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Autore: Damnatio_memoriae    16/01/2018    5 recensioni
Andrea è una studentessa che ama scrivere.
Vittoria è una studentessa che ama leggere.
Sembra già tutto preparato a tavolino e lo sarebbe ancora di più se entrambe si rendessero conto di chi è la persona che hanno vicino. Ma fraintendersi è facile, troppo facile, e le parole possono far male, soprattutto quelle scritte. Sono gli opposti che si attraggono o i simili che si pigliano?
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
Capitoli:
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On my own
 

Capitolo V
 
In the end, I’m realizing
I was never meant to fight

On my own
 
 
«Allora?» la incalzò nuovamente Vittoria, le mani dietro la testa e a tracolla una cartella troppo piccola per contenere tutti i libri di scuola. «Dimmi chi è».
«Ti ho detto di no» continuò a ribattere fermamente Andrea.
Intorno a loro una moltitudine di ragazzi affollava il marciapiede: chi aspettava che il semaforo diventasse verde, chi si affrettava a prendere l’autobus, chi sostava vicino ai muretti del liceo per fumarsi una sigaretta in compagnia. Novembre incalzava e il cielo che diventava ogni giorno sempre più scuro e nuvoloso lasciava presagire un inverno freddo.
Andrea accelerò sensibilmente il passo, desiderosa di lasciarsi alle spalle quella fiumana di gente e, insieme a quella, anche Vittoria. Si strinse di più la sciarpa intorno al collo quando un vento troppo pungente le soffiò sulla faccia. Ormai erano quasi da dimenticare i cappotti leggeri, le foglie colorate, le giornate più lunghe e quel cielo plumbeo le metteva addosso una indicibile tristezza.
«Avanti!» le sbarrò la strada Vittoria, piantando i talloni in una pozzanghera e continuando a guardarla come se nulla fosse.
«Sei uno strazio!» sbottò esasperata Andrea «Questa è pressione psicologica e tu, tu saresti da denuncia».
«Un motivo in più per raccontarmi del tuo passato, non trovi? Non vorrei di certo che tu mi venissi a trovare in prigione: non ci sono i bagni privati».
«Allora sei fortunata che la cosa non dipenda da me, altrimenti butterei in un tombino la chiave della tua cella prima ancora di aspettare la sentenza del giudice».
«Ho i brividi. Ah, no, scusa, è il freddo».
«Smettila di seguirmi, Vittoria» la scansò Andra urtandole la spalla e tirando dritta. Una goccia le cadde sulla testa e un’altra le bagnò le lenti degli occhiali. Sbuffando sonoramente cercò di pulirli alla bell’e meglio strofinandoseli sulla manica della giacca, ma non migliorò di molto la situazione.
«Non ti sto seguendo, sto tornando a casa anche io».
Andrea si girò appena per degnarla di uno sguardo. «La tua moto è parcheggiata dall’altra parte della strada».
«Appunto».
«Non di questa strada!» puntualizzò alzando gli occhi al cielo.
«Sono commossa da tanta perspicacia, Holmes. Mi basta accompagnarti per un pezzo».
«Non voglio essere accompagnata, non mi serve la scorta!».
«E io vorrei che tu non scappassi». La rincorse.
«Non sto scappando».
«Non da me: da te». Vittoria la afferrò per un gomito, spingendola contro una delle colonne che reggevano il porticato e permettendo alla coppia dietro di loro, munita di passeggino, di superarle.
«Ma si può sapere che cosa vuoi?» scoppiò Andrea, guardandosi intorno con fare sospettoso, temendo di dare troppo nell’occhio.
«Io non voglio nulla da te, se non conoscerti meglio».
«E credi che il modo migliore per farlo sia quello di impormi la tua presenza?».
«Per diciotto anni ha funzionato bene» provò a scherzare Vittoria, senza ottenere l’effetto desiderato.
«Non con me!».
«Già, ne sto avendo una prova. No, no, no, ferma!» la trattenne nuovamente quando l’altra provò ad andarsene. Le mise entrambe le mani sulle spalle e quando un ciuffo le cadde sugli occhi, pur di non lasciare la presa, provò a spostarlo con un movimento del capo.
«Tu non accetti il fatto che ci siano delle cose di cui non voglio parlare e cose che tu non puoi sapere».
«No, non accetto il fatto che tu non ti fidi di me, che è una cosa diversa».
«Fidarmi di te?» spalancò gli occhi «Ma se non ti conosco nemmeno!».
