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Autore: mari05    21/12/2017    0 recensioni
una volta mi sono chiesta se, anche senza poter vedere, sarei riuscita ad essere quello che sono ora, e spesso mi domando se un giorno mi capitasse qualcosa sarei come la ragazza di prima.
di solito comincio ad abbattermi, pensando a tutto quello che lascerei, ma poi mi convinco che, per quanto sia importante vedere, tutto quello che mi serve è qui, nella mia testa.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Caro diario,
non avrei mai pensato che quando il medico mi avrebbe tolto le bende avrei visto tutto nero, come se tutto d’un tratto qualcuno avesse spento la luce lasciandomi lì, al buio, a perire.
Quando il dottore mi ha chiesto con più delicatezza possibile “riesci a vedermi?” mi è sembrato di sentire tutti i suoni ovattati, distanti, come se stessi sentendo qualcosa sott’acqua.
Ho scosso il capo, e mi è sembrato di sentire qualcuno che davanti a me esitava e piangeva sommessamente.
Che fosse la mamma è da negare, perché anche nei momenti più brutti è dura come una roccia, e mai si lascerebbe andare in questo modo. In quanto a papà, mi sono immaginata quel momento dalla sua faccia impassibile, che di certo non tradiva alcuna emozione.
È così che affronta le cose: quando la mamma si discosta repentinamente da ciò che le fa male, lui rimane, accettando la cosa senza abbattersi.
Sono quasi certa che non fosse Federica, perché di sicuro avrei sentito dopo quel pianto trattenuto il nome Pachepo, il soprannome che mi ha dato anni fa.
Quando mi sono accorta che non sarebbe potuta essere né la nonna né il nonno (perché certamente avrei sentito grida disperate e sospiri abbattuti) dentro di me brillò un barlume di sorpresa: era mia sorella maggiore, colei che non mi sarei mai immaginata piangere in quel modo, che invece se ne stava in un angolo della stanza a riversare tutto il suo dolore.
E, caro diario, ti dico che piansi anch’io, perché davanti a me si sarebbe piazzata una vita all’insegna della difficoltà.
Sapere che il mondo da quel momento in poi (da quell’incidente sulle strisce pedonali, con precisione) non sarebbe stato più fatto a mia misura mi ha reso il cuore di piombo, tanto che ora si trova in un punto imprecisato tra lo stomaco e l’intestino.
In quel momento, mentre il medico mi diceva di calmarmi perché non riusciva a capire se vedevo oppure no (devo ammettere che m’è capitato un dottore abbastanza ottuso, con tutto il rispetto), mi resi conto di quanto sarebbe stato difficile fare tutto quello che faceva parte della mia routine da dodici anni.
Prima di tutto, non avrei potuto suonare, perché come si fa a leggere le note se non si è in grado neanche di vedere?
Poi subito dopo ho pensato al disegno, perché ero ancora un’artista in erba e avevo tanto da imparare, ma senza la vista non si può sapere se si ha disegnato il braccio troppo corto, troppo grosso o troppo piccolo.
Infine, l’ultima costatazione è stata una pugnalata in pieno petto.
Come avrei potuto leggere? Come diamine avrei potuto scrivere?
Strinsi i pugni. Avevo ancora da leggere tanti di quei libri, tanti di quei manga, tanti di quei fumetti… come facevo, se ora davanti a me c’era solo il buio?
Come avrei potuto terminare il mio libro, come avrei potuto diventare famosa e conosciuta come i miei idoli, se non riuscivo nemmeno a capire se stavo guardando a sinistra, destra, o se stavo semplicemente guardando al centro?
Non avrei potuto saperlo, proprio come non avrei potuto sapere dove stavo scrivendo. Forse, pensai, al computer era più facile perché so tutti i tasti a memoria, ma in classe, durante le ore di antologia? E durante le verifiche, dove non si può di certo usare il computer?
Cercai di assumere un’aria disperata senza l’utilizzo degli occhi. Oramai non mi appartenevano più, erano lì solo per bellezza di chi li vedeva.
Non avrei potuto leggere. Non avrei potuto innamorarmi.
Cosa avrei potuto fare?
