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Autore: _Polx_    27/12/2017    4 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non era originario di Skyrim. E neppure giungeva da Cyrodiil. Lui era un Altmer di Summerset, una terra che odiava profondamente e di cui, al contempo, provava grande nostalgia.
Risiedeva da appena una dozzina d'anni nell'estremo nord di Tamriel e, se inizialmente il freddo pareva al suo corpo e al suo spirito il peggiore dei nemici, ora non lo turbava affatto.
Costrinse la cavalla a moderare la propria andatura perché non capitombolasse tra neve e ghiaccio, nonostante l'esagitazione che sembrava scuoterla come una foglia fremente: le bestie si innervosivano nei pressi della grande Accademia di Winterhold e lui non poteva dar loro torto.
“Sangue di Drago, quale onore”.
Quell'esclamazione improvvisa lo fece sobbalzare, ma Dovah ne riconobbe la voce e l'istante d'esitazione si dileguò tanto rapidamente quant'era venuto: “Nelacar” salutò, legando la giumenta alla palizzata della locanda cittadina a cui il mago Altmer si poggiava, incurante del gelo.
“È da tempo che non metti piede in queste tristi terre” constatò quello “ti occorre il favore dello Jarl?”.
“Mi domando perché si pensi sempre e incorreggibilmente che le mie visite siano guidate dall'opportunismo anziché dalla cortesia”.
“Necessità, non opportunismo. Dunque non sei qui per conferire con lo Jarl. Deduco ti occorra il supporto dell'Accademia”.
Dovah lo scrutò labilmente e quello ridacchiò: “buona fortuna” concluse dandogli le spalle, ma l'altro lo fermò prima che potesse tornare nella locanda: “problemi all'Accademia?”.
“Avresti dovuto accettare il ruolo di Arcimago quando te l'hanno proposto anni fa, per quanto mediocre tu sia nelle arti arcane. I membri di quella setta ampollosa non sono in grado di gestirsi democraticamente e lo sono ancor meno a scegliersi un leader degno”.
“Chi li comanda?”.
“Nessuno, questo è il problema. Hanno organizzato un collegio e le comuni opinioni dovrebbero guidare l'operato di tutti, ma è solo una ridicola pagliacciata”.
“Vedo che le vecchie ferite tra voi non si sono sanate. Quanti anni dovranno trascorrere prima che il tuo disprezzo lasci il posto al buon senso?” chiese sornione.
“Quale buon senso? Riunirmi a loro per ingabbiarmi in mura di antica sapienza e nuova decadenza? Gli allievi diminuiscono di anno in anno e ormai il popolo guarda all'Accademia con indifferenza anziché con timore”.
“Non è forse meglio?”.
“Non direi. Il mondo si sta dimenticando dei maghi di Winterhold”.
“Temo che importi a me tanto quanto importi a te”.
“Dunque ben poco”.
La scrollata di spalle di Dovah non lo negò affatto: “sono qui a scopo di ricerca. Non ho intenzione di immischiarmi nelle questioni dell'Accademia”.
“Ti accoglieranno a braccia aperte” e gli diede le spalle con l'intento di tornare al caldo, accanto al braciere della locanda, con un bel calice di vino speziato a rallegrargli lo stomaco, ma di nuovo si fermò e stavolta fu lui a richiamare l'attenzione del Dovahkiin: “ti ho definito mediocre e non batti ciglio?”.
“Sono consapevole d'essere un ottimo guaritore. In caso contrario, sarei morto molti anni fa. Oltre a questo, però, conosco ben poco delle arti magiche”.
“La nostra stirpe ci ha concesso un grande vantaggio sulle altre razze. Ciò che fai è sciocco: dovresti sfruttarne il dono”.
“A volte rimpiango di non essere nato in questa terra, condividere il sangue della sua gente: mi avrebbe giovato molto più di una naturale predisposizione alla magia in cui non ho interesse”.
L'altro rise: “spergiuro” borbottò lasciandolo finalmente alle proprie questioni.
Dovah non indugiò oltre. Inforcò il sentiero che conduceva all'alto ponte di pietra e avanzò fino ai cancelli incustoditi.
