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Autore: Losiliel    23/12/2017    4 recensioni
La fragile relazione clandestina che lega Fingon al suo mezzo cugino è messa a dura prova quando i due ragazzi, oltrepassando un limite che si erano tacitamente imposti, trascorrono la loro prima notte insieme. Nel rientrare in città per le vacanze di Natale, Fingon è deciso a ripetere l’esperienza, ma Maedhros sembra intenzionato a ignorare l’accaduto.
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[ Modern-AU ambientata nell’OT-verse diversi anni prima dei fatti narrati in Operazione Thangorodrim.
Per capire il contesto in cui si svolge è necessario aver letto OT ]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fingon, Maedhros
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'First Age Daydream'
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WARNING

1. Per capire il contesto in cui si svolge questa storia è necessario aver letto Operazione Thangorodrim
2. C’è una scena erotica non esplicita, ma che non lascia molto spazio all’immaginazione (è il motivo del rating arancio)
3. In un’occasione Fingon usa un’espressione volgare
4. Warning per slash e per AU


 




 

Finti draghi e mezzi cugini

 


 

Le porte dell’ascensore si aprirono sul pianerottolo. Fingon si alzò dal borsone che gli aveva fatto da divano per l’ultima ora e mezza e ripose il cellulare nella tasca del giubbotto imbottito. Si fece scorrere una mano tra i capelli e sperò che fosse la volta buona. Erano passate le otto di sera e aveva già visto rientrare la coppia dell’interno 21 e tutti gli studenti che abitavano al 22. Ancora poco e avrebbe cominciato a incrociare la gente che usciva per godersi la serata dell’antivigilia. 

Maedhros emerse dall’ascensore col suo lungo cappotto scuro e la borsa del computer a tracolla, il mento affondato nella sciarpa e i capelli arruffati dal vento.

Appena vide Fingon, la sua espressione pensierosa lasciò il posto alla sorpresa: – Fin, che ci fai qui? – esclamò. – Ti avevo scritto che mi avevano trattenuto in ufficio.

– Meglio qui che in mezzo alla strada – disse Fingon, frenando il suo desiderio di corrergli incontro per abbracciarlo dopo due settimane che non si vedevano. Il ricordo di come si erano lasciati l’ultima volta era ancora vivido nella sua memoria.

Maedhros si sfilò i guanti e tirò fuori le chiavi di casa dalla tasca del cappotto.

– Come hai fatto ad entrare nel palazzo? – chiese, armeggiando con la serratura.

– Mi ha aperto il tuo vicino.

– Bór? – Maedhros si interruppe a metà di un giro di chiave, – oddio, avrà pensato che…

– Avrà pensato che sei un gran maleducato a lasciare il tuo ragazzo a congelare sul pianerottolo – lo interruppe Fingon.

Maedhros lo guardò come se fosse uscito di senno, e lui si rese conto che gli era sfuggita una parola di troppo. C’erano leggi non scritte a regolare la loro strana relazione, la prima delle quali era non chiamarla affatto “relazione”, ed evitare termini che definivano in modo troppo esplicito ciò che li legava, come, appunto, “il mio ragazzo”.

“Amici”, era come si chiamavano l’un l’altro ad alta voce. Per nulla compromettente e, in aggiunta, rendeva più facile dimenticarsi che erano anche cugini. 

Ma quella fatidica notte di due settimane prima, proprio lì, in quella casa, una regola ben più fondamentale era stata infranta, e Fingon cominciava a chiedersi che senso avesse, alla luce di ciò che era successo, continuare a fingere che la realtà fosse diversa da quella che era.

Maedhros si affrettò ad aprire la porta e a farlo entrare in casa, come se da un momento all’altro potesse comparire Bór sul pianerottolo a elargire giudizi sulla loro vita privata. 

Altrettanto velocemente, lo seguì dentro e chiuse la porta dietro di sé.

A quel punto, la loro collaudata routine avrebbe voluto che, al riparo da occhi indiscreti, si potessero salutare con l’entusiasmo di chi non si vedeva da giorni, con baci che toglievano il respiro, e abbracci che avrebbero spinto l’uno o l’altro con la schiena contro il muro.

Invece Maedhros gli pose le mani sulle spalle e gli sfiorò appena le labbra con le proprie.

– Sei ghiacciato – disse. E lui, tenuto a distanza da braccia che avrebbero dovuto accoglierlo, fu assalito dal dubbio di aver fatto la scelta sbagliata a venire lì direttamente dalla stazione, a imporre la sua presenza.

– Perché non sei andato a casa? – continuò l’amico, confermando i suoi timori, – sarei passato a prenderti dopo.

Fingon esitò. Sapeva come avrebbe dovuto rispondergli: “Ho detto ai miei che sarei rientrato domattina”. Se l’era ripetuto per tutto il viaggio, seduto nello scompartimento affollato con la musica ad alto volume nelle orecchie. Era il modo che aveva scelto per fargli capire che desiderava passare la notte con lui. Non proprio elegante, ma meno diretto rispetto a dirgli la spudorata verità, cioè che aveva trascorso due intere settimane a immaginarsi il momento in cui sarebbero finiti di nuovo a letto insieme.