Nella mia mente continuavano ad alternarsi decine di volti che conoscevo, sì, li conoscevo molto, molto bene.
Prima Jace, poi Levi, in seguito Charlie, e a seguire Kaneki, Eren, Simon, Baz, Cath, Annabeth, Sally, Conor, Josh, Sophie, Lester, Carter, Sadie…
e poi lui.
I suoi occhi continuavano a squadrarmi il cervello, anche se non potevo vederlo, sapevo che stava facendo così.
Probabilmente si stava domandando perché fosse così pieno di informazioni su di lui, dal suo peso, dal colore dei lacci delle sue scarpe alla sua data di nascita.
18 agosto 1993. Quella data mi ronzava nella testa, quegli occhi, quel sorriso, quei capelli…
sobbalzai, spaventando tutti quanti.
“Tutto bene?” domandò qualcuno, che capii dalla voce era papà.
Annuii, e poi, gentilmente, chiesi a tutti quanti di lasciarmi un po’ da sola.
Ora mi trovo qui, seduta non so dove, senza sapere se la poltrona (perché sono certa che sia una poltrona, nessuna sedia sarebbe stata così comoda) è nuova o vecchia (o meglio come dice mamma, vintage), se l’odore che sento è di pollo arrosto o di maiale, senza immaginare neanche chi possa trovarsi assieme a me.
Sono passati due mesi da quando ho perso la vista, e ogni giorno è più normale dell’altro.
Ho imparato che mamma mette sempre il dentifricio a destra, mentre papà ama metterlo sul mobiletto di legno accanto al lavandino. Ho appurato invece che né Manuela né Federica sanno decidersi su dove metterlo, quindi ogni volta devo tastare ovunque prima di trovarlo ed esultare “Eureka!” proprio come faceva Archimede, solo che lui non aveva trovato il dentifricio ma il principio che regola la spinta idrostatica in galleggiamento.
A volte, penso se anche senza poter vedere riuscirò a fare carriera come lui. Mi basta anche solo una pagina Wikipedia, una citazione qua e là, una foto di lì e di là.
Ma poi scuoto la testa e penso che se non riesco a trovare neanche il dentifricio posso solo sognarmi il giorno in cui vincerò l’Edgar Award, il sorriso fiero, il premio in mano, tutti che applaudono.
Per quanto potrò impegnarmi, sarà sempre più difficile.
Ho smesso di intervenire, in classe. Già è difficile identificare ogni voce e ogni suono, figuriamoci sapere quando la prof ha finito di parlare e di spiegare, oppure se qualcuno ha intenzione di intervenire prima di me.
“Si è adattata molto bene alla situazione,” ha spiegato il medico un giorno, “anche se dubito che un giorno indosserà gli occhiali da sole”
Ed è proprio vero, ho pensato, perché mai e poi mai mi piegherò davanti a quelle due lenti oscurate!
Mi ricordo che un giorno, però, sono ritornata alle origini.
Tutto quello che era accaduto mi è ripiombato addosso cento volte più pesante.
È stato quando ho aperto per la prima volta dopo l’incidente Il Ladro di Fulmini. Quando l’ho preso in mano (sono capace di capire se sto prendendo in mano un libro di Rick Riordan o di Cassandra Clare anche solo odorandolo), mi sono sentita come quando si cade a terra e si tenta di rialzarsi senza successo, perché forse la caviglia è rotta e non può tornare apposto con un semplice sorriso.
Non poter guardare i segni d’usura, che rendono la mia copia unica fra mille, non poter osservare nei dettagli le sottolineature inesperte e completamente a casaccio mi ha fatto morire dentro.
E lì ho pianto, ho pianto talmente tanto che non mi sembra di aver mai finito. Anche quando sorridevo, dentro piangevo, anche quando ridevo, c’era sempre quella Mariachiara dentro di me che piangeva senza sosta.
Non mi accorsi neanche delle braccia muscolose che lentamente mi cingevano le spalle, il fiato caldo sul collo che sapevo non appartenere a qualcuno che conoscevo, ma che allo stesso tempo mi conosceva così bene.
“Non piangere” mi disse Percy, e lì sorrisi davvero.
Che fossi cieca, sorda o muta, lui non se ne sarebbe mai andato.


Non posso mica vedere dove mi trovo
 (credo in cucina, perché sento l’odore della torta di mele fin da dove sono seduta),
Mariachiara

   
 
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