«E allora scoprimi! Mi tratti come se ti fossi dimenticata tutto» la accusò «Non dico che dobbiamo diventare come culo e camicia – e credimi se ti dico che la parte della camicia non la riserverei per te -, ma inizio a pensare seriamente che tu non abbia mai dato la minima importanza alle nostre conversazioni, il che è alquanto deprimente se consideri che sono durate due anni».
«Conversazioni fatte dietro ad un computer!».
«E allora?» lo sguardo di Vittoria si fece immediatamente cupo.
«E allora cambia!».
«Cambia in cosa?».
«Erano virtuali!».
«E quindi?».
«Quindi io…io non lo so, ma è diverso».
«Stai annaspando».
«Non sto annaspando».
«Mi vuoi forse dire che non erano reali?».
«Certo che non erano reali!» rispose di getto Andrea, scuotendo forte la testa, come a volersi togliere un fastidioso sassolino dal cervello. «Cioè, nel senso che…».
«Che ero solo un’immagine, con delle scritte, dietro ad un monitor?».
«No, non volevo dire questo» si strinse le mani nelle mani, fortemente imbarazzata. Odiava quando dava così tanto sfoggio della sua pessima capacità di esternare correttamente quello che provava.
«Però non sembra tu voglia farmi intendere qualcosa di diverso».
«No, lo so, ma…» tirò un respiro profondo «Sto cercando di dire che…».
Vittoria si staccò da lei, muovendo un passo indietro e lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi e questo bastò per mettere a tacere i suoi buoni propositi. «Solo per sapere, mi consideri un Mac o un Windows?».
«Eh?».
«Mi chiedo se tu ti sia resa conto del fatto che dietro il tuo caro schermo c’era una persona. Una persona vera, intendo».
«No, non volevo offenderti».
«Risparmiamelo Andrea, davvero» la interruppe nuovamente e il suo tono così amareggiato fece temere ad Andrea di aver tirato troppo la corda. La pervase una sensazione strana, quella che la coglieva sempre quando litigava per la prima volta con una persona a cui era legata e che ogni volta le faceva capire che nessun rapporto sarebbe mai stato esente da incomprensioni. Davanti a lei, Vittoria – solitamente irriverente, giocosa e ironica – aveva assunto un piglio nuovo, severo, con cui Andrea non era abituata a fare i conti.
«Non volevo farti arrabbiare».
«Non sono arrabbiata Andrea, sono delusa».
«Non avresti dovuto insistere».
«Oh, no» le diede le spalle «Non è per quello. Io ci credevo» le disse semplicemente «A quello che mi dicevi, io ci credevo. Ma evidentemente è stato un mio errore» le labbra le si piegarono in un ghigno cinico «Non so se mi scocci di più capire di aver perso il mio tempo con te o di essermela fatta fare sotto il naso da una ragazzina».
«Mi hai fraintesa e lo sai».
«No, non lo so. Non ti conosco nemmeno, dico bene?».
«Adesso chi è quella permalosa?» borbottò tra sé, ma Vittoria finse di non sentirla. Mise la mano in una delle tasche del cappotto e ne estrasse un pacchetto di sigarette rosse. Ne accese una e, inamovibile nel suo silenzio, ne tirò lunghe boccate.
Andrea provò più volte a formulare una frase, ma ogni volta che le sembrava di aver pensato un concetto ragionevole, questo si smaterializzava appena provava a dargli una voce.
Vittoria digitò rapidamente un messaggio sul suo Iphone e lo inviò. «Adesso vado» disse infine «Non ho intenzione di trattenerti oltre».
«Ci sono delle cose, su di me, che non puoi forzarmi a dirti. Sono cose personali. Io non me la sento e non mi scuserò mai per questo».
«Non sarò di certo io a mettere il nostro rapporto su un piano personale, Andrea. E non mi interessa quello che cerchi di nascondere, la mia non era curiosità. Volevo solo conoscerti, perché le persone fanno così. Si vengono incontro, ma è una cosa che tu non riesci a fare. Tratti tutti – me inclusa – come se qualcuno ti dovesse saltare alla gola da un momento all’altro. Ti svelo un nuovo gossip: non esistono lupi e non esistono agnelli. Ci sei solo tu, che ti credi una vittima designata, e io, che mi sono stufata di correrti dietro» scosse la testa «Avevamo una cosa bella. E semplice. Lo è stata sempre, almeno per me. Tu sei riuscita a renderla complicata. Nessuno qui aveva cattive intenzioni, nessuno voleva metterti alle strette. All’angolo ti ci sei messa da sola. Ma forse è meglio così. Meglio se sei convinta che da soli si possa stare bene».