 
L'Accademia era stata una delle prime destinazioni cui avesse volto la propria attenzione quando, fuggito dal ceppo del boia amaramente assaggiato a causa del terribile fraintendimento che, quasi tredici anni prima, l'aveva trascinato nell'ormai diruto villaggio di Helgen, s'era visto costretto a vagare in una regione a lui straniera, di cui nulla sapeva e nulla gli importava. Mai aveva avuto interesse o modo d'approcciarsi alle arti magiche e non aveva certo intenzione di cominciare all'interno della famigerata Accademia di Skyrim, tuttavia era solo e forestiero, ben lungi dallo scoprire ciò che si annidasse nel suo sangue e la gloria che il dono di Akatosh gli avrebbe concesso.
Suo malgrado, era rimasto invischiato in una faida interna, causa di grande scompiglio, cui lui aveva preso parte, perché si risolvesse pacificamente e senza causare sfaceli. Questo per poco non gli costò l'obbligo alla nomina di Arcimago, titolo che gli sarebbe stato conferito per pura gratitudine e disperazione.
Ebbe ovviamente il buon senso di rifiutare e da allora i suoi rapporti con l'Accademia erano sempre stati tanto buoni quanto irrilevanti.
Comprese immediatamente che le parole di Nelacar fossero veritiere quando, messo piede nel grande atrio, non udì Tolfdir impartire una delle proprie lezione a qualche mago novello.
Soprattutto, lo comprese quando trovò la porta del 'Arcanaeum chiusa a più mandate. Certo non se ne lasciò intimidire: si chinò con grimaldello alla mano, pronto anche a sfondarne i cardini, se fosse stato necessario.
“Ti si riconosce ovunque vai”.
Il grimaldello gli si spezzò tra le dita: “è forse divenuta abitudine dei residenti di Winterhold acquattarsi alle spalle di un povero ignaro per prenderlo alla sprovvista?” si lamentò Dovah, senza rialzarsi.
“Sei a capo di una delle più rinomate gilde di ladri in tutta Tamriel e lasci che ciò accada?”.
“E chi poteva immaginare che ci fosse qualcuno nei paraggi?”.
Dovah conosceva bene quel Bosmer: Enthir, ufficialmente membro dell'Accademia, ufficiosamente fornitore della Gilda di conoscenza arcane e artefatti magici.
“Ringrazia che sia stato io a scovarti”.
“In caso contrario, avrei chiesto perché mai l'Arcanaeum sia sigillato”.
“Perché Urag è assente e non desidera che altri mettano piede nella biblioteca senza la sua supervisione”.
“Urag assente? Impossibile: quell'Orco non abbandona mai il suo posto”.
“L'Accademia aveva bisogno di lui altrove”.
“Dunque è proprio vero che state colando a picco” provocò, ma non diede tempo a Enthir di ribattere “coraggio, apri”.
“Non posso”.
“Come sarebbe a dire?”.
“Urag gro-Shub è stato chiaro”.
“Come se te ne importasse qualcosa”.
“Non mi alletta l'idea di dover affrontare in duello quel Troll letterato”.
Dovah gli si avvicinò: “Enthir, non sono arrivato fin qui per andarmene a mani vuote. È importante, più importante di quanto tu possa immaginare. E se per entrare in quella maledetta biblioteca dovrò tagliare la lingua e mozzare le mani a ciascuno di voi per impedirvi di fermarmi, allora lo farò”.
Enthir sostenne il suo sguardo caparbiamente, ma non fu semplice. Dovah non parlava a vanvera e lui ne era ben consapevole. Ripensò alla minaccia e tremò all'idea che potesse verificarsi, poiché sapeva che quell'Altmer, di cui così poco conosceva all'infuori delle terrificanti doti belliche, avrebbe prestato fede alla propria parola, se necessario.
“Ascolta” azzardò “io non posso farlo. Dunque prendi uno dei tuoi grimaldelli e rimettiti all'opera. Non ti fermerò”.
“Non sei collaborativo quanto speravo, ma può bastare”.
Tornò al proprio posto e riprese ad armeggiare con la serratura.
“Come vanno le cose nel Rift?” chiese Enthir, poggiato allo stipite accanto a lui.
“A gonfie vele” rispose distrattamente.
“Sei riuscito a perseverare in un progetto intelligente, Dovah: sei incappato in un'istituzione che non t'aggradava e che pure sapevi di non poter estirpare e, per quanto possibile, l'hai plasmata a tua immagine e somiglianza, mantenendo il favore di tutti. Questo va ben oltre la magia dell'Accademia” ridacchiò compiaciuto.
“Starei ad ascoltarti tutto il giorno” lo interruppe, aprendo il grande portone “ma ho altro cui badare” e piantato in asso l'Elfo dei boschi, si chiuse nell'Arcanaeum.
