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Autore: InuAra    02/01/2018    0 recensioni
La campagna inglese, un picnic domenicale e una ragazza che conosce il fatto suo.
Ci sarebbero tutti gli ingredienti per una storia infarcita di amore, ironia, arguzie e una buona dose di leggerezza. Giocando con i clichè del caso, ecco a voi il finto prologo a questa storia!
Genere: Commedia, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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A mia sorella




Tutto si poteva dire di Simòne, meno che non conoscesse il fatto suo. E se i casi della vita, come capita a tutte coloro che non sono le eroine di un romanzo, ma donne reali fatte di carne, lacrime e considerazioni, ne avevano di tanto in tanto acuito qualche paura e una certa dose di soggezione nei confronti del proprio stesso giudizio, nulla era riuscito davvero a scalfire il suo carattere sfrontato. Tesa all’azione più che al rimuginìo, Simòne era incurante delle regole non scritte del suo tempo: se voleva fare una cosa la faceva, se voleva dirla la diceva. Beniamina degli amici d’infanzia, di cui ormai giovane donna continuava a circondarsi – poco importava se fossero essi di un genere o dell’altro -, era amata da tutti nel modo più disinteressato, e ognuno le confidava in egual misura successi e preoccupazioni, perché lei sola sapeva condensare nella leggerezza di un sorriso il consiglio più giusto.
 
Fu in una di quelle riunioni mondane che l’occhio le cadde sul tenente Richard.
 
Qualcuno dei suoi doveva aver invitato al picnic domenicale organizzato sulle colline di Faversham quel gruppo chiassoso di soldati.
Ciò che la colpì di lui non fu il verde terrigno dei suoi occhi né quell’indiscutibile prestanza innata; fu piuttosto il modo in cui gli stavano strette mostrine e divisa.  Tutto in lui ambiva ribellione: i ricci sottili e chiari che sfuggivano alla coda in cui erano stati raccolti, il modo in cui il bottone sul collo era allentato, il sorriso impenitente e al contempo genuino, neanche lontanamente comparabile a quello vanesio e compiaciuto dei suoi pari.

Simòne si volse a indagare il volto della sorella maggiore, in cerca di un qualche muto sguardo di consenso. Non che ne avesse davvero bisogno, ma l’aria entra più leggera in petto quando si possono dividere i sospiri con qualcuno. Claire non le diede soddisfazione e Simòne sbuffò indispettita. Ignara, contro il tronco di un albero, la sorella se ne stava a discorrere svagata con quel giovane alto di cui proprio non ricordava il nome, quello dallo sguardo scuro e brillante che da qualche tempo non faceva altro che entrare nelle chiacchiere della sera, quelle chiacchiere segrete e a fil di voce che precedono l’ultimo soffio sull’ultima candela.
Simòne sorrise. In fondo a quell’uomo non sembrava importare che la ragazza fosse alta quasi quanto lui e avesse i capelli neri come la pece fuori posto, né che il suo vestito chiaro non fosse all’ultima moda. Evidentemente aveva il pregio di cogliere la grazia della sorella senza cercare conferme al di fuori degli occhi di lei. Decise che si sarebbe sforzata di ricordare il suo nome, di lì in avanti.

Simòne non aveva di Claire l’altezza né il colore dei capelli. “Tua sorella è un’incisione in bianco e nero, tesoro, ma tu sei un quadro di questi tempi”, le aveva detto una volta l’amica di sempre, Faith, col suo fare giocoso.