Senza salutarla, Vittoria ritornò dalla strada da cui erano venute, la pioggia che iniziava a cadere più forte.
Dopo qualche titubanza, Andrea estrasse dallo zaino un ombrello e, aprendolo, corse per raggiungerla.
«Aspetta» la fermò, tirandola per un lembo del cappotto «Aspetta» ripetè, tagliandole la strada quando l’altra non diede cenni di volerla ascoltare.
«Che cosa stai facendo, ragazzina?» le chiese senza mostrare interesse.
Andrea non rispose. La fronte era corrucciata, le dita strette saldamente intorno al manico dell’ombrello come se fosse un salvagente e lei stesse per affogare. Allungò il braccio davanti a sé per riparare Vittoria dalla pioggia, ma dovette tendersi per arrivare alla sua altezza.
«Così ti bagni».
«Lo so…» bisbigliò impercettibilmente.
«È una cosa molto romantica, dico sul serio, ma casa tua è dall’altra parte e sulla mia moto non c’è posto per te».
Andrea provò a reggere il suo sguardo freddo, ma inutilmente. «A-anche io» cercò di sembrare sicura di sé ma la voce la tradì.
«Prego?».
«Anche io ci credevo. A quello che mi dicevi».
«Oh, che coincidenza».
«Dico sul serio!».
«Lo dici come se a me, adesso, dovesse interessare».
«Potresti almeno apprezzare lo sforzo!».
«Hai ragione, potrei. Ti farò sapere».
«Hai almeno sentito quello che ti ho detto?» urlò, rossa in viso.
«Non fare la prepotente, Andrea, non te lo puoi più permettere».
«Non sono prepotente sto solo cercando di farti capire!».
«Non sono un prete, non vivo di parole, mi devi dimostrare quello che dici».
«Ma…» si sentì in difficoltà.
«Appunto» concluse per lei Vittoria «Questa è già una dimostrazione».
«No, non lo è» ribattè fermamente. Andrea distolse lo sguardo da lei e, cercando di aprire con una sola mano la zip del suo zaino, ne estrasse il cellulare. Lo tenne tra le dita, quasi soppesandolo. La sfiorò il pensiero di ricacciarlo dentro la borsa, mandare Vittoria al diavolo e tenersi i suoi demoni per sé, ma sentiva che se avesse tardato ancora qualche istante Vittoria se ne sarebbe andata e con lei, probabilmente, anche Maeries. «Tieni» le disse in tono di comando, sbloccando la schermata con la password.
«Che cosa ci dovrei fare?» domandò Vittoria, arcuando un sopracciglio e storcendo il naso.
«Quello che ti pare» replicò acida. Con il dito scorse le cartelle della galleria, fino ad arrivare ad una raccolta a parte, contrassegnata da tre asterischi. La aprì.
«Ma non c’è nulla» constatò annoiata la bionda.
«Dagli almeno il tempo di caricare!» alzò gli occhi al cielo spazientita e quando li riportò sul cellulare le prime immagini si erano già caricate: «Ecco!» esclamò.
«Che cosa sono?».
«Dimmelo tu, lo dovresti sapere».
«Che cosa te ne fai di tutti questi screenshot?».
«Bhe…» Andrea si grattò la fronte «Nulla…li conservo» ammise.
«Questa sono io» constatò Vittoria, passando da una immagine ad un’altra. In ogni sfondo la schermata di MSN, la data, e i loro messaggi, scritti con colori e caratteri diversi.
«Si, lo so».
«In tutti?».
«In tutti…» annuì controvoglia «In realtà» titubò «Non è che li abbia salvati proprio tutti, tutti. Insomma, solo quelli più…speciali».
«Speciali, eh?» la guardò di sottecchi Vittoria.
Andrea agitò la mano come se potesse dimenticare quello che aveva appena detto o, almeno, farlo dimenticare a lei. «Io li tengo. E posso andare a rileggerli, qualche volta. Se voglio. Mi calmano, credo. Quando non so cosa scrivere…mi fanno venire in mente quello che a te piacerebbe leggere» alzò le spalle «E allora penso che potrebbe andare bene, sì, potrebbe andare bene se io continuassi a farlo. A scrivere per far leggere te. Per quel che può valere».
«Non lo devi fare per me».
«Lo si fa sempre per qualcuno. Desiderando qualcuno. Pensando a qualcuno. Odiando qualcuno. Se quel qualcuno fossi tu, forse sarebbe tutto più facile, forse potrebbe servire…potrebbe servire davvero a qualcosa questa volta».
«Andrea…Andrea perché piangi?».
«Non piango. È la pioggia che non mi da pace».
 
