Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Kein_Pyke    19/01/2018    1 recensioni
Fanficion sul Trono di Spade, personaggi originali e inventati. Ambientata alle Isole di Ferro, 10 anni dopo la lunga notte, il periodo più buio di Westeros.
Lo scontro finale con il Re della Notte ha falciato i draghi, ormai estinti, l’ultimo dei draghi, Aegon Targaryen, e la sua regina è morta dando alla luce la loro figlia, che, all’inizio della nostra storia, siede sul Trono, affiancata dal reggente, Tyrion Lannister.
Nei Sette Regni la pace viene mantenuta grazie agli sforzi diplomatici di Tyrion, che governa il Regno… o quasi.
Nel mare del Tramonto, infatti, uno sparuto arcipelago mantiene l’indipendenza dalla Corona. La spregiudicata politica del loro sovrano le ha preservate dall’egemonia Targaryen e, sebbene razzia e pirateria che sempre hanno contraddistinto l’esistenza degli Ironborn si stiano facendo più difficili da praticare, Euron Greyjoy non sembra avere alcuna intenzione di inginocchiarsi. Affiancato da una regina avvolta dal mistero, Occhio di Corvo mira a rialzare la testa e riprendere una politica espansionistica.
Una giovane donna di umili origini e con un destino da scrivere...
Un cavaliere rinnegato alla ricerca di un riscatto...
Un pirata di ritorno da un lungo esilio...
Gli Ironborn all'alba di un nuovo giorno
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Cersei Lannister, Euron Greyjoy, Nuovo personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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BACKGROUND: Sono trascorsi dieci anni dalla fine della Lunga Notte, il periodo più buio nella storia del Continente Occidentale, per porre fine al quale è servito il sacrificio di molti validi uomini. Lo scontro finale con il Re della Notte ha falciato l’ultimo dei draghi, Aegon Targaryen, e la sua regina è morta dando alla luce la loro primogenita, che, all’inizio della nostra storia, siede sul Trono di Spade, affiancata da un reggente, Tyrion Lannister, che fu Primo Cavaliere di sua madre, Daenerys nata dalla Tempesta.
I draghi si sono estinti con la morte di Drogon e Rhaegal e nei Sette Regni la pace viene mantenuta grazie agli sforzi diplomatici del piccolo leone di Lannister, la cui ombra si estende su tutto il Continente.
Tutta Westeros… o quasi. Esiste infatti, nel mare del Tramonto, uno sparuto arcipelago di otto isole che mantiene strenuamente l’indipendenza dalla Corona. La spregiudicata politica del loro sovrano le ha preservate dall’egemonia Targaryen e, sebbene le razzie e la pirateria che sempre hanno contraddistinto l’esistenza degli Ironborn si stiano facendo via via più difficili da praticare, Euron Greyjoy non sembra avere alcuna intenzione di inginocchiarsi. Anzi, affiancato da una regina avvolta dal mistero, Occhio di Corvo mira a rialzare la testa e riprendere una politica espansionistica.
Una giovane donna di umili origini e con un destino da scrivere…
Un cavaliere rinnegato alla ricerca di riscatto per il suo nome…
Un pirata di ritorno da un lungo esilio…
Gli Ironborn, all’alba di nuovo giorno.


DISCLAIMER: fanfiction basata su "Cronache del Ghiaccio e del Fuoco" gi George R.R. Martin e sulla serie "Il Trono di Spade" della HBO.
Precisiamo inoltre che, almeno questo volume, comprende una serie di "role" tratte da un gioco di ruolo.
Si ringraziano: Marco Prando, Greta Taglioli, Antonio Bentivoglio e Ivano di Benedetto per il loro contributo alla creazione della storia e dei personaggi.
Autori: Francesca Colombo e Giovanni Seminara
A tutti i fan del Trono di Spade buona lettura! Sono graditi commenti e suggerimenti.

Ironborn Rising

KEIN

“Noi non seminiamo” era da sempre il motto della Casa Greyjoy delle Isole di Ferro. Veniva pronunciato con orgoglio, secondo i principi dell’Antica Via secondo la quale ogni uomo ha diritto soltanto a ciò che si è guadagnato con il prezzo del ferro. Mentre la Tritone si avvicinava a Lordsport, spinta da un forte vento di scirocco che le appiccicava i lunghi capelli corvini sul volto sudato, Kein posò lo sguardo sul profilo roccioso di Pyke. Come tutte le isole dell’arcipelago era un luogo aspro, brullo, inospitale. “Non potremmo seminare neppure se volessimo” pensò sporgendosi dalla murata di babordo e respirando l’aria umida e salata del Golfo. Stavano tornando dalle Terre Verdi, dove la ciurma del capitano Alon Wynch aveva effettuato l’ennesima incursione, questa volta in un piccolo villaggio dalle parti di Banefort. Il bottino che si erano spartiti sarebbe stato appena sufficiente a sfamare le loro famiglie per un paio di settimane. “Presto dovrò riprendere il mare” rifletté Kein. Aguzzando la vista riusciva quasi a scorgere la sua casetta, di legno e pietra, stretta tra la bottega di un tessitore di vele e una locanda dove spesso i suoi compagni andavano a trascorrere le loro serate in attesa della successiva spedizione. Le figure che si affollavano sul porto erano ancora puntini lontani e indistinti, ma Kein avrebbe giurato di aver visto i suoi fratelli giocare davanti alla soglia. Nella sacca di cuoio che riposava ai suoi piedi c’erano regali per tutti loro: un cavallo di legno intagliato per Joryn e una daga corta per Ullen, mentre Ciara avrebbe ricevuto una bambola.
“Sei dei nostri questa sera?” la voce di Rordan, un marinaio poco più vecchio di lei che sarebbe potuto essere bello se non fosse stato per una lunga cicatrice che gli solcava il volto, la distolse dai suoi pensieri. “Andiamo al Granchio di Ferro a sbronzarci” disse, assestandole una manata sulla schiena. Da quando era entrata a far parte dell’equipaggio della Tritone, due anni prima, Rordan aveva cercato, senza successo, di accaparrarsi i suoi favori.
“Niente da fare, Sfregiato” rispose Kein ricambiando la botta “Sono settimane che non riesco a godermi una serata in famiglia. Vedrai, il capitano non ci farà riposare che un paio di giorni, poi dovremo ripartire”
“Aye” annuì Rordan. “Dovremmo puntare a una città più ricca. Sono stanco di villaggi pidocchiosi”. Sputò fuoribordo.
“Tutta colpa del Cavaliere delle Cipolle” ragionò Kein, riferendosi a Davos Seaworth. Il vecchio cavaliere si era insediato nel seggio dei Tully di Delta delle Acque per affiancarne il lord reggente, Edmure, che durante la prigionia subita nel corso della Guerra dei Cinque Re che era imperversata anni prima aveva perso quasi del tutto il senno. “Quel bastardo era un contrabbandiere prima di votarsi alla cavalleria, sa bene come contrastarci”.
La costa occidentale della Terre dei Fiumi era sempre stato il bacino perfetto per le scorrerie degli uomini di ferro, ma da quando il vecchio aveva preso in mano le redini del regno la vita dei pirati era diventata più difficile. Le coste erano pattugliate costantemente ed erano state costruite torri di avvistamento.
“Il re aveva promesso una grande espansione” proseguì Kein “Aveva detto che avremmo conquistato l’intero Continente Occidentale” Era soltanto una bambina, all’epoca dei fatti, ma ricordava perfettamente l’Acclamazione di Re durante la quale Euron Occhio di Corvo aveva ottenuto il Trono del Mare. Si era imbarcata clandestinamente su un vascello diretto a Vecchia Wyk per assistervi, rischiando di farsi ammazzare se l’avessero trovata, ed era rimasta affascinata da quell’uomo pallido e avvenente che aveva arringato la folla fino al visibilio. “Ci ha presi in giro, tutti quanti” “E guardaci: siamo ancora dei miseri pirati che si accontentano di razziare piccoli villaggi di pescatori”.
“Attenta a come parli” la redarguì Rordan, gettando attorno uno sguardo preoccupato. “Non è consigliabile fare certi discorsi sulla Tritone. La famiglia del capitano è fedelissima al sovrano”. Era vero. Durante l’acclamazione, Lord Waldon, lo zio del capitano Alon, era stato il primo a inginocchiarsi e ad offrire il proprio supporto a Euron Greyjoy, ricevendo in premio per quell’atto di sottomissione e fedeltà metà delle terre che un tempo erano appartenute a Casa Botley.
“Non sono l’unica a pensarla così” disse Kein, di rimando. Non aveva paura di dire quello che pensava, non aveva paura di combattere, non aveva paura di morire. In ventitré anni di vita aveva imparato che la paura era un nemico subdolo, infido, che faceva perdere agli uomini il rispetto dei compagni e perfino di se stessi. “Un uomo di ferro non teme nulla”. E nemmeno una donna.
“Beh, tu e i tuoi amici farete meglio a tenere la bocca chiusa quando il capitano è nei paraggi, o finirete nell’equipaggio della Silenzio” ringhiò Rordan, ponendo fine alla conversazione. La Silenzio era la nave lunga comandata dal re, il quale aveva personalmente strappato la lingua a tutta la ciurma. Giravano strane voci e mille leggende al riguardo, ma la giovane sospettava che si trattasse di dicerie messe in giro apposta dal sovrano per mantenere un’aura di mistero e ispirare terrore nei sudditi.
Kein non si rattristò minimamente per la dipartita di Rordan. Era un buon marinaio, abbastanza abile con la spada e sempre disponibile nei suoi confronti, ma non c’era nulla in lui che la attraesse e spesso la sua compagnia diventava pesante e sgradita. E, comunque, ormai era il tramonto e loro stavano per attraccare.
 
§§§
 
Appena varcata la soglia, Kein intuì che qualcosa non andava. Si era sbagliata: non erano Joryn e Ullen i due ragazzini che aveva scorto da lontano, mentre la Tritone effettuava le manovre di ormeggio, ma due piccoli venditori di mitili che, al suo arrivo, ancora stazionavano nei pressi della locanda, cercando di smerciare la loro mercanzia agli avventori. Le si erano avvicinati, speranzosi, vedendo la mezzaluna crescente insanguinata ricamata sulla sua giubba viola e Kein aveva sborsato un paio di spiccioli per una rete di cozze prima di entrare in casa.
La cucina era insolitamente buia, il focolare spento e la piccola finestra di legno che dava sulla strada era sprangata. A quell’ora, normalmente, Riona sarebbe stata intenta a preparare la cena aiutata dalla figlia minore, mentre i ragazzi avrebbero spaccato la legna in cortile o fatto qualche commissione. Quel giorno, invece, non giungeva alcun rumore né dall’esterno né dal piano superiore. Kein controllò il cortile: non c’era nessuno, così si accinse a salire. Istintivamente, estrasse un piccolo pugnale affilato che teneva legato ad una coscia e si diresse di sopra. C’erano soltanto due stanze: quella dei bambini e quella che Kein divideva con la madre e Ciara quando era a terra. L’uscio della prima era spalancato e l’interno appariva vuoto, a parte il rozzo giaciglio e i bauli che contenevano i pochi averi dei suoi fratelli. Kein spinse con delicatezza la porta della seconda stanza, il pugnale stretto nella sinistra, il braccio nascosto sotto al mantello, pronto a scattare in una parabola ascendente che avrebbe aperto all’istante la gola del nemico. Ma tutto ciò che vide fu il viso terrorizzato di Ciara che, udendo lo scricchiolio dell’uscio scostato, era balzata in piedi, la piccola mano a sua volta stretta attorno alla daga affilata che Riona era solita tenere sotto il cuscino. Quando si avvide che l’intruso era semplicemente la sorella maggiore, la piccola lasciò cadere l’arma e corse a rifugiarsi tra le sue braccia, in lacrime. Kein la strinse a sé cercando di tranquillizzarla e di comprendere le parole che le uscivano dalle labbra mescolate a singhiozzi e singulti. Mentre le accarezzava i capelli, cullandola dolcemente, lo sguardo le cadde sul pagliericcio che fungeva da giaciglio. Vi era sdraiata una figura, accartocciata su se stessa, avvolta in una rozza coperta.
“Mamma?” chiamò Kein. La donna cercò di tirarsi a sedere, ma ricadde quasi subito sul guanciale, esausta. Kein allontanò delicatamente Ciara e si accostò alla madre. Un nodo di rabbia le chiuse la gola quando la donna volse il viso verso di lei: l’occhio destro era completamente chiuso, tumefatto, la pelle violacea e slabbrata dove era stato inferto il colpo. Le labbra erano aride, fessurate, lo zigomo sinistro spaccato da un altro colpo. Ciocche dei lunghi capelli ramati erano state completamente strappate e il cuoio capelluto sottostante era incrostato di sangue rappreso.
“Quando è successo?” chiese Kein.
“Questa notte” rispose Ciara che, nel frattempo, si era eroicamente asciugata le lacrime e aveva ripreso il suo posto al capezzale della madre.
“Dove sono i ragazzi?”
“Joryn a cercare un guaritore. Ullen…” la piccola si interruppe. Kein si voltò e vide che si stava tormentando un labbro, come faceva sempre quand’era agitata.
“Ciara, dimmi dov’è Ullen” ordinò. “Non mi arrabbierò, promesso”, aggiunse, scuotendo la testa.
“Ha detto che uccideva quell’uomo. Ha preso la spada di Roan, poi è andato al bordello e ha chiesto se qualcuno lo aveva visto… ha detto a tutti che lo ammazzava, ma gli uomini hanno riso di lui e la padrona lo ha cacciato via in malo modo… allora ha detto che andava alla locanda, per vedere se quello era andato a sbronzarsi… ma non è più tornato. Me lo ha raccontato Joryn prima di andarsene anche lui… Sono ore che sto qua da sola con la mamma. Kein, meno male che sei tornata, ho tanta paura!” disse d’un fiato la piccola.
“Non preoccuparti, vado a cercarlo. Vedrai che Joryn sarà qui presto con il guaritore. Nel frattempo accendi il fuoco e scalda un po’ d’acqua. Prendi un panno pulito e tamponale le ferite. Devi togliere il sangue per bene e lavargliele perché non facciano infezione, farle degli impacchi di vino caldo. Quando torno vedrò se c’è da dare qualche punto. Poi…”.
“Niente punti” si intromise Riona, con un filo di voce, riprendendosi per un momento.
“Mamma, chi è stato? Lo conosco? È un cliente abituale o uno di passaggio?”
“Passaggio…”
“Sai come si chiama? Riesci a descriverlo?” domandò, concitata, ma Riona perse di nuovo i sensi.
Kein strinse le labbra. Sentiva il furore montarle dentro, come la marea prima della tempesta. Il sangue le scorreva più velocemente nelle vene, lo sentiva pulsare sulle tempie e nel collo.
“Quando avrai pulito le ferite tamponale con impacchi di camomilla e ortica. Sai riconoscere queste erbe, vero?” chiese a Ciara, che annuì. “Brava bambina!” la lodò. “Sta’ tranquilla, mamma guarirà presto. Farò ritorno prima dell’alba, te lo prometto. Intanto cerca di farle mangiare qualcosa… e dalle da bere del vino caldo” disse. Poi, si precipitò giù per le scale.
§§§
 
Riona aveva perso la verginità a dodici anni con un cliente di nobili natali del quale non aveva mai voluto rivelare il nome alla figlia. Kein sapeva soltanto che si trattava di un uomo molto bello e di alto rango, un grande pirata e un grande amatore che aveva piantato il suo seme nel corpo di sua madre quella notte stessa. Era difficile sapere se questa parte della storia fosse vera o meno, perché Riona da quella sera aveva iniziato la sua carriera di prostituta e Kein non poteva avere la certezza di essere figlia di quel nobile o, al contrario, di uno dei mercenari, pescatori e contrabbandieri che si erano sollazzati con sua madre nelle settimane successive. Quand’era molto piccola sognava ad occhi aperti che un giorno il padre sarebbe tornato dal lungo viaggio intorno al mondo che lo aveva tenuto impegnato negli ultimi anni. Avrebbe chiesto di Riona, che non aveva mai dimenticato nonostante le numerose donne che aveva conosciuto nelle sue scorrerie, e al bordello gli avrebbero detto che viveva nella casetta accanto alla locanda della Gogna con una bambina dai lunghi capelli neri e gli occhi d’oro liquido. Non appena l’avesse vista, il lord avrebbe capito che si trattava di sua figlia e le avrebbe condotte con sé nel suo castello. In quei sogni ad occhi aperti, sua sorella Wynne veniva sempre regalata alla proprietaria del bordello, perché lei non era figlia del nobile signore, ma di un qualche disgustoso contrabbandiere.
Col tempo, Kein aveva imparato ad amare Wynne e aveva abbandonato la speranza di conoscere suo padre. Poi era arrivato Roan e il tempo dei sogni era finito. A soli sei anni, Kein era responsabile della casa, del cibo, della cura dei fratelli. Riona aveva continuato a vendersi agli uomini, perché non sapeva fare altro. Inoltre era molto bella e i clienti la pagavano qualche spicciolo in più rispetto alle altre ragazze. La maggior parte di loro la usava e basta, come un oggetto, ma capitava che qualche lord generoso le donasse un gioiello, o del cibo per i bambini. Alcuni, però, erano violenti. Arrivavano al bordello ubriachi, o incattiviti perché il bottino dell’ultima razzia non era stato spartito equamente, arrabbiati perché la moglie di sale gli era stata rubata da un marinaio più giovane e forte o per mille altri motivi e se la prendevano con le puttane. Le possedevano rudemente, afferrandole per i capelli mentre le penetravano da dietro, o le obbligavano a giacere con due uomini per volta. A volte si accontentavano di questo, altre volte si sfogavano riempiendole di botte. Certi bordelli potevano permettersi di pagare degli uomini che sedassero le risse e proteggessero le puttane, ma la maggior parte dei gestori preferiva risparmiare quel denaro e gettare per strade le puttane nel caso che un cliente le rendesse inservibili.
In ventidue anni di attività quasi continuativa, Riona si era presa la sua bella dose di percosse. Normalmente riusciva a proteggersi il viso e a cavarsela con qualche livido sulla schiena, il seno e le cosce, anche se in un paio di occasioni le avevano spaccato il labbro o un sopracciglio. In quei casi aveva investito i soldi che sarebbero dovuti servire a sfamarli per l’intera settimana per pagare un guaritore che le sistemasse i connotati senza lasciare cicatrici. Mai, però, l’avevano ridotta come questa volta. Mentre correva verso lo Scudo Spezzato, una bettola di quart’ordine ai margini della città, Kein si domandò come avrebbero tirato avanti senza il denaro guadagnato dalla madre. Era stata al bordello, dove le avevano detto che Riona avrebbe fatto meglio a non ripresentarsi al lavoro dopo la piazzata di Ullen. A quanto pareva il giovane si era presentato con l’acciaio in pugno ed era entrato in tutte le stanze alla ricerca del bastardo che aveva colpito la madre fino a quando uno dei clienti lo aveva alzato di peso e sbattuto in strada senza tanti complimenti. Kein ne aveva seguito le tracce, chiedendo informazioni alla taverna accanto al bordello – quella alla quale Ullen si era recato dopo essere stato cacciato, prima di separarsi da Joryn – e poi alla successiva fino ad arrivare nella zona più malfamata di Lordsport. “Dovrà imbarcarsi” pensò Kein, in ansia, immaginando Ullen con la spada di Roan in pugno mentre affrontava un uomo grosso il doppio di lui. Aumentò l’andatura. Il sole era calato quasi del tutto e quella zona della città era particolarmente buia.
Al Granchio di Ferro aveva incontrato Rordan con alcuni compagni che, già sbronzo, cantava a squarciagola una canzonaccia da osteria. L’aveva presa per un braccio e attirata a sé, ma Kein era stata lesta a liberarsi dalla presa. Se si fosse trattato di un altro, lo avrebbe colpito con tutte le sue forze, ma da Rordan sapeva di non aver nulla da temere. Inoltre, erano compagni e non voleva metterlo in ridicolo di fronte al resto dell’equipaggio.
“Non ho tempo ora” gli aveva detto, con urgenza. “Sto cercando mio fratello. Mi hanno detto che è venuto qui, lo hai visto?”
“Il maggiore? Sì, è passato prima. Era in cerca di un tipo, uno con uno stemma nero e arancione, mi sembra”
“Nero e arancio… e il simbolo? Te lo ricordi il simbolo?”
“Non saprei, non ho fatto molto caso a quel che diceva. Era incazzato nero, il ragazzino, che gli è successo?”
“Lascia perdere.” Kein aveva tirato fuori una moneta d’argento e l’aveva sbattuta sul tavolo. “Questa per chi mi sa dire che cosa rappresentava il simbolo di quell’uomo! E dove si è diretto il ragazzino!”
La vista dell’argento aveva sciolto la lingua a parecchi marinai che stavano bevendo con Rordan: l’uomo che Ullen stava seguendo portava un farsetto con la sagoma nera di una nave in mare sullo sfondo di una luna rossa in campo arancio e si era diretto allo Scudo Spezzato da non molto, seguito a ruota dal fratello minore.
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I Farwynd di Stella Solitaria erano stati derisi all’Acclamazione del Re. Lord Gylbert si era presentato con i suoi tre figli come campioni. Aveva promesso di guidare gli uomini di ferro verso le terre oltre il Mare del Tramonto, dove ogni uomo sarebbe potuto essere re e ogni donna regina. I suoi doni però era poveri e le sue erano parole di un pazzo, così la sua pretesa al trono era stata ignorata. Da allora, la casata aveva perso lustro ed era raro che un Farwynd si facesse vedere a Pyke. Eppure, la descrizione del vessillo coincideva perfettamente.
“Non è una buona idea mettersi contro un nobile, anche se è una mezza tacca come i Farwynd” pensò Kein, una volta giunta davanti alla porta della locanda. Da dentro provenivano grida di incitamento e la giovane temette di essere arrivata troppo tardi. Spalancò l’uscio e le sue narici furono investite dall’aria viziata e fumosa della stanza. L’odore di corpi si mescolava a quello delle pietanze, dell’urina e del vino di poco prezzo che qualcuno stava rigettando in un angolo. Kein represse un conato di vomito e si fece largo tra gli uomini che, in circolo, stavano assistendo allo spettacolo. Un ubriaco cercò di trattenerla, ma lei se ne liberò con facilità. Sgomitò fino alla prima fila e i suoi timori si concretizzarono. I tavoli e le panche erano stati spostati per fare posto ai due contendenti che si trovavano ora al centro dell’ampio locale; il cavaliere era alto almeno sei piedi, muscoloso, equipaggiato con una spada lunga a due mani. I suoi occhi erano grigiazzurri, un colore indefinibile, mutevole. Kein aveva già visto occhi di quel colore, all’Acclamazione. “Dannazione” imprecò tra sé “Il bastardo non è un semplice Farwynd… è lord Ygon, l’erede di Gylbert”.
Suo fratello, al confronto, pareva un fantoccio da allenamento. “Sarebbe già morto da un pezzo se Ygon fosse stato sobrio” si disse, ma l’uomo era evidentemente in preda ai fumi dell’alcool. Ullen gli danzava attorno, entrambi i pugni stretti attorno all’elsa della spada d’armi. Aveva imparato da tempo che quel tipo d’arma andava brandita soltanto con la mano destra, ma pareva che, nella tensione del momento, se lo fosse scordato. Ygon lo guardava con gli occhi socchiusi e un’espressione stolida dipinta sul volto. Sorrideva con quello che voleva essere un ghigno furbo e sprezzante, ma a Kein parve un completo idiota. Decise di farsi avanti.
“Ora basta!” gridò, sgusciando dall’abbraccio fetido della folla.
Udendo la sua voce, Ullen si voltò di scatto. Sul suo volto, sollievo e rabbia si mescolarono in un’espressione strana, che gli distorse i lineamenti.
“Sorella!” rispose “Quest’uomo ha picchiato selvaggiamente nostra madre! Sono venuto a vendicarla!”
“Così sei figlio di quella puttana! Ora capisco!” ringhiò Lord Farwynd, poi scoppiò a ridere. “Non scopa granché bene la tua mammina, lo sapevi?”
Ullen gli si avventò contro, ma Ygon parò facilmente il fendente. Il ragazzo moltiplicò gli attacchi, ma l’avversario continuava a ridere e a respingerlo.
Kein strinse i denti. Per il momento Lord Ygon era divertito dalla tenacia di Ullen, ma presto si sarebbe stancato del giocattolo e lo avrebbe fatto a pezzi. Portò la mano dietro la schiena ed chiuse il pugno attorno all’elsa della spada. I polpastrelli incontrarono la testa di falco e il tocco la fece sentire immediatamente più a suo agio. Sguainò la spada bastarda e si mise tra i due contendenti approfittando di un momento in cui suo fratello si era allontanato per prendere fiato.
“Lord Ygon” lo blandì “Non c’è onore per un cavaliere del tuo rango e della tua stazza nel combattere con un ragazzino a cui ancora non cresce la barba”.
“Da quando i bastardi figli di puttana come te sanno cos’è l’onore?” le sputò in faccia quello, di rimando, mettendosi in posizione di combattimento. Di colpo non appariva più divertito, anzi. “Vuoi prendere il posto del bamboccio? Accomodati. Quando avrò finito con te mi farò una scopata gratis. Me la merito dopo il misero servizio che mi ha fornito vostra madre e tu non sei niente male.”
Detto questo la attaccò, con rabbia. Kein alzò la spada per parare il fendente, appena in tempo. Vinse la prova di forza e riuscì a respingere l’avversario solo perché quello, dopo una giornata intera passata a tracannare vino e birra, era rallentato. Riacquistò l’equilibrio e si mise fuori portata. Ullen tentò di rimettersi in gioco ma lei lo allontanò con fermezza.
“Voglio vendicare la mamma!” le sussurrò, la voce resa roca dalla rabbia, attento a non farsi sentire, ancora rossi in viso per gli scherni subiti.
“Togliti di mezzo o finiremo tutti e due nelle sale del dio Abissale!” reagì lei.
Lord Ygon ne approfittò per rinnovare l’attacco e di nuovo Kein riuscì a sottrarsi per un soffio al bacio dell’acciaio. “Devo sfinirlo” pensò. Il suo vantaggio in combattimento era sempre stata l’agilità. Era flessuosa come un giunco, estremamente rapida e precisa. Contro la forza bruta di un uomo alto sei piedi e pesante il doppio di lei, l’unica salvezza era renderlo lento e stanco e poi finirlo.
Kein iniziò quindi una danza con l’avversario in cui lasciava che l’altro le si avvicinasse ma mai a sufficienza. L’acciaio la sfiorava senza procurarle danni e Ygon cominciava a stancarsi di riconcorrerla. Il suo fiato rancido si stava facendo pesante e gli occhi dal colore mutevole lanciavano lampi d’ira e di odio. Fortunatamente Ullen si era fatto da parte anche se reggeva ancora la sua spada, pronto a venirle in soccorso. Il pubblico rumoreggiava e Kein temeva che da un momento all’altro si sarebbero stancati di quel noioso spettacolo e sarebbero intervenuti in qualche modo per ravvivarlo. Dubitava che in suo favore.
Passò quindi al contrattacco: impugnando la spada solo con la mano destra iniziò a menare colpi in rapida sequenza, tentando di sbilanciare l’avversario. Si portò la sinistra alla coscia, dove teneva il pugnale: se si fosse riuscita ad avvicinare a sufficienza glielo avrebbe potuto piantare nel collo. Funzionò: lord Ygon, spiazzato dal repentino cambio di strategia della ragazza, perse l’equilibrio. Gli uomini che assistevano al combattimento si spostarono in tutta fretta per non venire travolti, e il cavaliere finì col sedere per terra. Imbestialito si rialzò e partì nuovamente all’attacco, ma la rabbia lo aveva reso troppo imprudente e Kein lo schivò facilmente. Sferrò quindi un altro attacco, passò sotto alla sua lama e riuscì a rifilargli una stoccata precisa e abbastanza vigorosa da aprirgli una ferita sulla coscia sinistra mentre il fendente di lui l’aveva appena sfiorata. La gamba gli cedette e l’uomo cadde in ginocchio. Kein alzò la spada, ma il rischio che un montante del nemico le aprisse il ventre era troppo alto, perciò colpì lateralmente, mantenendo le braccia adese al corpo. Ygon parò e tentò di rimettersi in piedi, ma la ferita alla coscia sanguinava copiosamente e appariva più profonda di quanto non fosse sembrata inizialmente. Ormai era malfermo sulle gambe e ogni nuovo colpo di Kein lo sfiancava sempre più. Sembrò rendersene conto perché raccolse tutte le sue forze per sferrare l’attacco finale. Caricò tutto il suo peso e colpì: anche se le fosse crollato addosso poco importava, lei nel frattempo sarebbe stata infilzata dalla lama e il combattimento avrebbe avuto termine. Ma Kein lesse le sue intenzioni nelle iridi grigiazzurre e si spostò lateralmente appena in tempo. Mentre Lord Farwynd alzava le braccia, la giovane impugnò la spada bastarda con entrambe le mani e ne affondò l’acciaio nella carne del fianco. La lama, ben affilata, affondò facilmente e Ygon cadde a terra, riverso. Kein estrasse la spada, poggiando un piede sulla schiena dell’avversario. Mentre tirava, sentì il rumore di una costola che si spezzava. Le grida di incitamento, ora, erano cessate e nel silenzio si udiva solo il rantolo di agonia dell’uomo che stava affogando nel suo stesso sangue.
Kein lo girò, supino. I suoi occhi si stavano spegnendo, ma ancora mandavano lampi d’odio.
“Ullen!” chiamò, e il fratello le si avvicinò. “Quest’uomo ha colpito nostra madre e noi lo abbiamo vendicato”.
“Io non…” balbettò il ragazzo, che aveva perso tutta la sua baldanza.
“Tu lo hai trovato e lo hai affrontato. Ora finiscilo.”
Neanche tutte le divinità dei Sette Regni avrebbero potuto salvare lord Farwynd, Kane lo sapeva. Ma voleva che Ullen imparasse la lezione. Doveva avere il coraggio di finire ciò che aveva iniziato, altrimenti non sarebbe mai stato un uomo di ferro. Il ragazzo annuì, afferrò la spada e la l’alzò sopra la testa per caricare il colpo.
“Fallo! Ora!” gridò Kein.
Con un grido di rabbia e dolore che Kein non avrebbe mai dimenticato, Ullen calò con tutte le sue forze la spada che andò a conficcarsi dritta nel torace del cavaliere caduto.
Il corpo di Lord Ygon ebbe un sussulto, poi giacque, immobile.
“Vieni Ullen” disse Kein “Andiamo a casa”.