Da anni non vi metteva piede e l'improvvisa consapevolezza che avrebbe dovuto rovistare tra le centinaia di libri che quel luogo preservava nella cieca speranza di trovare una risposta gli fece sfuggire un guaito da cane bastonato.
Tuttavia, un tonfo sordo attirò la sua attenzione e l'improvvisa scarica d'angoscia venne surclassata dalla più istintiva prudenza. Avanzò quietamente e neppure un gatto ne avrebbe udito il passo, ma i suoi nervi si sciolsero non appena riconobbe la goffa Dunmer che aveva lasciato cadere a terra un pesante tomo sull'arte dell'evocazione.
“Mi era stato detto che l'Arcanaeum fosse precluso a ogni visita”.
Altri tre tomi caddero con colpo sonoro.
“Rilassati, Brelyna. Non riconosci un vecchio amico?”.
“Vecchio amico, dici?” replicò lei aspramente “tanto amico che per poco non andavo dimenticando il tuo volto. Saranno tre anni che non metti piede qui”.
“Ho scritto più volte, per chiedere come procedessero i tuoi studi. Non mi pare d'aver mai ricevuto risposta”.
Brelyna tacque e, se non fosse stato per la carnagione cinerea, le sue goti sarebbero divenute scarlatte quanto i suoi occhi: “hai ragione” ammise “ben trovato, Dovah” salutò infine.
“Salve” ricambiò lui con un gesto del capo.
“Cosa ti porta qui?”.
“La necessità” senza aggiungere altro, s'immerse nella lettura di tutti i titoli che credeva potessero concedere informazione su un qualche clan votato alle arti magiche, il cui simbolo fosse la mano scarlatta riportata sulla maschera di ferro ancora custodita nella sua dimora di Windhelm.
Brelyna lo osservò senza interferire.
Rispettava quell'uomo. Erano entrambi giunti a Skyrim da poco quando si conobbero tra le mura dell'Accademia e lui l'aiutò molto, sopportandone gli impacciati esperimenti e i deturpanti strafalcioni. Non era mai divenuta una grande maga, tuttavia si considerava un'abile ricercatrice e una zelante studiosa.
“Posso esserti d'aiuto?” azzardò ad un tratto, perché da minuti interi lui frugava in molti volumi senza risultato.
“No” fu l'asciutta risposta, tuttavia trascorse poco tempo prima che un secco colpo di piede rovesciasse il tavolo su cui aveva poggiato alcuni libri.
Brelyna sobbalzò, ma aveva ormai smesso di prestargli attenzione e non comprese cosa fosse accaduto. Lo osservò per qualche istante, spaesata.
“Tutto bene?” gli chiese, avvicinandosi cautamente.
Dovah era chino su uno scaffale, scuoteva il capo e borbottava tra sé.
“Stai cercando qualcosa in particolare...”.
I suoi brontolii divennero infine tanto tonanti da farle aggrottare la fronte: “sto solo perdendo tempo” inveì “cerco un ago in un pagliaio”.
“Allora dimmi di che si tratta e cercheremo insieme”.
“No” negò fermamente “non ho intenzione di coinvolgerti”.
“Coinvolgermi?” lo scrutò perplessa “in quale guaio ti sei cacciato, questa volta?”.
“Se solo fosse dipeso da me” sibilò Dovah di rimando.
Mai le era capitato di vederlo tanto turbato e mai aveva immaginato che potesse accadere.
“Sarò pure una maga dalle dubbie abilità, ma compenso le mie lacune pratiche con lo studio e il sapere. Conosco questi tomi come solo Urag può vantare e sono certa di poterti essere d'aiuto”.
Dovah se ne convinse, poiché non aveva molte alternative cui affidarsi: “cerco un simbolo: una mano di sangue col mignolo mozzato”.
Se solo ne avesse avuto modo, il volto di Brelyna sarebbe sbiancato: “non è necessario perdersi in tomi e letture” disse sommessamente “quella mano appartiene a un gruppo mercenario stanziato nei pressi di Rorikstead”.
“Mercenari? È bizzarro. M'è stato riferito d'un vampiro intento ad agire nei pressi del luogo in cui è stato lasciato tale simbolo come monito”.
“Non è affatto bizzarro. Quei mercenari non collaborano coi vampiri: essi sono vampiri. E agiscono a pagamento per portare a termine incarichi in cui neppure la Confraternita Oscura osava immischiarsi”.
“Come sai tutto questo?”.