Sasha aprì gli occhi, sbattendoli una, due o forse tre volte. Intorno a lei si muovevano confusamente delle figure che saltellavano intorno al letto come se fare avanti e indietro per quella stanza asettica potesse fare qualche differenza o, anche, dar loro sollievo. L’unica donna di cui riuscì a mettere a fuoco i contorni aveva un qualcosa di morbosamente familiare, con il suo profumo aspro e pungente che le pizzicava le narici. I capelli chiari, toccati qua e là da una punta di bianco, erano stati stretti sulla nuca in un’elaborata acconciatura che le ricordava molto gli anni ’50. Il rigido tailleur le stringeva la vita sottile e il rumore dei tacchi sul pavimento le faceva sospettare che fosse alta, in realtà, cinque o sei centimetri in meno.
«Mi dica» disse strattonando il braccio di un uomo completamente vestito di bianco «Dottore, mi dica, come sta?». La sua voce era impostata e seriosa, ma un timbro troppo acuto tradiva una certa agitazione.
La voce calda di un uomo le rispose: «Giorgia, cara, lascialo stare. Stanno facendo tutto il possibile».

Sasha riaprii gli occhi e, questa volta, i contorni degli oggetti che la circondavano erano più definiti, ma l’emicrania sembrava avesse ancora intenzione di spaccarle in due la testa. Le lampade al neon erano spente, ma la stanza era illuminata dalla luce che, impertinente, entrava dalle finestre lasciate aperte. Una delle infermiere, quando la vide sveglia, le rimboccò le coperte come una mamma e andò a chiamare il dottore di turno.
«Una macchina…» bisbigliò quando dovette rispondere alle sue incessanti e altamente fastidiose domande «Una macchina deve avermi tagliato la strada. O io devo aver tagliato la strada a lei, non ricordo».
«Le abbiamo diagnosticato una forte commozione celebrale. I soccorsi sono arrivati tempestivamente e questo ci ha permesso di sanare l’emorragia senza incorrere in ulteriori complicazioni, ma al momento lei soffre di una leggera forma di TGA. E’ una sorta di amnesia temporanea, prevedibile in seguito ad incidenti come il suo, ma è importante tenerla sotto osservazione per assicurarsi che non degeneri, evolvendo in una perdita di memoria più gravosa».
Lei aggrottò la fronte e abbassò lo sguardo. All’avambraccio sinistro le era stata attaccata una flebo e da quel sacchetto di plastica scendevano un paio di gocce al secondo, ma non avrebbe saputo dire quale farmaco contenessero. «Da quanto tempo sono qui?» trovò il coraggio di domandargli, aspettandosi come risposta due, forse tre giorni.
«Una settimana».
«Una settimana?» spalancò gli occhi e subito provò una fitta di dolore.
Il dottore annuì. «E dovrà rimanere da noi per altre due, se non di più. Una costola è rotta e l’altra incrinata. Il piatto tibiale è fratturato, ma il nostro ortopedico l’ha già sottoposta ad intervento chirurgico e, salvo complicazioni, il gesso sarà sufficiente fino alla completa guarigione. Inoltre» aggiunse, allungando le dita e tastandole la faccia «Dobbiamo controllare che il gonfiore allo zigomo non vada a premere sul nervo ottico».
«Devo sembrare un mostro» concluse ironicamente Sasha.
Si sentiva stanca, mentalmente e fisicamente. Il costato le doleva, la testa le scoppiava. Quando si svegliava, il tempo sembrava non dover passare mai. Ferma in quel letto, senza la possibilità di muoversi, costretta a suonare il citofono per chiamare l’inserviente ad ogni bisogno. Non credeva sarebbe mai giunto il giorno in cui avrebbe desiderato con tutta se stessa di poter andare in bagno da sola, senza essere costretta ad usare una stupida bacinella. Tutto questo era davvero umiliante, oltre che spossatamente noioso.
Poi, ad un tratto, si risvegliò e non fu più da sola.
Doveva essere sera, visto che fuori dalla stanza il via vai di personale si era più che dimezzato e le lampade al neon della camera la illuminavano di una luce che, per fortuna, aveva smesso di darmi fastidio. Le pesanti tende di velluto verde erano state tirate, coprendo il profilo della città. E ai piedi del letto, le braccia incrociate e il volto nascosto, sonnecchiava una ragazza. Si stupí del fatto che le visite fossero consentite a quell’ora – si sporse per guardare l’orologio che segnava le nove meno un quarto. Cerò di tirarsi su a sedere, premendo la mano buona contro il materasso, ma le risultò particolarmente difficile e non riuscì a non svegliarla.
Quella sconosciuta si rizzò immediatamente, guardando prima davanti a sé, poi alla sua sinistra, infine fissò gli occhi su di lei.
Una frangetta probabilmente troppo lunga le ricadeva sugli occhi nocciola e i lunghi capelli, le coprivano tutta la schiena. Una moltitudine di lentiggini le incorniciava il viso, puntellandole naso, fronte, guance, mento, contribuendo a farla sembrare più giovane, quasi una ragazzina delle medie. Era bella, di una bellezza genuina, che può piacere o meno, che tutto sommato passa inosservata per le strade – forse anche a causa dei vestiti un po’ sciatti che indossava. Non aveva un filo di trucco e anche lei aveva l’aria spossata e sciupata. Guardò Sasha per un lungo, lungo istante, e i suoi occhi le sembrarono così tristi, arrossati e umidi da farle provare quasi rimorso.
Una lacrima timida le segnò la guancia. «Ciao…» sussurrò semplicemente, quasi imbarazzata, come se si vergognasse a rivolgerle la parola. Era una strana sensazione ricordarsi della sua voce ma, al tempo stesso, non riconoscerla. Aveva una tonalità abbastanza profonda, rauca, non certo quella che si sarebbe aspettata da una ragazza così.
«Ciao» ricambiò il saluto.
La sconosciuta aprí la bocca per dire qualcosa. Le labbra tremarono, ma lei non riuscì ad emettere nemmeno un suono. Si asciugò in fretta le guance con il palmo della mano, quindi si lasciò andare ad un sorriso tirato e un po’ impacciato.
«Io…» sembrò indecisa «Io non credo tu mi riconosca. Non credo tu riconosca nessuno, in realtà».
«Già».
«Già».
Rimasero in silenzio qualche istante. Sasha puntualizzò: «I dottori dicono che è solo questione di tempo, comunque».