 

SHIN

Pyke, le Isole di Ferro, i Greyjoy… nomi temuti ed odiati da generazioni nel Continente Occidentale. Le scorribande, le razzie, le continue ribellioni e, infine, l’indipendenza.
Mentre la nave fendeva le acque grigie e fredde della Baia, gli ritornarono in mente le storie che gli raccontava la sua nutrice Ygdra quando era bambino, alla tremula luce delle candele, in notti senza luna. Quelle storie parlavano di uccisioni, stupri, del marchio di sangue, fuoco e ferro che i pirati lasciavano sulle coste, delle urla di terrore e disperazione che accompagnavano le loro imprese. Il motto dei Greyjoy, il culto del loro dio Abissale e il simbolo del loro vessillo, la piovra dorata in campo nero, avevano popolato i suoi incubi di fanciullo. Dall’alto delle mura del suo castello, volgeva spesso lo sguardo verso il mare, temendo e, allo stesso tempo, quasi sperando di vedere le ombre farsi legno e vela, le paure farsi carne e sangue. Ne aveva terrore, eppure, in un certo modo strano ed inquietante, ne era attratto.
“È trascorso tanto tempo… cinque lustri, almeno. E ora la vita conduce i miei passi verso queste isole da incubo.”
La dolce brezza faceva ondeggiare quel che restava del manto da guardia reale, sdrucito, consunto. Della purezza originaria rimaneva ben poco come dell’uomo che lo portava: un’armatura incrostata di salsedine, stivali logori, il viso emaciato, la barba lunga ed ispida, più che l’appartenente ad una nobile casata, più che un alfiere dei Lannister, più che Shin della casa Estren, sembrava un naufrago, un vagabondo, un altro dei ratti che infestavano Fondo delle Pulci. Il quartiere più malfamato di Approdo del Re… popolato da tagliagole, ubriaconi, assassini, vecchi, puttane che soltanto un reietto avrebbe potuto trovare appetibili. “Le Isole di Ferro non possono essere peggio di così”.
“Siamo arrivati, mio signore”. Come un’eco lontana e distorta, la voca roca e beffarda del capitano di quel legno marcescente che lo aveva traghettato dalla Capitale a Pyke, lo riportò alla realtà.
Senza voltarsi, lasciò cadere sul ponte le ultime monete che gli restavano. “Che se le tenessero, a me ormai non servono più. Probabilmente finirò accoltellato appena sceso a terra, spoglieranno il mio cadavere, che sarà gettato in un fosso, o, se sono devoti, in mare”.
Vivere, morire, che differenza c’era ormai? Il suo nome, il suo onore, qualsiasi speranza, barlume di umanità erano lontani molte leghe, uno sconfinato oceano lo separava dall’uomo che era stato.
Soltanto una cosa gli impediva di gettarsi da una rupe, o tagliarsi le vene, anche se sempre più spesso il dolce e freddo abbraccio dell’acciaio sulla pelle occupava i miei pensieri. Tra le ceneri della sua anima bruciava ancora un tizzone: il desiderio di vendetta, contro chi lo aveva reso questa pallida ombra, questo fantasma senza vita che vagava per il mondo. Un desiderio che consumava ogni stilla del suo essere, ultima luce negli occhi spenti che guardavano un mondo diverso, ostile, un mondo che era sorto dopo la Lunga Notte.
Forse sarebbe stato meglio se quell’alba non fosse mai venuta…
Pyke, una fine o un nuovo inizio. “Un posto vale l’altro per chi non possiede più nulla…”

 

YOHAN

Il sole stava tramontando e i suoi raggi irradiavano tutto l’orizzonte sfumando il cielo dal giallo all’azzurro chiaro, che ancora non aveva ceduto il posto al blu. L’oscurità, invece, iniziava ad impossessarsi sempre di più del mare, le cui onde accarezzavano le fiancate di una piccola nave dai lineamenti orientali, che, veloce e silenziosa, navigava inseguita lontano da quella che sembrava essere una pinna di squalo. Quella nave era “Luce Solitaria” che si inoltrava, clandestina, nel Mare del Tramonto, campo di guerra della Flotta di Ferro, le cui navi lunghe predavano e saccheggiavano, incontrastate, le coste toccate da quelle onde. Ma questo era un lontano ricordo del capitano della piccola nave, che ancora viveva i giorni in cui il suo comandante aveva bruciato le navi all’ancora di Lannisport.
La sua vita era cambiata da allora. Il crudele Dio Abissale, anni or sono, aveva fatto naufragare la nave in cui era imbarcato, la Silenzio, lo aveva allontanato da Euron Greyjoy, e con la stessa crudeltà lo aveva anche annegato, ma poi riportato in vita, il tutto per farlo diventare un pirata e un contrabbandiere del Mare dell’Estate. Strano umorismo aveva Colui che abita sotto le onde, prima lo aveva reso un annegato e poi un trafficante, un ladro che nulla paga con il ferro. Ciò nonostante la pirateria e il contrabbando, tra le città libere e la baia degli schiavisti, erano una preda troppo facile da lasciarsi scappare, anche se si è nati “Uomo di Ferro”. Almeno fino all’arrivo della regina dei draghi, la cui insensata politica aveva fatto crollare i guadagni di uomini di mare come lui.
Gli anni erano passati lentamente tra un bordello di Volantis e una taverna di Lys, dove, tra i fiumi di dolci vini di Essos, era venuto a sapere che Euron era Re della sua terra natia. Poteva finalmente tornare a casa, sotto il comando del suo capitano. Quella sera, le troppe bugie che aveva sentito durante il viaggio, lo tenevano sveglio: uomini di ferro sconfitti dai draghi, uomini di ferro deboli, uomini di ferro ridotti a saccheggiare poveri villaggi di pescatori, uomini di ferro spesso messi in fuga da truppe reali. Continuava a ripetersi che erano tutte menzogne e che presto avrebbe scoperto essere misere dicerie di pazzi.
L’isola di Arbor era già stata doppiata da giorni. Quella notte, se il Dio Abissale fosse stato clemente, avrebbe potuto vedere Lannisport e, infine, superata Isola Bella, giungere a Pyke. Preso da questi pensieri, Yohan non si era accorto che il cielo era di un arancione acceso e il sole, ora, era una enorme sfera rosso fuoco che cingeva il nero profilo della sua nave, fusa a sua volta alle oscure onde increspate del mare: il tramonto aveva reso quel contesto la raffigurazione vivente dello stemma della sua famiglia, la Casa Farwynd di Luce Solitaria.
Due isole si profilavano all’orizzonte. Non era ancora l’alba, ma attraverso leggeri banchi di nebbia, la prima luce del mattino già tentava di illuminare l’isola più grande delle due, Pyke, sede del Re. A ovest dell’altra isola, SaltCliff, una piccola nave, non lontano dalla costa, cercava di passare inosservata. Gli occhi più indiscreti avrebbero visto una comune navigazione di cabotaggio di pescatori o mercanti, troppo codardi per avvicinarsi a quelle coste di pirati. Non era diretta a Saltcliff, né a Lordsport, il villaggio portuale di Pyke, bensì a Grande Wyk, l’isola più grande dell’arcipelago delle Isole di Ferro. Lì vi erano le sedi delle famiglie Farwynd. A Punta di Pelle di Foca, in particolare, c’era il seggio del ramo principale della casata. Le spiagge più occidentali dell’isola ospitava, invece, le sedi dei rami cadetti. Tra queste, una piccola casupola in rovina di proprietà dei Farwynd di Luce Solitaria, che usava quelle quattro mura di pietra solo in quelle rare volte in cui dovevano raggiungere la capitale. Questo perché il loro seggio era nell’isola più piccola e remota dell’arcipelago, a otto giorni di navigazione. Era la terra più occidentale di tutto il mondo conosciuto, sebbene, nelle leggende di famiglia, si raccontasse che oltre il Mare del Tramonto ci fosse una terra senza inverno, senza morte e dove tutti potevano essere re e regine. Favole per bambini a cui la sua famiglia dava molta importanza, tanto che i parenti stessi additavano il capostipite di quel ramo cadetto come persona strana, e tutti gli uomini di ferro alla stregua di un folle. Folle come lo Stark che si era dato alla navigazione verso ovest e che non fece mai più ritorno.
Yohan era stato fortunato a crescere diverso dal padre e dai suoi tre fratelli, tutti magri e sbarbati. Caratteristiche che da giovane gli avevano permesso di confondersi più facilmente in mezzo ai brutali uomini di ferro. L’unica somiglianza con la famiglia erano gli occhi ora grigi ora blu, mutevoli come il mare, occhi che, insieme a una lunga e folta barba nera, aggravavano l’espressione cupa e pensierosa del suo volto.
Aveva nascosto la nave in una delle tante grotte che si aprivano lungo le scogliere dell’isola, pagato e lasciato andare la sua misera ciurma orientale, che, con ogni probabilità, alla ricerca di qualche bordello, sarebbe stata uccisa da qualche uomo o donna di ferro. Non avrebbero mai avuto la forza di resistere in mezzo a una popolazione tanto bestiale. D’altro canto a Yohan non importava. Aveva visto tanti compagni passare sotto i suoi ordini e con nessuno aveva mai legato, anche perché la maggior parte era stata reclamata dal Dio Abissale. Preferiva la solitudine o la compagnia di una giovane prostituta. La vita, da pirata e contrabbandiere, gli aveva concesso tutto ciò. Gli stravolgimenti politici del mondo, però, lo avevano spinto a tornare alla sua patria.
L’abitudine da ladro, di informarsi prima del quadro generale e solo poi di agire, non l’aveva abbandonato. A Punta di Pelle di Foca avrebbe potuto conoscere sia gli avvenimenti storici della Lunga Notte, che conosceva solo tramite quelle che sembravano leggende e miti, sia la situazione della sua famiglia. Solo dopo un paio di giorni, senza mai dare nell’occhio, si ritenne soddisfatto di ciò che aveva appreso. Decise quindi, con una strana eccitazione, né felice, né infelice, semplicemente diversa da quelle che aveva provato sino ad allora, di raggiungere Lordsport, che raggiunse una delle sere seguenti.
Quando arrivò al porto del villaggio, fu colpito dallo stemma della sua famiglia su di una nave all’ancora, intorno alla quale erano radunati parecchi uomini. Situazione probabilmente dovuta all’omicidio del fratello Ygon, ucciso pochi giorni prima. La sua morte faceva del suo terzo fratello, Yohn, il lord di Luce Solitaria. Forse si trovava in mezzo a quegli uomini, e si stava preparando per il processo ormai incombente.
Improvvisamente, il suo sguardo passò oltre, all’imponenza delle torri che si stagliavano davanti a lui, la Fortezza di Pyke, dove risiedevano i Greyjoy. La maestosa oscurità del forte era impreziosita dalle luci delle torce che rendevano più minacciosa quella fortezza arroccata su tre alte isole rocciose. Quello spettacolo di grandiosità, non impedì ad un suo lontano e orribile ricordo di scaturire dalla sua mente, quando durante la Ribellione dei Greyjoy, un prete pazzo e ubriaco, con una spada infuocata, entrato per primo attraverso quelle mura, segnava l’inizio della fine.
 

 

KEIN

La cella era gelida, umida e buia. Kein udiva le onde infrangersi contro la base della Torre, incessanti e rabbiose. Dopo una settimana chiusa in quell’antro le pareva ormai di udire l’erosione della roccia ad opera della marea: un fruscio costante, inclemente, che presto, pensava, l’avrebbe condotta alla follia.
Un tempo il castello sorgeva su un unico, grande sperone di roccia aggettante sul mare. Ci erano voluti secoli perché le acque lo erodessero, separando così le Torri che, ora, erano situate su tre piccole isole e collegate le une alle altre da ponti di pietra o di corda. Le prigioni si trovavano alla base della Grande Fortezza, sull’isola principale. Alcune celle erano sotto il livello del mare, piantate nel cuore della roccia, altre, come quella di Kein, erano dotate di minuscole feritoie attraverso le quali le onde sputavano gelidi schizzi di schiuma. Quel giorno la cella era praticamente invasa dall’acqua e Kein era fradicia e indolenzita. “Il dio della Tempesta e il dio Abissale stanno combattendo” pensò, ma era solo per distrarsi. Aveva abbandonato la fede alla soglia dell’età adulta, quando aveva capito che gli dei, ammesso che fossero esistiti davvero, avevano ben altro a cui pensare che prestare ascolto alle preghiere degli uomini. Ma le erano rimaste nella memoria le storie e le leggende che la madre le raccontava da piccola per farla addormentare e che lei stessa aveva raccontato mille volte ai suoi fratelli. I suoi fratelli… Il pensiero di Ullen fu come una stilettata al cuore. Si sentiva responsabile per quanto gli era e gli sarebbe accaduto, il senso di colpa era potente e instancabile come le onde che s’infrangevano contro la Torre e le stava erodendo la ragione. Durante i primi giorni di prigionia, nella sua mente si erano accavallati mille pensieri, strategie difensive, piani di evasione, appelli alla clemenza, ma ora la cupa disperazione di chi sa di aver causato il male di una persona amata aveva preso il sopravvento. Non era la prima volta che Kein si sentiva invasa da quella sensazione. Già due anni prima aveva rischiato di impazzire. “Ho sulle mani il sangue di Roan. Mio dio fa’ che non si aggiunga anche quello di Ullen”. Erano anni che non pregava, ma non le era rimasto altro a cui aggrapparsi. “Morirei per lui, tu lo sai. Lascia che viva e io sarò la tua rematrice per l’eternità”. Sul volto le scorreva acqua salata che le scendeva lungo le guance e giù per il mento. Si passò la lingua sulle labbra fessurate dal freddo e dalla salsedine. Il sapore non era quello del mare. Il sapore era quello delle lacrime.
§§§
Era il tramonto.
Il guaritore aveva suturato le ferite più profonde e applicato impacchi sulle tumefazioni. Aveva detto che la cartilagine del naso e l’osso dello zigomo erano rotti: il volto di Riona non sarebbe mai più stato quello di un tempo. All’udire quelle parole, la donna aveva avuto una crisi isterica ed era stata sedata con una generosa dose di latte di papavero. Kein aveva pagato il guaritore e gli aveva promesso altre monete se fosse passato nei giorni successivi a controllare Riona e quello se n’era andato contento.
Accanto al focolare, Ciara rimestava una zuppa di pesce mentre Ullen raccontava a Joryn di come Kein avesse combattuto coraggiosamente contro il cavaliere. ““Lord Ygon”, gli ha detto, “ti aprirò in due come una cozza!” e poi ha preso la spada e zac! lo ha trafitto!” stava dicendo, mimando il tutto con un pezzo di legno da brace che mulinava nell’aria “Ma quello non ne voleva sapere di crepare, così mi ci sono messo pure io, ho preso “Terrore dei mari” e ho finito quel dannato bastardo!”
“Credevo che ieri notte avessi imparato qualcosa, Ullen” lo redarguì Kein in un sussurro. Non serviva alzare la voce con i suoi fratelli, anzi, sapevano bene che la calma della giovane era foriera di guai. “Non prendere più la spada di Roan e non darle nomi idioti, ci siamo intesi?”
“Aye” assentì il ragazzo chinando il capo.
“Com’è andata veramente?” si intromise Joryn.
“È andata che l’imbecille di tua sorella ha fatto fuori il lord di Luce Solitaria” ringhiò Kein, prendendosi tra le mani la testa che pulsava dolorosamente. Non dormiva qua quarantotto ore ed era allo stremo.
“Ma aveva fatto del male alla mamma! E ci ha trattati di merda, solo perché non siamo nobili! Meritava di morire, sono contento che me l’hai lasciato ammazzare!” si inalberò Ullen.
“Taci!” fece Kein alzandosi in piedi e battendo un pugno sul tavolo. “Che io sia maledetta! A chiunque lo chieda, io ho ucciso quell’uomo, siamo intesi? Tu non c’entri nulla!”
“Ma alla locanda hai detto…”
“Non capisci? Hai affrontato il nemico da uomo, e da uomo volevo che concludessi il lavoro. Ma non c’è bisogno che qualcun altro ne venga a conoscenza. I bifolchi alla locanda erano ubriachi marci, probabilmente nessuno ricorderà cosa è successo questa notte. Ma se qualcuno venisse a chiedere ragione dell’accaduto, l’unica a dichiararsi responsabile sarò io, hai inteso bene?”
“Ma perché?” strillò Ullen, quasi con le lacrime agli occhi.
“Perché la pena per un plebeo che uccide un nobile è la morte per annegamento” rispose Joryn, in un soffio.
Ciara aveva smesso di mescolare la zuppa e si era voltata, gli occhi spalancati di paura.
“Uccideranno Kein?” domandò, terrorizzata.
Il silenzio calò nella piccola cucina. Per qualche istante nessuno seppe cosa dire. Poi, dal piano superiore, si udì un gemito.
“Ciara, vai a vedere se la mamma ha bisogno di qualcosa” ordinò Kein. “Dille che più tardi le porterai della zuppa di pesce e dell’altro latte di papavero. Da brava” aggiunse e la bambina trotterellò ubbidiente su per le scale.
“Che cosa faremo, Kein?” chiese Joryn.
“Sinceramente, non lo so proprio” rispose Kein, abbattuta. Ogni minuto che passava sentiva sempre più di aver commesso una tremenda idiozia. Certo, il bastardo meritava di morire; certo, nessun uomo di ferro avrebbe accettato un tale affronto senza cercare vendetta. Eppure era altrettanto certo che la sua posizione, ora, era terribilmente precaria. A parte gli ubriachi allo Scudo Spezzato, c’erano decine di testimoni per tutta Lordsport che avevano visto il ragazzino andare in cerca di Lord Ygon con propositi bellicosi e, a ruota, la stessa Kein. Perfino i suoi compagni sapevano…
In quel momento, qualcuno bussò alla porta. Kein si portò d’istinto la mano alla coscia dove teneva il pugnale. Joryn si precipitò a prenderle la spada, Ullen alzò il ciocco che ancora stringeva tra le mani.
“Kein! Sono io, Rordan! Apri, maledizione!”
La giovane tirò un sospiro di sollievo e sollevò il chiavistello. Rordan entrò e si chiuse in fretta l’uscio alle spalle.
“Sono venuti a cercarti alla Tritone. Dicono che hai ammazzato Farwynd, è così?” chiese. Il silenzio della compagna la diceva lunga. “Ti è dato di volta il cervello? Dannazione è il lord di Luce Solitaria! E tu…”
“E io sono solo una bastarda” concluse Kein. “Credi che non lo sappia? Ma cosa potevo fare? Ullen lo aveva sfidato, stavano già combattendo...”
“Potevi chiedere perdono!”
“Sono una donna di ferro, maledizione!” si inalberò Kein. “Non sono una smidollata ragazzina del continente, sono cresciuta combattendo!”
“E morirai annegata, dannata te!” gridò Rordan, prendendola per le spalle e scuotendola con violenza. Ma nelle sue parole c’era più dolore che rabbia. “Saranno qui a momenti, te ne devi andare.”
“Andare dove? Mia madre è sfigurata, non potrà più lavorare e Ullen è troppo piccolo per imbarcarsi. Moriranno tutti di fame se me ne vado.”
“Moriranno di fame anche se ti fai giustiziare” replicò il ragazzo, lasciandola finalmente andare.
“Forse mi processeranno” fece Kein, con un filo di speranza nella voce. “Dirò che dovevo difendermi… dirò che quell’uomo aveva tolto ai miei fratelli la fonte di sostentamento… chiederò di rinviare la sentenza, mi inventerò qualcosa!”
“Credi che ad Occhio di Corvo importerà delle tue motivazioni?”
“Non lascerò la mia famiglia, Rordan. Hanno bisogno di me.”
“È la tua ultima parola?”
Kein allungò la mano e gli sfiorò delicatamente la cicatrice che gli deturpava il volto. Non lo aveva mai toccato prima, fatta eccezione per qualche cazzotto scherzoso. Gli era grata per essere venuto ad offrirle una scappatoia, anche se non poteva accettarla. Forse per tutto quel tempo lo aveva sottovalutato.
“Vattene via. Non voglio che tu rimanga invischiato in questa storia.”
“Sei una stupida testarda” disse lui, ma non era davvero un insulto. C’era quasi ammirazione nella sua voce. Kein credette che stesse per baciarla perché aveva avvicinato il viso a quello di lei. Poi parve ripensarci e, senza aggiungere altro, girò sui tacchi e uscì.
§§§
Se avesse saputo che i soldati della guardia avrebbero arrestato anche Ullen, Kein non ci avrebbe pensato due volte: avrebbe preso tutta la sua famiglia e sarebbe fuggita ad Harlaw, da Wynne, o in qualunque altro posto lontano da Lordsport. Ma quelli non avevano voluto sentire ragioni: la pergamena col sigillo parlava chiaro, volevano anche Ullen. Quando aveva chiesto di leggerla le avevano riso in faccia, pensando che la figlia bastarda di una prostituta non fosse in grado di intendere la parola scritta, ma alla fine le avevano concesso di dare una breve scorsa al decreto. Per un attimo, la giovane aveva pensato di aprirsi la strada combattendo, ma loro erano cinque e lei era sola. Inoltre, avrebbero potuto fare del male ai ragazzi. Perciò non le era rimasto altro da fare che arrendersi, mormorare qualche parola di conforto per Joryn e Ciara – quest’ultima in lacrime – e seguire i soldati. Le avevano legato i polsi dietro la schiena, molto stretti, e avevano fatto lo stesso con Ullen. Li avevano condotti su un carro sormontato da una gabbia dove erano stati rinchiusi insieme ad altri due prigionieri che puzzavano di birra e sudore. Durante il tragitto, Kein non aveva mai smesso di sussurrare raccomandazioni nell’orecchio fratello: che non ammettesse nulla, che desse tutta la colpa a lei, qualsiasi cosa, ma doveva salvarsi la vita. Ullen aveva ascoltato in silenzio annuendo, il volto pallido e spettrale nella luce morente della sera. Alla fine si erano stretti l’uno all’altra, tenendosi il più lontano possibile dai malfattori. Una volta giunti a destinazione, erano stati affidati a dei carcerieri che li avevano condotti alle celle della Grande Fortezza dove erano stati separati. Avevano gridato e si erano dibattuti, Kein aveva pregato, minacciato, si era perfino offerta alle guardie pur che li lasciassero insieme. Alla fine l’avevano colpita fino a stordirla e l’avevano sbattuta in gattabuia. Era trascorsa una settimana da quella sera e Kein non aveva più visto Ullen.
Ormai non faceva altro che rimproverarsi e maledirsi per aver ucciso lord Farwynd. Era stata una stupida, un’avventata. Aveva lasciato che la sua mano venisse guidata dall’orgoglio e dalla sete di vendetta e ora avrebbe perso un altro fratello. Li avrebbe persi tutti, in realtà. La cosa peggiore era che i giorni passavano ma nessuno le diceva che cosa ne sarebbe stato di lei. I contatti con i carcerieri si limitavano all’ora dei pasti, quando qualcuno passava a lasciarle un tozzo di pane raffermo, del pesce sotto sale e un bicchiere d’acqua. Stava perdendo le forze, si sentiva continuamente svenire per la fame e per il freddo, ma non riusciva mai ad addormentarsi se non per pochi minuti. Era allo stremo.
All’alba del quindicesimo giorno, una guardia venne ad aprire la cella. Kein aprì gli occhi e subito li richiuse, infastidita dalla luce vivida della torcia.
“Alzati, donna” disse il carceriere, sputando quella parola come un insulto. “È la tua ora”.
La giovane si tirò faticosamente in piedi chiedendosi che cosa avesse inteso l’uomo con quelle parole. L’avrebbero giustiziata? O avrebbe subito un processo? Non le importava. Un unico pensiero le riempiva la mente: tra non molto avrebbe rivisto Ullen.
 

LA GIUSTIZIA DEL RE

Le guardie la condussero rudemente su per una stretta scala a chiocciola, al di fuori delle prigioni. Per un momento, Kein credette che l’avrebbero portata al cospetto del re, nella sala lunga, quella in cui, si diceva, si trovasse il trono del mare. Da piccola aveva sognato di vedere con i propri occhi, un giorno, l’immenso trono nero a forma di kraken che, secondo le leggende, era stato trovato dai Primi Uomini sulle coste di Vecchia Wyk al loro arrivo sulle Isole di Ferro. Nei suoi sogni, il suo equipaggio portava immensi tesori al cospetto del re, o prigionieri illustri; nei suoi sogni, a corte un volto pallido e affilato come il suo la riconosceva come la figlia perduta… nei suoi sogni, non era una prigioniera condannata a morte.
Ma non era la sala del trono la loro destinazione. Sbucarono all’aperto. Era una giornata uggiosa, la tempesta della notte precedente aveva lasciato l’aria umida e le narici di Kein furono investite dall’odore della sabbia bagnata e della salsedine. Aveva sempre pensato che la pioggia puzzasse ma, dopo due settimane di prigionia durante le quali aveva dovuto convivere con i suoi stessi odori corporali mescolati alla putrescenza della paglia bagnata che fungeva da giaciglio nella cella, inspirò a pieni polmoni. Seguì docilmente i carcerieri fino alla spiaggia. Man mano che si avvicinavano, però, il suo cuore si faceva sempre più pesante. Perché la spiaggia? Aveva un terribile presentimento. “E se non ci processassero nemmeno? Se ci giustiziassero direttamente?” pensò, atterrita. Aveva riposto tutte le sue speranze nel fatto che il re l’avrebbe lasciata parlare. Se fosse riuscita a convincerlo di essere l’unica responsabile per la morte di lord Ygon, Occhio di Corvo avrebbe liberato Ullen. Lei sarebbe morta, certo, ma che importanza poteva avere? Nelle lunghe notti insonni aveva perfino sognato di remare accanto a Roan nelle navi inabissate del loro dio.
Giunsero sulla battigia. Una pedana era stata costruita in tutta fretta in posizione rialzata per accomodare il re e sua moglie. Kein non aveva mai visto la regina, ma riconobbe immediatamente il re: i capelli scuri, l’occhio bendato, il volto pallido, allungato, e il sorriso ambiguo, azzurrognolo. Sembrava divertirsi e quello non era un buon segno. La sovrana, per contro, stava col busto eretto ma teneva il volto in ombra e la giovane non riuscì a coglierne l’espressione. Un nutrito gruppo di lord e cortigiani si era assiepato sulla stretta lingua di spiaggia: Kein riconobbe il capitano Alon, con Rordan al suo fianco. Una fiammella di speranza si accese dentro di lei: forse erano venuti a testimoniare in suo favore! Non ebbe tempo di vedere molto altro poiché la condussero in mare. L’acqua era fredda e sporca per via della tempesta e le arrivava al ginocchio. Il brusio della folla si interruppe quando spuntarono dal camminamento altre due guardie tra le quali, pallido ed emaciato, camminava Ullen. La prigionia, seppur breve, gli aveva smagrito il volto. I capelli sudati gli stavano appiccicati alla fronte e le sulle guance sporche spiccavano solchi di pelle chiara. Aveva pianto. Quando il ragazzo le fu di fianco, un banditore salì sulla pedana accanto al re. Kein e Ullen si scambiarono uno sguardo, lei si sforzò di sorridere e lui annuì, coraggioso. Poi si voltarono e ascoltarono la sentenza.
“Oggi, giorno 28 del mese di marzo dell’anno 313, Sua Maestà Re Euron Greyjoy, Sovrano del Regno Indipendente delle Isole di Ferro, udite le dichiarazioni di dodici validi testimoni ha stabilito che il prigioniero Ullen si è macchiato del crimine di assassinio ai danni di Lord Ygon Farwynd, signore di Luce Solitaria, e per questo motivo lo condanna a morte. Il prigioniero verrà giustiziato per annegamento. Sua Maestà ha altresì stabilito che non sussistono prove di colpevolezza a carico di Kein Pyke, che verrà rilasciata subito dopo l’esecuzione della condanna del colpevole. Così è deciso, procedete all’esecuzione”.
Per un momento Kein non comprese il senso delle parole pronunciate dal banditore. Rimase intontita, un’espressione di stolida incredulità dipinta sul volto. D’improvviso non udiva più nulla: non lo stridio dei gabbiani, non il sussurro della folla, non gli ordini e gli insulti dei carcerieri. Ogni suono era come ovattato, come quando si mette la testa sott’acqua. Poi il momento passò e le sue orecchie si riempirono di un grido acuto, assordante, un grido di dolore e di strazio, il grido di qualcuno a cui stanno strappando la vita. Mentre la testa di Ullen finiva sott’acqua, tenuta saldamente dalle mani del boia, Kein si accorse che quel grido era suo.
Un fiume di parole incoerenti le sgorgarono dalla bocca. Voleva parlare chiaramente, assumersi la colpa, ma non riusciva ad articolare le parole che le uscivano mozze e incomprensibili. Le guardie l’afferrarono, la colpirono, ma Kein si dibatteva come furia e riuscì a liberarsi e a fare qualche passo verso Ullen. La riacciuffarono e la colpirono duramente. Allora volse lo sguardo supplichevole verso il re “Io! Sono stata io!” cercava di gridare sotto i colpi delle guardie. Cadde in ginocchio, gli occhi fissi nell’unico occhio del re.
“Fatela tacere”. Con un cenno annoiato della mano Euron diede ordine di affogare la ragazza. Le guardie eseguirono. Kein fece appena in tempo ad inspirare pieni polmoni prima che la immergessero e rimase in apnea finché non cominciò a sentire la vista annebbiata e la testa pesante. Allora iniziò a dibattersi per riemergere, in una lotta disperata. Stava per arrendersi quando finalmente la afferrarono per i capelli e la tirarono fuori. La giovane inspirò vorace, gli occhi arrossati e colmi di panico, i capelli zuppi appiccicati sulla fronte. Si avvide che anche Ullen era stato momentaneamente graziato e stava tossendo, dapprima debolmente, poi con maggior veemenza, vomitando acqua ed elemosinando aria. Alzatosi dalla pedana, il sovrano avanzò verso la riva, affondando gli stivali lucidi nella sabbia bagnata. “Dato che io, Euron Greyjoy, sono un Re buono e giusto” pronunciò le ultime parole in modo beffardo “ho deciso che ascolterò le tue parole…Sceglile bene” disse guardandola con intensità. Il volto di lui, sebbene l’avesse visto una volta soltanto, da lontano, all’Acclamazione di re, le risultava stranamente familiare. Familiare e inquietante allo stesso tempo…
Aprì la bocca per parlare, ma aveva i polmoni in fiamme. Nella sua vita aveva combattuto, nuotato, corso fino allo stremo delle forze… ma mai fino a quel momento il petto le aveva doluto tanto. Aveva la sensazione di aver ingoiato una coppa di altofuoco. Aprì la bocca e tossì fino a sputare acqua e sangue, piegata in due dal dolore, gli occhi ridotti a una fessura. A pochi metri di distanza da lei Ullen, continuava a vomitare intere boccate di acqua salata e bile. La ragazza non aveva capito bene cosa fosse successo, né perché il sovrano avesse sospeso la sentenza, la mancanza di ossigeno le aveva appannato completamente il cervello. Finalmente, dopo quello che le parve un tempo lunghissimo, riuscì a staccare l’attenzione dal viso del re e focalizzarsi sulle sue parole. Aveva udito bene? Lo spietato Euron le stava dando la possibilità di dare la propria testimonianza? Kein non poteva assolutamente sprecare quell’occasione di salvare almeno la vita di Ullen. Raddrizzò la schiena, cercando di recuperare un minimo di dignità. Era una donna di ferro, doveva essere forte.
“Vostra Grazia” iniziò “Vi ringrazio. Il mio nome è Kein Pyke e questo è mio fratello Ullen. Sono di stanza sulla Tritone del capitano Alon. Una settimana fa ho fatto ritorno dopo una scorreria sulle coste delle Terre dei Fiumi e quando sono arrivata a casa ho trovato mia madre, Riona, ridotta in fin di vita. Mia madre è una prostituta, Vostra maestà, dall’età di dodici anni. Abbiamo chiamato un curatore, ha detto che era stata picchiata troppo duramente e che, sebbene sarebbe sopravvissuta, il suo volto era sfigurato per sempre. È vero, sono andata a cercare l’uomo che l’aveva colpita selvaggiamente ed è vero, l’ho affrontato. Era ubriaco e siamo venuti alle spade. Ho avuto la meglio. Dovete credermi Maestà, Ullen non ha preso parte al combattimento. Guardatelo: è soltanto un ragazzo, non ha nemmeno tredici anni, come avrebbe potuto sconfiggere un uomo come lord Ygon? Vi supplico Vostra Grazia: lasciate andare mio fratello, lui è innocente. Solo io devo pagare il prezzo del sangue, soltanto io!” Kein non aveva mai implorato in vita sua e sperò ardentemente che le sue parole sarebbero state ascoltate.
Euron sorrise, lo sguardo di chi ha appena ricordato qualcosa di sepolto in profondità nelle pieghe del tempo. “Ah, Riona, ricci capelli ramati, pelle morbida, fica stretta...me la ricordo, era una delle migliori e pare abbia continuato a seguire la sua vocazione” rise del fulmineo lampo di furore negli occhi di Kein, la quale si ricompose immediatamente “Dopo così tanto tempo” proseguì il re “quanti anni saranno passati? Venti? Quanti anni hai, ragazzina?” Euron socchiuse gli occhi, osservò i suoi lunghi capelli corvini, la forma delle labbra e degli occhi. Lei ricambiò lo sguardo. Le sembrava quasi di guardare in uno specchio e ne era disgustata.
“Ventidue Vostra Grazia, se ti compiace” rispose, scacciando un pensiero che le si era infilato nel cervello come una daga arroventata.
“Devo ancora decidere se mi compiace” rispose Occhio di Corvo, rude. Fece una pausa, in cui il suo viso passò dalla rabbia allo scherno. Il suo sguardo la frugava e la faceva sentire sporca. “Kein, Kein, Kein” cantilenò “Se sei stata tu, dovresti morire, lo sai bene, ma oggi mi sento particolarmente clemente ma non farti illusioni, lo sguardo supplichevole non funzionerà. Ti concederò di darmi un motivo per risparmiare la tua vita, oltre a quella di tuo fratello, visto che proclami con così tanto fervore la sua innocenza”.
Kein non si fidava: il re le credeva, non solo, le stava dando la possibilità di salvare anche la sua stessa vita oltre a quella di Ullen. Tutto ciò andava decisamente oltre le sue più rosee aspettative e, pertanto, le faceva quasi paura. Perché lo spietato Occhio di Corvo si stava comportando così? Vi era forse una relazione tra l’apparente clemenza del sovrano e il ricordo che egli conservava di Riona? Quel viso… “Vostra Grazia” riprese cercando di contenersi “Ho tre fratelli più piccoli, che dipendono dal mio lavoro e da quello di nostra madre. Quando si sarà ripresa, lei dovrà trovare un altro modo per guadagnarsi il pane e la sopravvivenza della mia famiglia ricade tutta sulle mie spalle. Se mi concederete di continuare ad occuparmi di loro, vi giuro su quanto ho di più caro che la mia vita e la mia spada saranno vostre finché non deciderete altrimenti.”
“Mm, una scarna motivazione.” Euron non appariva per nulla impressionato. Era stata un’idiota a pensare che quell’uomo potesse provare anche solo un briciolo di pietà, evidentemente stava solo giocando con lei al gatto e al topo. Stava solo ritardando l’esecuzione, per divertirsi di più nel vedere i loro volti passare dalla speranza alla disperazione. Kein sentì l’odio crescere, salire come la marea, travolgerla. Ma tacque. Se si trovavano in quella situazione era per colpa del fuoco che le bruciava dentro, un fuoco che avrebbe fatto meglio ad estinguere.
“Tuttavia ti risparmierò la vita perché sono fermamente convinto che quel giovanotto lì giù sia il colpevole” proseguì il re puntando l'indice nella direzione di Ullen, che nel frattempo ascoltava accasciato in ginocchio, con l'acqua al torace.
“Ehi! Guardami, ragazzo” gli intimò, avvicinandosi “Tua sorella è molto coraggiosa, ma una pessima bugiarda, sei stato tu, non è vero?” Il bambino tremava, dal terrore e dal freddo e tenne il capo chino. Euron gli afferrò i capelli della nuca, così forte da farlo rantolare e fece in modo che lo guardasse negli occhi. Kein strinse i denti, tanto furiosa quanto impotente.
“Sei stato tu, non è vero?” ripeté Occhio di Corvo, la voce calma e piatta in contrasto coi suoi gesti bruschi.
“Sì” cedette Ullen, in lacrime.
Il re mollò la presa, finalmente soddisfatto. “Hai proprio estorto quella confessione come un gentiluomo” pensò Kein “Sei un monarca e noi soltanto dei bastardi, ma c’è più nobiltà in una sola goccia del nostro sangue che in tutto il tuo cuore marcio”
“Oh, che ometto coraggioso! Così piccolo e così forte, quanto pesava quella spada, eh?” sorrise “Se vi lasciassi andare, tutti e due, cosa penseresti di me? Che sia uno smidollato o un uomo giusto? Se adesso ve ne andaste via, cosa racconteresti del tuo re? Che è un uomo da prendere da esempio? Al posto mio, vi lasceresti andare?” il fiume di parole che sgorgò dalla bocca di Euron riempì il silenzio assordante. Tutti erano in attesa, nessuno osava fiatare, anche Kein si era ammutolita, in attesa di ciò che sarebbe successo.
“S...sì mio re” rispose il ragazzo confuso.
“Mmh, diresti, quindi, di voler essere come me, se vi lasciassi andare?”
“S...sì” annuì Ullen. Kein capì che era una trappola lo sentiva. Avrebbe voluto saltare addosso ad Euron, strappargli anche l’altro occhio, i capelli neri come i suoi, perfino il cuore che, ci scommetteva, era dello stesso colore. Ma non poteva farlo, non aveva nessuna scelta.
“Molto bene, cavategli un occhio e mettetegli una benda, così che, guardandosi allo specchio, ricordi sempre quanto ha detto. Poi portatelo nelle cucine, lavorerà per me.” Scandì l'ultima frase, cercando di far intendere la reale natura delle sue intenzioni, che divennero più chiare quando proseguì, raggiungendo Kein e afferrandola per il mento “E tu… Tu ora mi appartieni. La tua vita è mia e non osare deludere le mie aspettative o non sarò più un re buono e giusto. Disobbedisci, ribellati, osa solo alzare lo sguardo e io mi prenderò la vita di tuo fratello, della tua cara mammina e di chiunque ti sia caro. Li ucciderò uno per uno davanti ai tuoi occhi prima di rimandarti al dio Abissale con le mie stesse mani”.
Era prigioniera. Lo erano entrambi.