Eppure le parole non vennero fuori, bloccate forse dalla lunga attesa sul pianerottolo, dall’accoglienza insolitamente fredda, da quel casto bacio. Ne uscirono altre, precipitose, confuse, inutili.

– È solo che… volevo vederti il prima possibile – disse, e poiché era fisicamente incapace di tenere la bocca chiusa quando era sotto pressione, continuò: – sai com’è, ci siamo sentiti poco in questi giorni, e non è che ci fossimo lasciati benissimo… cioè, non dico per colpa tua, anch’io ho fatto la mia parte…

Maedhros alzò una mano e gli sfiorò con due dita le labbra gelate per interrompere il flusso sfrenato di parole.

– Va tutto bene – disse.

Ma prima che Fingon potesse chiedergli che cosa, nello specifico, andasse bene, soprattutto considerato il fatto che a lui sembrava che tutto stesse andando nel peggiore dei modi, l’altro concluse: – Sono felice che tu sia qui.

Difficile crederlo, quando tutto ciò che faceva dimostrava l’opposto.

– Prenditi qualcosa da bere, mentre mi preparo per uscire – disse Maedhros, e svanì nel corridoio, come se avesse fretta di andarsene.

 

Fingon rimase solo nell’ingresso.

L’appartamento di Maedhros era in un vecchio palazzo nei pressi del centro, aveva soffitti alti e ampie camere, pavimenti in mattonelle bianche e nere, grandi porte a doppie ante di vetro smerigliato con cornici stuccate, e i tubi del riscaldamento che correvano esterni alle pareti. Era pieno di spifferi e vi avrebbe fatto un freddo tremendo in quella stagione se Maedhros non avesse tenuto il riscaldamento al massimo, di giorno e di notte.

Quando Fingon gli aveva chiesto perché l’avesse scelto, l’amico gli aveva risposto che l’aveva fatto per la vista: dalla finestra della camera da letto, nelle giornate terse, si riuscivano a vedere le montagne e lo spettacolo dell’alba sulle cime innevate era qualcosa di meraviglioso.

– Vorrei che tu lo vedessi – aveva detto e, allora, a Fingon era sembrata una proposta audace, perché in camera sua c’era stato poche volte, e di sicuro mai all’alba.

Dopo la notte che avevano passato insieme due settimane prima, il termine “proposta audace” aveva assunto un significato molto concreto, e il solo pensare alla camera da letto gli mandava in corto circuito il cervello. Non che pensare al salotto facesse un effetto tanto diverso: era là dove era cominciato tutto, su un vecchio divano di pelle che presto era diventato troppo scomodo.

Fingon optò per una ritirata strategica nell’unico locale che non custodiva alcun ricordo pericoloso, e vi si diresse spedito.

La cucina era il solo ambiente che Maedhros aveva arredato con mobili nuovi e un sistema di illuminazione che veniva dritto dritto dalla Tirion, con punti luce scelti appositamente per valorizzare le diverse postazioni: il tavolo di legno chiaro nel centro della stanza, il lungo piano di lavoro sulla parete di sinistra, il lavello sotto la finestra, e una credenza accanto alla porta del terrazzino che dava sul cortile interno.

Fingon ne accese uno a caso, cercò invano una birra nel frigo e ripiegò su una lattina di aranciata. Tirò fuori il cellulare, deciso a distrarsi con qualsiasi idiozia gli proponesse internet, pur di non pensare a ciò che era accaduto l’ultima volta che era stato in quella casa.

Impresa impossibile. Non ci era riuscito a 50 chilometri di distanza, tra lezioni e palestra, come poteva pretendere di farlo qui, dove tutto gli parlava di Maedhros, con lo scroscio dell’acqua che gli ricordava che l’amico stava facendo la doccia nel bagno in fondo al corridoio. Per raggiungerlo avrebbe dovuto fare meno di dieci passi.

Inevitabilmente, i suoi pensieri tornarono a quella notte. 

Alla facilità con cui, abbandonati i freni che sempre si imponevano, erano scivolati l’uno tra le braccia dell’altro, travolti da una passione a lungo repressa, che li aveva spinti sul divano, li aveva fatti lottare con i vestiti, li aveva condotti dal soggiorno alla camera da letto senza bisogno di dirsi nulla, come fossero guidati da un’unica volontà.

E una volta lì, era stato tutto spaventosamente semplice. Rivelare a Maedhros ciò che desiderava, accoglierlo dentro di sé, abbandonarsi completamente. Non si era mai comportato così con i pochi amanti che aveva avuto, con i quali aveva preferito altri modi per condividere il piacere. A Maedhros si era affidato senza alcun timore, come se non ci fosse nulla di più naturale, come se la loro unione fosse già avvenuta, mille altre volte, in una vita passata.

Tanto era stato semplice l’abbandonarsi, tanto era stato duro il ritorno alla realtà una volta che il desiderio era stato appagato. Duro al punto da avere le lacrime agli occhi e da stringersi forte a vicenda, incapaci di conciliare la bellezza di ciò che avevano appena vissuto con il dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non si sarebbe mai e poi mai dovuto ripetere.

Ma ben presto, la consapevolezza di avere solo quella notte da trascorrere insieme aveva prevalso sul senso di colpa, e l’attrazione era tornata a farsi sentire con prepotenza.