L’altra annuì, ma non sembrò esserne entusiasta. «E’ una cosa bella, ovviamente» si affrettò subito a precisare, per non essere fraintesa.
«Chi sei tu?» trovò il coraggio di domandarle.
Lei non rispose subito. Abbassò lo sguardo e si strinse le mani tra le mani, torturandosi un anello che portava all’anulare.
«Mi sa che siamo in due ad aver perso la memoria» borbottò.
«Io so chi sono. Ma tu vuoi sapere cosa sono. Per te».
Sasha alzò un sopracciglio. «E cosa saresti per me?».
Si morse le labbra e tentennò prima di risponderle. «Sarebbe carino se tu recuperassi la memoria in fretta, così potresti spiegarlo anche a me».
«Non ti seguo».
«Certo, è naturale».
«Sei una mia parente? Sorella, cugina, nipote…dirimpettaia?».
«No, no, no e no».
«Allora sei una mia amica?».
«Una specie».
«Quale specie?».
«Una in via di estinzione» provò a scherzare e un angolo della sua bocca si piegò in un sorriso mesto. «Scusami, non sono brava nelle battute. Solitamente sei tu quella che fa ridere la gente. In senso buono!».
Sasha storse il naso, squadrandola attentamente. Aveva un qualcosa che le suonava familiare, un non-so-che nel modo in cui stava seduta, in cui incurvava la bocca, anche solo nel modo in cui corrucciava la fronte. Indizi di un puzzle che non ere ancora in grado di risolvere. Provò un profondo fastidio e non tentó nemmeno di nasconderlo. «Sei buffa» le disse, senza rendersi conto di aver pronunciato il mio pensiero ad alta voce.