 

KEIN

La Silenzio era una nave lunga, affusolata e dall’aspetto terribile. Si trattava di una galea da guerra a un solo albero, con la carena rosso scuro e le vele nere Il ponte era stato dipinto di rosso per nascondere meglio il sangue su di esso versato, si diceva. A prora, una polena di ferro nero raffigurava una fanciulla con un braccio proteso, la vita sottile, i seni alti e fieri, le gambe lunghe e snelle. Una folta capigliatura di ferro nero mossa dal vento le incorniciava il volto dai ciechi occhi di madreperla. “Non ha la bocca, però. È muta, come il suo equipaggio” pensò Kein, caricandosi sulla schiena l’ennesima cassa.
Dopo il processo, il re aveva spedito Ullen nelle cucine e Kein ad occuparsi della Silenzio, in rada nei pressi di Lordsport. Era stata tirata a lucido da cima a fondo e rifornita di tutto ciò che sarebbe potuto servire durante un lungo viaggio: acqua potabile, carne essiccata, farina, miele, birra. Le armi erano state affilate, le tele ricucite o sostituite. Kein aveva lavorato sodo, seguendo alla lettera gli ordini del nostromo, un uomo basso dal ventre prominente e la carnagione scura. Era completamente calvo, ma, in compenso, poteva vantare una folta barba nerissima e unta che ospitava pezzi di cibo e sporcizia non meglio identificata. A parte le urla del nostromo, alle orecchie della ragazza non era giunto altro che il grido dei gabbiani, lo sciabordio del mare e il rumore delle casse di legno che cozzavano tra loro o sulle assi del ponte. Nessuno le rivolgeva la parola, chi per mancanza dell’organo necessario, chi per disprezzo, chi per evitare una scudisciata da parte del nostromo. A Kein non dispiaceva, anzi. Lavorava di buona lena e in silenzio, incanalando nello sforzo fisico tutto il dolore e la rabbia che aveva accumulato dal giorno del processo. Ogni centimetro di tolda lucidato, ogni cassa trasportata, ogni corda intrecciata tenevano le sue mani lontane da dove avrebbero voluto essere: strette attorno alla gola del sovrano.
§§§
Dopo averle sussurrato quell’odiosa minaccia in un sibilo da rettile, Sua Maestà Euron Greyjoy era tornato ad accomodarsi sulla pedana, a fianco della regina. Subito due guardie avevano afferrato Ullen, lo avevano sollevato di peso e lo avevano trascinato sulla spiaggia, mentre altre due facevano lo stesso con Kein. Il ragazzo era talmente terrorizzato da ciò che stava per accadere che non aveva nemmeno tentato di divincolarsi, scalciare o urlare. Da parte sua, Kein sarebbe intervenuta, ma le mani dei carcerieri la stringevano come tenaglie e le sarebbe stato impossibile liberarsi. E anche se l’avessero lasciata, aveva ancora i polsi legati dietro alla schiena ed era sola… che cosa avrebbe potuto fare per salvare il fratello? Non riusciva a pensare lucidamente, il cuore sembrava esploderle nel petto e un sudore gelato si mescolava ai rivoli d’acqua salata che le colavano sulla fronte. Ullen la guardava supplice, conservando forse la segreta speranza che sua sorella, che lo aveva nutrito, protetto e amato fino a quel momento, sarebbe stata in grado di strapparlo dalle mani dei suoi carnefici. Ma sul volto di lei doveva aver letto l’impotenza e la disperazione, perché, alla fine, aveva distolto lo sguardo.
Un uomo dal volto brutale, sporco e solcato da terribili cicatrici si era avvicinato ad uno dei molti bracieri che punteggiavano la spiaggia. Aveva estratto da una sacca di cuoio dalla quale proveniva un tintinnio sinistro uno strumento di ferro dalla punta arrotondata e concava e lo aveva tenuto sul fuoco con delle pinze, per arroventarlo. Ullen aveva aperto la bocca per urlare, ma Kein lo aveva preceduto. “Sei un uomo di ferro, Ullen!” lo aveva incitato. “La paura uccide! Gli uomini di ferro non hanno paura! Ripetilo!” Nel silenzio più totale, il ragazzino aveva obbedito, come sempre aveva fatto nei suoi quasi tredici anni di vita. “Sono un uomo di ferro e non ho paura” aveva sussurrato. “Più forte Ullen!” “Sono un uomo di ferro e non ho paura! Sono un uomo di ferro e non ho paura!”. Aveva continuato a ripetere quelle parole, incitato dalla sorella, mentre il boia gli si avvicinava con il suo terribile strumento stretto nella mano sinistra, protetta da uno spesso guanto di cuoio. Le aveva ripetute con tutto il fiato che aveva mentre le guardie lo immobilizzavano: un uomo gli teneva ferma la testa, un altro gli aveva separato brutalmente le palpebre, obbligandolo a lasciare l’occhio destro in balia dello strumento che il carnefice aveva infilato sotto la palpebra superiore. “Sono un uomo di ferro e non ho paura! Sono un uomo di ferro e non ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh”. Le parole si erano trasformate in un grido straziante quando il cucchiaio, premuto con forza, aveva lacerato le delicate membrane che proteggevano il bulbo. Con un secco, esperto movimento laterale, il boia aveva reciso il nervo e strappato l’occhio al ragazzo che, ormai, urlava di dolore, il volto inondato di sangue.
Kein, impotente, disperata, aveva approfittato di un momento di distrazione dei suoi carcerieri che, schifati dallo spettacolo, avevano allentato la presa. Si era lanciata verso Ullen ed era quasi riuscita a sfiorarlo prima che la riacchiappassero. Non era stato concesso loro neppure un momento: li avevano separati e inviati alla loro vita di schiavitù. In quel momento, un sentimento di rabbia e di vendetta si era impossessato di Kein e non si sarebbe placato finché Euron Greyjoy avesse avuto vita.
§§§
“Kein! Pss! Kein, da questa parte!”
La giovane si voltò. La voce, familiare, proveniva da dietro una catasta di casse di legno, ammonticchiate sul molo e pronte per essere trasportate a bordo della Silenzio.
“Che ci fai qui? Vuoi farci ammazzare?” sibilò lei.
“Senti chi parla…” fece Rordan. “Volevo parlarti… ero al processo e…”
“Ti ho visto. Eri con il capitano Alon”.
“Aveva testimoniato in tuo favore, nella sala del trono… forse per quello il re ti ha risparmiato!”
Kein non credeva che una buona parola di Alon Wynch potesse aver avuto la benché minima influenza su un uomo come Occhio di Corvo, ma si guardò bene dal dirlo a Rordan. Doveva essere grata per il tentativo fatto dal capitano.
“Forse…” annuì “Ringrazialo da parte mia… digli che è stato un onore servire sulla Tritone. Che non dimenticherò ciò che ha fatto per me e che se il dio Abissale me ne darà l’occasione lo ripagherò”.
“Come sta Ullen?” domandò Rordan, in un soffio.
“Non lo so… ci hanno separati subito dopo avergli…” non riuscì a concludere la frase e dovette distogliere lo sguardo per ricacciare indietro cocenti lacrime di rabbia e impotenza. La colpa era come un fuoco inestinguibile che la consumava da dentro, così come il desiderio di vendetta.
“Ho visto tua madre e il tuoi fratelli” disse Rordan, poggiandole una mano sulla spalla. Stranamente quel tocco la fece sentire meglio. “Riona sta migliorando, lentamente, questo sì, ma il guaritore dice che è fuori pericolo ormai”
“Il guaritore? Come hanno fatto a pagarlo?” si meravigliò Kein. Aveva speso le ultime monete d’argento per la prima visita e per avere informazioni sul luogo in cui si trovavano Ullen e Lord Farwynd.
“Ho qualcosa da parte. Non è molto, ma basterà a pagare le cure per tua madre e il cibo per i tuoi fratelli finché Riona non sarà in grado di rimettersi in piedi. Sono stato in varie taverne e la gente è dalla tua parte. Sono stanchi di essere trattati come feccia dai nobili e pensano che tu sia stata coraggiosa. Qualcuno darà sicuramente un lavoro a tua madre, forse anche a Joryn. È un bravo ragazzo”.
Per un momento, Kein si sentì pervasa da sentimenti che raramente aveva provato nella sua breve e tormentata esistenza: il sollievo e la gratitudine.
“Perché fai tutto questo, Rordan?” chiese, in un soffio. “Io…”
“Tu non mi vuoi, lo so bene” la interruppe lui “Me lo hai fatto capire tante volte. Mi disprezzi e posso capirlo. Tu sei diversa dagli altri. Tu non trai alcun piacere dalle scorrerie, dai massacri, dagli stupri. Tu depredi le Terre Verdi perché non conosci altro modo per sfamare la tua famiglia”.
Kein rimase in silenzio: era la verità.
“Ti prometto che mi prenderò cura di loro. Ma tu devi promettere a me che non farai nulla di stupido. Zitta” le intimò quando lei tentò di ribattere “Te lo leggo negli occhi che vorresti la testa del re su una picca. Occhio di Corvo non è Ygon Farwynd. Al primo sgarro ti ammazzerà come un cane e poi farà lo stesso con Ullen, Riona e tutti gli altri. Si prenderebbe perfino il disturbo di fare rotta su Harlaw pur di sterminare tutta la tua famiglia. Kein: obbedisci agli ordini, non parlargli mai, non alzare nemmeno lo sguardo. Promettilo!”
“Lo prometto” rispose lei, di mala voglia. “Come posso ringraziarti, Rordan?”
Lui abbassò lo sguardo, improvvisamente a corto di parole. Kein lo aveva visto combattere contro tre nemici per volta, sgozzare uomini disarmati per depredare le loro case, stuprare fanciulle, bere fino alla nausea con il resto dell’equipaggio, ma mai, mai prima di allora lo aveva visto intimidito da qualcuno o da qualcosa. “Fallo ancora” disse alla fine.
“Cosa?”
“Questo” le prese la mano e se la portò alla guancia deturpata. Kein gli passò il pollice sulla cicatrice, dal sopracciglio fino al mento, come aveva fatto la sera in cui Rordan era andato ad avvertirla e poi era stata arrestata. Gli sfiorò le labbra con delicatezza, poi si ritrasse.
“Non ti disprezzo, Rordan. E forse sono stata ingiusta con te in questi anni” si scusò.
Lui le sorrise, un sorriso triste eppure stranamente bello. Poi, senza aggiungere altro, si voltò e tornò svelto verso il punto dove era attraccata la Tritone. Kein lo guardò allontanarsi, pensando a tutte le volte in cui l’aveva allontanato in malo modo, o schernito per il suo timore reverenziale per il capitano, o chiamato Sfregiato. Rordan aveva ragione: lei non era un pirata per vocazione, ma per necessità e questo l’aveva sempre fatta sentire migliore degli altri. Invece non era migliore di nessuno. Sicuramente non del compagno che aveva dato le sue monete alla famiglia di lei perché potesse tirare avanti. Kein si caricò una cassa particolarmente pesante sulla schiena e caracollò verso la scialuppa di trasporto. Doveva mantenere la promessa fatta. Almeno per il momento.
                                                                        

 

YOHAN

Yohan Farwynd non odiava la sua famiglia, ma non provava un vero affetto per loro. Era passato troppo tempo. Non aveva provato niente una volta venuto a sapere che il padre e il fratello maggiore erano già morti, e non diverso interesse aveva mostrato per l’altro fratello appena ucciso da due ragazzini, la qual cosa era assai patetica. In gioventù la sua famiglia era la ciurma, il padre il comandante Occhio di Corvo e la casa la nave in cui era imbarcato, la Silenzio. Dopo il naufragio la sua sola famiglia rimasta era il mare stesso. Mentre il Dio Abissale era diventato un compagno di viaggio, che non lo abbandonava mai.
Solo nel sentire le vicende dell’acclamazione del Re, aveva provato disagio, imbarazzo verso la famiglia e verso il padre. Come aveva potuto anche lontanamente pensare di poter guidare gli Uomini di Ferro verso un mondo immaginario? Cosa avrebbe pensato il dio Abissale a quelle parole di blasfemia verso l’Antica Via? Quel giorno la sua famiglia aveva sancito il decisivo passo verso il proprio declino.
Eppure, in quel momento sentiva che doveva essere presente al processo. Non aveva ancora rivelato la sua identità a nessuno, non serviva, e probabilmente non sarebbe neanche servito. Dopo 20 anni il suo aspetto era troppo diverso per essere riconosciuto da chiunque.
Osservava in disparte, abbastanza vicino da poter guardare attentamente tutti i protagonisti di quella messa in scena inutile. Come avrebbero potuto difendersi due bastardi, figli di una prostituta, contro un componente di una nobile famiglia, seppur in decadenza, delle Isole di Ferro? Sarebbero morti. L’unica speranza potevano riporla nel Dio Abissale, che nella sua clemenza avrebbe potuto salvarli dall’Annegamento. Ma perché avrebbe dovuto farlo?
§§§
Tutte le sue certezze si frantumarono, non poteva credere ai suoi occhi, ma era davvero successo?!? Aveva sentito e visto ogni cosa: il capitano che aveva guidato gli uomini di ferro alla gloria di Lannisport, che aveva saccheggiato villaggi, violentato donne, ucciso innumerevoli uomini, spietato al tal punto da ridurre al silenzio il suo equipaggio, aveva privato al Dio Abissale le sue vittime. Aveva interrotto due annegamenti, due riti sacri! Non stava a lui decidere. Non ne aveva il diritto. Diritto che sembrava essere stato mosso dai capricci della moglie di sale! Stordimento, confusione, inquietudine, sotto forma di onde, travolgevano la sua anima. Il dio Abissale era stato oltraggiato.
L’eccitamento della folla radunata sulla spiaggia stava scemando quando i suoi pensieri ritornarono razionali. Forse aveva soltanto fatto giustizia, ma in quel caso perché non lasciare che il Dio abissale graziasse i due bastardi. No. Doveva smettere di farsi coinvolgere emotivamente e guardare la situazione con più distacco. Occhio di Corvo non era mai stato un vero credente, era famosa persino la sua ostilità verso il fratello sacerdote Capelli Bagnati. Euron non aveva mai conosciuto la morte, non era mai stato riportato in vita dal suo Dio. Iniziò a calmarsi e a cercare giustificazioni per quell’atto così caritatevole e tanto spregiudicato.
Mentre si avviava verso una scogliera solitaria, e senza trovare giustificazioni valide a quello a cui aveva assistito, realizzò che era stato presente alla caduta del suo nome. Per quanto non si sentisse più parte di quella famiglia, doveva realizzare che il nome Farwynd ormai non aveva più credito presso gli Uomini di Ferro, anche se forse non lo aveva mai avuto.
Aveva bisogno di pensare, da solo, lontano da tutti, doveva trovare la pace che solo il mare gli dava. Raggiunse alla fine una piccola rientranza nascosta sulla scogliera, che gli offriva protezione da passanti casuali e un comodo giaciglio su cui stendersi. Nell’attimo in cui si adagiò al suolo, i suoi occhi iniziarono a cambiare colore, dal grigioblu al bianco, sempre più velocemente, fino a quando raggiunse la pace. Adesso si trovava al largo di Pyke, con il suo Dio. Stava nuotando sotto la superficie del mare.
§§§
“Insurrezione! Ascoltate! Ascoltate le onde! Ascoltate il Dio! Egli ci parla, e dice: Insurrezione”
A dire queste parole era un vecchio dai capelli lunghi e argentei, dalla barba folta e bianca, con indosso una tunica di stoffa verde, grigia e azzurra, i colori del Dio Abissale. Con il suo lungo bastone di legno indicò un giovane che lo ascoltava sulla battigia.
“Tu! Ragazzo, avvicinati! Il nostro signore Iddio, che per noi è annegato ti chiama!” Il ragazzo senza paura lo raggiunse.
“Inginocchiati dinanzi a me” Ora l’acqua bagnava il giovane fino al petto.
Il sacerdote con le sue grandi e poderose mani dalla pelle salata, raccolse acqua di mare e la versò sul capo del battezzato, dopo prese con vigore il capo stesso del giovane e lo immerse nell’acqua intonando: “Lasciate che Emmond, tuo servo, rinasca dal mare, come lo sei stato tu. Benedicilo con il sale, benedicilo con la pietra, benedicilo con l’acciaio”.
Emmond riemerse fiero e recitò “Ciò che è morto non muoia mai”.
“Ciò che è morto non muoia mai, ma risorga, più duro e più forte” fu la risposta di tutti i presenti che si unirono alla litania del vecchio.
Subito dopo il sacerdote lo immerse una seconda volta con più violenza di prima. L’immersione sembrava non finire più. Si potevano vedere gli schizzi d’acqua alzarsi sempre più numerosi per la lotta che il giovane faceva per riemergere, contro il vecchio che spingeva sempre più forte per tenerlo sott’acqua.
Poi i tentativi del giovane finirono, aveva perso i sensi. La piccola folla sulla spiaggia si era fatta silenziosa e guardava con apprensione la scena. L’Uomo Annegato -così venivano chiamati i sacerdoti del dio Abissale- iniziò la procedura di rianimazione, ma, per quanto a lungo ci provasse, il giovane non emetteva alcun respiro. Era morto.
“Il nostro Dio ha bisogno di un rematore!” queste furono le urla di approvazione che si alzarono dalla spiaggia. Emmond si era mostrato un predone senza paura e ora veniva accolto dalla divinità degli abissi al banchetto di pesce del suo palazzo e accudito dalle sirene per l’eternità.
Il sacerdote indicò un altro giovane, e il rituale si ripeté. Anche questa volta la seconda immersione sembrava non terminare più, il giovane si dibatteva per ritornare a respirare, ma, alla fine, anche quest’ultimo devoto perse i sensi. La rianimazione stavolta ebbe successo. Un nuovo Uomo Annegato, Sacerdote di Colui che abita sotto le onde, era riemerso e rinato dall’acqua. Un’esultanza corale fu la risposta della spiaggia, che al grido di “Ciò che è morto non muoia mai” salutava il nuovo Annegato.
“Uomini di Ferro, Donne di Ferro” il vecchio sacerdote iniziava ora a predicare “Sono anni ormai che venti e tempeste attaccano le nostre navi! Maremoti, fulmini e onde si abbattono sulle nostre coste con sempre maggior frequenza! Il nostro Dio è in guerra!” L’affluenza di uomini alla spiaggia aumentava con il passare dei secondi.
“Colui che risiede nelle nuvole, con le sue creature, i corvi, acquista sempre più forza! Ogni giorno che il miscredente passa seduto sul Trono del Mare, il nostro nemico del Cielo aumenta il suo potere” Ora il sacerdote indicava la fortezza di Pyke: “Vi ammonisco perché in verità, in verità vi dico, che colui, che è seduto sul nostro sacro trono, è un seguace del Dio della Tempesta!!!” .
La calca sulla spiaggia non si conteneva più: urla, grida, invettive, erano rivolte con sempre maggior veemenza contro il Re.
“Ci aveva promesso le terre del Continente tutto, ricchezze infinite e potere illimitato! Ma nulla di tutto questo è accaduto! Abbiamo un immorale, empio e blasfemo usurpatore che si fa beffe del nostro Credo! Il senza Dio, il figlio della Tempesta deve essere estirpato!”.
A quel punto, il suo dito minaccioso passava in rassegna ogni uomo, donna e bambino di fronte a lui.
“Voi Uomini di Ferro sarete le onde! Voi Donne di Ferro sarete i flutti! Non i gran signori, ma il semplice popolo! Coloro che coltivano la terra e pescano. Infatti i comandanti e i re hanno eletto il sacrilego, ma Voi, gli umili, sarete ad abbatterlo! A Grande Wyk, Harlaw, Orkmont, e qui a Pyke stessa, la mia parola verrà udita, in ogni villaggio e in ogni città! Un uomo senza Dio non può sedere sul Trono del Mare!”
Yohan Farwynd guardava quello spettacolo incuriosito e con grande attenzione. Dopo che il re era tornato sconfitto dalla Lunga Notte, alle Isole di Ferro quella era l’atmosfera che si respirava. Gli Annegati facevano sempre più proseliti tra quella gente, che si presentava come “umile”, ma che di umile aveva ben poco: era certo di aver scorto gli stemmi e quelli che sembravano essere lord, di Casa Drumm, Harlaw e Blacktyde. Per la prima volta, dopo secoli, tra i fanatici del Dio Abissale, non c’erano solo poveri contadini e pescatori, ma anche capitani, pirati e razziatori delle più importanti famiglie delle Isole. Un’insurrezione con solide basi, stava per esplodere. Paradossalmente la clemenza mostrata dal re non era servita ad ingraziarsi i sudditi, ma ad aumentare le loro ostilità verso il sovrano e verso la sua regina, il cui arrivo, altro non aveva portato se non sventura.
Le parole che quel vecchio Annegato aveva urlato, erano le stesse parole di Aeron Greyjoy, o meglio, di Capelli Bagnati, il più devoto del Credo. E ora tutti i sacerdoti le ripetevano ovunque andavano. Fanatismo, questo era quello che si stava diffondendo. Ma era quella la strada giusta da percorrere? Non vi era dubbio che Euron più volte si era autoproclamato portatore di tempesta, lui stesso amava navigare con raffiche e acquazzoni che gli sferzavano il viso. Era davvero un seguace del Dio del Cielo? La verità era che gli uomini di Ferro non potevano più sopportarlo, non credevano più in lui, non dopo che le sconfitte ormai si susseguivano da anni.
Yohan poteva dirsi Annegato, sacerdote del Dio Abissale: era già stato battezzato da giovane ed annegato dal dio, una seconda volta, al largo di Naath. Lì i suoi polmoni si erano riempiti d’acqua e i pesci aveva divorato le squame che oscuravano i suoi occhi. Quando gli abissi lo fecero risorgere, poté vedere con chiarezza il suo Dio, che da allora non lo abbandonava mai. Allo stesso modo, però, aveva scoperto e conosciuto mille e più dei. Aveva solcato i mari più remoti del mondo, incontrato e compreso genti e religioni tra le più disparate, ma sempre con il Dio Abissale nel cuore. Euron, anche lui, che forse verso rotte ancor più remote si era spinto, aveva potuto imbattersi negli Dei del mondo, ma li aveva affrontati tutti guidato della Tempesta.
§§§
La notte era passata, ma le perplessità di Yohan no, anzi, aumentavano:
“E se il Re Euron, da non credente, come lo ricordava, era diventato seguace del Dio della Tempesta? I corvi erano le creature di questa controversa divinità, ed Euron, Occhio di Corvo, ne portava la testimonianza nel nome. E se fosse stato lui stesso il Dio della Tempesta?”

 

SHIN

Seduto ad un rozzo tavolaccio, in una squallida locanda vicino al porto, Shin della nobile Casa Estren, ex mantello bianco e cavaliere rinnegato rimuginava sui suoi primi giorni a Pyke. “I primi di chissà quanti, tra queste rocce battute dal vento, le onde che si infrangono in lontananza, le grida dei gabbiani, miste a quelle di avventori ubriachi e delle prostitute che si aggirano tra i tavoli” pensò guardandosi attorno, disgustato. Non solo da quel luogo, ma anche da se stesso.
“Sono rivoltanti, nulla è più triste di una vecchia meretrice, mezza consumata dalla sifilide, le mani tozze, gli occhi rossi, lo sguardo vuoto, i denti marci, il seno cadente…” rifletté tristemente, complici le molte coppe di fetido vino andato ormai quasi in aceto che aveva tracannato tutto il giorno con le monete vinte ai banchi di scommesse sul porto. Una delle donne gli si avvicinò: “Vuoi compagnia tesoro?” domandò, tentando di apparire languida, ma aveva la voce impastata. “Forse dieci anni fa, da ubriaco avrei accettato” rispose, sgarbato. Quella si voltò sdegnata e si allontanò barcollando verso un gruppo di uomini che gli parvero cercar di passare per soldati; ma le armature logore, arrugginite, le cicatrici, li identificavano subito come pirati, predoni o assassini, o forse tutte e tre le cose insieme, ed altre ancora a cui preferiva non rivolgere pensiero.
In realtà, non era mai stato con una puttana. C’era stato un tempo in cui le donne gli cadevano ai piedi, nobili e popolane, nessuna riusciva a sostenere il suo sguardo. Gli occhi grigi del cavaliere le facevano vibrare di desiderio, imporporando le loro guance di pesca. Ne aveva presa qualcuna, per noia o per sfida… ma non aveva mai provato nulla di lontanamente simile all’amore. Distolse la mente da quei ricordi di gioventù e ripercorse mentalmente le varie fasi del processo al quale aveva assistito spinto dalla curiosità e dall’alcool. Buttò giù un altro sorso di vino aspro. “È questo il sapore della mia vita, ora”.
Ripensò al ributtante spettacolo cui aveva assistito quella mattina. Il processo, la giustizia del re. “Quella non è giustizia… e quello, non è un re”.
Aveva visto Euron Greyjoy entrare nella Capitale trascinando dietro di sé sua nipote Yara e le sorelle Sand, tutte quante nemiche della casa Lannister, acclamato da ali di folla plaudente; le donne gettavano fiori al suo passaggio, era alto, fiero, trascinava le prigioniere al cospetto della regina, il suo sorrido era malizioso mentre posava lo sguardo sulle sventurate, la voce della leonessa di Lannister riecheggiava nel vasto salone, l’aria era immobile, solo un brusio di eccitazione attraversava la folla di nobili, cavalieri e cortigiani, assiepati in attesa della sentenza.
Tutti si domandavano quale sarebbe stata la punizione reale che si sarebbe abbattuta su di loro come un fulmine: le avrebbe fatte marcire nelle celle fino alla fine dei loro giorni? Le avrebbe fatte torturare? Le loro urla, avrebbero raggiunto il cielo? Di questo si chiacchierava, si discuteva e alcuni scommettevano su quale sarebbe stato l’esito….
Quello era l’Euron che Shin Estren ricordava, non questo vecchio, mezzo cieco, rancoroso, il suo atteggiarsi a sovrano al tempo stesso comico e spaventoso, come un abito di broccato di seta su una contadina per farla passare per una lady. La contadina tale sarebbe rimasta e allo stesso modo lui, nulla più di un pirata, signore di isole brutte e dure, abitate da gente anche peggiore.
La sentenza era stata quasi clemente, il ragazzino aveva perso un occhio, mentre dall’Euron di un tempo ci si sarebbe aspettati che lo facesse scuoiare e lasciato lentamente dissanguare; oppure lo avrebbe gettato in una fossa a combattere contro le belve, chissà. Forse l’età lo aveva ammorbidito o forse era l’effetto della donna che gli stava al fianco, la sua regina. Dalla sua postazione, Shin non era riuscito a vedere altro che qualche ciocca di quella lunga chioma nera, come ali di corvo.
L’unico balsamo di quel posto e di quei giorni era stata quella fanciulla, la sorella maggiore dell’imputato, bella, impavida, si era addossata la responsabilità dell’uccisione, aveva invocato su di sé la punizione per salvare quel moccioso. Shin non era riuscito a smettere di guardarla, di pensare che se fosse nata in un altro luogo forse non sarebbe stata la figlia di una prostituta, non avrebbe condotto quella vita infernale, tra rinnegati e tagliagole, forse sarebbe stata figlia di un castellano, o di un lord, avrebbe avuto bei vestiti e gioielli.
Un minuscolo, triste sorriso si dipinse sul viso del cavaliere rinnegato, il primo da molti mesi a quella parte, al pronunciare soprappensiero il suo nome, “Kein”. Ingollò ciò che restava del “vino” e lasciò la locanda, senza una meta precisa, vagando tra i vicoli del porto, ascoltando le voci impastate dal vino e le onde che si schiantavano contro le rocce e le carene delle navi, ne scuotevano il fasciame e le facevano ondeggiare, diventando sempre più fioche mentre una calma irreale, oscura e malvagia quasi lo avvolse.
Nella sua mente, mille pensieri si aggrovigliavano come un nido di serpi: Pyke, la flotta di Ferro, Euron, la regina dai capelli come ali di corvo, il verso dei gabbiani e poi lei, Kein, non riusciva a togliersela dalla testa, c’era qualcosa che lo attirava in quella ragazza come una falena alla fiamma. Si chiese se nella capitale avrebbe mai degnato di uno sguardo la figlia bastarda di una prostituta. “No” si rispose, eppure quegli occhi… quegli occhi lo avrebbero ammaliato comunque, ovunque li avesse incontrati.
Quello sguardo aveva penetrato come un dardo la sua armatura, le vesti e la carne fino al cuore, sentiva come lei potesse leggere la sua anima, anche se i loro occhi non si erano mai incontrati… Non aveva mai provato qualcosa di simile, nessuna lady o cortigiana dalle lunghe dita e dai bei sorrisi era riuscita ad inquietarlo, quasi spaventarlo fino a quel punto, era come il dolce canto delle sirene che attira i naviganti verso gli scogli e la morte.
Eppure non riusciva a smettere di ascoltarlo, e si ritrovò a domandarsi se non sarebbe finito per gettarsi tra i flutti per quella sirena. Il mantello bianco gli pesava sulle spalle come se fosse stato fradicio di acqua di mare, o inzuppato di sangue. Era diviso tra il ricordo del suo nome, antico, nobile, potente, gettato nel fango e quegli occhi dorati che appartenevano a una figlia del mare, la più umile tra gli Ironborn…
“Chi sono? Che ne è stato di me?” si chiese, ma non trovò alcuna risposta.