Fingon arrossiva ancora al pensiero di quanto velocemente era accaduto. Si poteva davvero passare dalla paura alla passione nello spazio di un battito del cuore? 

Ricordava ogni carezza sulla pelle, ogni parola sussurrata.

– Questa è in assoluto la follia più colossale che abbia mai fatto – aveva bisbigliato Maedhros al suo orecchio, sciogliendosi dall’abbraccio quel tanto che bastava per guardarlo in faccia. Aveva ancora qualche lacrima impigliata tra le ciglia, ma nei suoi occhi non c’era più traccia di timore o sconforto, solo ammirazione infinita e la concentrazione assorta di chi ha in mente un proposito ben preciso.

– Questa? – aveva detto Fingon, e aveva chiuso gli occhi, perché altrimenti non sarebbe stato capace di trattenersi, e qualcosa gli diceva che valeva la pena aspettare. – Principiante – la sua voce aveva tremato quando le labbra di Maedhros avevano sfiorato il suo collo, – io per far colpo su un ragazzo che veniva in palestra, mi sono spezzato una gamba per una caduta da tre metri.

– Perché non ne sono sorpreso? – Maedhros aveva raggiunto la sua gola, – cos’altro hai fatto? – era sceso sul petto, – dimmi di più.

Richiesta superflua, Fingon aveva compreso le intenzioni dell’amante, e non sarebbe riuscito a tacere nemmeno se l’avessero imbavagliato.

– Una volta ho ucciso un drago – aveva detto, mentre dita leggere percorrevano i suoi addominali, e rendevano ipersensibile ogni centimetro di pelle, preparandolo per l’arrivo delle labbra.

– Questo mi sembra troppo anche per te – il commento distratto di Maedhros era arrivato dopo qualche secondo.

– In un videogame – aveva precisato lui.

La risata dell’amico, un soffio contro il suo addome: – Allora non vale…

– Dici così perché non sai cosa mi è costato – Fingon aveva osato aprire gli occhi e si era sorpreso nel vedere le proprie mani sulle spalle di Maedhros. Le parole avevano continuato a venire fuori senza controllo: – Ci ho giocato per sei mesi di seguito, perché piaceva a un tipo che mi interessava e volevo entrare nel suo giro.

– E com’è finita? – poco più di un sussurro.

– Ho perso l’anno perché ho studiato ancora meno del solito – Fingon si era dovuto fermare per prendere il respiro, – e il tipo si è offeso perché ero più bravo di lui – aveva concluso.

O credeva di averlo fatto, perché in quel momento il suo cervello era stato troppo occupato con ciò che stavano facendo le sue dita. Affondate tra corti capelli ramati, accarezzavano la testa di Maedhros.

Per combattere l’impulso di spingerla più in basso, aveva continuato a parlare: – Ma niente supera quello che ho fatto per far colpo sull’unico di cui mi sia mai importato davvero.

– Sarebbe a dire? – Maedhros aveva interrotto la sua discesa.

– Mi sono messo a studiare e ho preso quel maledetto diploma – aveva detto Fingon, tutto d’un fiato, desiderando solo che l’altro riprendesse ciò che stava facendo.

Ma Maedhros aveva sollevato il viso per riuscire a vederlo in faccia. Guance arrossate, labbra umide e capelli sparati in ogni direzione, Fingon non l’aveva mai visto così combinato male. Né così attraente. Doveva essere per via di quegli occhi, insolitamente scuri, che l’avevano guardato come se al mondo non esistesse che lui.

– Un uccisore di draghi – aveva sussurrato Maedhros quasi tra sé, e d’un tratto la sua voce si era fatta seria: – In vita mia non ho mai conosciuto una persona più forte e determinata di te, Fingon.

Fingon era tornato in sé, perché ricevere complimenti dall’amico era qualcosa di scioccante e bisognava minimizzare subito, prima di rimanerne schiacciati.

– Era un drago finto, Mae.

– Ma il diploma era vero. – Maedhros gli aveva afferrato un polso e aveva girato la testa per baciargli il palmo calloso. – E lo sono anche le vette che conquisti.

Poi era tornato a dedicarsi a ciò che aveva interrotto. – Ora, se la smetti di distrarmi – aveva detto, prima di proseguire la sua discesa, – sto cercando concentrarmi su un compito importante, quaggiù. E temo di non potermi definire un esperto.

Allora Fingon si era morso un labbro per non articolare altre parole, e poi aveva continuato a morderselo per impedire la fuga di suoni che di articolato non avrebbero avuto proprio un bel niente, e alla fine aveva rinunciato a trattenersi quando sulle sue labbra non era rimasto che il nome del suo amante, il corpo sferzato da scariche di piacere e il cuore lacerato da un sentimento che non gli era concesso provare.

In seguito, c’era voluto poco perché tornasse a farsi sentire il senso di colpa, e c’era voluto ancora meno perché fosse soppiantato, di nuovo, dal timore di non poter più provare niente del genere.

Erano andati avanti così, alternando passione e paura, sfidando la stanchezza, nella vana speranza che, se fossero riusciti a resistere, quella notte avrebbe potuto durare in eterno. Ma alla fine erano stati sconfitti dal sonno, e si erano addormentati in un intrico di gambe e di braccia, fiato sul collo, pelle contro pelle.

