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Autore: YellowSherlock    18/01/2018    1 recensioni
Una rottura, un chiarimento in sospeso.
La perdita di ciò che si è.
La coscienza dell'errore.
La rabbia.
Una preghiera all'uomo.
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ciao a tutti! Ho scritto questa brevissima FF ispirandomi alla nuova canzone di Sam Smith- Pray, che vi consiglio di ascoltare mentre leggete questo testo (https://www.youtube.com/watch?v=hhREiAarjVY&list=RDhhREiAarjVY) 
Ho cercato di fermare le scene nella mia mente e di potervele mostrare così come le vedo io; non scrivevo a tema Johnlock da tempo perché mi sono immersa nel mondo di DoctorWho, e in attesa di un bel crossover, ho rispolverato quello che io immagino possa esistere tra i due. 
Le perdite sono sempre dolorose, altre fanno crescere, e altre restano sospese nel tempo. 
Ma credo che comunque, oltre a crogiolarsi nel dolce"blues" che è l'autocommiserazione e la rabbia ostinata, per una ferita ricevuta o data, sia giusto anche ritornare sui proipri passi, e magari ricominciare a credere in quel che è stato, a dare un'opportunità e a lasciarci invadere ancora una volta.
Pregando magari, a un Dio se ci si crede, oppure a pregare nei gesti, nelle intenzioni e soprattutto nei legami che sono unici, che non possono essere sostituiti e che ad ogni modo, sono sempre il negativo originale delle copie di cui ci circondiamo. 

Buona lettura e a presto :) 




Sherlock si accinse a salire le scale di Baker street con il suo solito passo svelto che, ad ogni modo, restava sempre così in ritardo rispetto alla velocità dei comandi emanati dal cervello.
Salì i gradini tre alla volta, la sua falcata era divoratrice.
Una volta arrivato fuori alla porta del suo appartamento, girò la chiave velocemente e senza neanche toglierla dalla serratura, lasciò cadere il suo cappotto a terra e avvolse la sciarpa in una sorta di palla lanciandola con rabbia sulla poltroncina che una volta era di John.
Fece un giro su se stesso portando il mento all’insù, con le mani sui fianchi.
Tirò un sospiro che voleva essere di sollievo, ma fu spezzato dall’intermittenza del suo cuore in tumulto.
Aveva fatto un errore madornale, e solo in quel momento si rese conto che non c’era nessuna soluzione, stavolta aveva davvero sforato il limite:
John era andato via, per sempre.
Non perché lo aveva offeso, non per il suo orribile carattere, ma perché aveva tradito la fiducia che trovarono entrambi uno nell’altro, quella che suggellava il loro inimitabile rapporto.
Sherlock sentiva il suo corpo contorcersi, portò le mani al suo viso, e continuava a rigirarsi su stesso fino a raggiungere la velocità di una trottola; dalle sue labbra scappò un urlo di disperazione e diede un pugno così forte alla porta della cucina, che riuscì a rompere quasi  tutto il vetro del sistema scorrevole.
I suoi occhi dal fondo bianco cotone con insenature di erba fresca, iniziarono a divenire rossi per via del sale delle lacrime, mentre sulla sua mano gocce di sangue rubino colavano.
Restò immobile per una frazione di secondo, guardando la mano che iniziava a fargli incredibilmente male.
Il vetro frantumato creava un tappeto brillantino ai suoi piedi, nel quale si fece strada ascoltando il sonoro scrocchiare dell’attrito tra schegge e legno del pavimento.
scrollò la mano lasciando una scia di sangue, si piegò leggermente su se stesso per reprimere il dolore, e dietro di sé lasciò una scia di sangue.

Si diresse verso la cassetta del pronto soccorso, un’idea installata da John.
Cerco alla rinfusa tra pillole, cerotti e pomate.
Trovò del disinfettante e una garza, e con fare poco professionale si medicò.

Si guardò nello specchio.
I giorni dall’assenza di John erano trascorsi così velocemente che lui non si accorse di aver perso qualche taglia; un alone nero si fece spazio sotto i suoi luccicanti occhi, le labbra non erano più rosse e il suo colorito era smunto.
Provò una sorta di disgusto verso quell’immagine che un tempo curava con tanta attenzione, era diventato l’uomo che aveva paura di incontrare.
Realizzò che erano lontani gli anni in cui si promise di non amare mai nessuno per non ritrovarsi in quella squallida e poco dignitosa condizione.
Ma non aveva previsto John.
Le lacrime scendevano copiosamente creando una pioggia nel lavabo su cui era appoggiato, iniziò a pensare a come sarebbe stata la vita dopo di lui; se si riuscisse a vivere dopo una distruzione, avrebbe sicuramente solo tentato di sopravvivere.
Chi avrebbe scelto John, dopo di lui? Qualcuno che non lo tradisse così stupidamente.
Qualcuno che gli avrebbe reso la vita semplice, serena.
Qualcuno che non fosse un iperattivo, una matassa intricata impossibile.