 

KEIN

Gli approvvigionamenti della Silenzio procedevano lenti e tediosi. La galea da guerra del sovrano era quasi pronta per una delle avventure su cui Kein aveva passato ore a fantasticare, da bambina; tuttavia, da Euron non era ancora pervenuto alcun ordine e la nave permaneva in rada, brulicante di attività ma con le vele nere tristemente ammainate.
Erano passati parecchi giorni dalla visita di Rordan e Kein, pur col cuore alleggerito dalle incoraggianti notizie sulla salute della madre e l’aiuto economico corrisposto dal compagno, iniziava a sentire la mancanza della sua vecchia vita. La Tritone era ancora ormeggiata in porto, segno che, almeno per il momento, il capitano Alon Wynch non aveva ancora stabilito la rotta per la successiva scorreria. “Forse ha capito che non andremo da nessuna parte continuando a razziare piccoli villaggi di pescatori” pensò la ragazza mentre, seduta al sole su un fasciame di corde, lavorava d’ago e filo per riparare una vela strappata. Scosse la testa: aveva usato la prima persona plurale, come se ancora fosse stata parte dell’equipaggio di Wynch. Faticava ad abituarsi alla sua nuova condizione, non tanto per le mansioni svolte, simili a quelle che le venivano assegnate sulla Tritone, bensì per la mancanza di azione. Per quanto non amasse battersi con contadini e pescatori, Kein non disdegnava un combattimento alla pari con i soldati di pattuglia, anzi: in quegli scontri incanalava tutte le sue energie, la rabbia, le frustrazioni, i ricordi che avrebbe voluto cancellare e che invece tornavano, di quando in quando, ad assalirla. Ogni volta che riusciva a trapassare un nemico con la sua spada, le pareva di essersi vendicata di qualcuno che, un tempo, le aveva fatto del male.
Le mancava sentire la spada bastarda in pugno, l’elsa a forma di testa di falco che le era costata un mese di paga anni prima; le mancava battersi schiena contro schiena con Rordan, la sua voce potente che accompagnava ogni colpo con imprecazioni e bestemmie; le mancava bere birra coi compagni sulla tolda, al tramonto, cantando canzoni sboccate e giocando a dadi.
Persa in quei pensieri si punse. “Dannazione!” imprecò succhiandosi il sangue dal dito. Il sapore ferroso acuì la sua nostalgia.
“Sei sempre stata un cane con ago e filo” l’apostrofò una profonda voce maschile.
Kein alzò lo sguardo fino ad incontrare gli occhi azzurro cupo di Alon Wynch.
“Capitano!” esclamò scattando in piedi. “La forza dell’abitudine…”
“Riposo” rispose lui e Kein, per un momento, si rilassò. Poi si guardò intorno, nervosa, sperando che il nostromo non fosse nelle vicinanze. Era un uomo gretto e infame, perennemente pronto a mettere mano alla frusta, ma anche estremamente vile quando veniva in contatto con qualcuno di grado superiore. Per Kein mostrava un misto di disprezzo e squallido interesse.
“E’ alla taverna” la rassicurò il capitano, come leggendole nel pensiero. “Non ti sei accorta che sono andati tutti a magiare?”
In effetti era mezzogiorno, il sole picchiava da far spavento e la casacca di Kein le stava fastidiosamente attaccata alla pelle. Non era più viola con il simbolo della mezzaluna sanguinante, ma nera come la notte, con un occhio ricamato sulla schiena.
“Mi sono distratta” rispose alzando le spalle. “Capitano… volevo ringraziarvi. Rordan mi ha detto che avete parlato col re per cercare di togliermi dai pasticci. Ve ne sono immensamente grata, soprattutto perché non me lo meritavo. Sono stata un’idiota a pensare di mettermi contro un lord”.
“Secondo me, invece, Farwynd ha ricevuto il giusto. Tua madre è una brava donna, è molto bella e sa fare il suo mestiere. Sono sicuro che quell’imbecille si sarà sfogato su di lei perché era troppo ubriaco per farselo venire duro” replicò Wynch.
“Resta il fatto che mio fratello ci ha rimesso un occhio… e la libertà” fece Kein, con rammarico.
“Per l’occhio, non preoccuparti. Siamo pirati, prima o poi perdiamo sempre qualche pezzo!” la rincuorò il capitano ridendo sguaiatamente. “Per la sua libertà… e per la tua, io non dispererei. Vieni con me. Tornerai prima che qualcuno si accorga della tua assenza” aggiunse “non preoccuparti”.
§§§
La Testa di Porco era probabilmente la locanda più malfamata di Lordsport. Kein non ci aveva mai messo piede prima di allora, perché era famosa per il cibo scadente, la birra annacquata, l’odore ripugnante e, soprattutto, l’infima clientela. Dall’esterno, l’edificio appariva vecchio e malconcio, perfino pericolante e l’impressione di abbandono e desolazione non faceva che aumentare all’ingresso. Nonostante l’ora meridiana, la luce faticava a filtrare dalle finestre luride, e non era del tutto un male poiché allo spettatore veniva risparmiato di scorgere i particolari della fetida sala comune, come l’uomo seminudo che stava montando una puttana sdentata in un angolo o la coppia di ubriachi che inveivano uno contro l’altro, acciaio in pugno, tentando, senza successo, di infilzarsi a vicenda.
Nessuno notò l’uomo e la ragazza appena entrati. Nonostante la giornata torrida, il capitano Wynch le aveva buttato sulle spalle un mantello e lui stesso aveva indossato una cappa per nascondere i simboli sulle loro casacche. Kein non aveva fatto domande, ritenendo che il capitano avesse tutte le ragioni a non volersi far vedere in giro con una donna che era appena stata processata ed era sfuggita per un soffio alla forca. Probabilmente aveva scelto la Testa di Porco per evitare di incrociare qualche altro comandante del suo stesso lignaggio.
Si sedettero all’estremità di un tavolo lungo, talmente lercio e unto che Kein ebbe un moto di repulsione. Si sistemò in modo da poggiarsi sul mantello, e non a diretto contatto con il legno, scivoloso di grasso e sporcizia. La locandiera, una donna non più giovane e decisamente non bella, raccolse le loro ordinazioni e si dileguò verso le cucine mentre Kein si chiedeva che cosa avrebbe detto il nostromo se l’ultimo acquisto della ciurma avesse passato il resto della giornata nelle latrine.
Alon Wynch ruppe il silenzio. “Mi dicevi di tuo fratello. Come sta?” domandò.
“Non ne ho idea” replicò la ragazza, scuotendo il capo “non me lo lasciano vedere”
“E’ stato coraggioso. Non so quanti altri marmocchi della sua età avrebbero affrontato il boia senza dimenarsi o implorare pietà. Un vero uomo di ferro”.
“Sì, lo è” confermò Kein, orgogliosa. Per un attimo, i suoi occhi brillarono vivaci, ma poi tornarono a spegnersi, ogni zampillo di vita assorbito dall’aria pesante del luogo.
“Mi dispiace per quello che vi è capitato, dico davvero. Occhio di Corvo è sempre stato spietato, ma un tempo pensavo che questo avrebbe portato gli uomini di ferro alla conquista delle Terre Verdi. Ora invece…” Wynch si interruppe. Aspettò che la locandiera, dopo aver poggiato davanti a loro due ciotole di zuppa maleodorante e due boccali di birra color piscio, si fosse allontanata, poi proseguì. “Insomma, guardaci… da quanto sei sulla mia nave? Due anni? E ancora fatichi a tirare avanti. Lo stesso vale per il resto dell’equipaggio. Cazzo, io sono il maledetto capitano della maledetta nave e a momenti ho le pezze al culo! Sono stanco. Lo siamo tutti.”
Kein non rispose e nascose il viso nel boccale di birra. Il sapore era rancido e disgustoso, come le parole del capitano. La ragazza si sentiva parecchio a disagio e non capiva dove Wynch volesse andare a parare. Lui le lasciò qualche momento, poi, da momento che lei rimaneva silenziosa, proseguì.
“I comandanti sono in rivolta. Pensano che il tempo di Occhio di Corvo sul trono sia terminato. Alcuni lo giudicano inadeguato perché è un senza dio, altri perché ha fatto tante promesse ma non ne ha mantenuta nessuna. Personalmente appartengo a questo secondo gruppo. Dieci anni fa all’acclamazione ha giurato che avrebbe preso il trono di spade, che saremmo stati padroni dei Sette Regni. Invece, è un miracolo se abbiamo mantenuto l’indipendenza, e il trono è tornato ai draghi”.
“Capitano” tagliò corto Kein “perché mi state raccontando tutto questo? Io ora appartengo a quell’uomo, e voi lo sapete bene”.
Wynch si sporse sul tavolo, avvicinando il volto a quello di Kein. “Gli appartieni, certo, così come tuo fratello. Ma sono sicuro che vorresti tornare libera. Pensaci: se lui fosse fuori gioco, tu potresti riprendere la tua vecchia vita. Riavrai il tuo posto sulla Tritone e sono disposto a prendere a bordo anche tuo fratello”.
Kein sostenne il suo sguardo. “In cambio di cosa?”
§§§
Tornò al molo prima dei suoi compagni e riprese a lavorare sulla vela nera. Il caldo era opprimente e si sentiva addosso la puzza di piscio e cibo marcio che aleggiava alla Testa di Porco. Aveva voglia di togliersi i vestiti e gettarsi in mare per levarsi la disgustosa sensazione che le aveva lasciato la conversazione con Alon Wynch.
Era tesa, a disagio. La proposta del capitano era pura follia. Non che avrebbe incontrato difficoltà a metterla in atto, no, il problema era un altro. Innanzitutto, se l’avessero scoperta sarebbe stata la fine per Ullen e non solo: Rordan aveva ragione, il re avrebbe sterminato tutta la sua famiglia. In secondo luogo, non sapeva se poteva fidarsi di Wynch. La sua casata era notoriamente fedele al sovrano; di più, sulla Tritone nessuno si azzardava a dire una sola parola contro Euron Greyjoy per timore che il capitano venisse a scoprirlo. Da dove veniva allora tutta quell’acrimonia nei confronti di Occhio di Corvo? Certo, il capitano aveva dato voce alle rimostranze che la stessa Kein aveva raccolto da più parti e che la vedevano totalmente d’accordo, ma le sembrava troppo repentino il modo in cui era cambiato il vento. “Se fosse soltanto un trucco del re per mettermi alla prova?” pensò. Il sovrano era un sadico, ma avrebbe impiegato tante energie solo per tormentare il suo nuovo giocattolo? Forse. In quel caso, l’unica salvezza era correre a riferirgli tutto. D’altra parte, se Wynch fosse stato sincero, se il suo piano fosse stato davvero frutto di una rivolta dei comandanti della flotta di ferro, una sola parola nell’orecchio di Euron sarebbe bastata per mettere in pericolo il suo capitano e i suoi compagni. Alzò gli occhi dalla vela e scrutò la Silenzio, la muta fanciulla, e cercò di immaginarsela, avvolta dalle fiamme, mandare bagliori nella notte.
Lasciò la vela sul sartiame, si alzò e andò a cercare il nostromo. Lo trovò che dava ordini a un gruppo di marinai e attese finché quello non ebbe finito e non si fu accorto della sua presenza.
“Che vuoi? Hai finito con quella vela?” l’apostrofò.
Kein lo guardò negli occhi. “Alla malora la vela” rispose “voglio parlare con il re”.
Quello scoppiò in una risata sgangherata. “E così la figlia della puttana più brutta di Pyke vuole parlare col re! Ma certo mia signora! Vi accompagno!” la schernì accennando un inchino. Poi si fece serio. “Torna a rattoppare quella cazzo di vela se non vuoi che ti leghi all’albero maestro e ti frusti fino a levarti la pelle, sono stato chiaro?”
Lei gli si avvicinò fin quasi a sfiorare la sua grossa pancia da ubriacone. Gli accostò le labbra all’orecchio.
“Ho delle informazioni. Tu non mi conosci, ma stai certo: troverò il modo di parlare con lui e gli dirò che tu non hai voluto prendermi sul serio. Ho ammazzato un lord con le mie mani, sì, non era una messinscena, sono stata io, e sai una cosa? Mi è piaciuto. E il re mi ha risparmiata. Ti sei chiesto perché? Guardami! Te lo ripeto: Ti. Sei. Chiesto. Perché?” scandì.
Kein vide i piccoli occhi porcini del nostromo ridursi a due fessure e scrutarla feroci ma, allo stesso tempo, impauriti. “Andiamo pure, troia bastarda” concesse lui “ma se le tue cosiddette informazioni non saranno d’interesse per il sovrano, sarà mia premura farti incontrare il dio Abissale oggi stesso”
“Sta bene. Ora andiamo”.
Il nostromo lasciò il comando delle operazioni al suo vice, poi si incamminò sul molo, seguito da Kein.
Lei volse lo sguardo al castello arroccato sulla scogliere, alle sue torri aggettanti sul mare e ai suoi camminamenti di corda e di pietra. Forse poteva uscire da quella situazione. Forse aveva una possibilità.

 

YOHAN

La pioggia gli scorreva sulla faccia e più volte strizzò gli occhi indolenziti per cercare di scrutare il mare: era grigio, cupo e rabbioso. La tempesta si avventò su di lui. Ne avvertì il morso a fondo e comprese che sarebbero potuti morire tutti se non avessero toccato terra a breve. Quel viaggio stava mettendo a dura prova gli uomini come mai prima d’allora, pensò. Navigava su di una nave piena di morti. Niente più cibo, quasi niente acqua, e quella rimasta era sporca e salmastra. La nave sbandò ad un colpo di vento improvviso, e Yohan si afferrò al parapetto, finché la nave non si raddrizzò, con un gemito del fasciame. La nave era la Silenzio, famigerata nave da guerra di Euron Greyjoy. Esiliato dal fratello Balon, per motivi poco chiari. Aveva promesso fama e gloria al suo equipaggio che, sprezzante del pericolo di navigare là dove nessun Uomo di Ferro si era spinto, lo aveva seguito. Occhio di Corvo sarebbe stato il primo capitano su mari ignoti. Il primo a saccheggiare e depredare terre fino ad allora sconosciute. Il primo a uccidere, sventrare, massacrare uomini dell’est. Il primo a sedurre, possedere e stuprare donne dalla pelle baciata dal sole del mattino.
L’ultimo contatto con il sangue e le budella di altri uomini era stato settimane prima, quando la Silenzio si era fiondata su una nave mercantile di Arbor. Impadronitosi del famoso nettare rosso di Arbor, la Silenzio non si era più fermata e ogni contatto con la terra era sparito. Tutta la ciurma oramai sognava quelle grandi ricchezze che il loro capitano aveva promesso.
Il vento diventò ancora più freddo e la nave rollò violentemente. “A quanti giorni di distanza si trovavano le Isole? Le avrebbero più riviste? Avevano ancora importanza simili pensieri?” si chiedeva Yohan.
La sferza del vento interruppe queste divagazioni e lo tenne sveglio. Sarebbe stato sciocco addormentarsi ora. Non si sarebbe più risvegliato, eppure i suoi occhi fremevano e un attimo era sulla galea, l’attimo dopo nel mare ad osservare da lontano la nave stessa che lottava contro le onde, l'attimo dopo ancora a combattere il freddo delle onde sulla nave, che sembrava prossima alla fine.
Il Dio della tempesta sollevava grandi mura d’acqua nera e li gettava contro il ponte rosso sangue della nave. Il capitano ricorreva a tutte le proprie forze per tenere il timone contro la resistenza delle acque, mentre l’intera nave tremava. Le sue urla sovrastavano vento e onde e quei pazzi indiavolati dei rematori continuavano imperterriti a vogare. Sprezzante del pericolo, il capitano inveiva verso il mare e lo sfidava ridendo a squarciagola.
Poi la prua cominciò a girare, sempre più rapidamente. Il mare torreggiava su di loro. Un’ondata più violenta sbatté sulla nave che sbandò. L’acqua invase il ponte della nave, come un fiume in piena che distrugge i suoi argini. Un’altra ondata spazzò Yohan dalla sua postazione di prora. Fu risucchiato indietro e un frangente gigantesco lo gettò al di là del parapetto. La Silenziò balzò avanti senza controllo.
Il gelo opprimeva il corpo di Yohan che si trovò a lottare contro l’impeto del mare. Cercò di mettere a fuoco la vista per individuare la nave, ma gli occhi non gli obbedirono: i colori gli apparivano sbiaditi e confusi. Aveva già abbandonato il suo corpo all'oscurità del mare, quando improvvisamente forza e vigore lo fecero rinascere e con sicurezza era certo di stare nuotando verso la salvezza. Si svegliò di colpo e per un attimo pensò di sognare: si trovava a terra, su una spiaggia. Il Dio degli abissi lo aveva riportato in vita.
§§§
Questo era l’ultimo ricordo che aveva di Euron Greyjoy, ma al processo dei due bastardi, era apparso diverso ai suoi occhi. Sembrava di avere di fronte un re vecchio, stanco ed irascibile, svogliato dal regnare le sue stesse Isole. L’Annegamento, in cui tanto sperava di assistere per poter osservare con i suoi occhi se Euron avesse avuto l’appoggio del Dio Abissale, non sembrava essere stato preso sul serio. Il re non sembrava affatto importare ciò che pensavano i credenti delle Isole. Yohan, all'ombra di una nicchia di una delle tante taverne del porto, era costretto ad aspettare, nella speranza di poter decidere da sé chi fosse diventato realmente quell'uomo che sedeva sul Trono.
 

 

KEIN

Le strade di Lordsport erano deserte e quiete. Kein era sgattaiolata fuori dal castello ben prima dell’alba, agile e silenziosa come un gatto, calcandosi il cappuccio del mantello sulla fronte. Finalmente, dopo il colloquio con il re, le erano state restituite le sue armi, sequestrate prima del processo. Con la spada di traverso sulla schiena e il pugnale legato alla gamba si sentiva più a suo agio; fin da bambina si era abituata a tenere addosso l’acciaio e senza si sentiva nuda, vulnerabile.
Mentre camminava veloce tra i vicoli bui, ripensava al colloquio con Euron Greyjoy. Non le era apparso affatto colpito dalla sua rivelazione, come se fosse stato già a conoscenza della rivolta in atto tra i capitani. Da una parte, Kein avrebbe preferito essere la prima a portargli la notizia perché questo le avrebbe dato un vantaggio; dall’altra, il fatto che il re avesse già probabilmente preso le proprie contromisure le alleggeriva parecchio la coscienza. Certo, era stata sul vago e non aveva rivelato che il piano per dare fuoco alla Silenzio era opera del capitano Wynch, ma era sicura che Occhio di Corvo non avrebbe tardato a scoprirlo da sé. Per questo motivo era importante arrivare quanto prima a destinazione.
Svoltò a sinistra, prendendo il vicolo dell’Ubriaco. Gli edifici, in quella zona della città, erano estremamente poveri e sporchi, molto diversi dalla linda casetta di legno e pietra dove abitava la famiglia di Kein. “Se mi sbrigo, pensò, forse farò in tempo a passare da casa”. L’idea di rivedere sua madre e i suoi fratelli la riempiva di gioia ma, allo stesso tempo, di timore. Riona avrebbe capito che sua figlia non aveva potuto fare nulla per salvare Ullen? O le avrebbe dato la colpa per quanto era accaduto al ragazzo? La ragazza cercò di scacciare il pensiero di quanto era successo dopo la morte di Roan. Sebbene fossero passati degli anni, il ricordo di quel periodo continuava a tormentarla, soprattutto dalla sera dell’arresto, e le sembrava di rivivere lo stesso incubo di allora. Aveva fin troppo sangue sulla coscienza e non voleva che se ne aggiungesse dell’altro.
Prese una scorciatoia e si ritrovò nella calle del Marinaio, una viuzza talmente stretta che la giovane si chiese come un uomo grande e grosso come Rordan facesse a percorrerla. Eppure era sicura di trovarlo lì. Il sole appena sorto faticava a penetrare tra gli edifici accatastati gli uni sugli altri, ma Kein, per sicurezza, nascose il più possibile il viso sotto il cappuccio mentre scivolava nell’ingresso di una delle casupole. Si guardò intorno, circospetta, ma la via appariva deserta. Bussò delicatamente all’uscio di legno marcio, corroso dalla salsedine e attese. Nessuna risposta. Imprecando tra i denti, bussò di nuovo, più forte, sperando di non attirare così l’attenzione dei vicini. Dopo qualche altro colpo finalmente udì dei passi strascicati provenire dall’interno. Una voce femminile, ruvida e impastata di sonno le domandò chi fosse.
Invece di rispondere, Kein ordinò “Dwyn, apri, dannazione”. La porta si dischiuse di pochi centimetri e apparve il viso di una donna poco più vecchia di lei, bionda e ancora piacevole. L’espressione, però, era torva.
“Che cosa vuoi?” le chiese, senza accennare a spostarsi per farla entrare.
“Devo parlare con lui” rispose Kein, sbrigativa.
“Non è qui” la informò Dwyn. “Vattene” e face per sbatterle l’uscio in faccia, ma Kein fu lesta ad infilare un piede nella fessura per impedirglielo.
“Ti ho detto che non c’è, cazzo!” ribadì, tentando di spingerla via. Poteva essere la verità, oppure no. Dwyn era una delle mogli di sale di Rordan, quella che gli scaldava il letto da più lunga data, e sebbene lei e Kein si fossero incrociate solo un paio di volte prima di allora, era evidente che la donna l’avesse classificata come una pericolosa rivale fin dal primo sguardo. Ad ogni modo, Kein non poteva rimanere ancora allo scoperto, quindi sospinse Dwyn all’interno della casupola senza tanti complimenti. C’era un unico ambiente, abbastanza ampio, ma trascurato e sporco. Kein registrò con un unico sguardo il focolare, un tavolo traballante, due sedie spaiate, un giaciglio di pagliericcio e un vecchio baule. Di Rordan, nemmeno l’ombra.
“Te l’avevo detto” borbottò Dwyn chiudendosi la porta alle spalle, infuriata e rassegnata al tempo stesso.
“Non importa” fece Kein “Basta che gli riferisci un messaggio da parte mia”.
“Non ho alcuna intenzione di riferire i tuoi messaggi!” l’apostrofò la donna, ostile. Gli occhi, grigi come l’acciaio, brillavano di gelosia mentre le si faceva più vicina, a pugni chiusi.
Kein apprezzava il coraggio con cui Dwyn, una semplice moglie di sale, stava affrontando una donna più giovane, addestrata alla guerra e armata. Si chiese per quale motivo Rordan non si sistemasse definitivamente con lei, facendola diventare la sua moglie di roccia. Dwyn lo avrebbe amato come mai lei, Kein, sarebbe stata in grado di fare. Si sarebbe presa cura di lui e gli avrebbe dato dei figli sani e forti. Sarebbero potuti essere felici insieme se solo lui non avesse avuto quella malsana fissazione per la compagna d’armi.
“E invece glielo darai, perché Rordan è in pericolo” rispose Kein, cercando di mantenere la calma. La sua natura, focosa e belligerante, la spingeva a prendere la donna per la gola, spingerla contro il muro ed obbligarla ad ascoltare ciò che aveva da dire. Ma gli ultimi eventi le avevano insegnato che in certi casi era altamente consigliabile non cedere agli istinti. Doveva far sì che Dwyn le credesse, altrimenti la sua spedizione sarebbe stata inutile.
“In pericolo? Che cosa ha fatto? Scommetto che è tutta colpa tua, maledetta puttana! Ti ho vista al processo! Il re avrebbe dovuto annegarti, tu e quel moccioso di tuo fratello! Se Rordan è nei guai sono sicura che la causa sei tu!” l’attaccò Dwyn, gettandoglisi addosso.
Kein la bloccò senza difficoltà. “Al diavolo, io ci ho provato ad essere gentile”. L’afferrò per i polsi e la sbatté contro la parete: con la sinistra le teneva le mani alte sopra la testa, mentre con la destra le puntava il pugnale alla gola. Era più alta di Dwyn di quasi un piede e dovette chinare il capo per sussurrarle all’orecchio queste parole: “Wynch si è messo contro il re. C’è una rivolta in atto e Occhio di Corvo ne è al corrente. Non avrà pietà con i ribelli, il capitano è perduto e l’equipaggio corre uguale pericolo se il re ne sospetterà il coinvolgimento. Devi dire a Rordan di lasciare la ciurma della tritone il più presto possibile”.
“E dove dovrebbe andare, me lo spieghi? Su quale nave dovrebbe imbarcarsi?” sibilò Dwyn. Il suo fiato sapeva di pesce sotto sale e Kein voltò il viso dall’altra parte.
“Non lo so. Non so quali altri capitani sono coinvolti. Forse potrebbe presentarsi per entrare nella flotta reale, giurare fedeltà al sovrano” suggerì la giovane, allentando la presa. Dwyn ne approfittò per liberarsi e saltarle al collo. L’afferrò per i capelli e le graffiò il viso, come una gatta furiosa.
“Lo vuoi vicino, è così?” gridò, colpendola con tutte le forze che aveva. Kein avrebbe potuto respingerla facilmente con il coltello, ma non voleva farle del male. Non troppo, almeno. Se la scrollò di dosso e le colpì il viso col dorso della mano, gettandola a terra. Le poggiò il tacco dello stivale sulla gola, bloccandole la trachea. Dwyn boccheggiò e le prese la caviglia, tentando, invano, di allontanarla.
“Ascoltami, una volta per tutte” disse Kein. Non ho alcun interesse per Rordan. Non c’è mai stato niente tra di noi e mai ci sarà. Puoi anche dirglielo. Ma è mio amico, un compagno, e ha soccorso la mia famiglia nel momento del bisogno, quindi sono in debito con lui. Digli di lasciare la Tritone con una scusa. Può nascondersi qui con te oppure entrare nella flotta reale, a me non importa. Quello che voglio è che resti vivo, soltanto questo. Lo farai?” chiese, allentando la pressione sulla gola della donna ormai sul punto di perdere i sensi.
“Lo… lo farò” balbettò Dwyn. “Ora lasciami… ti prego” aggiunse con fatica.
“Va’ a cercarlo” ordinò la ragazza sollevando la gamba. Rinfoderò il pugnale, girò sui tacchi e lasciò la catapecchia. Il sole ormai era sorto, e la città di stava svegliando. Non c’era tempo per far visita alla madre e ai fratelli, doveva ritornare al molo prima che il nostromo della Silenzio notasse la sua assenza.

 

IL RITORNO DELLA REGINA

L’acqua ghiacciata del mare le lambiva le caviglie. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Si concentrò sulla piacevole sensazione della sabbia tra le dita e dei piedi che solcavano la superficie molle della battigia. Indossava una veste leggera verde smeraldo i cui lembi si sollevavano e le ricadevano sulla pelle seguendo la danza del vento. Quella mattina aveva raccolto i capelli da sola, in un’acconciatura semplice e alta, per evitare che le si annodassero a tal punto da passare la notte a farseli spazzolare dalla sua ancella. Aveva bisogno di pensare fuori da quelle quattro mura ammuffite. Euron l’aveva informata sul piano dei ribelli e sapeva che il loro governo non avrebbe retto ancora per molto. Dovevano agire, dare a quei plebei non solo qualcosa in cui riporre speranza, ma anche una dimostrazione di forza e lei aveva un piano. Si sarebbe esposta in modo pericoloso, ma non vedeva alternative. Un’onda più alta le si infranse all’altezza del ginocchio. “Maledizione!” sussurrò a denti stretti.
Tornò verso la scogliera e andò a sedersi e a contemplare il mare. L’unica cosa che apprezzava di quelle maledette isole era la vista sull’oceano, che le ricordava la sua infanzia, i giorni in cui, ancora bambina, giocava con suo fratello sulla riva. Ogni volta che si guardava allo specchio le pareva di rivedere lui, il gemello, l’amante perduto, e si chiedeva se Jaime, ovunque fosse, provasse la stessa sensazione.
Si scostò una ciocca ribelle dalla fronte, una ciocca tinta di nero. Ricordò il tempo in cui la sua chioma dorata splendeva come la corona che vi poggiava, prima che i suoi capelli venissero straziati dal coltello dei fanatici, prima che fosse costretta a tingerli per passare inosservata durante la fuga e sentì la rabbia crescere in lei, una furia cieca, un desiderio di vendetta che da anni non la invadeva tanto prepotentemente. Durò un momento, poi la stanchezza ebbe di nuovo il sopravvento.
“Sono vecchia, ormai” pensò, guardandosi le mani sulle quali vene azzurrognole si dipanavano come piccoli affluenti di un fiume. Chiuse gli occhi e rivide quelle stesse mani lisce come seta, le dita lunghe, affusolate, che si stringevano sul petto di Jaime, sul suo collo, la sua schiena, lasciando piccoli segni rossi là dove aveva affondato le unghie. Dov’era, ora? Nelle lunghe notti insonni, chi gli scaldava il letto?
“Mi è stato fedele per tutta la vita”. Era vero. Lei aveva avuto molti amanti, alcuni per piacere, altri per necessità, opportunismo o perfino per noia. Lui no. Eppure, avrebbe potuto avere tutte le donne dei Sette Regni. Forse ancora adesso sognava di lei, forse, nonostante tutto, era il suo ricordo quello che lo infiammava, nonostante fossero trascorsi dieci, lunghissimi anni.
Inevitabilmente, ripensò anche alla loro ultima notte, al momento in cui la carezza di Jaime si era fatta una stretta letale attorno al suo collo. Ripensò alla profezia, che in qual momento aveva creduto essere sul punto di avverarsi. Aveva sempre pensato che fosse Tyrion il fratello che le avrebbe strappato la vita, o che ci avrebbe provato, invece si era ritrovata con le dita di Jaime piantate in gola e le lacrime calde e salate di lui che le gocciolavano sul viso e sulle labbra riarse che bramavano aria. Lo aveva guardato con stupore, incredula, domandandosi perché dopo essere stati uniti contro il resto del mondo per tutta la vita lui avesse deciso di voltarle le spalle. Per chi, per cosa? Per un bene più grande, una causa più giusta? L’unica causa alla quale suo fratello era sempre stato votato era preservare il loro legame, ad ogni costo. Cos’era cambiato? Mentre sentiva le forze venire meno, mentre il viso dell’unico uomo che avesse mai amato si distorceva in una maschera di disperazione e follia, lei aveva staccato le mani dal polso di lui che fino ad un momento prima aveva cercato di allontanare da sé e le aveva sollevate fino a toccare il suo volto. Le sue dita avevano sfiorato le guance di lui, ne avevano asciugato le lacrime e con le labbra aveva pronunciato il suo addio, muto, perché ormai non c’era più aria nei suoi polmoni.
Solo allora Jaime l’aveva lasciata andare e per un momento lei aveva creduto che sarebbero stati di nuovo uniti contro il mondo. Ma si sbagliava. Jaime le aveva risparmiato la vita, ma non era tornato da lei. “Vattene lontano e non fare più ritorno” le aveva detto, prima di allontanarsi. Le aveva voltato le spalle e lei era troppo debole per seguirlo. A mala pena ricordava come era riuscita a rialzarsi e a fuggire.
Si domandò se esisteva ancora una possibilità per loro, dopo tutto quello che avevano passato, dopo gli anni di separazione. L’aveva lasciata andare, aveva ucciso un’altra donna e aveva lasciato che ne esponessero il cadavere, martoriato, sulle mura della Capitale perché tutti credessero che la regina era morta. Era sempre stato pronto ad uccidere per lei, non l’aveva mai tradita. Se fosse tornata, non come una reietta ma con un esercito, forse non avrebbe riavuto soltanto il trono, ma anche il suo uomo.
Si alzò, rinfrancata da quel pensiero, e volse lo sguardo alla scalinata dissestata che conduceva alla spiaggia. Euron stava scendendo col passo di chi conosce a memoria ogni gradino instabile e ogni centimetro di terreno cedevole. Fu al suo fianco in pochi secondi, durante i quali lei si sforzò di assumere uno sguardo quanto più impassibile. Si schiarì la gola e si scrollò di dosso ogni segno di apprensione e indizio di emozione.
Lo salutò con un gesto del capo, cercando di nascondere il ribrezzo che provava per quell’uomo. Di tutti gli amanti che aveva avuto, Occhio di Corvo era stato sicuramente il più folle e il più rude, perfino peggio di Robert.
“Stai aspettando qualcuno?” l’apostrofò con scherno “Il tuo salvatore volantiano?” Rise di gusto e lei sentì, prepotente ed imperioso, il desiderio di cavargli con le unghie anche l’altro occhio. Credeva di averla in pugno, quell’idiota, credeva che lei facesse parte del suo piano e non si rendeva conto, invece, che era lui a far parte di quello di lei.
“Quando sbarcherà sulle isole, lo ucciderò e sfrutterò i suoi sodati per reprimere questa assurda ribellione e dare inizio ai miei piani di conquista. Senza il tuo aiuto” proseguì il re prendendole il viso tra le mani e avvinandosi a lei, le labbra azzurrognole così vicine alle sue che percepì il vago sentore dolciastro dell’Ombra della Sera.
“Fossi in te non sottovaluterei l’avversario. Non sai cosa sono in grado di fare gli uomini per amore” rispose. Quelle parole… appartenevano al passato, ma, forse potevano appartenere anche al suo futuro se tutto fosse andato liscio. “Le tue ambizioni possono ancora portarti negli abissi” disse, tirando indietro di scatto la testa e liberandosi dalla morsa delle dita di lui.
“Non hai ancora imparato la lezione, vero? Adesso è il mio momento e il dio degli abissi potrà solo restare a guardare. Scrivi alla tua tigre e fallo venire in forze, ma le spire della piovra lo stritoleranno e si prenderanno tutto ciò che è stato suo. Le sue ricchezze, il suo esercito, le sue navi…” elencò, poi con un gesto fulmineo la bloccò con un braccio mentre l’altra mano le alzava le sottane alla ricerca del suo sesso. “La sua donna l’ho già avuta”.
La risata folle del re riempì la spiaggia vuota e silenziosa. Mentre lottava contro le ondate di nausea che le provocava il contatto con quell’uomo, giurò vendetta. Era vecchia, stanca, ma era ancora una leonessa. “Il mio nome è Cersei Lannister e tu sarai il primo a morire. Poi mi riprenderò tutto ciò che mi spetta”.