Non faceva bene pensare a quelle cose.

Lo sapeva perché aveva passato due settimane intere a ripercorrerle nella sua memoria, guadagnandosi i sorrisi divertiti dei suoi amici quando l’avevano colto con lo sguardo nel vuoto, rosso in viso, perso in ricordi che, evidentemente, non erano così difficili da indovinare.

Ma faceva ancora più male pensare a quello che era successo la mattina dopo.

Risvegliati dal suono di un cellulare, quello di Maedhros, perché il suo era rimasto nella tasca dei jeans, da qualche parte in soggiorno. La luce che feriva gli occhi, dato che nessuno si era preoccupato di chiudere le persiane la sera precedente, il freddo sulla pelle, perché le coperte erano finite chissà dove, i muscoli indolenziti per la posizione scomoda in cui avevano dormito.

Il sogno si era infranto in un istante.

Maedhros aveva risposto alla chiamata, e lui, che stava sfilando un braccio da sotto il collo del suo amante, aveva riconosciuto la voce del fratello.

– Fin è lì con te? La mamma è preoccupata.

Fingon aveva tolto il cellulare di mano a Maedhros prima che lui potesse rispondere.

– Sono qui – aveva detto a Turgon, – ieri abbiamo fatto tardi e mi sono dimenticato di avvisare che non rientravo.

Aveva chiuso la comunicazione senza attendere commenti e aveva cercato riparo dal freddo tra le braccia di Maedhros. Ma l’aveva trovato già seduto sul letto, occhiaie sul volto, le braccia attorno alle ginocchia, che si guardava intorno come se non riuscisse a capire dov’era, né perché fosse lì.

Fingon gli aveva sfiorato una spalla, e aveva pensato che era un gesto assurdo dopo tutto quello che avevano condiviso durante la notte. Avrebbe dovuto passargli una mano dietro la nuca, tirarlo a sé con forza e scacciare il dubbio e la paura con un bacio all’ultimo respiro, perché era chiaro che i loro corpi la sapevano più lunga delle loro menti.

Invece era riuscito soltanto a dire: – E adesso?

Quando aveva capito che non avrebbe ricevuto risposta, aveva raccolto i suoi abiti e si era diretto in bagno. Ad ogni passo aveva sperato di sentire una parola che lo fermasse. Invece aveva fatto la doccia, si era vestito e, quando aveva lasciato la camera, Maedhros era ancora seduto sul letto, con addosso un paio di pantaloni della tuta e la testa tra le mani.

Era uscito senza salutarlo, consapevole di essersi comportato male. Da vigliacco, per essere precisi.

Ma nemmeno il suo amico era stato un esempio di correttezza, col suo silenzio, e i suoi stupidi sguardi da “è stata tutta colpa mia”!

Se l’era ripetuto fino alla nausea, ma non era bastato per farlo sentire meglio.

Non si erano più visti da allora.
 

Maedhros gli aveva scritto nel pomeriggio. Da sempre trovavano più facile dirsi la verità senza guardarsi in faccia, ma quella volta non funzionò.

L’amico aveva esordito andando dritto al punto. 

Mae: Problemi con i tuoi? 

Niente: “come stai?” Niente: “vorrei che fossi qui”.

Lui aveva risposto controvoglia:

- Solo un rimprovero… non è che siamo ancora ai tempi della scuola.

- Ho vent’anni, casomai non te ne fossi accorto.

Chiacchiere inutili, non era di quello che avrebbero dovuto parlare, ma Maedhros la pensava diversamente, a giudicare dal messaggio che era arrivato subito dopo.

Mae: Cosa gli hai detto?

- Che sono crollato sul tuo divano e non hai avuto il coraggio di buttarmi fuori di casa

Non sapeva neanche lui perché gli dava corda, quella conversazione non avrebbe portato da nessuna parte.

Mae: Non credi che sospettino qualcosa?

Dannazione, era di quello che si preoccupava? Sempre e solo di quello?

Aveva picchiato con forza sui tasti:

- Cosa potrebbero sospettare? Che sono andato a letto con mio cugino?

Mae: Fin, sei impazzito??!

Mae: Se qualcuno prendesse il tuo telefono?

Fingon aveva dato sfogo alla sua rabbia.

- Che lo prendano, cazzo!  

- Che sappiano!

Aveva buttato il cellulare sul letto, ed era uscito in moto, sulle strade bagnate, per scacciare la tensione con altra tensione. Quando era tornato, aveva trovato undici chiamate non risposte e un unico messaggio.

Mae: Ti prego, chiamami.

 

L’aveva fatto. Ma non subito. Aveva cercato di mettere ordine nei propri pensieri prima di risentirlo. Aveva cercato di ragionarci a mente fredda. 

Ciò che era accaduto, l’aveva sorpreso per la potenza con la quale ne era stato sopraffatto, non perché fosse giunto inaspettato. Lo sapevano entrambi che sarebbe stata solo questione di tempo, erano mesi che ci giravano attorno. Mica per niente si erano dati quelle stupide regole.