Lei si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Si, me lo dicevi spesso» commentò in un sussurro.
«Bhe, almeno sono rimasta coerente con me stessa».
«Già…».
«Quindi…come hai detto che ti chiami?».

«Non l’ho detto».
«Si, lo so che non l’hai detto. E’ un modo di dire. Credo che il mio cervello riesca ancora a ricordarsi gli ultimi cinque minuti di conversazione».
La mora le lanciò un’occhiata torva, ma anche da arrabbiata non incuteva molto timore.
«Scusami» provò a rimediare Sasha, mettendosi seduta più comodamente «Non volevo essere burbera».
«Nessun problema. Sei sempre stata molto diretta».

«Ah, sì?» domandò, senza nascondere una punta di orgoglio.
«Non voleva essere un complimento. Non ci trovo nulla di particolarmente felice nel parlare senza curarsi delle conseguenze».
«Non ti sto molto simpatica, vero?».
«Questa è una domanda stupida».
«E questa era una conferma».
Si corrucciò, ma prese tempo prima di rispondere e quando lo fece il tono si era fatto più dolce. O più triste. «Se non tenessi a te non mi troverei qui a quest’ora, non credi?».
«Effettivamente il coprifuoco per i ragazzini non dovrebbe essere già scattato?».
«Non lo so, dimmelo tu» si mise sulla difensiva «Quanti anni pensi io abbia?».
La rossa arricciò le labbra. «Non ti sembra di chiedermi un po’ troppo, adesso? A quanto pare è un miracolo che io riesca a ricordarmi la mia di età, figurarsi quella di una sconosciuta».
La ragazza si irrigidì immediatamente e sembrò che ogni goccia di sangue che aveva in corpo si fosse gelato, perché iniziò a tremare. Abbassò lo sguardo sulle sue mani e i capelli le coprirono il viso senza permettere di vederne l’espressione. «Non sono una sconosciuta…» bisbigliò piangendo.