 

L’ELEFANTE E LA TIGRE

Anche quel giorno, Jaeron si alzò di buon mattino. Nonostante il suo alto lignaggio, amava svegliarsi presto, affacciarsi alle ampie finestre delle sue stanze e guardare l’attività fervere sul Lungo Ponte sotto il quale scorreva impetuosa la Rhoyne. Mentre faceva colazione, osservava le sfingi, le manticore e i draghi che ne decoravano la campata e la gente che si ammassava sulla strada di pietra fusa fin dalle prime ore del giorno.
Jaeron non era come la gente che osservava e, se avesse voluto, avrebbe potuto rimanere a letto fino a che il sole avesse raggiunto lo zenit. Era infatti un influente membro del Triarcato di Volantis, della fazione delle Tigri, nonché discendente di una delle famiglie più antiche e potenti di tutta Essos, la famiglia Maegyr. Famiglia dal patrimonio sconfinato, che si diceva comprendesse mezza Volantis stessa. Ma era un uomo di polso e non si tirava indietro di fronte ai molti impegni legati alla sua carica che richiedevano costante attenzione e partecipazione. Il triarca aveva quotidianamente decine di lettere, corvi e pergamene a cui rispondere, a cui si aggiungevano concili, riunioni e contrattazioni.
Dopo aver finito la colazione ed aver congedato alcuni servi, Jaeron, si diresse nei giardini privati attigui alla camera padronale per riflettere sugli ultimi avvenimenti. Aveva tanto per la testa. I giorni successivi sarebbero stati cruciali, data l'intricata situazione politica in cui si trovava non solo Volantis, ma tutta Essos. Tuttavia, la tigre, non aveva paura, anzi, mentre i primi raggi scaldavano dolcemente i suoi lunghi capelli corvini, un sorriso si stampò nel suo volto e gli occhi verdi sembrarono quasi brillare.
Interpretava quel concatenarsi di eventi che si era abbattuto su Essos come un segno incontestabile che gli dei ed il fato fossero a suo favore. Benedisse ancora il giorno in cui aveva accolto quella donna straniera in casa sua, quella donna così bella, altera e superba. Quella donna che gli aveva consegnato la chiave, che avrebbe dato una svolta alla potente fazione delle Tigri ed alla nobile casata Maegyr.
Prima, però, c'erano delle questioni da sistemare in seno al triarcato, che era ormai ostaggio da anni delle ambizioni degli Elefanti, esponenti della casta mercantile. "È giunta l'ora che venga ripristinato a Volantis il prestigio degno di queste terre" penso tra sé l’uomo "Il vecchio deve lasciare il posto al nuovo, chi non è in grado di stare al passo con l'incessante progredire della storia e chi non è all'altezza della gloria che gli dei hanno in serbo per i più meritevoli, è destinato ad essere schiacciato dal peso di questi ultimi che sono chiamati a compiere grandi gesta per adempiere al loro destino."
Tornò dunque nelle sue stanze per prepararsi ad uscire, in cuor suo percepiva quella mattina come l'inizio di un nuovo corso. Fece il suo ingresso al consiglio del triarcato, sfoggiando il suo solito ampio sorriso. Sapeva bene che quella giornata sarebbe stata decisiva per le sorti di Volantis.
Il potere di Daario Naharis stava diventando spropositato ad Essos, la fazione degli Elefanti, ormai dominante da secoli su Volantis, non lo vedeva di buon occhio in quanto lo percepiva come una minaccia per il commercio e voleva agire chiedendo i poteri speciali per disporre di un potente esercito. Al contrario la fazione delle Tigri, la cui espressione massima faceva capo a Jaeron, vedeva nel nuovo potente signore di Essos un'occasione di rivincita e di rilancio della decaduta città di Volantis.
“Miei signori, eccomi da voi” salutò il triarca posando il suo sguardo sui due colleghi anziani; il più vecchio, Axos, era magrissimo ed alto con lunghi capelli bianchi mentre il secondo, il triarca Trandil, era più giovane e molto corpulento, ma completamente stempiato.
“Mio caro Jaeron” Rispose Axos “Prego sedetevi... ormai sarete al corrente che il consiglio ha votato in maggioranza poteri speciali alla fazione degli Elefanti. Molti di noi trovano vergognoso l'atteggiamento assunto dalle Tigri...”. Fissò con i suoi occhi neri e profondi la tigre, poi continuò: “Sembra quasi che voi vogliate consegnare questa città dalla storia millenaria ad un rozzo gladiatore da circo arricchito!”.
Jaeron non rispose, ma rimase impassibile ad osservare le movenze del vecchio. La demenza senile gli aveva fatto perdere un po' di senno, non si rendeva conto che aveva pur sempre davanti il discendente della casata più antica di Volantis e il capo di una fazione, che seppur aveva perso consensi in seno al triarcato ed al consiglio a causa delle simpatie per Daario Naharis, aveva accresciuto enormemente il suo  potere negli ultimi tempi a discapito degli Elefanti stessi. Quest'ultima fazione composta da grandi e medi mercanti aveva infatti visto notevolmente danneggiato il commercio a causa degli ultimi accadimenti e delle guerre che avevano sconvolto Essos.
Le Tigri, al contrario, erano la casta della grande aristocrazia e dei ceti di alto grado militare. Le loro ricchezze non dipendevano dal commercio, ma risiedevano in Volantis stessa grazie al possesso di un enorme patrimonio composto da palazzi, giardini, patrimoni, e ancora molto altro. La crisi aveva, inoltre, spinto proprio gli Elefanti ad indebitarsi con la fazione nemica attraverso la vendita di buona parte del loro patrimonio immobiliare, che era stato acquistato dalle Tigri in cambio di ingenti somme di denaro, che non erano mai abbastanza per una casta distrutta dagli effetti della crisi politica di Essos.
“Tuttavia” Prese la parola Trandil “La decisione finale deve passare sotto il vaglio del triarcato. Ovviamente mio signore, voi sapete bene che già due voti su tre pendono da un lato, ma noi vogliamo comunque avere il vostro consenso. Sappiamo bene che le alte gerarchie militari sono fedeli a voi ed il nostro potere economico è troppo debole per reggere questo onere. Abbiamo bisogno di voi”.
Il triarca inarcò le labbra ed il grasso mento in una sorta di sorriso che sembrava più un ghigno. Jaeron rimase in silenzio ancora per qualche secondo. Poi si pronunciò: “Ebbene miei signori, avete il mio consenso. La fazione degli Elefanti è l'unica che può farci uscire da questa terribile situazione di stallo. Avrete i nostri soldi e soldati. Questa sera stessa ci accorderemo tutti insieme con i vertici militari, aristocrazia e dignitari su come sostenere la vostra campagna contro Daario Naharis”.
I due anziani si alzarono quasi increduli verso Jaeron ringraziandolo con stima che sembrava quasi sincera.
§§§
La sera stessa era tutto pronto per il banchetto in cui si sarebbe discusso il futuro di Volantis e ratificati i poteri speciali agli Elefanti. Tutti gli uomini più potenti si erano riuniti: dalla casta mercantile, oltre ai due triarchi, si erano presentati gli alti consiglieri Zanter, Xetrin, Nesos ed il resto dell'assemblea. Persino il vecchio e potentissimo mercante Ventris era presente, nonostante il peso degli anni l'avessero fatto diventare una sorta di demente ambulante con un perenne sogghigno grottesco.
La fazione delle Tigri non era da meno: nella sala del banchetto passeggiavano i più importanti nobili, nonché i generali con la casta militare al completo. Presiedevano il lunghissimo tavolo del salone principale del Palazzo del Sole, così chiamato per la sua imponente statura che sembrava lambire il cielo e le rifiniture in oro colato che lo facevano sembrare ai raggi del sole splendente quanto una stella, Jaeron e, accanto a lui, Rhaegys Thrandil, erede maschio della seconda famiglia aristocratica più potente di Volantis. Seguivano poi con sguardo fiero tutti gli altri nobili e generali più influenti della città libera.
La cena fu sontuosa. Vennero servite le carni più prelibate e il tutto fu accompagnato dai migliori vini di Essos. Le Tigri avevano un atteggiamento distaccato ed altezzoso, di contro gli Elefanti sembravano più briosi ed allegri. La costante era il sogghigno ebete di Ventris, faticosamente accudito dal suo servo, che credeva di stare cenando nel suo palazzo e chiamava tutti coloro che si avvicinavano con nomi diversi e sbagliati.
“Miei Signori” disse Jaeron, alzandosi e rivolgendosi a tutti i presenti “è arrivato il momento di procedere alle trattazione delle importanti questioni che ci hanno fatto riunire oggi”. Sorrise mentre veniva portato altro vino.
Il vecchio triarca Axos era l'unico che si guardava intorno un po' circospetto, assaporando ogni tanto il vino dalla propria coppa, ma, proprio mentre sorseggiava quel dolce liquido, si accorse che nel suo bicchiere era inciso un elefante dorato. “Trandil avete notato che le nostre coppe come tutte quelle degli elefanti hanno il simbolo della nostra fazione inciso? Mentre le Tigri il loro? Non vi pare quantomeno bizzarro?” sussurrò al compagno.
Il grasso triarca ribatté: “Cosa vogliate che sia vecchio brontolone? Il classico eccessivo zelo delle Tigri nel voler rimarcare le distanze. Specialmente dopo la cocente sconfitta di stasera”.
Intanto Jaeron continuò il suo discorso: “Oggi si celebra un nuovo corso nella storia di Volantis. Il consiglio ed il triarcato hanno deciso all'unanimità di conferire poteri speciali agli Elefanti”. Il sogghigno demente di Ventris continuava imperterrito. “Inoltre, miei signori, c'è stata anche fatta esplicita richiesta dalla fazione degli Elefanti affinché anche noi Tigri provvediamo a sovvenzionare la loro campagna militare contro Daario Naharis”.
Axos si mise attento a scrutare le facce dei presenti, qualcosa lo insospettiva.
“Avete capito miei Signori e compagni della fazione delle Tigri? Questi pingui mercanti arricchiti non solo hanno richiesto avidamente poteri speciali, ma hanno richiesto anche il nostro denaro ed i nostri soldati... magari la prossima volta chiederanno in prestito anche le nostre mogli?” continuò Jaeron.
Alcuni componenti delle Tigri si misero a ridere. Jaeron sorrideva con sdegno.
“Da quando, stranieri, entrarono a Volantis, questi mercanti di stoffe hanno sempre spremuto fino all'ultimo la vacca del commercio, del prestito, dell'usura e dei traffici meschini e di contrabbando. Mi disgusta solo il fatto di sedermi accanto a loro”.
I membri della casta degli Elefanti non fecero in tempo a reagire alle parole di Jaeron che presero a tossire.
“Il vino è avvelenato! I servi hanno versato vino diverso nelle coppe che riportano inciso l'elefante!” gridò Axos, ma ormai era tutto vano. Vardis mutò il sogghigno in una smorfia di dolore si afferrò inutilmente la gola.
“Questo è l'inizio di un nuovo corso e la fine di assemblee conciliari corrotte. Come è la fine del triarcato e dei loro giochetti di manipolazione spicciola. Voi, Elefanti, avete insudiciato Volantis e non siete in grado di vedere il nuovo che avanza. Voi che giudicate solo con il metro del guadagno e dell'interesse. Ora Volantis ha a capo un solo uomo, espressione della volontà di una solo fazione, le Tigri!”. Tutti i membri della fazione di Jaeron Maegyr si alzarono sorridendo e lanciando occhiate divertite alla fazione nemica, i cui membri ormai cadevano dalle sedie, vinti dal potente veleno.
“Miei signori, ora vi chiedo di cavalcare insieme a me verso il futuro, di spalancare le porte di questa città assopita da un sonno millenario al progredire della storia. Noi ci alleeremo con Daario Naharis ed insieme torneremo ad essere grandi!”.
Le Tigri applaudirono il loro nuovo leader, nonché nuovo monarca di Volantis. Jaeron si risedette al tavolo come non fosse successo nulla. Venne un soldato che gli chiese se fosse l'ora di dare l'ordine pattuito e Maegyr annuì dicendo “Uccideteli tutti”.
Quella notte le spade blu di Jaeron entrarono nei palazzi di tutti gli Elefanti ed uccisero tutti gli eredi, mogli e parenti annessi alla casta. Dalla sua finestra, Jaeron fissava la Rhoyne scorrere sotto il Lungo Ponte. “Aspettami mia Nyenyezi” pensò “Presto sarò da te”.

 

YOHAN

Il sole non era ancora tramontato, ma la taverna del porto di Harlaw cominciava già ad animarsi con marinai, pescatori, scaricatori e soldati della flotta, che venivano a mangiare una minestra calda di quello che forse era pesce e bere birra e vino schietto e stantio come fanno i bruti e i poveracci. L’atmosfera all’interno era densa di fumo e di odori sgradevoli. L’oste prese un corno di vino scadente e gliel’appoggiò davanti, sul tavolo, accanto alla scodella di minestra ancora intatta. “Ecco il miglior vino di Westeros, Capitano” disse con un non nascosto tono di scherno.
Tra ubriachi marinai e mozzi senza un soldo, un gruppo di un paio di preti dalle vecchie vesti grigioverdi, si guardavano intorno spaesati e disgustati per quello che vedevano. Fino a quando i loro occhi si fermarono su un uomo taciturno intento a bere solitario.
Yohan iniziava a bere il terzo corno di vino, mentre stavano arrivando le ragazze per i clienti. Alannys non era particolarmente bella. Era una ragazza con capelli biondo chiaro e gli occhi cupi e verdi, e un’espressione altera così assurda per la sua condizione di giovane prostituta che ricordava a Yohan quelle delle donne orientali di Naath. O forse gli rammentava qualcuno, un amore giovanile delle Isole di Ferro, chissà. La osservava e ogni tanto le sorrideva, e lei ricambiava. Quando lei fu accanto al suo tavolo, le avvicino la minestra.
“Non fotto in cambio di un pasto gratis, straniero” disse guardando al contempo la minestra con avidità.
“Certo, lo immaginavo” rispose lui calmo. “Ma tu sei magra, e se non mangi non sarai più buona per i clienti”.
“Vuoi forse drogarmi? Non saresti il primo bastardo che ci prova”
“Non sono un banale bastardo, stupida, sono uno che prova ad aiutarti a vivere la tua misera vita”
“Allora, hai un nome?” gli chiese titubante dopo essersi seduta davanti a lui e aver iniziato a mangiare.
“Come tutti”.
“Originale” Si ripulì con un lembo della veste e lo guardò intensamente in quegli occhi grigio blu da cui era rimasta catturata. Prese anche da bere dal corno che era rimasto sul tavolo senza chiedere alcun permesso.
“Mi hai chiamato straniero, perché? Non ti sembro il tipico pirata di ferro, predone in una delle tante navi di ferro, figlio di una delle tante isole di ferro?” le chiese con finta curiosità, mentre cercava di squadrare il suo volto alla ricerca di qualcosa che non sapeva neanche lui cosa fosse.
“No, sembri aver navigato mari mai solcati da questi rozzi bruti che dicono di essere uomini di ferro. Ma forse mi sbaglio… Hai intenzione di dirmelo prima o poi questo tuo nome tipico delle isole di ferro?” sembrava quasi provocarlo, probabilmente più per abitudine che per interesse.
“Non ha importanza”
“La mia vita non ha importanza… ma grazie per la zuppa. Mi ha scaldato lo stomaco… e il cuore” era sincera nel dire quelle parole, che erano state dette con una punta di grazia e malinconia, ma fu interrotta dall’oste che nel frattempo si era avvicinato.
La prese di forza intimandole di tornare in camera facendole capire che c’erano clienti. Due marinari avevano pagato anticipatamente e volevano essere soddisfatti. I due, grandi, grossi e sporchi uomini di mare la presero in custodia e la scortarono verso la stanza.
Poco dopo Yohan la sentì gridare. Erano di quelli a cui piaceva far male.
L’alcol gli annebbiava la mente, ma si alzò lo stesso e barcollò verso la porta della camera. Non sentì l’oste che gli urlava di fermarsi quando spalancò la porta biascicando “Lasciatela stare, bastar…”, e non vide il gancio destro dell’energumeno dritto sul volto. Stordito e con il naso rotto si ritrovò per terra.
Si stava rialzando a fatica sotto gli occhi di tutti gli avventori che si accalcavano per vedere la scena. Neanche stavolta ebbe il tempo di mettere a fuoco i due aggressori che con un secondo colpo gli aprirono una ferita poco sopra lo zigomo sinistro. Sanguinante, ubriaco e quasi privo di sensi fu spintonato fuori dal locale. Infine, qualcuno lo trascinò via.
§§§
Non sapeva dire se tutto ciò fosse davvero avvenuto o era soltanto un sogno. Quando riacquistò conoscenza si ritrovò sdraiato prono sulla battigia con le onde del mare che a ritmo regolare lo immergevano nell’acqua gelata. Soltanto allora sentì l’effetto dei colpi incassati e l’allentarsi dell’ebbrezza del vino scarso della bettola. Quando aprì gli occhi vide poco lontano una folla di gente che iniziava a disperdersi e sentiva un giovane Annegato, con la testa calva, il volto scavato e nascosto da una corta barba brizzolata, che chiudeva la sua predica dicendo di diffondere la Verità degli Abissi.
Il tramonto era passato da poco e il sacerdote avanzava a passo svelto sfruttando gli ultimi sprazzi di luce. Faceva svolazzare l’abito talare consunto, portando a tracolla una bisaccia e aiutandosi con il suo bastone per essere più agile negli impervi sentieri che percorreva. Era inquieto e sfuggente, ma lo sguardo trasmetteva dignità e contegno, rivelando una condizione nobile. Continuava a guardarsi intorno nella speranza di non essere seguito. Imboccò una strada che conduceva ad una scogliera, solitamente priva di vita e solitaria, ma non quella sera.
Un uomo, sacerdote del Dio Abissale, alto e magro con ardenti occhi neri, il naso a becco, lunga barba nera e capelli altrettanto neri e lunghi fino alla vita, intrecciati da alghe, era circondato da pochi fedeli e aspettava con lo sguardo rivolto all’orizzonte.
Infine, vide l’ultimo dei suoi seguaci arrivare, il giovane Norjen Harlaw, Onda Impetuosa, che doveva aver finito la sua predica alla spiaggia. Dopo quasi un’ora a dare le ultime direttive per il giorno seguente li congedò, seguendoli con il suo sguardo lungo la scalinata, scavata nella roccia, che portava al porto. Quando fu solo si voltò verso le rocce alle sue spalle, e fissò i suoi cupi occhi scuri sull’uomo che, nascosto con l’aiuto del buio, era rimasto ad osservare la scena. Allargò le braccia e sembrò invitarlo ad avvicinarsi. Solo allora l’uomo uscì dall’oscurità e lentamente raggiunse Capelli Bagnati, salutandolo: “Ciò che è morto non muoia mai”.
“Ma si rialzi più duro e più forte. Avvicinati, mio fedele amico. Che il dio degli Abissi ti benedica.” quando furono abbastanza vicini il sacerdote continuò “Vedo malinconia nei tuoi occhi. Non è forse vero che anche tu sei stato illuso come tutti noi dal demone? Non è forse vero che anche tu vuoi che l’Antica Via torni a guidare tutti gli uomini di ferro? Che la tempesta venga infine sconfitta dagli Abissi? Non è così, Yohan Farwynd?”.
Yohan si avvicinò ancor di più e poté così vedere il volto e lo sguardo di Capelli Bagnati, che lo aveva riconosciuto. Vi scorse tanto odio quanto non ne aveva mai visto negli occhi di un essere umano. Dopo un attimo di pausa per far soppesare quelle parole al suo interlocutore, l’Annegato continuò con la stessa ferocia determinazione:
“Il nostro dio vuole fare di te un suo rematore, ma non nelle profondità degli abissi. Vuole fare di te un suo strumento per combattere la Tempesta, qui, sulla superficie delle sue onde.” poi indicò una nave poco distante dalla riva e continuò “Quella che vedi è la “Golden Fang”. Al momento è senza una valida guida, ma i suoi uomini meritano un capitano fedele al Dio Abissale, che mostri loro la via alla gloria e la strada che porterà alla fine della tirannia di Euron Greyjoy. Penso che tu potresti essere quell’uomo. Combatterai con me e con il dio Abissale contro Occhio di Corvo?” concluse, pronunciando il nome del Re con tono dispregiativo.
Lo aveva conquistato. Una nave di ferro tutta sua, una ciurma di fanatici scalmanati, sprezzanti della morte, lupi di mare amanti delle navi più delle loro donne, sotto il suo comando. Non sembrava esserci alcun inganno, nessuna trappola. La nave era lì, il sacerdote completamente solo accanto a Yohan e nessuno che gli potesse impedire di rifiutare. Non aveva nulla da perdere. Credeva nel dio Abissale e conosceva la guerra ancestrale tra gli dei degli uomini di ferro.
Capelli Bagnati era sì il fratello del re, e l’odio, o antipatia, che provavano l’uno per l’altro era sulla bocca di tutti. Ma Capelli Bagnati, Aeron Greyjoy, era altresì il sacerdote più devoto che gli uomini di ferro avessero mai conosciuto. L’unico a vantare la capacità di aver fatto rinascere tutti  i suoi annegati dopo il rito si annegamento. Forse l’unico a conoscere davvero la volontà e le parole del dio delle onde.
Senza aspettare oltre Yohan si inginocchiò e accettò l’offerta: “Condurrò la mia nave e i miei uomini attraverso le onde tenebrose. E la mia giustizia calerà sopra gli esseri egoisti e gli uomini malvagi, con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare, e infine a distruggere i miei fratelli. E tutti sapranno il nome del Dio Abissale, quando farò calare la mia vendetta sopra il tiranno”.
Sotto la luce argentea della luna nascente, seguì il battesimo e la benedizione di Capelli Bagnati che usò la sua personale fiasca d’acqua salmastra, che portava sempre con sé e usava per situazioni come quelle.
All’alba del nuovo giorno, al largo della medesima scogliera in cui era stato battezzato, poté ammirare la sua nave. La luce del mattino accarezzava la Golden Fang, facendola spiccare rispetto all’azzurro chiaro del mare: era nera come la notte, lunga, stretta e slanciata, con un pescaggio poco profondo, come la maggior parte delle navi di ferro. Simmetrica e con un solo albero a vela rettangolare color blu abisso. Il nome della nave era data dalla “decorazione” presenti a prua: un grande ariete a punta e di ferro lucente che sfiorava l’acqua come una zanna dorata.
 
 

 

KEIN

La tolda della Silenzio era rossa come un tramonto di sangue. Sotto sapienti colpi di spugna e pennello, il colore stava tornando alla vita, come un cuore pulsante e cattivo. Kein stava lavorando a prua, di buona lena, quando udì qualcuno chiamare il suo nome.
Si alzò e con la mano libera si schermò gli occhi dal riverbero del sole. L’uomo che l’aveva apostrofata aveva un aspetto insignificante: basso di statura e dal fisico ben poco prestante, viso ordinario, occhi e capelli scuri… all’apparenza, uno che non meritava un secondo sguardo. Ma Kein aveva sentito parlare di lui e sapeva che la sua presenza sulla Silenzio non prometteva nulla di buono.
Lasciò cadere il pennello e si avvicinò alla spia di Euron. Si inchinò leggermente in segno di rispetto e chiese, compita: “Volevi vedermi mio signore?”
L’uomo andò subito al sodo, senza troppi giri di parole: “Sì, vorrei parlarti dei tuoi ultimi movimenti” disse.
La ragazza rispose senza scomporsi, gli occhi piantati in quelli dell’interlocutore: “Sono stata al porto a lavorare alla Silenzio, in qualche taverna per rifocillarmi e sono stata anche a trovare la mia famiglia, mio signore”.
“Di recente hai fatto visita alla moglie del sale di un membro del tuo vecchio equipaggio. Posso chiederne il motivo?” proseguì la spia.
“Dannazione, mi ha fatta seguire. E io stupida non mi sono accorta di nulla” imprecò Kein tra sé. Ma sul suo viso non lasciò trasparire alcuna emozione.
“Non ne vado fiera mio signore...” ammise “Ma era necessario. Vedi, vantavo dei crediti nei confronti di quell'uomo, ma dal momento che sono stata processata lui ha deciso che ormai avrebbe potuto tenersi quanto mi appartiene. Ho bisogno di quel conio per la mia famiglia, così sono andata a dare una lezione alla sua moglie di sale. Come avvertimento, capisci?”
“Strano...” replicò l’uomo fingendosi sorpreso “Quando abbiamo parlato con lei ci ha raccontato un'altra storia e, non mi pareva che avesse appena ricevuto una lezione. Riprova e questa volta dimmi la verità! Sai non vorrei rovinare quel bel visino che ti ritrovi” concluse abbandonando l’espressione stupita.
“L'ho strapazzata, ma senza esagerare. Non avevo certo intenzione di ritrovarmi di nuovo sotto processo. Non so cosa vi abbia detto, ma tenendo presente che mi sono portata a letto il suo uomo probabilmente avrà dato libero sfogo alla fantasia, mio signore” rispose Kein, sperando che la bugia apparisse credibile. Chiunque sulla Tritone sapeva che lei aveva sempre rifiutato le profferte di Rordan, ma sperava che le indagini della spia non si fossero spinte fino a particolari tanto sordidi.
“"Mmm, Vuoi sapere cosa mi ha detto?” domandò la spia sogghignando.
Se pensava di prenderla in contropiede, si sbagliava di grosso. Probabilmente quell’idiota di Dwyn aveva spifferato tutto con dovizia di particolari e Kein non aveva bisogno che l’uomo confermasse i suoi sospetti. “Non sono interessata alle bugie di quella donna” rispose. “Mi sono limitata una volta e non vorrei dover tornare a darle il resto”.
“Va bene!” si arrese la spia “Comunque ti dico una cosa: non credo a nessuna delle due. Dicevi prima di essere andata in taverna? Da sola?” insistette.
L’interrogatorio si stava facendo più pressante e Kein ormai aveva capito dove il suo aguzzino intendeva andare a parare. Decise di giocare una carta che parecchie volte l’aveva messa in posizione di vantaggio. In fondo, gli uomini sono creature semplici. “A volte da sola, altre in compagnia” rispose passandosi la lingua sulle labbra, provocante senza risultare sfacciata. “Anche le donne di ferro hanno le loro esigenze, mio signore.”
Dallo sguardo dell’uomo capì di aver fatto centro. “Sì posso capire…” replicò quello, lasciando la frase in sospeso. Ma poi si riscosse. “Una volta però ci sei andata con un uomo particolare del tuo passato e, secondo i rapporti, vi siete lasciati prima che ti potesse infilare il suo vecchio cazzo nella tua giovane fighetta”.
Kein avrebbe volentieri tagliato il vecchio cazzo della spia e glielo avrebbe ficcato in gola fino a soffocarlo. Decise di giocare a carte scoperte. Più o meno.
“Non un uomo qualsiasi, mio signore. Era il capitano Alon Wynch e scommetto che tu lo sai benissimo. È un brav'uomo e mi è sempre stato affezionato. Mi ha dato dell'argento come buonuscita per gli anni passati al suo servizio. Ma come ben sai, la famiglia Wynch è una grande sostenitrice del re fin dal giorno dell'acclamazione e così il capitano mi ha portata in un luogo dove non lo avrebbero riconosciuto. Si vergognava di farsi vedere con me, ma voleva aiutarmi. Come ho detto, mio signore, è un brav'uomo, devoto alla corona e giusto con il suo equipaggio”.
“Sì, ERA un brav'uomo ed ERA devoto alla corona” replicò l’altro, sottolineando il tempo passato “Ma sai a cosa non credo? Alle coincidenze. Infatti TU hai avvertito il re del pericolo DOPO aver parlato col tuo capitano. Quindi ora dimmi LA VERITÀ!”.
Ormai era stanco di giocare al gatto col topo e aveva iniziato ad alzare la voce. Kein gli si avvicinò: era più alta di lui e lo avrebbe facilmente messo al tappeto. “Un altro sulla mia lisa nera” pensò, ma il suo sorriso era umile e arrendevole. “L'ho detta, ma tu non mi credi. E non ti biasimo, mio signore, ho confuso le acque al processo per aiutare mio fratello” confessò. Una piccola verità avrebbe forse coperto una grande bugia. “Ma credi davvero che metterei in pericolo la mia vita e la sua per qualcuno che non fa parte della mia famiglia? Loro soltanto contano per me”.
“Una ciurma è come una famiglia, quindi lo reputo possibile. Comunque darò al tuo capitano l'occasione di dimostrare la sua fedeltà a re Euron. In quanto a te, verrai punita con cinque frustate. Purtroppo è il massimo che il re mi ha concesso senza prove evidentissime del tuo tradimento” concluse.
Ad un suo gesto, due uomini le si avvicinarono minacciosi.
“Non c’è alcun bisogno” fece Kein, liberandosi dalla stretta di uno dei due che le aveva afferrato il gomito. Afferrò il lembi della tunica, se la sfilò e la lasciò cadere a terra. Era consapevole degli sguardi della ciurma, ma non le importava. Doveva dimostrare di essere coraggiosa, una vera donna di ferro per ottenere il rispetto dei compagni. Lo aveva imparato a sue spese tanti anni prima.
Si incamminò verso l’albero maestro, mantenendo la postura eretta e la testa alta, le braccia lungo i fianchi, senza coprirsi il seno. Che guardassero pure. Sentiva sulla schiena lo sguardo della spia e dei suoi due scagnozzi, pronti a saltarle addosso al primo movimento azzardato. Ma non avrebbe fatto scherzi. Alzò le braccia sopra la testa, si appoggiò al legno e lasciò che la legassero. Un marinaio, uno dell’equipaggio originale della Silenzio, le si accostò porgendole un pezzo di legno. Non poteva parlare, ma Kein lesse il rispetto nei suoi occhi. Annuì e l’uomo le sistemò il legno tra i denti. Quando la prima frustata giunse, lacerandole la pelle, Kein affondò i denti. Poi ci fu la seconda, poi la terza che si intersecarono, ferita su ferita. Alla quarta, la giovane urlò, la carne ormai esposta, il sangue che si confondeva con il rosso della tolda. “L’ho dipinta col mio sangue” pensò. Fu l’ultimo pensiero, poi arrivò la quinta scudisciata. Kein gridò di nuovo e perse i sensi.

 

YOHAN

Sessantasei scudi ornavano e difendevano le fiancate della nave. Un numero imprecisato di armi variegate tra spade, archi, alabarde, coltellacci, asce barbute e asce da lancio aspettavano di bere sangue umano. Venti paia di remi erano pronte per scalfire la superficie del mare. Trenta rematori, un Annegato, un timoniere e un capitano componevano quell’equipaggio di otto donne di ferro e venticinque uomini di ferro: trentatré pirati fanatici del Dio Abissale.
Non sarebbe stato facile ricordare tutti quei nomi in breve tempo, ma se la sorte fosse stata favorevole, le future battaglie avrebbero reso il compito più facile.
La nave era già stata ben carenata. Alcuni uomini erano impegnati nella manutenzione secondaria: pulizia, controllo di attrezzi, dei ricambi o delle armi. Yohan aveva dato ordine di smontare l’ariete e riporlo all’interno del vascello, pronto all’uso. Tutto il lavoro si stava svolgendo sotto i severi occhi del nocchiero Charun Treccia Bianca. Un vecchio odioso e cupo, con occhi rosso fuoco, dal volto glabro, se si escludeva il pizzetto bianco a punta e, sulla testa pelata, la lunga treccia di capelli bianchi legati tra loro con ogni sorta di piccole chincaglierie, bottini più o meno pregiati, razziati chissà dove. Fumatore e masticatore incallito della sua amata e saporita Algapipa delle Isole, unico vizio e piacere delle lunghe notti di navigazione, si accompagnava sempre di una mazza, la cui parte terminale era diventata di un minaccioso rosso scuro a causa del sangue rappreso delle vittime cadute sotto i suoi colpi.
L’abile e veloce maestro d’ascia, invece, si stava occupando di decorare le polene di poppa e prua, lavorando il legno in due teste rappresentanti il drago marino Nagga. Era Vik Scudo Osceno, un marcantonio più largo che alto, i cui muscoli erano nascosti da strati di grasso, rendendolo di fatto un ciccione basso ma forzuto. Sempre pronto alla battuta, teneva alto il morale dei compagni raccontando infinite storie di mare, spesso e volentieri volgari o tenebrose. Si vantava del fatto che il Re Grigio in persona, eroe leggendario del Dio Abissale, avesse tramandato alla sua famiglia tutti i segreti per scavare il duro e livido legno di Ygg, l’albero demone, che si nutre di carne umana.
Sulla spiaggia il resto della ciurma sonnecchiava o si teneva in forma. Tra questi ultimi che si stavano allenando c’era Hotho Netley, fratello minore di una casata nobile di origini recenti, ancora alla ricerca di prestigio. Prestigio che credeva fortemente di ottenere grazie al Credo degli Abissi. Un uomo duro, temprato dalle vicissitudini di una vita di mare, incuteva timore per i tatuaggi che gli ricoprivano tutto il corpo e che metteva in mostra combattendo a petto nudo. Con lui c’erano le sue due bellissime figlie di sale Arwyn e Valkja. La prima dai capelli rosso ramato che teneva legati con una lunga treccia a spina di pesce e la seconda dai corti capelli giallo oro, rasati ai lati con il ciuffo lasciato lungo e asimmetrico. Eredi dirette del padre che non aveva avuto figli dalla moglie di roccia. Hotho aveva cresciuto le due ragazze come vere Donne di Ferro, infatti, erano sullo stesso livello, se non superiore, di tutti gli Uomini di Ferro. Volubili e crudeli erano indomabili come il mare.
In mezzo a quei nuovi compagni sconosciuti, Yohan aveva avuto la fortuna di trovare un’amica d’infanzia, Enya Harlaw di Giardino Grigio con il compagno Balaq Rematore Nero, un gigante orientale dalla pelle eburnea. Catturato ad Essos e poi fatto servo nelle Isole di Ferro, era diventato amante della sua testarda padrona. Aveva abbracciato il culto del Dio Abissale con lo stupore di tutti e ne era diventato uno dei sostenitori più accaniti, al punto da prendere alla lettera e seguire ciecamente i dogmi della religione propri degli Annegati, di non spargere sangue tra gli uomini di ferro, ma che lui allargava anche ai suoi nemici del continente: le sue vittime venivano annegate, soffocate, stordite e poi uccise, ma mai una goccia di sangue usciva dai loro corpi esanimi. Enya, più giovane di Yohan di un paio d’anni, era un’abile guaritrice e guerriera dai lunghi capelli biondo cenere e dagli occhi verde smeraldo che venivano risaltati dalla sua abitudine a tingersi orbite e palpebre di nero seppia. Magra, atletica e dalla pelle segnata da più di una cicatrice, che però non deturpavano la bellezza di quella donna matura ma ancora attraente. Si erano conosciuti a Giardino Grigio quando, durante la sua infanzia, Yohan era stato mandato a crescere nell’Isola di Harlaw. Aveva stretto amicizia con la figlia del Lord di Giardino Grigio e insieme avevano passato gli anni tumultuosi della ribellione di Balon Greyjoy, fino a quando Yohan aveva deciso di imbarcarsi con Euron Occhio di Corvo, esiliato dal fratello Balon.
Yohan si diresse dalla vecchia amica, per informarsi meglio su quegli uomini: “C’è qualcuno che mi devo accattivare per tenermi buona la ciurma o che potrebbe crearmi problemi?”. Lei quando lo riconobbe gli sorrise e i due si abbracciarono calorosamente.
“La prima sono io e la seconda… sempre io, ma con questa mancanza di perspicacia perdi già punti. Devi rimediare” gli rispose sorridendo.
“Penso che mi sbarazzerò di te allora”
“No, così peggiori la situazione. Sono pericolosa ricordi? Potresti addormentarti e non svegliarti più. Ho un amante che mi protegge fin da piccola, prima cacciava via gli stupidi ammiratori, ora li uccide. Ritenta” disse, rievocando ricordi ormai passati.
“Forse posso strapparti la lingua, il Dio Abissale sarà solo uno dei tanti a essermi debitore”
“Balaq avrebbe dovuto spappolarti quella testa molto tempo fa”
“È un peccato che non abbia colto quell’occasione quando ancora poteva sovrastarmi”
“Senza dubbio. Ma io sono un’amica buona e giusta, ti aiuterò nel tuo arduo compito. Capitano” lo canzonò. Poi solennemente indicò la persona di cui Yohan aveva bisogno “Capelli Verdi è l’individuo che cerchi. Ragazzino sì, ma anche il più grande oratore che gli Annegati abbiano: è infatti un Dio della parola. Conquista lui e conquisterai… beh… diciamo che eviterai di morire per cause poco chiare, ooh sì” gli strizzò l’occhio e concluse con una profonda riverenza palesemente falsa.
§§§
Capelli Verdi si trovava separato dal gruppo. Un novizio della Cittadella mancato, con i suoi 13 anni era il più giovane. Alto, Magro, dal volto scavato, dagli occhi piccoli e malvagi e dalla vista eccezionale e per questo vedetta di prua della nave. Portava i capelli lunghi intrecciati con alghe verdi, alla pari del re rappresentato nello stemma estinto dei Greyiron. Casata da cui, inoltre, aveva preso il nome dell’ultimo discendente, Rognar, ma questo prima dell’annegamento. Era, infatti, un Annegato, sacerdote forse tra i più fanatici e folli. Battezzato e riportato in vita dallo stesso Capelli Bagnati, che si diceva essere benevolmente invidioso dei capelli verdi del giovane. Con la passione di Segaossa, più che guaritore, portava sempre con sé i suoi attrezzi “chirurgici”, che puliva con meticolosa attenzione. Aveva, più volte, tenuto in vita decine di uomini, che erano tornati quasi morenti dalle scorrerie contro i soldati delle Terre dei Fiumi.
Raggiunse il ragazzo e lo trovò che pregava inginocchiato sull’acqua “Signore Iddio che per noi sei annegato…”
Yohan lo interruppe cercando di non essere troppo brusco, pronunciando il verso finale del Credo. Poi si rivolse al giovane: “Alzati, Capelli Verdi, dimmi un po’, da quanto tempo navighi sulla Golden Fang?”.
Con un tono che voleva essere lento, ossequioso e religioso, cominciò a parlare “Oh sì, da poco capitano, aye, un paio di mesi al massimo,oh sì. Prima predicavo come gli altri sacerdoti sulle spiagge delle Isole, oh sì, ma non mi ascoltava nessuno, oh no, se ne andavano via tutti non appena iniziavo a raccontare la Verità degli Abissi, aye. Allora, Capelli Bagnati mi ha affidato il compito di portare il nome del Dio Abissale ai miei compagni sulla Golden Fang. Capitano”.
“E fu sufficiente quel tempo per conoscere il precedente capitano?”.
“Oh no, era un Kenning, aye, tze” accompagnò quel suono con uno sputo “qualche figlio cadetto senza importanza, oh sì” disse con velato spregio “un tipo strano in verità, aye, il suo Credo non era abbastanza radicato, oh no, non come quello dei miei compagni, oh no. Capitano”.
“Come è morto?”.
“Ooh sì, eravamo sulla costa, aye, sulle Terre della Cipolla, oh sì. Capitano”.
“È stato ucciso dai soldati?”.
“Oh no, stavamo combattendo sulla spiaggia, aye, contro i soldati del Cipollaro, oh sì, cani bastardi i mangiacipolle, oh sì, ma poi siamo riusciti a scappare, aye, senza nulla, oh no, ma siamo stati graziati dalle Onde, che ci hanno riportato a casa tutti vivi, oh sì” annuì ieraticamente “oh no! cioè il capitano no!, si intende, oh no, lui no” scuoteva la testa malinconicamente “è rimasto ferito lui, aye, morso da un mastino, dalle grosse zanne gialle, aye, durante il ritorno il Dio Abissale ha voluto che remasse per lui, oh sì. Lo ha reclamato a sé, aye. Capitano”.
“Ferito?”.
“Oh sì, di striscio, aye, braccio destro, oh sì. Capitano”.
“Non mi sembra così grave da causarne la morte”.
“Oh no, è vero, aye, nulla che acqua salata non possa guarire, aye. È quello che ha pensato il capitano, oh sì. L’ho pure bendato io, aye, con l’acqua del Dio, aye. Ma la ferita si è infettata, il veleno si è fatto strada in tutto il suo corpo, oh sì, impossessandosi della sua anima, aye. Delirava alla fine, oh sì. Capitano”.
“Lo avete donato al mare prima che morisse?”.
“Oooh no, è rimasto in vita fino all’arrivo” un sorriso soddisfatto e malvagio gli lambiva il volto “ancora respirava il capitano quando abbiamo toccato terra, aye. È morto dai Kenning, tze, ooh sì. Capitano”.
Yohan cercò di carpire qualcosa da quella litania per trovare qualcosa da usare a suo vantaggio, quando ripensò al nome “Golden Fang… un nome che ha portato sfortuna al vecchio comandante dunque”.
“Oh sì, sì, aye. Capitano” rispose beffardo.
“Tu sei un Annegato giusto?”.
“Oh sì, sì, aye. Capitano”.
“Puoi benedire e battezzare anche le navi allora”.
“Oh sì, sì, aye. Capitano” annuì fiero.
“E Capelli Bagnati ti ha chiesto di portare il nome del Dio sulla nave…”.
“Oh sì, sì, aye. Capitano”.
Dopo aver atteso qualche minuto per fingere di ponderare diverse opzioni, Yohan disse “Officerai al nuovo battesimo della nave. La benedirai con tutto ciò che il rito richiede. Che il Dio non si offenda perché cambiamo nome alla nave e che sappia che da oggi il vascello porterà il suo nome: “Abisso”“
Capelli Verdi lo guardò raggiante. Il suo compito stava per essere portato a termine. Come aveva potuto non pensarci prima, si chiese. Gli abissi più profondi avrebbero accolto i nemici del Dio, condotti dall’Abisso stessa “oh sì, certo, aye. Capitano”.
“Un dio della parola?!? Un grande Oratore?!? Era stato uno strazio per le sue orecchie e per la sua anima”. Yohan sperava almeno di aver portato dalla sua parte il giovane sacerdote. Eppure non poteva che pensare a come la stronza gliel’aveva fatta sotto il naso, non avvisandolo dell’agonia. Poco male, sapeva come fargliela pagare.
Si rivolse un’ultima volta a Capelli Verdi “Ah, quasi dimenticavo, prenditi pure tutto il tempo che ti serve per preparare il battesimo. Cerca Enya, sarà felice di assisterti”.
“Non vede l’ora, aye, oooh sì” aggiunse tra sé e sé mentre si allontanava.
§§§
Yohan continuava ancora a osservare e valutare la nuova ciurma, anche durante gli ultimi atti del battesimo della nave quando i suoi pensieri furono interrotti dall’arrivo di Capelli Bagnati, che gli si era avvicinato alle sue spalle: “Date a questi uomini una rotta e navigheranno fino ai confini del Mondo” esordì “ma prima portali al riscatto e alla gloria nel nome del Dio Abissale”.
Gli ordini, sotto forma di consiglio, erano stati chiari: rapire la Regina dal palazzo di Pyke.
Yohan iniziò a considerare un’infinità di variabili per entrare in una fortezza inaccessibile.
 