Per come la vedeva lui, andare a letto insieme era stata una conseguenza naturale del sentimento che li legava. 

Per Maedhros, invece, quella notte sembrava qualcosa di impossibile da accettare, qualcosa contro cui combattere con tutte le sue forze.

Fingon non riusciva a comprendere perché avessero due visioni così diverse.

Forse era solo perché Maedhros era più grande, e in quanto tale si sentiva responsabile per entrambi. Dopotutto l’amico si stava costruendo un futuro fin da quando era nato, col suo impegno instancabile, gli studi all’estero, il lavoro in azienda a fianco del padre.

E che futuro avrebbe potuto esserci per loro due, insieme? Nella migliore delle ipotesi sarebbero stati gli “strambi” della famiglia, quelli di cui si evita di parlare, o di cui si dice: “se sono contenti loro”. Mentre fuori dalla cerchia delle persone che volevano loro bene, sul lavoro o in altri ambienti, ci sarebbe sempre stato qualche idiota pronto ad additarli: “hai visto quello? Se la fa con suo cugino.”

Una vita complicata, certo, ma chi poteva dire di averne una semplice? E comunque, niente che due persone legate da un profondo sentimento non potessero affrontare.

Ed era proprio quello il dubbio più grande, il vero dubbio, che stava alla base di tutte le paure di Fingon da quando si erano scambiati quel primo bacio sulla cima di una montagna, e cioè che, in realtà, non fossero animati dallo stesso sentimento.

Ciò che Fingon provava per il suo amico, era ricambiato? Da un lato, non poteva credere che si trattasse soltanto dell’illusione di uno stupido ragazzino innamorato. Ma dall’altro, non poteva saperlo con certezza, perché Maedhros non gliel’aveva mai detto. Di certe cose non si parlava, era questo il patto.

Quando alla fine l’aveva chiamato, la mattina successiva, mentre saliva sul treno per rientrare in università, le sue riflessioni non l’avevano condotto da nessuna parte.

Maedhros aveva risposto al primo squillo.

– Fin… come stai?

Al sentire la sua voce, Fingon si era subito reso conto che telefonargli era stato uno sbaglio. Troppa confusione nella sua testa, troppa paura nel suo cuore. Il dubbio lo attanagliava.

– Che razza di domanda è? – aveva risposto, a disagio, – sto come stai tu, presumo.

E subito dopo: – Mi hai chiesto di chiamarti, cosa volevi dirmi?

– Perdonami – aveva detto Maedhros, e anche se non aveva aggiunto: “è stata solo colpa mia”, il tono con cui l’aveva detto era stato sufficientemente chiaro. 

– Non c’è niente da perdonare. Non sono un ragazzino che hai sedotto, quando la smetterai di considerarmi così? – Fingon si era sentito esausto, svuotato. Senza nemmeno la forza di chiudere quella che sarebbe stata una conversazione inutile e dolorosa.

– Non è questo il punto. Avevamo fissato dei limiti, e io li ho superati.

– Li abbiamo.

Maedhros non aveva commentato la sua precisazione, ma aveva ripreso con voce incerta: – Non so per te come è stato, ma io non avevo mai provato niente del genere con nessun altro. Ho paura, Fin, e il fatto che siamo… quello che siamo, c’entra solo in parte. 

Fingon l’aveva sentito prendere un respiro profondo, prima di concludere: – Il punto è che ho perso il controllo. È una cosa a cui non sono abituato. Mi spaventa.

– Mae, per me è la stessa cosa.

Perché non riusciva a capirlo? Perché non potevano parlarne con calma, aiutarsi a vicenda. Fingon l’avrebbe raggiunto anche in quel preciso momento, se gliel’avesse chiesto. Sarebbe sceso da quel treno, avrebbe rinunciato alle lezioni per quel giorno, e per quello successivo, e per quello dopo ancora. 

Ma quando Maedhros prendeva una decisione, non c’era verso di fargliela cambiare: – Ho bisogno di un po’ di tempo per schiarirmi le idee.

Avrebbe potuto rispondergli: “non è il modo giusto di affrontare la cosa”.

Avrebbe potuto dirgli quelle poche parole che non trovava mai il coraggio di pronunciare. “Ti amo, Mae. Sarà anche sbagliato, ma è così, fattene una ragione.”

Avrebbe dovuto fargli quella maledetta domanda la cui risposta lo terrorizzava, perché da essa sembrava dipendere tutta la sua vita: “Tu provi la stessa cosa per me?”

Invece aveva detto: – Va bene.

Aveva detto: – Come vuoi tu.

E non gli era rimasto altro che attendere.

Per due settimane aveva atteso, durante le quali c’erano stati pochi messaggi e brevi telefonate, perché anche se non riuscivano a parlare di ciò che era accaduto, non erano capaci di stare troppo tempo senza avere notizie dell’altro. 

E stava ancora aspettando, lì, in piedi in quella cucina, col cellulare tra le mani, lo schermo spento.

Il ritorno di Maedhros lo colse di sorpresa. Ben diverso da come era rientrato dal lavoro, ora indossava dei jeans e un maglione a collo alto, e calzava scarponcini scamosciati. I capelli umidi indicavano la fretta che aveva avuto nel prepararsi. Sembrava fosse impaziente di uscire.

