti ficchi quel barattolo nel culo, metti giù le tue manacce dallo stereo.

Alzò le mani, alzò lo sguardo. Forse scambiò un’occhiata con Arat alle mie spalle.

-Non c’è bisogno di essere così aggressivi.

-Allontanati. – Lo intimai, lo sguardo parallelo alla lama lucida, puntato contro quella faccia tosta con cui aveva avuto il coraggio di disdegnare la ninnananna di “Summertime”, del 1967, come citava il foglietto nella custodia.

-Non sapevo avessi il monopolio della musica adesso.

-Ho il culo su questo divano da prima di te, lo stereo è mio, decido io. – Non mi importava niente se mi prendessero per pazza. Nessuno doveva avvicinarsi al mio stereo e soprattutto interrompere quella canzone.

-Giusto. – Arretrò.

Ritrassi il coltello. Ci soffiai sopra per pulire i rimasugli della bava rimasti attaccati al filo della lama. Dwight tornò alle sue cose, con un desiderio inappagato di prevaricare.

-Credevo che quella roba non l’ascoltasse più nessuno. Non conosci qualcosa di più moderno?

-Non c’è molta scelta ultimamente, sai? – fece Arat di spalle, forse per difendermi, per arrotondare gli spigoli di quella competizione a denti stretti.

-È difficile trovare qualcosa che piaccia anche agli intelletti meno dotati. – Sibilai tra me e me. Forse non mi sentirono. Mentre lo dicevo la lama scivolò sulla cote con un fischio secco.

-Almeno qualcosa di più allegro, qualcosa di energetico... Questa… questa sembra che stia soffocando davanti al microfono!

-Sempre meglio di quelle noiosissime fiction da casalinghe disperate che ti spari ad alto volume ogni sera. Mi stupisco che non ti abbiamo mai beccato con del gelato di un chilo in mano, un paio di pantofole pelose ai piedi e i bigodini tra i capelli. – Ribattè Arat, evitando il rischio che lo assalissi. Non potei trattenere un sorriso che insistette prepotentemente a trasformarsi in una risata sommessa.

-Non sapete apprezzare. – Mugugnò l'altro. Spaccò in due il pane che non doveva essere molto fresco, aprì il barattolo e cominciò a spalmare la sbobba al suo interno.

 Spaccò in due il pane che non doveva essere molto fresco, aprì il barattolo e cominciò a spalmare la sbobba al suo interno

-Cibo per cani? Che ci fai con del cibo per cani? Mica te lo mangi?! – Esclamai, esasperando una smorfia inorridita.

-È il pranzo per il prigioniero.

La mia mano si bloccò. Le mie labbra emisero un paio di sillabe senza che riuscissi a frenarle.

-Daryl...?

-Già! Devi vedere come si lecca i baffi… A volte mi supplica persino per avere il bis! – Disse con un ghigno che gli tagliava il volto da lato a lato.

-Stai scherzando, spero.

-Oh, no che non scherzo! - Ridacchiò.

La ricetrasmittente sul tavolo emise un rumore sporco. La voce di Negan esplose dall’altoparlante e non mi permise di approfondire l’argomento.

-Bè, buongiorno, cazzoni! Spero che non ve la stiate spassando troppo a grattarvi le palle, perchè oggi faremo una visitina alla simpatica combriccola del nostro nuovo amico Rick! Vediamo che cosa ci riserva di interessante quella merda di buco da dove provengono! Voglio Simon, Arat e Dwight come luogotenenti, tra due minuti nel mio ufficio. Squadra A e squadra B entro mezz'ora sui carri. Non gingillatevi.

-Vado a svegliare il cane. - Fece Dwight prima di andarsene, portandosi dietro il panino e la balestra, lasciando tutto il resto dov'era.

Arat fissò la ricetrasmittente alla cintura, finì la sua aranciata con un lungo sorso. Accartocciò la lattina e fece un lancio perfetto nel cestino a pochi metri dal tavolo.

-Vieni.

-No. Passo. - Risposi, osservando il filo della lama in controluce.

-Non è un consiglio, è un ordine. Tira su il culo.

Appoggiai la pietra sul divano. Pulii il coltello sui jeans e lo infilai nel suo fodero. Mi alzai in piedi. Le feci una faccia che esprimeva tutta l'energia che avevo in corpo. Arat mi spinse verso il corridoio.

-Ti farà bene un po' d'aria fresca. La smetterai di fare il corvo, stasera.

-Solo se infilzo qualche cadavere ambulante.

   
 
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