 
 
 
 

 

SHIN

Aveva bisogno di bere, per dimenticare.
Il lieve tintinnio delle monete, avvolte negli stracci, accompagnava i suoi pensieri, i suoi passi sul selciato, un piede dopo l’altro verso, senza una direzione, senza una meta, in quelle strade che gli apparivano tutte uguali, tutte ugualmente fetide, tutte ugualmente spoglie.
Alle sue spalle un uomo giaceva riverso nel sangue, rantolante. Un uomo… poco più di un ragazzo, ma abbastanza stupido da tentare di derubarlo. Lo aveva attaccato all’improvviso, cercando di prenderlo di sorpresa, ma i suoi affondi erano lenti, prevedibili, privi di tecnica, e il cavaliere lo aveva schivato con facilità. Il coltello dell’aggressore aveva sibilato a poca distanza dalla guancia di Shin prima che la mano di lui si abbattesse sul viso del malcapitato, ancora, ancora e ancora. Aveva sentito la mascella scricchiolare, i denti spezzarsi sotto i suoi colpi, ma non si era fermato.
Avrebbe potuto ucciderlo, ci era andato vicino. Aveva posato la mano sull’elsa della spada provocando negli occhi del ragazzo un cieco terrore… ma alla fine aveva desistito. Non per pietà, ma perché trafiggere quel disgraziato sarebbe stato un insulto al suo rango, al suo giuramento. Non poteva rinnegare lo Shin di un tempo, il suo mantello, il suo onore… non del tutto, non ancora.
Non lo aveva ucciso, no, ma aveva continuato a colpirlo, preso da un cieco furore, con tutte le sue forze. Il pugno si abbatteva ad un ritmo sincopato, primitivo, come un tamburo, pulsava nelle sue vene, lo avvolgeva come un manto… aveva smesso solo quando era stato troppo stanco per alzare nuovamente il braccio, quando si era ritrovato ansimante, sfinito.
Solo allora si era alzato, lasciando l’avversario riverso a terra, in una pozza di sangue, il volto ridotto ad una massa informe di carne, il naso spappolato, la bocca quasi priva di denti, una caverna vuota, semiaperta alla ricerca d’aria… ma il petto ancora si alza e si riabbassava, era vivo. Se n’era andato.
Aveva bisogno di bere.
Entrò nella prima locanda che trovò sulla sua strada, un luogo anonimo in cui dimenticare se stessi, i propri problemi, lasciar affogare i pensieri in un liquido dal sapore aspro. Si lasciò cadere su una panca, lasciando vagare lo sguardo sui tavoli occupati da gruppetti di ubriachi chiassosi, uomini solitari come lui, ciurme ed equipaggi, genti dell’est e dell’ovest… Le sue orecchie udirono lingue diverse, risate roche, grida, canti osceni. Pyke era un crogiolo di razze, come una fiamma le falene, così l’isola attirava i reietti, i ladri, gli assassini, gli sbandati non solo del Continente Occidentale, ma anche da Oriente, che cercavano imbarchi nella Flotta di Ferro, sognando oro da spendere in vino e donne… Li scrutò tutti, in cerca di un volto che valesse la pena guardare, finché non intravvide una figura solitaria ad un tavolo ad angolo che attirò la mia attenzione.
La riconobbe, immediatamente, era lei, Kein…
La osservò per qualche istante, i lunghi capelli corvini che le coprivano parzialmente il volto pallido, le dita affusolate strette intorno ad un corno di pessima birra, gli occhi bassi. Appariva stanca, provata e sofferente, immersa nei suoi pensieri. Poi, alzò lo sguardo, come se avesse percepito quello di lui su di sé. Per un istante, i suoi occhi dorati incontrano quelli di Shin e lui li sentì sulla pelle… ma fu solo un breve palpito. La fanciulla si voltò dall'altra parte e la sua mente fu di nuovo altrove.
In quell’istante mille pensieri affollarono mente del cavaliere, immagini di un passato ormai lontano, appartenente ad una vita in cui non avrebbe mai frequentato bettole infestate dalle pulci, dai ratti, in cui la figlia di una prostituta delle Isole di Ferro non avrebbe avuto alcun posto; ma ora era una persona diversa, cambiata nel profondo, anche per colpa di quella ragazza, con cui non aveva mai scambiato una parola, solo uno sguardo che gli aveva attraversato l’anima come un dardo. Quegli occhi dorati lo avevano stregato, ammaliato, incantato, avrebbe voluto alzarsi e andare da lei, sfiorare con la punta delle dita quella bellezza ferita, sfregiata dalla vita, perdersi in lei, stringerla dolcemente.
Vuotò la coppa, cercando nel liquido ambrato il coraggio di raggiungerla. Non si sentiva tanto nervoso dal suo primo torneo: aveva quindici anni, arrivava appena alle staffe, il rumore della folla gli rimbombava nell’elmo… i ricordi di quel giorno erano confusi e frammentari, lo squillo della tromba, il rumore della lancia che si spezza sullo scudo dell’avversario che piomba a terra, lo sguardo del padre, le fanciulle che gettano fiori, applausi e sorrisi carichi di dolci promesse… ricordi di un tempo passato, perduto.
Si alzò e, lentamente, si avvicinò a Kein. Senza dire una parola si sedette di fronte a lei e il silenzio gli parve durare ore. Il cavaliere cercò le parole: non si era mai rivolto a qualcuno privo di titolo senza dargli ordini. Si chiese come avrebbe reagito la ragazza se avesse cercato imporle qualcosa. “Non obbedirebbe mai” pensò “non è una gattina, ma una tigre”.
“Ti ho vista al processo, se così lo si può chiamare”, disse infine, e, dopo una pausa “hai sfidato il re, mossa coraggiosa… o stupida”.
“Accomodati” gli rispose lei con un ampio gesto Shin non poté fare a meno di notare l'ironia nella sua voce. Lo scrutò per un lungo momento, forse cercando di ricordare il suo volto tra tutti quelli assiepati sulla spiaggia quel giorno. Oppure... il suo sguardo si fermò su una catena che l’uomo portava al collo, un cimelio di famiglia. Accennò un sorriso, stanco e triste, ma pur sempre un sorriso.
“Chi può dirlo, cavaliere” rispose Kein, in un sussurro. Aveva la voce calda e un po' roca. “A volte la linea che separa coraggio e stupidità è molto sottile. Per il momento sono viva, e finché non torniamo agli abissi siamo sempre in tempo per correggere i nostri errori”.
“Sottile e fragile come un capello”, disse il cavaliere, quasi distrattamente, “altrettanto sottile è la linea che divide la vita dalla morte, specie in un posto come questo”. Fece segno all’oste di portare altro vino, non era una conversazione che poteva affrontare da sobrio. Voleva calmare i nervi perché la ragazza lo inquietava. “E’ come il mare” pensò, “mutevole e pericolosa… se non sto attento oltre al cuore, potrebbe cercare di prendersi anche la mia vita.” Sarebbe stato davvero un brutto modo di andarsene? Forse no.
Guardò le mani di lei, arrossate, le unghie spezzate… avrebbero potuto essere morbide, coperte da guanti di seta, e gioielli, avrebbero conosciuto la dolcezza dei fiori invece che del ferro. “Conosci questo stemma?”, chiese infine, giocando con il ciondolo, facendolo scorrere tra le dita, “E’ una delle poche cose care che mi sono rimaste”. La guardò negli occhi, “E’ solo un pezzo di metallo, non vale più di qualche moneta, eppure ucciderei chiunque provasse a togliermelo”.
“L'aquila a due teste. Casa Estren, se non ricordo male, alfieri della nobile casa Lannister” rispose lei, senza esitazioni, stupendolo. Dove aveva imparato l’araldica una donna del genere? “Un animale fiero, ser. Se posso permettermi, che cosa porta un cavaliere delle terre dell'Ovest a Pyke? Come avrai potuto notare, non abbiamo molto da offrire” commentò, abbracciando con uno sguardo la squallida locanda, gli avventori ubriachi e maleodoranti e l'oste dal naso spugnoso che stava servendo loro due coppe di vino.
“Avete da offrire ben più di quanto immagini”, le sorrise Shin mentre il liquido color rubino colmava le coppe. “Esatto, sono Shin della casa Estren, al vostro servizio, mia signora”, disse con un po' di ironia, ma neanche troppa, inclinando il capo in una bozza di inchino. “Potrei seguire quella fanciulla ovunque” pensò, con una fitta di desiderio. Quando i loro sguardi si allacciavano, per brevi istanti, dimenticava il suo passato e quello di lei. La voleva, e basta, a prescindere dai suoi natali.
Kein scoppiò a ridere, gettando indietro la testa, scuotendo i lunghi capelli, oscuri come ali di corvo. Aveva una risata pura, sincera. “Perdona la mia sfrontatezza, ser Shin della casa Estren” si scusò, pur non scusandosi davvero “Nessuno prima d'ora mi aveva chiamato "mia signora". Né si era messo al mio servizio, a dirla tutta. Ad ogni modo, lieta di fare la tua conoscenza. Il mio nome lo conosci e come saprai non ho né casata né stemma. Sono soltanto... io”.
Lui la guardò con un misto di ammirazione e dolcezza, quella risata era come una cascata, pura e potente energia, le illuminava il viso rendendola ancora più bella, “Vorrei sfiorare quelle guance su cui il sole e la salsedine si sono accaniti, arrossandole, sentire il sapore di mare di quelle labbra, ed il profumo della sua pelle”. Formulò il pensiero quasi senza accorgersi. “Fossi nata altrove saresti una lady” disse, e dentro di sé, senza volerlo, aggiunse: “La mia lady”.
“Perdonami mio signore, forse queste galanterie nelle Terre Verdi vengono apprezzate dalle giovani fanciulle” rispose Kein, di nuovo seria “Ma sulle Isole le donne di ferro non si lasciano ammorbidire tanto facilmente. Con tutto il rispetto, le mie dita sono fatte per impugnare una spada, non per stringere un ago”.
La sua franchezza, quasi ingenua, lo fece sorridere, “Un ago può essere un’arma letale, se sai come usarlo”, rispose guardandola negli occhi e, per un attimo, si lasciò avvolgere da quelle profondità d’oro, “Non saresti il tipo di donna che ricama, Kein delle Isole di Ferro”, disse prendendole la mano, “queste dita hanno sempre conosciuto il gelido tocco del ferro, e delle corde, tuttavia vedo molto altro in te”. Avrebbe voluto abbracciarla, non gli importava di essere in una locanda malfamata in uno dei posti peggiori dei Sette Regni, non gli importava di trovarsi in mezzo a dei reietti e nemmeno di non essere al castello della sua infanzia, circondati da agi e lusso, davanti al fuoco crepitante, come avrebbe desiderato: la voleva, subito. Stava per colmare la distanza tra il suo viso e quello di lei quando la sentì irrigidirsi sotto le sue dita: con una torsione del polso, Kein in un attimo trasformò un gesto delicato in una morsa letale. Shin percepì le unghie di lei piantate nella carne e un attimo dopo la lama di un pugnale lungo si abbatté sul tavolo a meno di un pollice dal suo avambraccio. Kein si sporse verso di lui, il viso talmente vicino al suo che i lineamenti della giovane gli si confusero davanti agli occhi. “Tu non mi conosci, ser” sibilò.
“Avevo ragione su questa fanciulla, è pericolosa” pensò Shin. Non era certo la lama a spaventarlo o la sua stretta, bensì il suo sguardo inquietante, cambiato in un respiro, duro e letale come il pugnale. Eppure, per quanto fiera, la ragazza aveva pur sempre a che fare con un ex cavaliere della guardia reale e lui non poteva lasciarla agire come avrebbe fatto con un qualsiasi Ironborn. “O forse tu non conosci te stessa” sussurrò. Con un movimento fluido estrasse la daga dal tavolo e gliela puntò alla gola. “Non riprovarci”, disse con una punta di sfida. Le vene di lei pulsavano sotto la lama e il cavaliere percepì un lampo di paura subito soffocato. Con un gesto deliberato lasciò cadere il pugnale in terra, con un suono metallico.
“Per chi lavori?” domandò la ragazza, allontanandosi bruscamente.
Il cavaliere percepì la tensione, il timore e, al contempo, la rabbia e la furia represse. Nonostante cercasse di rimanere padrona della situazione, un brivido l’aveva percorsa, riverberandosi su di lui. Per un istante, l’attrazione lasciò il posto all’orgoglio e Shin ripensò ad ogni combattimento vinto, ad ogni battaglia in cui si era distinto, all’odore del sangue e della paura nel nemico… Avrebbe potuto ucciderla dieci volte dal momento in cui si era seduto di fronte a lei e l’antico orgoglio e il disprezzo si fecero largo nel suo cuore. “Se lavorassi per qualcuno che ti vuole morta, credi ti avrei permesso di vedere il mio stemma? Potrei benissimo essere una spia, o un sicario, ma in quel caso non staremmo solo parlando” disse, con durezza. Eppure, senza quasi accorgersene, le sue dita si sollevarono fino a sfiorare il volto di lei, che, questa volta, non si ritrasse.
“Se devi chiudermi gli occhi entro questa notte, che importanza avrebbe avermi fatto vedere il tuo stemma?” lo sfidò. “Quanto credi che valga a Pyke il vessillo di una casata minore dell'Ovest?” ogni parola era una goccia di puro veleno. “Eppure pochi minuti fa rideva e mi guardava con quegli occhi dorati, sembrava felice della mia compagnia”. Non lo avrebbe mai ammesso, nemmeno a se stesso, ma quelle parole facevano male. “Non fingere con me, ser. Ne ho visti tanti come te, sulle Isole. Credete che il vostro onore di cavalieri vi rivesta come un'armatura, ma qui non c'è legge e non c'è onore, c'è solo gente che prova a sopravvivere con ogni mezzo e se sei finito a Lordsport senza conio e con un misero ciondolo al collo è perché la tua regina e la sua scimmietta non hanno più bisogno di un cavaliere rinnegato Quindi dimmi, ti sei già venduto al migliore offerente o ti è rimasta almeno la tua libertà?”.
Di nuovo, le sue parole taglienti lo fecero infuriare. “Io non ho una regina!”, le rispose in tono gelido. Non poteva accettare che la figlia di una prostituta e di un marinaio, o di un assassino, o di un contadino, o di un mercenario ubriaco, o forse di tutti insieme, gli parlasse a quel modo, e la mano corse istintivamente sull’elsa della spada, familiare e rasserenante. “Cosa puoi saperne tu dei cavalieri, dell’onore o di me? Niente!” gridò alzandosi di scatto.
In un attimo anche lei si levò, stringendo nel pugno una spada bastarda con l'elsa a forma di testa di falco. Il cavaliere si domandò se davvero quella ragazzina avrebbe avuto il coraggio di combattere contro un esperto uomo d’armi, ma gli occhi di lei erano alti sopra la sua spalla. Ser Estren si voltò e si accorse che gli avventori si stavano accalcando attorno alla porta, spintonandosi. Un odore acre investì le loro narici. “Qualcosa va a fuoco!” rilevò la ragazza. “Vieni con me!”.
“Copriti la bocca e il naso!” disse Shin: l’istinto di protezione aveva di nuovo preso il sopravvento sull’orgoglio. Tutta la rabbia e l’astio erano spariti, voleva solo uscire di lì, con lei, lasciarsi alle spalle le urla, le bestemmie e l’odore di carne bruciata. “Resta vicino a me!”
Cercò un’uscita, ma era la prima volta che metteva piede in quella dannata taverna. Le strinse le dita tra le sue, e questa volta lei non si sottrasse. Tuttavia, scelse la direzione da prendere e il cavaliere si lasciò guidare. Tossendo, gli occhi annebbiati dal fumo, la seguì oltre un uscio di legno che portava alle cucine e da lì in un cortile sul retro, dove trovarono assiepati il locandiere, il cuoco e un paio di sguatteri. Non c'era via d’uscita, il cortile era circondato da muri di intonaco alti sette piedi. “Dobbiamo aiutare questa gente a scavalcare” disse la ragazza, indicando il locandiere e i suoi compagni. “Occupatene tu, io rientro per cercare di portare in salvo quanta più gente possibile”.
“Sei pazza?!”, cercò di trattenerla Shin, non voleva che rientrasse, “andiamocene, non posso perderti, io ti…”il fumo lo avvolse, non riusciva più a respirare, gli occhi rossi, sentiva le dita di lei scivolare dalle sue.
Un Cavaliere giura di essere valoroso/Il suo cuore conosce solo virtù/La sua spada difende gli inermi/La sua forza sostiene i deboli/La sua parola dice solo verità/La sua collera stermina i malvagi” recitò la fanciulla “L’ho detta bene?” Gli rivolse un ultimo sorriso, poi scomparve tra le fiamme.
Le lingue di fuoco si levarono sempre più alte, per un attimo lungo un’eternità il cavaliere a guardarle, inghiottire la locanda, di quei popolani non gli importava nulla. “Brucino pure”, pensò, “bruci pure l’intera Lordsport, Pyke, le Isole di Ferro, e il Continente, che il mondo si riduca pure in cenere, mi basta che lei ritorni da me”. Le grida di quei disgraziati lo riportarono alla realtà e, alla fine, decise di aiutarli.

 

YOHAN

Yohan era andato a cercare Norjen Harlaw Onda Impetuosa, il sacerdote che lo aveva condotto da Aeron Greyjoy. Con lui era stato categorico: l’ordine era di fomentare un’insurrezione su larga scala a Lordsport, con l’intento di smuovere e tenere occupati, lontano dalla fortezza, il maggior numero di guardie di Euron. Gli aveva imposto di creare il più alto numero di disordini possibili, al costo di bruciare anche le navi del porto pur di ottenere quel risultato.
“Quindi? Adesso che si fa?” chiese Enya, che stravolta si era sdraiata sulla sabbia, appoggiata ad una roccia a guardare il mare. Si trovavano su una piccola baia non lontano da Lordsport.
“Capitano” La ammonì Yohan pur sapendo che lei non avrebbe mai usato quell’appellativo con rispetto “Adesso aspettiamo..” concluse.
“Ooh sì, certo, aye, cioè no, ooh no, ma sì, oh sì, penso di sì, aye. Capitano!” lo prese in giro.
“È così che fingi quando fotti il tuo gigante nero? Non sei per nulla convincente” le disse con tono provocatorio, sedendosi accanto a lei.
Contro l’aspettativa di Yohan, lei mugugnò “Ogni giorno che passa è sempre più legato al suo dio…” nel mentre i suoi occhi delusi e dispiaciuti erano alla ricerca della sua sagoma sulla spiaggia.
“Da piccola volevi diventare la prima sacerdotessa degli uomini di ferro, ricordi? A momenti mi uccidevi con quella tua mania di voler annegare la gente a modo tuo. Non mi sembra un fanatismo tanto diverso”.
Sul volto di lei comparì un sorriso al ricordo dei lunghi inseguimenti per afferrare gli altri bambini e affondargli la faccia in acqua. Una volta era anche riuscita a prendere ed immergere Yohan, che aveva perso i sensi. Si era spaventata nel non riuscire a rianimarlo: gli occhi bianchi cadaverici dello stronzo si erano risvegliati solo dopo mezz’ora di estenuanti tentativi.
“Ma il Credo e l’Antica Via non lo permettono giusto? Non sia mai che una donna possa battezzare un uomo” disse rassegnata.
“Donne che comandano navi tutte loro, con ciurme di pirati che le seguono fino agli abissi, saranno poche, ma ci sono in tutte le Isole di Ferro. Inoltre, mi è stato detto che Asha Greyjoy fu capitano della Vento Nero quando ancora nessuna Antica o nuova Via permettesse di farlo. Sfidò la tradizione ed era pronta a prendere le redini del padre. Sbaglio?” le rispose guardano l’orizzonte che si stagliava di fronte a loro.
“Chiunque te l’abbia detto, deve aver omesso la fine gloriosa che fece la tua cara eroina: ricchezze provenienti da ogni dove e vittime di ogni specie immolate al suo epico ricordo” il sarcasmo di quelle parole era così evidente da essere esasperante “per non parlare del grande e leggendario funerale: la più grande e potente nave lunga che gli uomini di ferro abbiano mai costruito, divenuta un’enorme pira di fuoco perpetuo. Si disse che il fumo avesse oscurato tutta Approdo del re. E non pensare che sia finita così! Sai chi ebbe l’onore di appiccare il fuoco all’imponente tumulo, indovina? L’amorevole zio!” l’ultima affermazione era stata pronunciato con odio e ferocia.
“Sei diventata acida”.
“E tu stranamente religioso, calmo e pensieroso” aveva appoggiato la mano sulla barba morbida di Yohan per voltarlo verso di sé. Con il pollice gli stava accarezzando la pelle sottostante gli occhi, occhi che la fissarono intensamente. Si ritrovò catturata da quello sguardo bizzarro e sfuggente. Ritrasse la mano all’improvviso e violentemente, come se un brutto ricordo le fosse passato per la testa. Riprese a parlare, o meglio a provocare “Dov’è finito il ragazzetto che, sulla Silenzio, inneggiava al capitano ed inveiva contro il nostro Dio? Sei qui per spiare Capelli Bagnati per il tuo dolce e premuroso re?”.
“E’ passato tanto tempo da quel giorno”.
Ostinata ritornò ad interrogarlo “E magari, adesso, sei anche un Annegato?”.
“Non vado in giro a predicare se è questo che intendi”.
“No, voglio dire, mio caro e grandioso Capitano, hai avuto il privilegio di essere stato annegato da un venerando sacerdote rotti in culo? Aspetta non dirmi niente. Forse ti è apparso il Dio Abissale in persona davanti a quegli occhi pazzi che ti ritrovi e lui stesso ti ha riportato in vita. È così?” lo sfottò era tanto evidente da essere diventato irritante.
“Sì”.
Lei si ammutolì a quella risposta inaspettata e per un paio di secondi calò il silenzio.
“Certo, come no!” non ebbe risposta “Allora? sei serio?” lo incalzò, ma quello non sembrava voler rispondere “Il tuo silenzio mi sta stancando”.
“A me la tua voce, non la trovi odiosa anche tu?” ma Enya non raccolse la provocazione.
“Qui nessuno osa immaginare di aver visto il Dio, no vabbè… forse sì. Ancora non avevo sentito dire nulla del genere: il Dio, in persona, che risorge un comune mortale è al limite del Dogma! Hai una bella immaginazione sai. E ti assicuro che pazzi qui ce ne sono” nel dirlo volse lo sguardo praticamente su tutta la ciurma “Forse tu devi essere il folle supremo e adesso sei anche il mio capitano” rise spintonandolo leggermente sulla spalla “Che il Dio Abissale mi salvi!” invocò, continuando a ridere.
“Sei blasfema”.
“Oh, mi scusi Capitano, che la giustizia delle Onde possa ricadere su di me” ma il buonumore di Enya scomparve non appena i suoi occhi si posarono sul nocchiero “Di certo, non più blasfema di quel bastardo di Treccia Bianca” sussurrò scura in volto. I suoi occhi verde veleno rivelavano disprezzo per quel vecchio, ma Yohan non indagò oltre.
La pace sembrò non arrivare mai, perché lei proseguì “Allora? Chi ti a battezzato?”.
“Quando?” disse lui evasivo.
§§§
La salvezza da quell’interrogatorio infinito giunse sotto forma umana e con il nome di Frida, sorella maggiore di due gemelli, anche loro marinai dell’Abisso. I tre provenivano da una famiglia in decadenza di forgiatori e maniscalchi. Interruppe i due portando vino bianco e un misto di pesce, tra cui gamberetti, sardine, totani e calamari: i figli del Kraken. “Skol!” fu il suono che diede inizio all’abbuffata.
Frida, giovane moglie di roccia di un vecchio decrepito era diventata vedova pochi giorni dopo il matrimonio. Amante del mare, si era sbarazzata presto delle altre vecchie mogli di sale annegandole senza troppi complimenti, e si era massa a navigare insieme ai due fratelli gemelli.
Uno era Rune. Fu lui che aveva introdotto e condotto la propria famiglia al Credo. Più per astio verso la famiglia Kenning, che per vera fede. Aveva una faida aperta contro quei miscredenti e navigare sotto il precedente capitano Kenning non era stata una casualità. All’insaputa di tutti passava ore a preparare la sua segreta vendetta di sangue.
Einar Incudine di Fuoco, era l’altro fratello, che divagava spesso sull’arte dei fabbri, con un certo trasporto e passione, e catturava sempre l’attenzione dei presenti. Ragazzo muscoloso dall’aspetto brutale, si era marchiato a fuoco da solo, con un grande stampo raffigurante la corona nera del Re Grigio, che ora gli scarnificava la schiena con una sagoma rosso carne.
Tutto il gruppo beveva, mangiava e ascoltava Einar descrivere come avveniva la fusione dell’acciaio di Valyria. Sosteneva di poter riforgiare lame già esistenti, ma anche ricreare quel metallo. L’ultima sua fantasia fu motivo di derisioni da parte del gruppo.
In quel momento arrivò Capelli Verdi correndo, portava notizie sulla sommossa a Lordsport: i sacerdoti avevano raccolto un gran numero di fanatici rivoltosi e si dirigevano al porto.
Yohan sperò che nelle ore successive il diversivo funzionasse e che tutto andasse secondo i suoi piani, ma ancora era presto per poterlo sapere. Ciò nonostante il sole era tramontato e di lì a poco la notte avrebbe oscurato il cielo e il mare. L’ora era giunta.
“Si parte, avvisa gli uomini” ordinò rivolgendosi a Charun.
Il nocchiero si voltò verso l’equipaggio, si tolse la pipa dalla bocca e urlò: “Mollate le cime! Levate l’ancora! Issate la vela! Orsù, datevi da fare! Per l’Abisso!”.
 