Fingon si accorse di avere ancora il giubbotto addosso e la lattina di aranciata chiusa davanti a sé. 

– Hai fatto presto – disse, tanto per riempire il silenzio.

– Muoio di fame – rispose Maedhros, e lo precedette in ingresso per recuperare una giacca di pelle dall’attaccapanni accanto alla porta. – Con la scusa della chiusura per le feste, papà mi è stato addosso tutto il giorno, non ho avuto neanche il tempo di pranzare.

– Andiamo, allora – disse Fingon, e uscì di casa, cercando di non pensare a quando Maedhros gli avrebbe detto che quella che lui considerava la notte più bella della sua vita, era stato un errore da non ripetere.

 

Il Belegost era uno dei loro pub preferiti. Appena fuori città, era stato ricavato in un vecchio mulino ristrutturato, una costruzione bassa dotata di un solo piano e un seminterrato. Aveva un’ampia scelta di birre alla spina e un menù limitato, con piatti semplici ma di ottima qualità. La posizione isolata e il fatto che era aperto da più di dieci anni, inoltre, lo rendevano una meta poco ambita da fratelli o amici, più propensi a farsi attrarre dalle novità del centro.

L’interno, mattoni a vista e mensole di legno su cui facevano bella mostra di sé boccali di birra provenienti da ogni angolo del mondo, era suddiviso in un labirinto di sale. Vi si accedeva attraverso porte dall’architrave in pietra, su cui era appesa una targa di legno con inciso il nome di ciascuna. C’erano La Miniera, La Camera del Tesoro, Il Salone del Fuoco, dove avevano cenato molte volte, perché era il locale più grande, con lunghe tavolate e una griglia che occupava l’intera parete di fondo.

Quando si ricordavano di prenotare, come quella sera, sceglievano La Fucina, una piccola sala con un caminetto, e con appesi alle pareti antichi boccali in peltro col coperchio decorato. Ospitava solo quattro tavoli, uno dei quali era in una nicchia un po’ isolata, lontana dai diffusori che trasmettevano la musica. Frequentavano il Belegost così spesso da considerarlo “il loro tavolo”.

Come di consueto, Fingon lasciò a Maedhros il posto più vicino al fuoco, e gli si sedette di fronte. Dietro di lui, la mensola del camino era decorata con ghirlande d’abete e bacche rosse, e un albero di Natale mandava lampi intermittenti dall’angolo in cui di solito c’era il carrello dei dolci. La gente che affollava la sala chiacchierava animatamente, eccitata dal clima carico di aspettative dell’antivigilia. 

Il cameriere fece una veloce comparsa giusto per accertarsi che ordinassero “il solito” e lasciare due boccali di birra, poi sparì reggendo una pila di piatti vuoti recuperati dal tavolo accanto al loro.

In attesa delle ordinazioni, Maedhros raccontò a Fingon del suo viaggio all’estero, che era il motivo ufficiale per cui non si erano visti il weekend precedente. L’amico era stato in Francia per lavoro, in un paese al confine con la Germania, in visita a delle vetrerie che avrebbero potuto diventare dei fornitori per la Tirion. Fingon non sapeva se fosse stato costretto a tener fede a un appuntamento preso precedentemente, o avesse scelto di proposito quella particolare settimana per avere il tempo di riflettere su ciò che era successo tra loro.

Soprattutto non sapeva dove avevano condotto le sue riflessioni, e ora, mentre ascoltava Maedhros raccontare delle sue avventure, e di come aveva dovuto rispolverare il francese perché gli anziani proprietari non avevano dimestichezza con altre lingue, o di come quei meravigliosi vetri avrebbero reso le lampade del reparto design della Tirion qualcosa di unico, cercava di leggere sul viso dell’altro ciò che lo aspettava. 

Fingon percepiva una tensione sottesa al suo raccontare pacato, rivelata da brevi interruzioni nel parlare e da un gesticolare inconsueto, ma non riusciva a capire a cosa fosse dovuta. Se fosse perché Maedhros non aveva il coraggio di esporgli le conclusioni a cui era arrivato, o perché, in effetti, tutto il suo pensare non aveva portato a nulla.

Fingon, da parte sua, non avrebbe mai e poi mai tirato fuori l’argomento, per poi rimpiangere per tutta la vita che era stato lui a dare inizio alla catastrofe. E comunque, riteneva di essersi già espresso chiaramente in proposito, aspettandolo per quasi due ore sul suo pianerottolo.

Ma stare zitto andava contro la sua natura, e quando Maedhros terminò il suo racconto, aprì bocca senza sapere lui stesso cosa avrebbe detto. Venne fuori la semplice verità.

– Mi sei mancato – disse.

– Anche tu – rispose l’altro, all’istante, come se quelle tre parole gli avessero dato il coraggio per dire ciò che gli importava davvero.

Fingon lo vide distendere le dita sul tavolo e poi chiuderle a pugno, un movimento che faceva inconsapevolmente, quando erano in presenza di altre persone e si tratteneva dal prendergli la mano. Ogni volta che glielo vedeva fare, era tentato di andargli incontro e prendergliela lui quella stupida mano, e sfidarlo a vedere se avrebbe avuto il fegato di sottrarsi.