Sasha non fece in tempo a scusarsi, perché repentinamente l’altra si piegò a prendere la borsa che aveva lasciato sul pavimento e si diresse verso l’uscita.
«Hey!» la chiamò, non potendo fermarla in altro modo «Ma dove vai? Almeno dimmi come ti chiami, maleducata!» sbottò e se ne avesse avuto la possibilità le avrebbe tirato dietro qualcosa, una scarpa, un libro, un vaso.
La sconosciuta, prima di imboccare il corridoio, si girò un’ultima volta a guardarla. Aveva la bocca imbronciata, gli occhi pieni di lacrime e, nonostante la sofferenza incisa sul suo volto – sentimento che non provava nemmeno a mascherare -, a Sasha sembrò anche arrabbiata, almeno nel modo in cui aveva aggrottato le sopracciglia. Come faceva una sola persona a provare tutte quelle emozioni? Rabbia, dolore, imbarazzo, felicità, delusione, rammarico…
«Noemi» scandì lei e altre lacrime le sfuggirono dagli occhi prima che si decidesse a chiudersi la porta alle spalle.

Ormai sola, Sasha si chiese dove avesse sbagliato. Adesso o prima.
 
Vittoria appoggiò la schiena alla poltrona girevole, inclinando la testa, facendo scrocchiare il collo: un suo personalissimo segno di approvazione.
Sorrise tra sé prima di afferrare il mouse, duplicare la schermata su cui aveva appena finito di leggere il nuovo capitolo di Andrea e creare un nuovo messaggio da inviare all’account di Cecille92.
 
Ciao ragazzina. Come sempre, ti faccio i miei più sinceri – e sai che lo sono davvero - complimenti. Un colpo di scena un po’ estremo forse, ma che di certo ha raggiunto il suo scopo: sei riuscita a sorprendermi ed è una cosa che non succede di frequente. Hai reso in maniera perfettamente limpida l’immagine di Noemi e le emozioni che avevi in mente di trasmettere. Non la considero una cosa da poco e non mi sarei aspettata nulla di meno da te.
Sai…Noemi ti somiglia. Forse è solo un mio vaneggiamento, ma quando leggo di lei, rivedo te. È una cosa che prima di conoscerti di persona non sarebbe potuta accadere. Come vedi, questo è un altro punto che va a favore del nostro incontro.
Ovviamente recensirò il nuovo capitolo, ma questo messaggio volevo rimanesse tra noi. Come ai vecchi tempi. Se vuoi, puoi fare lo screenshot anche di questo ;]
Buonanotte ragazzina, ci vediamo lunedì.
 
Vittoria fissò la schermata per qualche istante, ricaricando la pagina. Non sapeva se Andrea si fosse già addormentata, ma vista l’ora non se la sentiva di escluderlo del tutto, e un po’ le dispiacque perché, nonostante la stanchezza che si sentiva addosso, avrebbe voluto leggere subito la sua risposta.
Passarono cinque minuti, poi dieci, ma sul suo profilo personale non comparve nessuna nuova notifica. Spense il pc e si spogliò, ma prima di mettersi a letto la schermata del suo cellulare si accese ed illuminò il soffitto.
L’anteprima del messaggio di WhatsApp mostrava la foto inconfondibile di Andrea, il soprannome con il quale Vittoria aveva salvato il suo contatto e una breve e concisa scritta:
 
“Era una ragazza”.
 
Senza provare a fingere di non sapere a cosa stesse alludendo, Vittoria digitò subito la sua risposta.
 
“Lo sospettavo. Come si chiamava?”.
“Claudia”.
“È un nome carino”.
“Bhe, qualcosa di carino doveva pur averlo”.
 

 
Ciao a tutti! Innanzitutto chiedo perdono per la latitanza prolungata, ma tra la laurea, il trasferimento e la nuova università – più che il tempo per scrivere – mancano le giuste idee e la concentrazione adatta. Sono stata comunque felice di aver messo nuovamente mano a questa storia e spero che il capitolo possa essere all’altezza. Ringrazio come sempre tutti quelli che spenderanno qualche minuto del loro tempo per leggere queste righe e un saluto speciale mi sento di farlo a Celian1987 che, oltre a leggere e recensire la maggior parte delle cose che scrivo, dimostra anche un’infinita pazienza – e mi rendo conto che con una “scrittrice” molto incostante di pazienza ne serve parecchia!
Detto ciò, ad maiora!
   
 
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