 

ULLEN

Le cucine, alla fin fine, non sarebbero state un posto così sgradevole in cui lavorare: faceva sempre abbastanza caldo, c’era un pagliericcio accanto al camino dove riposare e, soprattutto, il cibo non mancava mai, nemmeno per l’ultimo sguattero. Ma Ullen era un uomo di ferro e la prigionia non gli andava a genio. I primi giorni erano stati duri, soprattutto perché gli costava fatica misurare le distanze e finiva sempre per sbattere contro qualcosa, oppure si lasciava sfuggire gli oggetti, ma in breve si era abituato alla sua nuova condizione e ora si sentiva pronto ad agire. Doveva solo mettere le mani su un’arma, sgozzare un paio di garzoni e fuggire. Il guaio era la benda sull’occhio, che lo rendeva dannatamente riconoscibile. Tutti sapevano che Occhio di Corvo lo aveva sfregiato per renderlo simile a lui e quindi sarebbe stato impossibile passare inosservato durante la fuga. Quella parte del piano non gli era ancora troppo chiara, ma era sicuro che prima o poi sarebbe riuscito a mettere mille leghe tra lui e quella dannata isola. Sarebbe tornato a casa a prendere Terrore dei Mari e poi si sarebbe imbarcato su qualche vascello diretto oltre il Mare Stretto. Nelle città libere avrebbe sicuramente trovato di che vivere, avrebbe potuto unirsi a una compagnia mercenaria, i Secondi Figli, per esempio, o i Corvi della Tempesta. Avrebbe guadagnato un sacco d’argento e poi avrebbe potuto fare ritorno a Pyke e riconquistare la libertà di sua sorella e poi…
“Ehi, Occhio di Papera” lo apostrofò il capo cuoco proprio nel bel mezzo di un sogno ad occhi aperti “Va’ in dispensa e prendimi una botte di sardine sotto sale. Muoviti, rimbambito!”. L’uomo accompagnò l’ordine con una sberla sull’orecchio che lo rese sordo per un paio di minuti buoni.
Borbottando una serie di fantasiose bestemmie che avrebbero fatto rabbrividire anche il meno fervente degli uomini di ferro, il ragazzo uscì dalle cucine diretto in dispensa. Percorse un lungo corridoio, fiocamente illuminato da delle torce sistemate a lunghi intervalli regolari sulle pareti di pietra, intervallate da feritoie. Mentre camminava, sempre intento a maledire il capo cuoco con tutta l’anima, la sua attenzione venne attirata da un rumore di rapidi passi proveniente dal basso, come se un nutrito gruppo di uomini stesse correndo da qualche parte. Si affacciò ad una delle finestrelle e, in effetti, vide due dozzine di soldati radunarsi nel cortile della fortezza. Il sole era già calato da un pezzo e Ullen si era accorto che la sua vista, di notte, non era più tanto acuta. Probabilmente l’occhio sinistro era meno forte del destro e ora, senza il suo compagno a compensarlo, faticava a distinguere le figure. Nonostante ciò, era chiaro che qualcosa stava accadendo: l’udito era ancora ottimo, e Ullen sentì il capo guarnigione impartire ordini ai suoi soldati. Parlava di un incendio e, in effetti, quando il ragazzo si spostò ad una feritoia che dava su Lordsport vide in lontananza bagliori rossastri levarsi in svariati punti della città. Era incuriosito e avrebbe volentieri approfondito la faccenda se non fosse stato per le dannate sardine del capo cuoco. Se non fosse tornato in cucina con quanto richiesto da lì a pochi minuti, la punizione sarebbe stata ben peggiore di una sberla sull’orecchio. Perciò, Ullen abbandonò la sua postazione e proseguì fino alla dispensa.
SI trattava di un’ampia stanza di pietra, costruita in modo da tenere in fresco gli alimenti che vi erano riposti. Un’unica finestra faceva filtrare una debole luce, così il ragazzino si munì di una delle torce del corridoio per illuminare i barili e scegliere quello giusto. Cominciò a cercare, spostando sacchi di farina e barili di birra. Finalmente, individuò le sardine in un angolo. Appoggiò la torcia su un sostegno per avere entrambe le mani libere e fece per prendere il barile quando udì un rumore.
“Chi è là?” chiese. Volse lo sguardo attorno, ma le ombre erano immobili e scure. “Sarà stato un topo” pensò e stava per tornare ad occuparsi delle sardine quando un braccio possente gli si strinse attorno al torace, mentre una mano callosa gli chiudeva la bocca. In preda al panico, il ragazzo cercò di dibattersi, inutilmente: la presa dell’aggressore era d’acciaio e Ullen non riusciva a far altro che battere i piedi nel vuoto. “Come una fottuta papera!” riuscì a pensare, furioso più con se stesso che con l’uomo che l’aveva catturato.
L’aggressore lo spinse contro alla parete e gli puntò alla gola la lama di una piccola ascia da lancio. Prima che potesse urlare, tornò a coprirgli la bocca col la mano libera. “Non ti muovere, o ti taglio la gola” lo minacciò, in un sibilo.
Si squadrarono a vicenda: l’uomo non era molto più alto di lui, ma era decisamente più robusto. Il torace era ampio e i muscoli delle braccia erano grandi quanto il collo del ragazzo. Nella debole luce, la pelle bruciata dal sole ricordava il colore del cuoio bollito, secca e dura sotto un’arruffata barba nera e capelli altrettanto neri, legati sulla nuca con delle alghe verdi. Gli occhi, due fessure sottili e maligne, erano di un colore indecifrabile. Furono attraversati da un lampo e l’aggressore sorrise, allentando leggermente la presa. “Stai calmo” lo invitò lo sconosciuto, la voce più morbida. Allontanò la lama di qualche centimetro dalla gola del giovane, senza però togliere la mano che gli copriva la bocca. “Sei Ullen, vero?” domandò.
Ullen annuì impercettibilmente, sorpreso che l’uomo conoscesse il suo nome. Poi ricordò: la benda, ormai era il famoso Occhio di Papera. Sentì la rabbia montargli dentro, ma sfumò subito nell’udire le parole dello sconosciuto: “Mi ha mandato tua sorella Kein per liberarti. Adesso ti lascio andare, ma non urlare” lo ammonì. Poi tolse lentamente la mano e abbassò l’ascia. Ullen tornò a respirare. Non vedeva sua sorella dal giorno del processo e i suoi sentimenti a riguardo erano stati più che mai altalenanti: alternava momenti in cui il suo cuore era certo del fatto che Kein avesse un piano per liberarlo ad altri in cui si sentiva totalmente abbandonato. A volte era preoccupato per lei, altre invece la malediceva e la incolpava di averlo cacciato in quella situazione. Non passava giorno, però, in cui il ragazzo non sentisse una lacerante mancanza di lei. E ora, Kein aveva mandato quest’uomo a liberarlo! “Non avrei mai dovuto dubitare di lei, mai!” si rimproverò. “Grazie a dio!” esclamò, grato alla divinità che aveva così aspramente bestemmiato fino a pochi minuti prima, e fece per muovere un passo verso l’uscita.
“Aspetta” lo fermò l’uomo “Prima di andarcene ho bisogno di sapere cosa sta succedendo qui nella fortezza. Ci sono stati dei movimenti di soldati forse?”
Ullen annuì. “Prima ho visto degli armigeri raggrupparsi nel cortile della Fortezza della Cucina” disse. “Ne ho contate due dozzine. Il capitano stava gridando qualcosa a proposito di un incendio scoppiato in città”.
“Molto bene!” approvò il suo salvatore. Forse sua sorella si era occupata di appiccare l’incendio per allontanare le guardie dalla fortezza, così che l’uomo avesse campo libero per trarlo in salvo! pensò il ragazzo.
“Adesso dimmi, dove si trovano il re e la regina in questo momento?” proseguì l’uomo.
“La regina nelle sue stanze… non esce quasi mai la lì. In quanto al re… non saprei proprio, mi dispiace. Forse sarà da qualche parte a dare istruzioni alle guardie?”
L’uomo rimase per un momento in silenzio, pensieroso. “Ok, resta calmo” disse alla fine, rimettendo l’ascia alla cintura e posando le grandi mani sulle esili spalle di Ullen. “ Presto saremo fuori da questa prigione e potrai riabbracciare tua sorella e la tua famiglia, ma ti devo chiedere di essere coraggioso” Lo guardò intensamente, con quegli occhi cangianti e stranamente familiari. Ullen annuì: quell’uomo era stato mandato da Kein e lui doveva dimostrarsi forte, un vero uomo di ferro. “Adesso devi aiutarmi. Cerca la Regina e trova un modo per farti seguire. Inventati qualcosa, qualcosa di credibile, ok? Poi, cosa molto importante, fai in modo che si trovi a percorrere la passerella di corda che unisce la fortezza Insanguinata alla Torre del Mare”.
“Le stanze della Regina si trovano nella Fortezza Insanguinata” rispose Ullen, lesto “Mentre il solarium del Re sta nella Torre. Posso dirle che lui la sta aspettando?”
“Buona idea!” approvò l’altro, battendogli la mano sulla schiena, soddisfatto. “Io vi aspetterò lì. È fondamentale che tu riesca a portare la regina in quel punto, ma non temere, comunque vada, ti porterò via di qui, con o senza regina, intesi?”
“Non ti deluderò!” promise il ragazzo.
“Bene, ora vai” lo congedò l’uomo, ma Ullen rimase un momento immobile, pensieroso. “Che c’è? Non hai capito?”
“Certo che ho capito, non sono mica stupido!” si inalberò il ragazzo. “Solo… dirai a mia sorella che sono stato coraggioso? Che ti ho aiutato?” domandò, speranzoso.
“Glielo dirò, stai pur certo” rispose il misterioso salvatore. La luna illuminò per un istante il suo sorriso aguzzo. Poi, con una agilità inaspettata per un uomo tanto possente volteggiò attraverso la finestrella e scomparve nell’oscurità.

 

CERSEI

Cersei aveva abbandonato Approdo del Re in una notte nera e senza luna, una notte rischiarata solo dalle torce dei marinai intenti a caricare le ultime merci. Era tutto così silenzioso e quieto che risultava difficile immaginare che qualcuno, proprio in quel momento, si stesse giocando le ultime carte per la sopravvivenza. La regina caduta aveva cercato di scorgere la sagoma della fortezza per un’ultima volta, ma i suoi occhi nulla avevano potuto contro l’oscurità della notte. Nero e lontano era il suo passato e altrettanto oscuro era il suo futuro. L’unica certezza era che non aveva più nessuno dalla sua parte, nemmeno Jaime: era sola più che mai.
Aveva pagato profumatamente un mercante di Myr perché la scortasse a Volantis, dove Malaquo Maegyr aveva accettato di concederle ospitalità, sempre dietro la promessa di un lauto compenso. Con questo aveva speso tutto ciò che le restava, senza nessuna garanzia di riuscita, con l’alta probabilità di essere venduta. Ma non aveva avuto altra scelta.
Il viaggio era stato estenuante. Per quasi tutto il tempo aveva sofferto il mal di mare e aveva trascorso lunghe ore nella sua cabina, lo stomaco scosso da spasmi, arrabbiata, impaurita, incapace di distogliere il pensiero dal passato, da quegli ultimi istanti, dagli occhi di Jaime. Nei brevi momenti in cui riusciva ad addormentarsi, il suo sonno era corroso dagli incubi peggiori. Sognava il suo passato, sognava la morte dei suoi figli, d'oro saranno le loro corone e d'oro i loro sudari, aveva detto Maggy la Rana, rivedeva davanti agli occhi il volto purpureo di Joffrey, quello pallido ed esangue di Myrcella, le membra spezzate di Tommen e l’altro, l’altro che non aveva nemmeno avuto nome. Per un momento aveva pensato che quella dannata profezia fosse stata solo lo scherzo crudele di una vecchia strega pazza… invece il bambino le era scivolato via in un denso colare di sangue grumoso, portandosi via anche la sua ultima speranza. “E quando sarai annegata nelle tue stesse lacrime, il valonqar chiuderà le mani attorno alla tua gola bianca e stringerà finché non sopraggiungerà la morte”. Jaime… no, lui non aveva stretto tanto, lui l’aveva lasciata andare, le aveva concesso un’opportunità.
Questi ricordi, questi fantasmi, erano stati i suoi soli compagni negli infiniti giorni di traversata. La Lunga Notte allungava le sue ombre sull’oceano e quel veliero era come una barchetta giocattolo lasciata scorrere sull’impetuoso corso del Tridente. Più volte avevano perso la rotta, erano stati in balia delle onde, avevano rischiato il naufragio. Ma alla fine, gli abissi li avevano risputati sulla costa volantiana e Cersei aveva potuto finalmente raggiungere la città libera e il palazzo di Malaquo Maegyr, l’anziano triarca della fazione delle tigri, un uomo nelle cui vene scorreva il sangue dell’antica Valyria, un uomo fiero, potente e spregiudicato. Tutte caratteristiche che Cersei apprezzava e che aveva apprezzato, soprattutto, nel di lui nipote, Jaeron.
All’epoca del suo arrivo a Volantis, Jaeron Maegyr era un uomo nel fiore degli anni, uno di quegli uomini che non si poteva far a meno di guardare quando facevano la loro comparsa. Se proprio qualcuno, per qualsiasi assurdo motivo, non fosse stato colpito dai suoi lineamenti perfetti, dalla prestanza fisica e dal portamento impeccabile, non avrebbe potuto non venire abbagliato dagli sfarzosi e pregiati abiti intessuti d’oro. E i suoi modi… Jaeron era galante, seducente, estremamente attento ad ogni suo desiderio. Era altezzoso come un principe e talmente sicuro di sé da non lasciare spazio ad alcun dubbio: avrebbe fatto strada. Era l’uomo perfetto da avere al fianco per cominciare ad accumulare potere ed influenza, l’uomo perfetto se l’obiettivo era la riconquista del trono. Così, Cersei Lannister si era insinuata nel letto e nel cuore di Jaeron Maegyr.
A quasi dieci anni di distanza, nella sua stanza nella Torre Insanguinata, a Pyke, la leonessa di Lannister ripensò quasi con nostalgia al tempo trascorso col giovane triarca. Non lo aveva mai amato, questo no, ma le piaceva il modo in cui la guardava. “Voglio un figlio da te, Nyenyezi” le sussurrava Jaeron all’orecchio, scostandole i capelli. Nyenyezi significava stella ed era il modo in cui era solito chiamarla. Lo ripeteva spesso, dopo ogni amplesso, ma lei sapeva che era un sogno impossibile da far avverare. E, comunque, non avrebbe voluto un figlio da quell’uomo, per quanto bello, ambizioso e sottomesso a lei. Avrebbe avuto i capelli neri come quelli di lui, non biondo oro come quelli suoi e di Jaime. Non l’avrebbe mai amato come aveva amato i suoi tre piccoli leoni. “Non essere sciocco, non succederà mai” gli rispondeva Cersei seccata, e si alzava dal letto. Certo, c’erano stati dei momenti in cui aveva accarezzato l’idea di un erede: nei momenti in cui Malaquo dava segni di insofferenza verso l’ospite, Cersei aveva pensato che rimanere incinta, le avrebbe assicurato un soggiorno a tempo indeterminato presso casa Maegyr: Jaeron non avrebbe mai permesso che la madre della sua progenie venisse cacciata. Tuttavia, il loro sarebbe stato un figlio illegittimo. Il padre di Jaeron non avrebbe mai acconsentito al matrimonio del figlio con una “Regina Puttana”, come venivano considerate tutte le nobili straniere dopo l’avvento di Daenerys Targaryen, a maggior ragione se quella Regina era caduta in disgrazia. Comunque, il figlio non era venuto, Malaquo era morto e Jaeron era stato eletto triarca. A quel punto, Cersei sarebbe potuta restare a Volantis per sempre, ma non era ciò che desiderava. Il suo desiderio, il suo scopo, era rimasto sempre lo stesso: il trono di spade.
Nove anni più tardi aveva abbadonato Volantis per sposare Euron Greyjoy. Un mezzo per uno scopo. Poteva tornare a Westeros, ora che le Isole di Ferro erano diventate indipendenti, e da lì ripartire per riprendersi ciò che era suo. Jaeron aveva finito per acconsentire, col cuore in pezzi, vinto dalle sue profferte d’amore e di potere e ricchezze. Avrebbe fatto di tutto per lei, perfino condividerla con il vecchio, pazzo pirata delle Isole. Poi, lo avrebbe ammazzato, così le aveva promesso, e avrebbe conquistato il trono per lei.
“Il trono sarà di nuovo tuo mia Nyenyezi” le aveva promesso.
Era venuto il momento di mantenere la promessa. Cersei Lannister prese pergamena e inchiostro e si stava accingendo a scrivere quando un leggero, timido bussare all’uscio attirò la sua attenzione.
“Avanti” disse, celando il disappunto per essere stata interrotta.
 
 
 

 

ULLEN

Stazionava da cinque minuti buoni davanti alle stanze della Regina, senza trovare il coraggio di bussare. Era scivolato nell’ombra, lungo corridoi e camminamenti, portandosi dietro un pregiato vino di Arbor per giustificare la sua presenza da lei, senza peraltro incontrare alcuno, ma ora gli mancava il fiato. Temeva che gli occhi della donna, verdi come zaffiri e maligni come quelli di un serpente, gli avrebbero letto in faccia la menzogna.
“Sono un uomo di ferro” si disse “Cosa penserebbero di me i miei fratelli se sapessero che me la faccio sotto davanti a una donna?”. Per un attimo, nel legno massiccio della porta vide i volti di Kein, Joryn e Ciara. Li avrebbe abbracciati molto presto. Avrebbe detto a sua madre: ti ho vendicata, e lei ne sarebbe stata orgogliosa. Inspirò profondamente e bussò con decisione.
“Avanti.” La voce di lei era morbida, suadente, ma, al tempo stesso, lasciava filtrare il pericolo insito nella donna. Era di spalle: i lunghi capelli castani le ricadevano morbidi e sciolti sulle spalle. Indossava una veste da camera, leggera, che le avvolgeva il corpo ancora piacevole nonostante l’età non più giovane. Ullen giudicò che fosse abbastanza più vecchia di Riona, ma la bellezza popolani sfioriva molto più velocemente di quella dei nobili, quindi non poteva esserne del tutto certo.
“Mia Regina” disse, inginocchiandosi davanti a lei dopo aver lasciato il vino su un tavolinetto accanto al focolare “Perdonatemi, il re mi ha mandato a chiamarvi. Vuole vedervi nel suo solarium”. Sperò ardentemente che la scusa non suonasse troppo falsa alle orecchie di lei. Non aveva la minima idea di come si comportassero i nobili tra loro, men che meno i sovrani. E se avesse detto una sciocchezza?
La donna lo squadrò, gli fece un cenno breve con la mano invitandolo ad alzarsi. Stava sorseggiando una coppa di vino e faceva vorticare il liquido mentre parlava. “E com'è che ha mandato a chiamarmi proprio te? Non lavori nelle cucine? Ti hanno promosso?” domandò. C’era scherno nella sua voce, ma Ullen si impose di rimanere calmo. La sua mente viaggiava a gran velocità per cercare una risposta adeguata. A dirla tutta, non ci era proprio abituato.
“Non lo so mia regina” rispose, alla fine. “ Dice... beh dice che mi trova divertente. Mi chiamano Occhio di Papero giù in cucina e il sovrano dice che è spassoso...”
“Occhio di Papero…” Ripeté a bassa voce, poi sorrise. “E va bene, andiamo a vedere cosa vuole il mio caro marito. Ora esci e aspettami fuori mentre indosso qualcosa di più appropriato”.
“Oh no, Vostra Grazia” la contraddisse Ullen, d’istinto. “Pezzo di idiota!” si insultò mentalmente mentre gli occhi della Regina lo trapassavano come darti. “Vi prego, mi ha detto che è molto urgente… mi ha detto che mi strapperà anche l’altro occhio se non vi conduco subito da lui!”
L’espressione terrorizzata doveva essergli venuta benissimo, perché la Regina scoppiò a ridere, afferrò un mantello pesante, se lo drappeggiò sulle spalle e, vuotata la coppia di vino, lo seguì all’esterno.
Camminarono in silenzio, Ullen davanti e la sovrana a poca distanza. Il ragazzo, di tanto in tanto, si voltava indietro per controllare che la donna lo seguisse. Finalmente giunsero al camminamento sospeso che congiungeva la Fortezza Insanguinata alla Torre del Mare. Gli occhi verdi della Regina si spostarono sui bagliori che illuminavano Lordsport in lontananza. Fece per aprire bocca, ma non ebbe tempo di dire alcunché: dal buio emerse la figura possente dell’uomo che Ullen aveva incontrato in dispensa.
“Buonasera vostra altezza” disse, afferrando la donna in una stretta d’acciaio. “Spero che non soffriate di vertigini”. La sollevò senza difficoltà con un braccio solo, imprigionandola nonostante lei cercasse di dibattersi; era talmente possente da renderle difficile respirare, figuriamoci urlare.
“Sei pronto ragazzo?” fece poi, rivolto ad Ullen. Lui annuì, nonostante avesse ormai compreso che il piano di fuga dell’uomo era ai limiti della follia. Lasciò che lo cingesse con il braccio libero.”Afferrati a me”. Non se lo fece ripetere due volte. In un attimo, il vuoto. Il mare, oscuro e tumultuoso, si avvicinava a spaventosa velocità.

 

KEIN

La ragazza non poteva avere avuto più di quindici anni. Lunghi capelli ramati, occhi scuri e una spruzzata di lentiggini sul naso e le guance. Le era morta tra le braccia, metà del volto consumato dalle fiamme, la chioma ridotta in cenere, le vesti strappate e bruciate. Aveva smesso di respirare e Kein aveva visto la vita spegnersi nei suoi occhi di bambina. Poi aveva sentito due braccia forti tirarla indietro, trascinarla via dalle fiamme prima che rientrasse nella locanda per l’ennesima volta.
I polmoni, la schiena, gli arti, tutto era un’agonia di dolore. Attorno a lei, si levavano le urla e i bagliori degli incendi illuminavano la notte. Si appoggiò alla spada come ad un bastone e tossì così forte da sentire in bocca il sapore del vino che aveva bevuto poco prima, misto a fiele. Quanto era passato? Le parevano ore, ma la notte era ancora profonda, non poteva essere trascorsa più di una manciata di minuti da quando si erano accorti del fumo. Sarebbe crollata se il cavaliere non l’avesse sostenuta. Gli si aggrappò con la mano libera e lui strinse tra le braccia per non farla cadere. Quel gesto le strappò un grido di dolore e, d’istinto, lo allontanò da sé.
“Che cos’hai? Sei ferita?” le chiese Shin e, senza attendere la sua risposta, le si inginocchiò accanto e le sollevò delicatamente la tunica, scoprendole la schiena. Kein era consapevole delle ferite che si intersecavano là dove la frusta aveva colpito il giorno prima. Il marinaio che le aveva offerto il pezzo di legno da mordere durante l’esecuzione del castigo si era occupato anche di slegarla e medicarla, ma nessuno si era preso la briga di chiamare un maestro e la carne flagellata era gonfia e suppurante. “Chi è stato a farti questo?” domandò il cavaliere, la voce tagliente come il filo della sua spada. “Se la sua lingua fosse una lama, la spia di Euron avrebbe già la gola squarciata” pensò lei. “Gli uomini del re. Mi ha messo alle calcagna le sue maledette spie per controllare se mi ero unita ai ribelli. Per questo prima ho pensato che tu…” non finì la frase. Quell’uomo aveva rischiato la vita con lei per salvare sguatteri e prostitute. Non poteva essere una spia di Occhio di Corvo, non poteva.
Il cavaliere la coprì con delicatezza, attento a non sfiorare la pelle. “Non permetterò più a nessuno di farti una cosa del genere” le promise. “Posso medicarti, ma servono bende di seta e unguenti. Conosci un guaritore che abbia l’occorrente?” domandò aiutandola ad alzarsi. La teneva per la vita, per non farle male. Era la prima volta che un uomo la toccava al di fuori di un combattimento ad esclusione… No, non era il momento per lasciare spazio a quei ricordi.
“Ne conosco uno, ma non c’è tempo” rispose. “C’è una ribellione in corso, guarda le navi che bruciano. Quella è la Giullare Rosso, e laggiù c’è la Donzella Guerriera”. Lo sguardo di Shin seguì il suo dito che indicava le navi in fiamme che già stavano lentamente affondando, senza capire. “Fanno parte della Flotta di Ferro, mio signore. Stanno bruciando la Flotta di ferro e danno alle fiamme le taverne dove pensano si trovino gli uomini di Euron e i senzadio. Il prossimo passo sarà assaltare il castello, e là c’è mio fratello!” Improvvisamente un’altra terribile intuizione: la casetta sul porto, addossata alla locanda. Se avessero incendiato anche quella, quanto avrebbero impiegato le fiamme a lambire la casa di Riona? Lei e Joryn e Ciara si sarebbero svegliati in tempo? Le mancava il respiro, artigliò la spalla del cavaliere rinnegato. “La mia famiglia abita a fianco di una locanda sul porto, ser” disse in un filo di voce. “Devo andare… devo andare!”
L’istinto era quello di correre come il vento, ma il suo corpo non era in grado di sostenerla. Aveva il fiato corto per il fumo respirato all’interno della locanda e i polmoni le bruciavano come l’inferno. Sentiva le gambe deboli e la testa pesante, una sensazione molto simile a quella provata durante l’annegamento. Il cavaliere, invece, essendo rimasto all’esterno ad aiutare i fuggiaschi a scavalcare il muro del cortile, era ancora nel pieno delle forze. “Vengo con te” le disse e fece per prenderla tra le braccia. “Non sono una pulzella delle terre verdi” gli ricordò “posso camminare da sola”. Non c’era solo orgoglio nella sua voce, ma gratitudine e accettò volentieri il suo sostegno.
Si allontanarono velocemente dal molo, percorrendo strette viuzze laterali per evitare il grosso dei disordini. Tutto intorno a loro era il caos. Quella in cui si trovavano non era l’unica taverna che era stata data alla fiamme e, dall’esterno, era evidente che l’intento dei piromani era quello di non lasciare scampo alcuno. Le uscite, infatti, erano state tutte sbarrate, e dall’interno provenivano urla laceranti e un odore nauseabondo di carne bruciata. Frattanto, nelle strade e sulle piazze numerosi capannelli si erano formati attorno agli Annegati, i sacerdoti del dio Abissale, che incitavano la folla con i loro deliri religiosi mentre uomini armati si occupavano della loro protezione. Le urla dei moribondi si mescolavano a quelle degli ubriachi e ai vaneggiamenti di coloro che inneggiavano al dio.
“Cos’è questa follia?” si chiese Kein “Sono impazziti forse?”
Una cosa era ribellarsi ad Euron, questo poteva capirlo, e anche affondare le sue navi. Ma bruciare persone innocenti? Che senso aveva? “Occhio di Corvo è un pazzo e un sadico, ma questa gente non è meglio di lui” rifletté mentre lei e Shin si infilavano in un vicolo angusto e buio. Il cavaliere la spinse avanti, sempre mantenendo salda la presa su di lei e seguendola dappresso, come un’ombra.
Man mano che si avvicinavano a casa, i tumulti andarono scemando. Era chiaro che il grosso degli scontri era concentrato dall’altra parte del porto, ma Kein ormai doveva controllare che i suoi stessero bene. C’era sempre la possibilità che qualcuno, approfittando del caos, fosse penetrato in casa, oppure che Riona fosse tornata a lavorare per qualche bordello d’infima categoria e avesse lasciato i bambini soli. Nei suoi pochi anni, la ragazza aveva imparato che mille cose potevano andare storte e ultimamente non poteva certo dire di avere avuto molta fortuna.
Distratta da questi pensieri non si accorse dell’arrivo di alcuni uomini e Shin la trascinò nell’ombra appena in tempo, mentre un gruppo di ribelli armati passava accanto a loro a tutta velocità in direzione del molo. Rimasero per qualche istante appiattiti nella rientranza di una soglia, talmente vicini che poteva sentire il battito del cuore di lui attraverso la stoffa sottile della tunica. “Manca molto?” le chiese in un sussurro. “No, siamo quasi arrivati”.
Uscirono di nuovo allo scoperto e dopo un paio di svolte si ritrovarono finalmente davanti alla casetta di pietra e intonaco. Sulla sinistra, la locanda appariva buia e deserta. Kein bussò all’uscio con forza, chiamando i suoi familiari. Non ci volle molto perché la porta si aprisse e i due scivolarono all’interno. Riona non fece quasi in tempo a sprangare l’entrata alle spalle di Shin che già i bambini si erano gettati tra le braccia di Kein. Perfino Joryn, che ora era l’uomo di casa, aveva le lacrime agli occhi e le affondò il viso tra i capelli mentre Ciara cercava di arrampicarsi e farsi prendere in braccio. Era la prima volta che la vedevano dopo il processo e Kein si sentì a sua volta prossima al pianto.
“Che accidenti sta succedendo là fuori?” domandò Riona. Il volto stava guarendo, ma le cicatrici erano evidenti e la sua bellezza sfumata per sempre. “E questo chi è?”
“Un amico” si affrettò a rispondere Shin.
“Un cavaliere” gli fece eco Kein. “C’è una rivolta in corso, i capitani e gli Annegati si sono alleati contro il re. Mezza città è in fiamme e anche la flotta di ferro ha subito degli attacchi”
“Tuo fratello?” chiese la madre, con urgenza.
“Credo stia bene, è al castello e la fortezza è ben protetta”
“Tu credi?” urlò Riona “Non ti è bastato fargli perdere un occhio? Perché non sei al castello con lui?”
Per un attimo calò il silenzio. Kein si aspettava quella reazione, sapeva che Riona l’avrebbe incolpata per quanto era accaduto ad Ullen, così come due anni prima aveva fatto per la morte di Roan. Forse era per questo che non aveva avuto ancora il coraggio di tornare a casa, nonostante sentisse la mancanza dei fratelli. Joryn era una statua di sale, immobile; Ciara, ancora aggrappata alla sua gamba, scoppiò a piangere.
Kein strinse i denti, le parole della madre avevano aperto dentro di lei ferite ben più gravi di quelle inferte dalla frusta della spia. Riona era l’unica persona al mondo capace di farla soffrire sul serio. Le mancava la voce, ma poi sentì la mano si Shin sulla sua spalla, il pollice che le accarezzava impercettibilmente il collo, attraverso la cascata di capelli corvini e quel gesto, incredibilmente, le diede forza.
“Ho fatto quanto ho potuto, madre” rispose, “e ti assicuro che il re mi ha presentato un conto assai salato per i miei errori. Ma lord Farwynd avrebbe ucciso Ullen quella sera stessa se non fosse stato per me, quindi risparmia il tuo biasimo. Sono venuta qui per controllare che tu e i bambini foste al sicuro”.
“L’hai fatto” fece Riona, di rimando. “Ora va’ a compiere il tuo dovere”
“Ti consiglio di lasciare Lordsport quanto prima. Prendi i bambini e vattene ad Harlaw, da Winnie” le lanciò un sacchetto di monete che aveva racimolato con fatica. Riona lo prese al volo e lo fece sparire in una tasca della sottana.
“Non voglio andare via! Voglio stare con te!” si lamentò Ciara, petulante.
“Dobbiamo fare come dice Kein” la riprese Joryn, dolcemente. “Lei sa sempre cosa è meglio per noi”. La bambina si lasciò prendere in braccio dal fratello, ma i suoi grandi occhi tristi erano sempre rivolti a Kein.
“Verrò a prendervi molto presto, assieme ad Ullen” promise. “Prendetevi cura l’uno dell’altra.”
Joryn annuì serio. Ciara domandò: “E chi si prenderà cura di te?”
“Ci penserò io” si intromise Shin “Ora però dobbiamo andare”
La prese per mano e la condusse vero la porta.
“Addio, mamma” sussurrò la ragazza, un piede già nel buio della notte. Alle sue spalle, Riona non rispose.

 