Non l’aveva mai fatto. 

E non lo fece nemmeno quella volta, perché arrivò il cameriere con i loro piatti, ed entrambi allontanarono le braccia dal tavolo per fargli spazio.

Mentre mangiavano, la conversazione si spostò su di lui e sulla sua vita da studente fuori sede. Da quando si era trasferito, Fingon gli raccontava tutto ciò che lo riguardava, ogni singola cosa, dagli argomenti delle lezioni fino ai discutibili gusti culinari del suo compagno di appartamento. Provava la strana sensazione che tutte le esperienze che viveva durante la settimana non fossero che illusioni, come i sogni di qualcun altro, e che si trasformassero in realtà solo quando le raccontava all’amico.

Maedhros, dal canto suo, sembrava non averne mai abbastanza di ascoltarlo, commentava con orgoglio i suoi successi accademici, gli dava consigli su come affrontare le prove più difficili, lo spingeva a fare nuove conoscenze e a mantenere vive le sue passioni. Era stato lui a convincerlo ad accettare il ruolo di istruttore che gli avevano proposto nella nuova palestra che aveva cominciato a frequentare.

Fingon lo sentiva al telefono quasi tutti i giorni, ma vedere i suoi occhi accendersi di curiosità quando gli parlava di qualcosa di nuovo, o il suo viso che si illuminava quando scoppiava a ridere per le sue stupide battute, era un piacere al quale non avrebbe mai potuto rinunciare. 

E così, tra buon cibo, ottima birra, e conversazione piacevole, poco a poco Fingon si arrese all’evidenza. L’intenzione di Maedhros era, chiaramente, quella di far finta che non fosse successo nulla e di riprendere le cose da dove le avevano lasciate prima di quella notte.

Evitare di parlare dell’accaduto, evitava di renderlo vero, era sempre stata la regola alla base della loro non-relazione.

Si rese conto che Maedhros non era pronto per un passo così importante e che lui non poteva fare altro che accettarlo. Scoprì che, in fondo, gli andava bene così. Se l’alternativa era non vedersi più, rinunciare a quei momenti di condivisione che rendevano viva e reale ogni cosa che faceva, e che davano un senso alle sue giornate, allora gli bastava. 

Per quando il cameriere portò via i loro piatti vuoti, Fingon era riuscito perfino a convincersi che, tutto considerato, le cose non erano andate poi così male.

– Cosa farai in questi giorni? – gli chiese Maedhros, ad un tratto. Aveva finito la sua birra e stava spostando il boccale vuoto su un lato del tavolo. 

– Domani ho promesso a mia sorella che l’avrei accompagnata a caccia degli ultimi regali – rispose Fingon, – poi la sera andremo a cena dal nonno. Ci sarete anche voi?

– Scherzi? Mio padre e il tuo sono ai ferri corti – gli ricordò Maedhros, – il nonno verrà da noi a Natale.

– Grande pranzo da dodici portate, allora. Andrete avanti fino a sera – si lamentò Fingon, – non riuscirò nemmeno a darti il tuo regalo…

– Cercherò di liberarmi presto, così passiamo la serata insieme – Maedhros spostò di lato anche il boccale vuoto di Fingon e cambiò posizione sulla sedia.

– Ma se dovessi tardare – riprese, – pensavo che potresti aspettarmi a casa mia.

E prima che Fingon potesse chiedergli spiegazioni, si girò per prendere qualcosa dalla tasca della sua giacca, appesa allo schienale.

Quando tornò a guardarlo, aveva sulle labbra un timido sorriso e gli occhi che brillavano di trepidazione. Teneva in mano un pacchettino blu chiuso da un nastro dorato.

– Buon Natale, Fin – gli disse.

Lui fu preso alla sprovvista: – Io… – cominciò, – io non ho qui con me…

Maedhros interruppe sul nascere le sue proteste: – Forza, aprilo.

Fingon aprì. Era una scatoletta di plastica, all’interno della quale, su un cuscinetto di gommapiuma, era adagiato un oggetto d’argento non più grande di un pollice. Ali con rostri, minuscoli artigli, scaglie in rilevo e fauci spalancate in un muto ruggito. Era un drago, rifinito nei minimi dettagli, in cui l’argento lucido e quello opaco si alternavano per creare una sensazione di movimento.

Era un oggetto raffinato e di indubbio pregio, ma non era per quel motivo che Fingon era rimasto a bocca aperta e con un improvviso pizzicore dietro le palpebre.

Era per quello che c’era attaccato al drago, tramite una piccola catenella e un anello.

– Sono… – balbettò Fingon, – sono le chiavi di casa tua.

Era una constatazione inutile, ma, d’altra parte, quando uno è incapace di tacere, il rischio di parlare a vanvera è spaventosamente alto.

– Così la prossima volta non ti congelerai sul pianerottolo.

Cercava di sdrammatizzare, Maedhros, perché l’aveva visto in difficoltà.

Ma il messaggio era chiaro. Ed era l’inverso di quello che Fingon si era aspettato.

– Oddìo, Mae – non riuscì a trattenersi, – avevo paura che… quello che c’è tra noi… pensavo che per te fosse troppo difficile…

– Quello che c’è tra noi – lo interruppe Maedhros, – io non so dargli un nome. Ma è inutile negare la sua esistenza. 