“Due anni fa hanno tentato un'azione contro l'Accademia. Hanno fallito, per grazia dei divini, ma questo certo non ci ha persuasi dall'indagare sull'accaduto. Abbiamo tentato di pedinarli e punirli, ma... ricordi Onmund e J'zargo? Hai memoria di questi due allievi ormai divenuti maestri?”.
“Certo” rispose lui stranito.
“Ebbene, li abbiamo ritrovati col ventre squarciato e le viscere sradicate dal corpo” distolse lo sguardo, come se bastasse a preservarla da quell'odiosa immagine, tornata dopo tanto tempo ad aggrovigliarle lo stomaco.
“Questo fanno” continuò Brelyna con voce tremante e occhi colmi d'odio “promettono dolore e donano morte. Nessuno ha più osato avvicinarsi a loro, ma io non ho mai interrotto le mie ricerche. Parli d'un dito mozzato? Secondo la loro simbologia la mutilazione significa tortura e pegno di sangue”.
Al contrario suo, il volto di Dovah divenne bianco come un cencio e tali dovevano essere l'orrore e la paura impressi nel suo sguardo che Brelyna comprese quanto tremenda fosse la situazione in cui era invischiato.
“Perché ti occorrono queste informazioni? Perché Ysolda non è con te?”.
Lui non rispose.
“È accaduto qualcosa ai tuoi ragazzi? Di solito Sofie t'è sempre appresso. Le è forse...”.
“No” negò di getto, rigido come uno stocco.
“Cal è con lei?” insistette, ma di nuovo trovò solo silenzio a risponderle.
“Lascia che ti aiuti”.
“Non ti coinvolgerò” ribadì “grazie, Brelyna. Ripagherò il favore che mi hai concesso, ma ora devo andare”.
 
Quasi stremò la propria cavalcatura, ma percepiva la morsa del tempo a tormentarlo e la fretta pompava angoscia nelle sue vene come il cuore da giorni in palpitazione pompava sangue.
Non chiese informazioni ai locali, una volta giunto a Rorikstead, poiché non desiderava essere causa di pericoli e, soprattutto, non voleva che vi fosse sentore di sé a precederlo: credeva di conoscere il proprio nemico, era certo di poterlo trovare e, ancor più, di poterlo affrontare, dunque avrebbe agito con la discrezione che la sola Nocturnal sapeva donare. E così fu.
Vagò a lungo, con cautela e pazienza.
Rischiò d'incappare in svariate ronde, gruppi arroganti e criminosi che poco avevano a che vedere con la guardia cittadina: non morti con vesti di pece e occhi d'ambra perlustravano la zona diligentemente e più volte i loro segugi dalle zanne di ghiaccio e la mente putrida furono a un passo dal scovarlo.
Tuttavia, ciò non avvenne, perché Dovah procedeva con fredda lucidità e caparbia determinazione: fu proprio a un passo dall'obiettivo che la sua risolutezza vacillò, non perché avesse ormai perduto la speranza, non per paura o dubbio, ma per lo stupore che lo colse quando infine scorse tra le selve un covo sul cui ingresso spiccava l'empia sagoma d'una mano di sangue.
Sospinto dalla buona fede, procedette d'un passo e non s'avvide che, tra le sterpaglie, s'annidava un rovo di rune. Uno schianto scosse le fronde e lui fu scaraventato nella piana, allo scoperto. Avvedutosi del terribile errore, impiegò un solo istante a issarsi in ginocchio, ma ebbe appena il tempo d'estrarre la spada prima che uno dei vampiri ormai consapevoli del suo agguato tentasse di prenderlo alle spalle. Dovah non glielo permise: lo trafisse al petto e questi stramazzò a terra esanime.
Che lo volessero vivo o morto era per lui irrilevante : combatté come se ne andasse della sua stessa anima e svariati caddero per mano sua. Tuttavia, altrettanti giunsero per rimpiazzarli.
Infine si trovò accerchiato come un cervo messo all'angolo da un branco di lupi e, quando l'ennesimo affondo fu pronto a colpire e squarciare, un dolore acuto ne percorse la schiena. Subito i suoi sensi si affievolirono.
Scosse il capo, barcollò come se una forte sferzata di vento avesse percosso le sue gambe e infine cadde in ginocchio.
“Preparate le catene” sentì confusamente “non uccidetelo. Ingabbiatelo”.