Tuttavia Simòne mise velocemente da parte quei pensieri; non seppe dire per quale motivo ne fosse certa, ma sentì in quel momento l’occhio del tenente Richard posarsi su di lei: scrutare le sue forme sottili sotto l’abito nei toni pastello che aveva abbinato con cura ai guantini di pelle, soppesare la ciocca di capelli di un lucente rosso ambrato che sfuggiva ad arte dal cappellino incorniciandone il viso roseo e insinuarsi nel suo sguardo che aveva lo stesso colore del ruscello poco lontano e che lei si ostinò a non sollevare se non un istante prima che lui distogliesse il suo, come a volergli dire: “Sta a me decidere quando potrete congedarvi”.
Lui colse la sfida e la salutò con la mano, in un modo sguaiato ed elegante allo stesso tempo, come a volerle rispondere: “Ehilà! Sono il tipo che saluta anche senza essere stato presentato”.
Simòne arrossì, e non perché fosse imbarazzata, ma perché avrebbe voluto ridere di gusto. Al diavolo l’etichetta. Desiderò togliersi il cappellino e lanciarglielo in faccia, solo per vedere come lui avrebbe reagito in risposta.
Ma non ne ebbe il tempo - peccato o per fortuna - perché un paio degli amici di lei tirarono fuori un’armonica e una chitarra e, come era consuetudine in quelle scampagnate, iniziarono a improvvisare una ballata e tutti si fecero loro intorno, battendo le mani e fischiando come a una fiera di paese.
Simòne fece per alzarsi dal prato e raggiungerli, ma il braccio di lui fu più veloce. Si sentì prendere per la vita e si ritrovò a volteggiare aggrappata con una mano alla spalla e con l’altra al petto del tenente Richard, in una divertente danza improvvisata. Che anche lei si divertisse per la rapidità della sorpresa, però, non volle darlo a vedere. “Che modi!”, tentò di divincolarsi. “Mi sono sembrati i più adatti: era evidente che non vedevate l’ora di schiodarvi da dove eravate”. “Fate sempre ciò che ritenete ‘più adatto’?” Lui non ci pensò neanche: “Sempre”.  Lei lo fissò per un breve momento. “Anch’io”, osò. Le rise deliberatamente in faccia. “Non mi pare proprio! Altrimenti a questo punto non ci avreste pensato due volte a rifilarmi uno schiaffo”. Simòne sentì salirle il sangue alle tempie. Non se lo fece ripetere: puntò i piedi frenando la corsa, alzò svelta una mano e… gliela tese con un sorrisetto beffardo. “Mi chiamo Simòne, e vi ringrazio per avermi fatto ballare nell’istante in cui ne avevo voglia”. “Richard”, rispose lui in un accenno di inchino altrettanto beffardo, afferrando con franchezza quella mano così piccola rispetto alla sua, “… anche se qualcuno ha deciso che fosse più consono allungare il mio nome in ‘tenente Richard’, ma voi potete chiamarmi Rick e non parliamone più”. “Come volete”, concluse lei attaccandosi al suo braccio, perché quello era ciò che aveva voglia di fare. Lui glielo permise, un po’ più goffamente di come avrebbe voluto.
 
E mentre la musica cresceva e le ombre si allungavano nella luce del tramonto, gli amici di lei, non visti, ridacchiarono e si strinsero vicendevolmente le mani. Persino Claire si rese conto che in quei pochi istanti qualcosa era accaduto nell’animo della sorella.
Simòne si limitò a guardarlo di sottecchi e non seppe trattenere un sorriso. Rilasciò un impercettibile corto sospiro e si sentì irrimediabilmente perduta. Accidenti a loro, gliel’avevano fatta.
 


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Ciao a tutti!

Con tutte le sue ingenuità in bella vista, questa storiella che ho scritto circa un anno fa - che di storia poi neanche si può davvero parlare – è stata una sorta di piccolo omaggio per il suo compleanno a mia sorella, che si è da poco appassionata ai romanzi di Jane Austen. Mi ha divertito inventare il finto prologo di una storia su di lei, calandola in un’atmosfera simile, almeno per il contesto (ben sapendo che non posso neanche lontanamente evocare la forza della scrittura della Austen!). Ma come una bambina che gioca “a fare che”, mi sono divertita a “fare che Simona era un’eroina di Jane Austen di nome Simòne”, con tutti i clichè del caso!
A distanza di un anno, pubblico queste poche righe casalinghe per ricordare a mia sorella, a me stessa e a chiunque legga che tutti possiamo essere i protagonisti della vita che vorremmo… Prendete queste righe per quello che sono: un divertissement senza pretese; e se diverte anche voi, fatemi sapere che ne pensate!

A presto,

InuAra
  
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