Lasciò il bagno velocemente perché un tonfo si manifestò nel soggiorno.
Era già pronto a liquidare la signora Hudson quando sull’uscio della porta apparve John;
Sherlock si immobilizzò, cercando di nascondere la mano ferita.

“Cosa diamine è successo qui?” chiese John

“Nulla. Un incidente.”

“C’è del sangue, sei ferito.”

“No, sciocchezze.”

“Sherlock, fammi vedere che nascondi, lo so che sei ferito.”

Sherlock gli mostrò velocemente la mano ferita, ma non si accorse che il sangue venne assorbito così velocemente dalla fasciatura, che fu quasi impossibile far credere al dottore che si trattasse di una ferita superficiale.

“Ok. Non voglio chiederti come tu abbia fatto ma adesso ti siedi e ti fai medicare per bene.”

“No, ho da fare. Cosa ci fai qui, piuttosto?”

“Non cercare di cambiare argomento! Siediti!”

“Smettila di darmi ordini!”

“Ok. Fai quel che ti pare, io prendo le mie ultime cose e vado via.”

“Arrivederci.” Disse Sherlock con tono alterato, cercando di nascondere il suo profondo dolore.

“Sei davvero un bastardo.”

“Me lo hai già ricordato varie volte, non è il caso sprecare altro ossigeno.”

“Come siamo arrivati a questo?  Chiese John ad uno Sherlock che si dirigeva verso il mobiletto delle tazze.

La poca coordinazione a causa di quella ferita, fu responsabile di un ennesimo disastro: per una tazza ne caddero altre tre, fino a che Sherlock, nel cercare di salvarne una, contribuì a farle crollare tutte.
Non ne era rimasta neanche una integra.
La sua rabbia salì ai vertici, il bruciore peggiorava minuto dopo minuto, tutto ciò che era in quella casa era destinato a perdersi e a distruggersi, e allora in un minuto di follia, con la mano intatta,  decise di fare a pezzi tutto quello che gli si trovava dinnanzi agli occhi.
Piatti, bicchieri, ampolle, microscopio, documenti, scatole, cartoni, fino a che la cucina non divenne irriconoscibile.

John cercò di fermalo, ma Sherlock si liberò della sua presa, lasciando il soldato da solo tra le macerie di quello che era il loro nido.

Uscì di casa senza coprirsi, doveva scappare da tutto; camminava per strada con l’aria di un senzatetto, la sua camicia era sbottonata e i pantaloni non riuscivano più a contenerla.
La scia di sangue continuava a inseguirlo, e tra le occhiatacce dei passanti, lui continuava a sostenere lo sguardo dinnanzi a sé, senza però guardare nulla.
Vuoto come quello che era divenuto.

La città intorno alla sua mente era in tumulto, iniziò a sfocarsi la vista, ma non gli interessava perdere il controllo, mai come questa volta.
Non gli importava se da lì a poco sarebbe svenuto lì tra la gente che resta comunque indifferente, non gli importava più nulla, poteva anche morire perché tanto per lui nulla sarebbe cambiato.

Inciampò, un tonfo e poi il buio.


***

Sherlock si ritrovò il giorno dopo in una fredda stanza d’ospedale, non ricordava nulla dal momento in cui svenne, non sapeva neppure chi lo avesse portato lì.
Si alzò lentamente e osservò la sua mano medicata, riuscì ad accorgersi da sotto la fasciatura che gli avevano cucito ben quindici punti sommandoli tra il dorso e le dita; sbuffando infastidito, si diresse verso i piedi del letto e riuscì a leggere qualcosa sulla sua cartella clinica: aveva perso molto sangue, i suoi valori erano alterati a causa di tutte le sostanze di cui aveva abusato dal momento della rottura con John.
Lasciò le scartoffie davanti a sé, non curandosi del disastro che era divenuto.
Si trascinò lentamente verso la grande vetrata della sua camera d’ospedale, e ne approfittò per sedersi ed osservare la stranamente luminosa Londra.
Si portò una mano agli occhi, li stropicciò lentamente e quando li riaprì, si bloccò con lo sguardo sul tavolino su cui era poggiata la colazione.

C’era una rosa bianca, di quelle olandesi, enormi e carnose.
Accanto ad essa un bigliettino con su scritto:


Possiamo avere un faccia a faccia, per favore?
Parliamo di libertà
Tutti pregano alla fine.
 
Mi metterò a pregare anche io,
pregare per un barlume di speranza…
forse pregherò, pregherò, forse pregherò
non ho mai creduto in te, no, ma mi metterò a pregare.

 
   
 
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