Uno dei mercenari si avvicinò impunemente, le mani strette su grosse corde. Si chinò per legargli i polsi, ma Dovah si voltò come una fiera a cui venga pestata la coda e lo pugnalò alla tempia destra. Non recuperò la propria daga: non ne ebbe il tempo.
“È ancora feroce” urlarono “attenti alle zanne del drago”.
E proprio in quell'istante Dovah tentò di attingere al proprio potere per scaraventare contro di loro un'ondata di fuoco e sangue, ma non aveva forza per parlare e la sua mente ragionava con lentezza.
Una scarica di gelo lo pervase. Cercò di alzarsi, ma il suo corpo era sordo a ogni comando.
Infine lo atterrarono in molti, poiché ne temevano il livore e non desideravano arrischiare la vita di altri uomini.
Dovah non trovò le energie per ribellarsi, né la prontezza di spirito per pensare a una qualche via di fuga alternativa. Era stato avvelenato, le sue membra erano intorpidite, la sua mente offuscata. Infine, mentre lo trascinavano nelle tenebre, gli occhi si velarono di fredda vacuità e la coscienza s'assopì.
 
Si svegliò di soprassalto.
Ansimava e le sue mani tremavano.
"Qualcosa non va?" fu una voce a lui nota, accorata e sorpresa, a riscuoterlo.
La guardò, ma i suoi occhi parevano non vederla.
"Dico davvero, tutto bene?" Ysolda si sedette accanto a lui. Gli carezzò il viso: le sue mani erano calde e lievi.
Lui non rispose. Era stranito, terribilmente confuso.
Lei rise: "sembra che tu stia guardando un fantasma".
Dovah tacque.
Si trovava a casa, ma vi era un gran silenzio attorno a lui.
Un gran silenzio.
Lo mormorò senza rendersene conto.
"Lo credo bene" commentò lei "la casa è vuota. Sofie è ancora a spasso con quel Pukka" storse il naso "lui è un bravo ragazzo e lei molto cauta, ma credo comincino ad esagerare. Lo so, lo so, ormai è una giovane donna, libera di frequentare chi più le aggrada, ma...".
"Sofie si trovava a Riften" la interruppe in un mormorio smarrito.
"Cosa? Quando?".
Non seppe rispondere.
"L'hai accompagnata tu? Non dirmi d'averla condotta alla Gilda".
"V'è arrivata da sola".
"E quando?" insistette "da giorni tu stesso non vi metti piede".
"Dov'è Cal?".
Ysolda fu presa alla sprovvista da quella domanda e tardò a rispondere. Lui ne fraintese il silenzio e si alzò con impeto, sedendo sul ciglio del letto, in preda a grande agitazione, incerto sul da farsi.
"Tesoro, si può sapere che hai? L'ho sempre detto che non dovresti dormire a metà giornata: la tua mente si scombussola, come quella d'un vecchio. Cal è nel Quartiere grigio, a giocare coi nipoti della vecchia Elydrel . Quante volte l'abbiamo ripetuto questa mattina?".
A quel punto ricordò.
"Da Elydrel" ripeté in un mormorio "ne sei sicura?".
"Ve l'ho accompagnato io stessa".
Non ne sembrava affatto convinto e lei sbuffò contrariata: "metti in dubbio la mia affidabilità?" chiese rialzandosi e tornando a sistemare il guardaroba "a volte ho nostalgia di come tu fossi prima dell'arrivo di Cal, quando l'avresti volentieri strappato dal mio ventre con le tue stesse mani pur di prevenire l'immenso fastidio che temevi ti avrebbe arrecato. Non eri affatto gentile con lui, i primi tempi, lo ricordi? E io ti odiavo per questo, ma almeno non dovevo fare costantemente i conti con la tua tremenda apprensione".
"Ho fatto un sogno... un incubo" biascicò Dovah.
"E pare che in esso siano accadute cose terribili" ironizzò Ysolda.
"È così" vi era grande serietà nella sua voce, una serietà che lei non riusciva a comprendere: "sei proprio un bambinone, che si lascia impressionare dai brutti sogni".
"Era vivido, terribile. E pareva reale".
"Come ogni incubo" poi sorrise, comprensiva e dolce "e tuttavia ogni incubo finisce. Sofie è con Pukka, Cal è da Elydrel" assicurò di nuovo.
"E tu sei qui".
Rise: "e io sono qui. Mi piacerebbe anche rimanervi: ti sarei grato se accettassi d'avventurarti nel freddo al posto mio per recuperare Cal, tra un paio d'ore. Lo faresti per me? Grazie davvero".
 
  
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