Gettò un’occhiata veloce al tavolo accanto al loro, poi allungò il braccio e posò per davvero la propria mano su quella di Fingon. Abbassò la voce tanto che venne quasi coperta dalla musica.

– Quello che è successo l’altra notte – disse, – non lo so se è giusto o sbagliato. So solo che vorrei si ripetesse ancora, se lo vuoi anche tu.

Fingon sentì un brivido partire da dove le loro mani si toccavano per raggiungere zone del suo corpo decisamente meno esposte. Anticipazione. Una sensazione che conosceva bene, se non altro perché l’aveva provata per due settimane consecutive, ogni volta che si immaginava il momento in cui Maedhros l’avrebbe invitato di nuovo nel suo letto.

Era preparato all’anticipazione. Sapeva tenerla a bada.

Quello a cui non era preparato, fu il nodo che gli serrò la gola impedendogli di rispondere. Rimanere senza parole era qualcosa di completamente sconosciuto per lui. 

Maedhros lo guardò accigliato: – Lo vuoi anche tu? – ripeté, incerto.

Lui riuscì ad annuire, e vide il sorriso allargarsi sul viso dell’altro.

– Pensavo – riprese Maedhros, guardando ovunque tranne che nei suoi occhi, – se non sono troppo precipitoso, che se riesci a trovare una scusa per non rientrare, potresti rimanere da me… stanotte.

Fingon recuperò la voce e, grazie al cielo, trovò anche la forza necessaria per non gettarsi al di là del tavolo e baciare quell’adorabile ottuso come se ne andasse della sua vita. 

– Se proprio insisti, mi inventerò qualcosa – disse, riuscendo perfino a suonare spavaldo. Dopo tutto quello che Maedhros gli aveva fatto passare nelle ultime ore, evitare di dirgli che era stata anche la sua intenzione fin dall’inizio, gli sembrò un’omissione del tutto giustificabile.

Anzi, decise che poteva fargliela pagare, almeno un pochino.

– Toglimi una curiosità – esordì, – il drago vuole essere un riferimento alle sciocchezze che faccio io per ottenere le attenzioni di un ragazzo… – ruotò la mano sotto quella di Maedhros e gli accarezzò il dorso con il pollice, –… o a quello che mi hai fatto tu dopo che te ne ho parlato la scorsa notte?

E per rincarare la dose, si inumidì le labbra.

Maedhros sembrò avere un’improvvisa difficoltà a deglutire, e Fingon fu lieto di constatare che non era lui l’unico affetto da crisi di anticipazione acuta.

– In realtà – disse l’amico con voce leggermente più roca del solito, – voleva essere un riferimento al fatto che non ti arrendi mai. – Gli afferrò la mano con decisione, prima di aggiungere: – Sono in alto mare con quello che ci sta succedendo, Fin. Spero che un uccisore di draghi abbia più coraggio di me.

Fingon poteva solo immaginare quanto fosse costato a Maedhros tutto questo. Un regalo così significativo, le loro mani che si stringevano in pubblico, l’invito a restare per la notte, e a tornare da lui tutte le volte che voleva.

Serrò le labbra contro le due parole che sempre più spesso minacciavano di uscirgli di bocca.

Ci sarebbe stato tempo anche per quelle. Guardò il drago e le chiavi da lui custodite, ed ebbe la certezza che erano sulla strada giusta.

– Conta su di me – rispose, e non era mai stato così sincero.

 

Quando uscirono dal locale, cominciava a scendere qualche fiocco. Rimasero col naso in su, a vederli cadere, per qualche minuto.

Alla fine Maedhros disse: – Si congela qui fuori. Andiamo a casa.

– Qualche idea su come potremmo scaldarci? – lo provocò lui.

– Molte – sogghignò Maedhros, e prese la mano di Fingon senza preoccuparsi di controllare se qualcuno li stesse guardando.

 






 

Ringraziamenti

Una storiella senza pretese (e scritta a tempo di record) solo perché non potevo lasciar passare un 23 dicembre senza la ormai tradizionale "Russingon di Natale". In parole povere, volevo un pretesto per ringraziarvi e per augurarvi buone feste.

Dunque, eccomi qui.

Vi ringrazio per questi due anni – esatti – trascorsi insieme, per il supporto che mi date leggendo e tornando a rileggere le mie storie, lasciandomi commenti e/o inserendole tra le vostre preferenze.

Grazie di cuore, lettrici e lettori.

Vi auguro buone feste e un nuovo anno ricco di storie meravigliose, da leggere e da scrivere!

 

Note finali

01
Un doveroso ringraziamento a LiveOakWithMoss, musa ispiratrice dell’OT-verse.

02
È probabile che il drago ucciso da Fingon sia l’Arcidemone del finale di Dragon Age: Origins.

03
Il viaggio di Maedhros in Alsazia è un omaggio ai grandi maestri del vetro dell’Art Nouveau (a Wingen-sur-Moder vengono prodotte, ancora oggi, le opere in cristallo di Lalique). Sculture di luce, per tutti i Valar! Sono certa che a Fëanor sarebbero piaciute.



 

  
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