SHIN

La donna che gli camminava a fianco era, con ogni probabilità, la più testarda che Shin Estren avesse incontrato in tutta la sua vita. Si reggeva a stento in piedi, tossiva convulsamente ad ogni passo, aveva la schiena sanguinante… eppure trovava ancora la forza di lottare. Gli era costata una tremenda fatica convincerla a riposare e a lasciarsi medicare prima di tornare al castello e affrontare il re, i ribelli e sapevano gli dei cos’altro, ma alla fine ci era riuscito e ora camminavano verso quello che lei aveva definito “un posto sicuro”. “Spero che lo sia” si ritrovò a pensare il cavaliere. Sentiva il desiderio di fermarsi in quel riugio con lei, tenerla al sicuro finché tutta quella follia non si fosse conclusa. Per puro caso non ne era rimasto coinvolto anche lui. In realtà, non era un caso. Era una persona, con un volto e un nome. La guardò arrancare sulla battigia, il viso reso ancora più pallido dalla luce della luna quasi piena, la sorresse mentre incespicava sul terreno sconnesso e ciottoloso.
“Ci siamo quasi” gli disse Kein, aggrappandosi al suo braccio. Gli rivolse un sorriso, tirato e stanco, ma sincero.
“Non capisco, qui non c’è niente” ribatté Shin, guardandosi intorno. Al buio, quella sembrava soltanto una spiaggia: davanti a loro, solo una ripida scogliera.
“È là” indicò il promontorio.
“Là c’è solo il mare”. “Devo essere impazzito del tutto. Perché la seguo? Non lo so, so solo che non posso farne a meno”.
Si sfilò gli stivali ed entrò in acqua. “Seguimi, cavaliere”.
Camminava tenendosi adesa alla roccia, l’acqua che le arrivava prima ai polpacci, poi quasi alle cosce. Poi la vide riemergere, aggrappata alla roccia. Anche nella semioscurità l’uomo riuscì a percepire la presa salda: qualcuno aveva piantato degli appigli.
“Stammi vicino, metti le mani dove le metto io.”
Si spostarono lungo la parete rocciosa, c’erano chiodi piantati in profondità e incavi naturali ai quali aggrapparsi. La ragazza era veloce e sicura, come se conoscesse il percorso a memoria. Ogni tanto si fermava, scossa dalla tosse, oppure per aspettare il cavaliere.
Finalmente Estren scorse un’insenatura dall’altra parte del piccolo promontorio: era solo una lingua di spiaggia, incuneata tra due scogliere, un golfo piccolissimo. A ridosso della parte rocciosa, c’era una baracca di legno, un tugurio. “È questo il suo rifugio? Una catapecchia?” pensò con sgomento.
Kein si rimise gli stivali e gli fece cenno di seguirla. L’interno della baracca era completamente immerso nell’oscurità, ma lei si muoveva come fosse pieno giorno e dopo un minuto la luce di una candela di sego brillò tra le sue dita. Ne accese un altro paio e gli occhi del cavaliere iniziarono a distinguere i contorni degli oggetti: un pagliericcio, un focolare, della legna da ardere in un angolo, un piccolo scaffale zeppo di utensili. “È la casa più povera e malconcia che abbia mai visto, ma pur sempre una casa”. Per un momento, Shin si sentì molto più a suo agio in quella baracca muffita e spoglia con quella ragazza sconosciuta che nel suo bel castello o a corte, circondato dalla famiglia e dai fratelli d’arme. Lei aveva la capacità di farlo sentire a casa con la sua semplice presenza, una sensazione che in trent’anni non aveva mai provato.
“Che posto è?” le chiese, chiudendosi l’uscio alle spalle.
“Te l’ho detto, ser, una specie di rifugio. Credo che anticamente questa spiaggia fosse più grande, collegata a quella da cui siamo venuti.” rispose lei, buttando della legna nel focolare e prendendo una pietra focaia. Sotto le sue dita esperte, in un attimo i ceppi presero fuoco. “Poi il mare deve aver eroso parte della terra e così è rimasta isolata e la baracca è stata abbandonata. L’abbiamo scoperta per caso, io e mio fratello. Ci venivamo a giocare da piccoli…” Stava per raccontare qualcos’altro, ma poi cambiò idea e scosse la testa. “Hai ancora voglia di medicarmi la schiena?”
“E con che cosa?” domandò il cavaliere, visto che lei si era rifiutata categoricamente di cercare un guaritore.
Kein gli regalò un sorriso furbo che la faceva sembrare una bambina che ha appena combinato una marachella. Pescò dalle tasche delle brache delle erbe essiccate e delle bende.
“Le ho prese da mia madre. Lei sta guarendo, non ne ha più bisogno”. Allo sguardo interrogativo dell’uomo rispose con una risata e di nuovo lui rimase affascinato da quel modo di ridere, con la testa gettata all’indietro e gli occhi chiusi. “È meglio che tu non sappia come mi guadagnavo da vivere prima di imbarcarmi, cavaliere. Non sono storie adatte alle tue nobili orecchie.”
“Sa essere irriverente e sfacciata. In un contesto diverso, se una ragazza del volgo mi si fosse rivolta in questo modo l’avrebbe pagata. In un contesto diverso, in un altro tempo. Ma non sono più quella persona e la sua sfrontatezza mi fa sorridere.”
La fanciulla preparò un impasto di camomilla e ortica, poi sollevò la tunica facendo bene attenzione a non mostrare nemmeno un palmo di pelle più del necessario. Sulla sua schiena, le scudisciate avevano aperto ferite profonde, soprattutto nei punti di intersezione. Cinque linee di fuoco sulla pelle candida. “Le rimarranno le cicatrici, una schiena diritta, forte e sensuale rovinata da un folle.” Shin sentì la rabbia crescere, l’antico furore farsi strada.
Lei sopportò a denti stretti, senza lamentarsi. “Ci deve essere abituata”, pensò il cavaliere: sotto le dita sentiva cicatrici più vecchie e si domandò quante ferite si fosse procurata combattendo, quante gliene avranno inferte solo per domarne il carattere ribelle. Quando ebbe finito, la ragazza si lasciò scivolare la tunica coprendo quello scempio e si voltò verso di lui. Le fiamme danzavano nei suoi occhi dorati e, a gli occhi di Shin, era bella da togliere il fiato.
“Come posso ringraziarti, cavaliere?”. Shin Estren sapeva che la fanciulla non si stava offrendo, lo capiva dal suo sguardo, troppo limpido, troppo infantile. “È solo un modo cortese per esprimere gratitudine”, pensò, eppure non poteva fare a meno di desiderarla. Senza pensarci, le prese il viso tra le mani. Fece per baciarla, ma la mano sinistra di lei scattò verso il fodero del pugnale, lo stesso pugnale che lui aveva lasciato cadere a terra alla taverna. Le sue dita si strinsero nel vuoto e il suo corpo si irrigidì, pronto a scattare, a lottare. “Perché si comporta così?” si chiese, quasi con rabbia. “Fino a pochi istanti fa si lasciava toccare, tranquilla, fiduciosa. Ora sembra di nuovo un animale in trappola. I suoi occhi ambrati sono indecifrabili, le labbra strette, i pugni chiusi. Perché?” si domandò, di nuovo. “Perché… perché una donna abbastanza coraggiosa da affrontare un incendio per salvare degli sconosciuti dovrebbe essere terrorizzata da una semplice carezza?” E d’improvviso ebbe un’intuizione terribile. La lasciò andare, delicatamente. “Che cosa ti hanno fatto?” le chiese. Lei si voltò dall’altra parte, un’espressione sorpresa dipinta sul volto. “Non capisco cosa intendi” ribatté, altera. “È cambiata di nuovo, repentinamente, come alla taverna. Ogni volta che il contatto si fa più intimo, lei si ritira. Se rispondo alla sua rabbia con la mia, finirò per allontanarla e non è quello che voglio”. Cercò di dominarsi.
“Non voglio farti del male” le disse, con la maggior gentilezza possibile.
“Non penso che tu voglia farmene” rispose Kein, passandosi le dita tra i capelli, nervosa.
“Se non ti piacessi, ti basterebbe rifiutarmi. Non sono il tipo di uomo che cercherebbe vendetta per un rifiuto e, se anche fosse, sai bene come difenderti. Invece hai sempre in mano il pugnale, perché?” le domandò. “Forse conosco la risposta, temo di conoscere la risposta”.
“Lo avrei se non me lo avessi tolto alla taverna” fece la ragazza, riuscendo a mettere insieme un mezzo sorriso. Tanto bastò per fargli tornare voglia di abbracciarla, ma questa volta si trattenne. “Non è una cosa di cui parlo volentieri” riprese, più seria. “In realtà, non ne ho mai parlato veramente con nessuno e non capisco come tu…”
“Non sei obbligata e non ti voglio forzare. È solo che da quando ti ho vista al processo non faccio che chiedermi chi sei. Un pirata, un’assassina, la figlia di una prostituta, oppure…”
“Sono tutte queste cose, cavaliere, e molte altre. Perché ti interessa?”
Scosse la testa. Non sapeva spiegarglielo, non lo sapeva spiegare nemmeno a se stesso. Sollevò la mano, d’istinto, ma questa volta la fermò a mezz’aria, a pochi centimetri dalla guancia di lei. Sentì nel cuore un’immensa tristezza, un’immensa pena, per lei e per se stesso. Inaspettatamente, Kein gli prese la mano e se la premette sul viso. Chiuse gli occhi e cominciò a raccontare.
§§§
Nove anni prima…
Orla della Baia era nata bastarda e, come se non bastasse, per parte di padre era nipote di uno schiavo. Tuttavia, questo non le aveva impedito di arrivare a comandare una delle navi lunghe della flotta di ferro, che aveva fatto battezzare la Fanciulla Nera, in onore del suo fratellastro e della lady che lui aveva amato. Era una donna forte, solida, non bella ma comunque ambita e rispettata per il suo coraggio e per la mano di ferro con cui conduceva gli uomini in battaglia. Se non d’aspetto, si poteva però dire che assomigliasse al fratello per la ferocia e la temerarietà che li accomunava. Il loro legame, prima della morte di lui, era stato forte e forse per questo aveva accettato di imbarcare quella ragazzina troppo alta e troppo magra che era venuta da lei a chiedere un posto sulla sua nave. “Ho una sorella e tre fratelli” le aveva detto “Mia madre è una prostituta. O mi imbarco, o dovrò andare a lavorare con lei al bordello”. Orla l’aveva squadrata dalla testa ai piedi, il viso sporco, i capelli aggrovigliati, il corpo acerbo e due occhi grandi, dorati come quelli di un lupo, e altrettanto affamati e ferini. Alla fine, l’aveva presa con sé.
 
“Tieni” le disse il capitano, offrendole un boccale di birra scura. “Sei abbastanza grande per farti una bevuta!”.
A Kein la birra non piaceva granché: aveva un sapore troppo aspro. Preferiva i vini, soprattutto quelli rossi e fruttati, o l’idromele. Tuttavia, per non recare offesa ad Orla, accettò l’offerta.
L’atmosfera che si respirava sulla Fanciulla Nera quella notte era di festa. Erano reduci da un’incursione su Isola Bella risultata particolarmente fruttuosa. Delle navi mercantili si erano recate sull’isola per offrire le proprie merci al mercato che si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni per il matrimonio della primogenita di Lord Farman, così come un torneo e i relativi festeggiamenti nuziali. La nave lunga aveva lasciato il mare del Tramonto stracarica di merci preziose, spezie, vini, tessuti e mogli di sale e ora gli uomini veleggiavano verso Pyke, arricchiti ed esultanti come nessun equipaggio di ferro era stato da molti anni.
Quella sera, i canti e le urla si spensero a notte inoltrata e quando tutti furono sufficientemente ubriachi e sazi, si ritirarono sotto coperta. Kein preferì rimanere a dormire sotto le stelle. Si avvolse il mantello stretto attorno alle spalle e andò a coricarsi sul sartiame. Nel cielo sgombro brillavano le costellazioni che Sefron le aveva insegnato a riconoscere: la Lanterna della Vecchia, la Spada del Guerriero, il Drago di Ghiaccio, che puntava il suo occhio azzurro verso nord e la coda verso sud… si addormentò ripetendo i nomi delle stelle e pregustando il momento in cui avrebbe portato alla madre la sua parte di bottino.
 
Venne svegliata dall’odore. Il puzzo di sudore alcolico, di alito pesante, di capelli sporchi. Aprì gli occhi e in un attimo la sua mano si strinse sull’elsa della daga corta. Ma fu comunque un attimo di troppo: gli uomini l’avevano già afferrata e immobilizzata, sentiva le loro mani forti e nodose che le bloccavano le spalle e uno di loro le aveva tappato la bocca. Cercò di dibattersi, inutilmente. Roteò gli occhi, alla disperata ricerca di un volto amico, ma il suo campo visivo era totalmente occupato dai tre uomini che la sovrastavano. Kein non ricordava i loro nomi, si erano imbarcati sulla Fanciulla Nera soltanto la settimana precedente.
“Cos’abbiamo qui?” domandò uno dei tre, sghignazzando scompostamente.
“A me sembra un ragazzino” rispose un altro, la risata simile ad un latrato.
“Beh, se è un ragazzino sarà contento Otho, a lui le donne non piacciono” ribatté il primo. Il terzo uomo, Otho, gli rifilò uno scapaccione sulla nuca.
“A me mi piacciono le donne, idiota!”
“Che ne dite di controllare?” propose la seconda voce.
Kein si dibatté, inutilmente. Erano in tre, ed erano molto più forti di lei. Fino a quel momento, aveva partecipato solo marginalmente alle razzie, come sentinella oppure nell’avanscoperta. Il capitano le stava insegnando personalmente a maneggiare una spada, ma ancora non era in grado di combattere, soprattutto in condizioni di evidente svantaggio.
Non era stupida, né ingenua. Sapeva che cosa volevano quegli uomini e sapeva che con le buone o con le cattive se lo sarebbero preso. Aveva visto i suoi compagni catturare le fanciulle dei villaggi per farne loro mogli di sale e le era capitato di assistere anche a un paio di stupri, nonostante il fatto che davanti al capitano nessuno osasse farlo. “Devo stare ferma” pensò “devo lasciarli fare. Se mi ribello, mi picchieranno, se credono di avermi in pugno abbasseranno la guardia e forse riuscirò a scappare”. Sarebbe stato sufficiente arrivare all’albero maestro e arrampicarsi, erano troppo ubriachi per starle dietro.
“Non muoverti ragazzina” la blandì il primo uomo, quasi intuendo le sue intenzioni, con una voce che voleva suonare soave e rassicurante. Le accarezzò il viso con la punta delle dita, scendendo sulla gola e poi verso il petto. “Sono sicuro che ti piacerà”
“Oh sì, ti piacerà” ribadì il suo compagno, sguaiato, insinuando una mano sotto la tunica. Il contatto delle sue dita ruvide sulla pelle nuda le diede i brividi. Era impaurita, disgustata e cominciava a perdere il controllo. Il respiro le si era fatto affannoso e il cuore le martellava impazzito nel petto.
“Guarda, Quin, si sta eccitando” rise il primo uomo. “Scommetto che è già tutta bagnata”. Le sbottonò le brache e la ragazzina sentì le sue dita callose farsi strada nel suo sesso. Strinse le cosce più forte che poteva, per impedirgli di penetrarla, ma gli altri due le separarono le ginocchia e le sfilarono le brache. A quel punto, mezza nuda e terrorizzata, Kein inarcò la schiena, soffiando come un gatto, cercando di sottrarsi alla loro stretta, il suo piano sfumato. Il suo dibattersi, come previsto, non fece che eccitare maggiormente gli uomini. Si divertirono a tenerla ferma mentre lei sgusciava come un’anguilla, ma presto finirono per stancarsi e allora piovvero sberle e calci e lei cominciò a piangere, di rabbia e di impotenza oltre che per il dolore.
“Ora basta, mi hai stancato” fece quello di nome Quin, assestandole uno schiaffo che risuonò nella notte secco e doloroso. Le afferrò la gola e strinse, togliendole il respiro.
“Non fare la difficile, sei quasi una donna ormai, è ora che conosci le delizie del sesso e ti assicuro che nessuna si è mai lamentata di Quin” disse, mentre con la mano libera si frugava nei calzoni. Gli altri due la tennero stretta mentre lui la penetrava. Lo fece con un unico movimento, rapido, deciso, che le strappò un urlo di dolore prontamente soffocato dalla mano di Otho. Fu un atto breve, poi l’uomo lasciò il posto ai compagni. Si alternarono. Kein volse lo sguardo sull’Occhio del Drago, la stella azzurra che indicava il nord e iniziò a mormorare i nomi degli astri e delle costellazioni che le aveva insegnato il septon. Cercò di concentrarsi su quelle luci remote, ignorando il fuoco che le ardeva nel basso ventre, tentò di allontanare la mente da quel luogo, ricordare le storie che aveva imparato, le preghiere. Pensò a sua madre e a suo padre. Riona aveva la sua stessa età quando l’aveva data alla luce. Suo padre era stato così brutale con lei? L’aveva stuprata, o l’aveva amata?
Quando anche Otho ebbe finito, Quin era pronto per il secondo giro. Kein era immobile, gli occhi rivolti al cielo, le guance rigate di lacrime. Sulla sua pelle pallida brillavano i raggi della luna piena, facendola apparire diafana, quasi trasparente. Allungò la mano e, tra le corde, sentì il rassicurante tocco dell’acciaio. “Sono ferma e loro hanno abbassato la guardia” pensò, riacquistando un minimo di lucidità, ma senza darlo a vedere. Approfittò del momento in cui gli uomini si davano il cambio e con un movimento fulmineo piantò la lama corta della daga nel collo di Quin. Per un secondo, gli altri due lo fissarono, increduli e immobili. Lei ne approfittò per rotolare di lato, fuori dalla loro portata. Si lanciò sottocoperta, senza voltarsi indietro, scivolando sul suo stesso sangue che le rotolava giù per le cosce. Corse a perdifiato, inseguita dal secondo uomo mentre Otho era rimasto al fianco di Quin. Corse fino alla cabina del capitano e, un secondo prima che lo stupratore la raggiungesse, Kein stava già tempestando la porta di pugni.
§§§
“Quin è stato il primo uomo che ho ucciso. Otho e Sloan furono giustiziati il giorno seguente dal capitano in persona. Si occupò di curarmi le ferite e mi diede il te della luna perché il seme di quei bastardi non attecchisse. Mi concesse anche la loro parte del bottino come risarcimento per quello che mi avevano fatto. Da allora nessun uomo mi ha più toccata. Qualcuno ci ha provato e ci ha rimesso qualche pezzo. Sono passati quasi dieci anni, cavaliere”. Kein concluse in suo racconto, le lacrime le sgorgavano calde e scivolavano tra le dita del cavaliere.
Shin della nobile casa Estren, ex cavaliere della guardia reale, avrebbe voluto ucciderli tutti. Tirarli fuori dagli abissi, soffiare la vita dentro di loro e ucciderli di nuovo, lentamente, dolorosamente. Una volta, un’altra, un’altra ancora. Se avesse saputo come si fa, avrebbe pianto per lei. Rabbia e dolore, furore e tristezza si mescolarono in onde furibonde dentro di lui.
Aveva ancora la mano premuta sulla guancia di Kein e sentiva sotto le dita l’umidità salata delle sue lacrime. Gliele asciugò, a corto di parole. “Non posso cancellare ciò che è accaduto, ma posso evitare che accada di nuovo” pensò. Si ripromise che non l’avrebbe mai più lasciata. Non gli importava del suo nome, dei suoi oscuri natali, della sua bellezza deturpata da quella vita dura che non meritava. La voleva per sé.
“Mi dispiace di averti puntato il pugnale addosso” si scusò Kein, rompendo il silenzio. Era come se tutta la rabbia e la paura le fossero scivolate via mentre raccontava la sua storia. Era svuotata, ora, e libera.
“Non importa. Avevi delle ottime ragioni per farlo” replicò il cavaliere, ritirando la mano. “Non la toccherò più, a meno che non sarà lei a volerlo” decise.
La fanciulla abbassò lo sguardo. Shin avrebbe voluto dirle che non aveva nulla di cui vergognarsi: riusciva quasi a vedere la sua faccia sporca da bambina, il corpo più magro, senza le forme che adesso lo rendevano così desiderabile, i capelli aggrovigliati. Per un momento fu di nuovo quella ragazzina, ma quando alzò gli occhi era lo sguardo di una donna quello che puntò sull’uomo che aveva di fronte.
“Come posso ringraziarti, cavaliere?” chiese di nuovo. Il tono, ora, era completamente differente.
“Non devi farlo, se non vuoi”
“Ma io voglio. Uno… uno soltanto.”
Shin le posò una mano sulla vita e l’altra sulla pelle delicata del collo; l’attirò a sé, piano, lasciandole il tempo di abituarsi al suo tocco. Abbassò il volto su quello di lei, i respiri si intrecciarono e diventarono uno. Il cavaliere chiuse gli occhi, offrendosi a lei, perché colmasse la distanza. Per un lungo momento non accadde nulla; poi sentì le dita della fanciulla tra i capelli e la bocca di lei sulla sua. Era un bacio timido e impacciato come quello di una ragazzina, ma nonostante questo ondate di benefico piacere gli percorsero la spina dorsale. Avrebbe voluto prenderla, in quel momento e in quel luogo, ma il suo racconto era troppo doloroso da superare in una notte. La spinse contro la parete, passandole un braccio dietro al collo perché le ferite non le facessero male e la sentì tremare. Non di paura, ma di desiderio. Dischiuse le labbra e lo cercò con trasporto sempre maggiore e lui si perse in quella danza, delicata, passionale, sentì la tensione del corpo di Kein sciogliersi e diventare brama struggente. Si strinsero uno all’altra, chiudendo fuori il passato e la guerra. Uno soltanto, aveva detto. Mantenne la promessa: gli concesse un solo, lungo bacio che si spense assieme alle stelle del mattino.
 
 
 

 

YOHAN

Ullen fu legato all’albero della nave; sotto gli occhi, assetati di morte, di tutto l’equipaggio. Pallido come un cencio fissava atterrito la figura che gli stava di fronte, in piedi, con un’ascia barbuta in mano.
Capelli Verdi lo fissava divertito: “Ooh sì, guarda, guarda, chi abbiamo qui, aye. Il Capitano ha pescato un piccolo pesce orbo, ooh sì, oooh sì”. Rivolgendosi a Yohan, parlò così che la ciurma lo sentisse bene “oh sì Capitano, aye. La giustizia delle Onde annegherà l’infedele, oh sì”. Tutta la ciurma aveva già riconosciuto il ragazzo e assecondava Capelli Verdi con risate più o meno di falso stupore.
“Oh sì, quando ammazziamo, oooh no, dicevo, quando anneghiamo, aye, il ragazzo? Capitano Farwynd?”. Le ultime parole le scandì lentamente e con lo sguardo verso Ullen. Non voleva perdersi la reazione del giovane volto, una volta che questi avesse capito chi fosse il suo “salvatore”.
Il viso del ragazzo era sbiancato e tutto il coraggio dimostrato sul ponte di corda lo stava abbandonando. Gli occhi erano sgranati, pieni di terrificato stupore. Era stato abbastanza sveglio da ingannare la regina, ma troppo stupido per accorgersi che lui stesso stava cadendo in trappola. Boccheggiò alla ricerca di parole che non vennero, lottando per ricacciare indietro le lacrime.
“Ma… c’era un patto fra noi…” balbettò Ullen.
“Non ricordo di aver fatto nessun patto”.
“Mi hai promesso salva la vita in cambio del mio aiuto”.
“Non ho mai chiesto l’aiuto di nessuno in vita mia”.
“Ma io ti ho aiutato… la regina… nella fortezza…” disse singhiozzando sommessamente.
Yohan parve fermarsi a pensare… “è vero e per questo ti sarà concessa una morte rapida e gloriosa. Non biasimarmi: hai ucciso mio fratello, se ascoltassi il cuore ti farei a pezzi”.
“Ti scongiuro” insistette Ullen “Stai commettendo un errore. Io non c’entro nulla. Non ho colpa, credimi. Tuo fratello..”.
Yohan lo interruppe “Che il Dio Abissale ti accolga nel suo palazzo.” Non disse altro.
Poi si diresse verso l’ospite d’onore.
“Perdona l’attesa. Una questione privata, il ragazzo ha ucciso mio fratello” disse sussurrandole, come se le stesse raccontando un segreto. La donna era stata immobilizzata dai gemelli Einar e Rune che la tenevano saldamente contro la prua della nave. “Mentre tu… cosa avresti di così speciale?” fu la domanda che Yohan rivolse più a sé stesso che alla sposa di sale rapita. Poi, senza che la sua espressione trasmettesse alcuna emozione e inclinando di lato la testa per squadrarla meglio, continuò “E’ per l’amore di una serva e concubina che Euron cederà il suo potere? Chi sei?” concluse.
La regina cercò di divincolarsi, più per rimarcare la sua indole irrequieta, che per cercare di liberarsi. Poi si protese verso Yohan e gli parlò ad un palmo dal viso: “Io ti conosco, Farwynd. Durante le giornate grigie, fredde e tutte uguali, passate su queste isole che puzzano di marcio e di sudicio, ho passato molto tempo a leggere. Tu non sei nessuno, eppure io ti conosco. Ma tu, uomo di mondo, non riconosci me…”.
Yohan ascoltò in silenzio, continuando a fissarla senza tradire alcuna emozione. Aveva davanti a sé un donna di sale rapita, eppure si mostrava sicura e determinata ai limiti della presunzione. Per quanto si sforzasse continuava a non riconoscerla.
La donna scoppiò a ridere: “Oh andiamo! Qualcuno qui saprà pur darti una mano… Signori! Basta che una donna si tinga i capelli per mandarvi in confusione? Ammetto di non essere nelle migliori delle condizioni in questo momento, ma credevo che avervi ad una spanna da voi vi illuminasse” concluse quasi sussurrando.
Yohan si guardò intorno, cercando lo sguardo di qualcuno dei suoi compagni per sapere se avessero riconosciuto la donna. Nessuno parve mostrare segni positivi, ma erano comunque stati tutti catturati da quella risposta, e adesso attendevano interessati. A parlare fu Frida “Signori, Signore” esortò gli amici “Abbiamo qui un’importante e famosa signora dell’ovest, suvvia non la riconoscete?” disse beffarda e a lei si aggiunsero le risate sommesse di tutto l’equipaggio.
La regina perse ben presto interesse per quella farsa. Ascoltò disgustata l’equipaggio ridere e urlare nomi a caso, alcuni dei quali altamente improbabili. Mentre Yohan era distratto dal vociare della piccola folla, un uomo truculento, sudaticcio e che puzzava di alcol scadente, le si avvicinò con passo incerto, allungò una mano tremolante nella sua direzione, sfiorandole il viso, ma finì per cadere rovinosamente sulla tolda bagnata della nave. Si aggrappò alle gambe della regina, insinuando le mani sotto la veste, ma tutto quello che ottenne fu una ginocchiata sul naso, che iniziò a sanguinare copiosamente.
Fuori di sé, Goran lo Svelto, rispose all’offesa colpendo la donna, ma poi, si ritrovò disteso per terra privo di sensi. Yohan, indemoniato, lo aveva colpito con tutta la sua forza e l’allegria che si respirava sulla nave terminò in quell’istante. “Poniamo fine a questo spettacolo. Hotho vai a sostituire Charun al timone. Charun vieni qui.” Ordinò serio. Mentre aspettava si rivolse a Balaq Rematore Nero, sussurrandogli “Una volta sbarcati porta questo qui” indicò l’ubriacone “in una taverna, fallo ubriacare e non farmelo più rivedere. Intesi?”.
Charun, l’uomo più vecchio dell’equipaggio, raggiunse il capitano e ad un cenno di Yohan, quello iniziò a scrutare la regina. Rifletté ed infine rispose: “Non so chi sia, ma Re Euron, durante la lunga notte, era l’alleato di una donna simile a questa. Bionda. E sedeva sul Trono di Spade”.
All’improvviso una sorta di timore e reverenza si impadronì di tutta la ciurma. Yohan era l’unico, che meravigliato, parve divertito.
§§§
A quelle parole Cersei raddrizzò la schiena e si leccò le labbra, che scintillarono del rosso del suo sangue, e rispose con un mezzo sorriso all’espressione divertita di Yohan Farwynd.
“In a coat of gold or a coat of red/a lion still has claws/And mine are long and sharp, my lord…”
Canticchiò sottovoce, quasi stesse ripetendo qualcosa a sé stessa, ma gli occhi rimasero incollati a quelli di Yohan Farwynd.
“as long and sharp as yours./And so SHE spoke, and so SHE spoke,/That QUEEN of…”
Disse Yohan, mentre prendeva una mantella asciutta da sostituire a quella fradicia della regina “Scusatemi, vostra maestà” si zittì. Quando Cersei rimase con la sola veste da notte, bagnata a tal punto da essere attillata alle curve ancora desiderabili della donna, Yohan non poté fare a meno di notare come lei tremasse dal freddo e come, dopotutto, non era altro che una donna di sale rapita come tante altre. Infine, Yohan coprì la regina e sfruttò quell’intima vicinanza per continuare a canzonarla “that queen of… come continua? di cosa siete regina, vostra grazia? Di queste nude isole? Da quanto tempo non viene suonata questa canzone? Dieci anni? Da quando siete stata sconfitta dai draghi, giusto? Eppure, viva, quando tutti vi credevano morta, siete fuggita da Euron?” rise sarcastico, facendosi beffe della spavalderia della donna.
Poi tornò serio, e stavolta fu lui ad avvicinarsi ad un palmo dal viso di lei. Quanta forza poteva ancora avere quella donna, quanto valore, ma soprattutto, quanto potere?
“Cersei Lannister… sognate ancora di regnare su Westeros? Quanto vale il Trono di Spade?”.
“Voi credete di ferirmi, volete umiliarmi forse, ma solo un idiota si sentirebbe offeso dalla verità. Credetemi, in questi dieci anni ho avuto molto tempo per metabolizzare la mia sconfitta, per riflettere sui miei errori crogiolarmi nella mia sciagura. Il mio nome può non avere più alcun valore, ma a quanto pare lo ricordi. Se si venisse a sapere che Cersei Lannister è viva, non si parlerebbe d’altro nelle bettole più squallide, così come nelle più eleganti fortezze. Forse verrebbero a cercarmi per uccidermi, o forse no, perché ormai non valgo la fatica, ma si discuterebbe della questione. E sono la regina di queste putride isole nelle quali sei nato, e di questa lurida gente, compreso te, sì. Quel folle di Euron è diventato un buono a nulla, converrai con me, ma se le isole tornassero quelle di un tempo, sotto la giusta guida, gli uomini di ferro potrebbero prendersi Westeros pezzo per pezzo. Io potrei prendermi Westeros pezzo per pezzo, ma non per il Trono di Spade, Farwynd no… Solo per vedere morire tutti”.
“No” disse Yohan, poi aspettò che la regina comprendesse quell’affermazione “non vedrete morire nessuno, non vi riprenderete Westeros e gli uomini di ferro non prenderanno Westeros pezzo per pezzo. Dite che solo un idiota si sentirebbe offeso dalla realtà, la volete sentire la realtà? Gli uomini di ferro non hanno ne interesse ne la capacità di riprendervi Westeros, men che meno se si uccideranno tra loro in una guerra civile. Perché, dovete sapere, che la rivolta inizierà nel giro di giorni, non mesi. Conoscete un modo per sedare dei ribelli numericamente superiori? Un miracolo forse? E questo miracolo, che chiameremo esercito, è forse pronto a partire dalle coste della terra dei fiumi?”.
“No, da molto più lontano”
“Da più lontano…” rispose soddisfatto Yohan “ohh certo … Essos, Essos e i suoi mercenari, Essos la terra dei mercenari valorosi e incorruttibili. I famosi e rinomati mercenari di Essos, quei mercenari?” disse sarcastico, poi continuò serio “il vostro piano è assoldare dei mercenari corrotti, fargli fare un viaggio di mesi senza fare porto, il vostro deforme fratello permettendo, e dopo che il mare dell’estate e il mare del tramonto avranno reclamato la metà di quei soldati, stanchi e affamati, fargli combattere i ribelli nella loro stessa patria. I fedeli del Dio, prima di morire, faranno divorare dalle fiamme tutti i vostri soldati, tutte le vostre navi, tutte le vostre case e tutte le vostre fortezze. Ogni fedele del dio si porterà nell’abisso dieci miscredenti. Il vostro aiuto sparirà ancor prima di arrivare. E se mai, i mercenari ne usciranno vincitori, cosa conquisteranno? Sabbia? Rocce? Scogli? Come lo manterrete o rifocillerete un esercito di avidi mercenari in una manciata di isole spoglie e senza risorse? Come convincerete quegli uomini a seguirvi ancora, per riprendervi Westeros? Se questa rivolta segnerà la fine degli Uomini di Ferro, allora segnerà anche la vostra fine. Tutti i vostri sogni di vendetta, le vostre speranze si frantumeranno, come onde contro gli scogli”.
“È un bel discorso, questo è certo, ma non avete mai pensato che le cose possano andare diversamente da come credete? A far troppo affidamento a Dio si finisce sempre per vivere in un mondo di fantasia e vaneggiamenti. Sono già stata prigioniera di fanatici religiosi, che dicevano di essere nel giusto perché i loro dei erano dalla loro parte. Ma alla fine l’unica a uscirne viva sono stata io. Io sono stata l’unica a non bruciarsi. Tutto deve essere ancora scritto, e voi pazzi religiosi siete ancora in tempo per essere travolti dalle vostre stesse onde”.
§§§
Rassegnato, Yohan passò il resto del viaggio rivolgendo i suoi pensieri ad un futuro incerto, ma la sua attenzione fu sempre rivolta al comportamento, per lui strano ed inusuale, di Enya, che si prendeva cura del prigioniero legato all’albero, portandogli acqua o cibo. Non disse nulla, tanto quel ragazzo sarebbe morto ugualmente.
La nave raggiunse Harlaw con le prime luci dell’alba.
Yohan mandò via Ullen e Capelli Verdi con gli ordini da seguire per giustiziare il ragazzo. In quel momento gli si avvicinò Enya, con la voglia di picchiarlo a morte, guardarlo negli occhi mentre affogava, finché la sua anima non esalasse l’ultimo respiro. Era così stranamente furente per quella decisione che, una volta da soli, Yohan dovette subirsi le sue ennesime invettive.
“Sei un bastardo e figlio di un Kraken” gridava fuori di sé “che cosa ti ha fatto per farsi trattare così?”.
“Parlami ancora così e ti faccio fare un giro di chiglia!”.
“Provaci!”.
“Certo che ci provo sono il tuo Capitano, per l’Abisso!”.
“Ti pentirai delle tue azioni!”.
“Che cos’è, una minaccia?”
“Prendila come vuoi!”.
“E’ un’infedele figlio del corvo, maledizione, ha ucciso mio fratello! E smettila di difenderlo o farai la sua stessa fine!”.
“Non te ne è mai importato nulla della tua famiglia! Men che meno di quella canaglia di tuo fratello Ygon! Se senti il bisogno di essere glorificato trovati una puttana, fattelo succhiare dal tuo dio o mettilo nel culo a qualcuno dei tuoi nuovi giovani sacerdoti!” il riferimento emblematico era chiaro.
Yohan furente l’attirò a sé, afferrandole il collo e stringendo le dita, ma lei lo fissò senza batter ciglio, sfidandolo apertamente, “Annega nell’abisso!” imprecò lasciandola andare, poi si volse e fece per andarsene.
“È solo un ragazzo! Potrebbe essere tuo figlio” la voce di lei lo arrestò. Yohan si fermò senza voltarsi. Una lacrima scese sul volto di Enya, e con tono supplichevole, come se un destino triste e crudele le avesse mostrato davanti a sé l’ennesima sconfitta, continuò “Tu non sai cosa si prova a perdere un figlio…”. L’atmosfera si era fatta pesante e si udiva solo la sua voce “Tu hai combattuto, sei stato ferito. Beh è niente a confronto di mettere al mondo un bambino. Hai sofferto, Yohan? Hai mai pregato il tuo dannato dio di prendere la tua vita al posto di quella di un altro? Io l’ho fatto, ma come vedi non mi ha ascoltata. Io sono qui, e il mio ragazzo rema negli abissi. Era come questo qua. Giovane e coraggioso e forse avventato… come tutti i ragazzi. Non meritava di morire e neanche lui lo merita. Un ragazzo che ti ha consegnato la regina su un piatto d’argento. Ha rischiato la propria vita per te! Gli avevi promesso di salvarlo se ti avesse aiutato.” gli disse lei in tono severo.
Era stato un colpo basso. Nominare il crudele destino che le era toccato, per fargli provare pietà verso l’assassino di suo fratello, che per quanto non lo amasse, rimaneva pur sempre un Farwynd, lo fece adirare.
“Ho mentito” rispose Yohan stizzito. E se ne andò.
Yohan imprecò per tutto il giorno. Verso sera, venne a sapere che la notizia dell’esecuzione del giovane Ullen si era diffusa a macchia d’olio in tutte le isole e che presto gli ultimi preparativi sarebbero stati pronti. Ma ciò non lo rese più affabile, un senso di delusione occupava ancora i suoi pensieri.
 
 
 
 

 

RORDAN

Arrivarono in vista di Harlaw alle prime luci dell’alba. L’isola era avvolta da una lieve foschia, l’aria immobile e silenziosa. Rordan sedeva a prua, solo, svuotato, riflettendo sugli ultimi avvenimenti. Si guardò le mani: erano grandi, forti, callose… e insanguinate. Le nocche, là dove avevano colpito il volto di Dwyn, erano spellate e rossastre, il sangue secco di lei mescolato a quello di lui. Era pentito per come l’aveva ridotta, ma al pensiero di quello che aveva fatto la donna si sentiva ribollire il sangue di rabbia, pronto a ripetere il pestaggio daccapo. Come poteva essere stata così stupida da riferire all’emissario del re il motivo della visita di Kein? Avrebbe potuto inventare una balla, ne era certo. “Ma non ha voluto. L’ha fatto apposta, voleva che Kein morisse”. Ma la ragazza non era morta. Aveva più vite di un gatto e più colpi riceveva più dura diventava. “Forse è per questo che non riesco a togliermela dalla testa. È una condanna”.
Dopo aver lasciato Dwyn, il viso ridotto ad una maschera di sangue e lacrime, con la promessa che non avrebbe mai più fatto ritorno, Rordan era andato da Riona, ad assicurarsi che i disordini della notte precedente non avessero coinvolto lei e i bambini. L’aveva trovata intenta a radunare le sue poche cose in un baule, mentre si preparava a raggiungere Winnie, e si era offerto di accompagnarla. Erano partiti immediatamente, sulla galea di un amico che aveva accettato il loro conio senza fare domande, lasciandosi dietro una città semidistrutta e in preda alla guerra civile. A Rordan non importava più che fine avrebbe fatto Alon Wynch: era un traditore. Lui lo aveva sempre seguito e ammirato, mai avrebbe pensato che il suo capitano si sarebbe unito ai rivoltosi.
Rifletté sulle prossime mosse. Avrebbe portato la famiglia di Kein al sicuro, Winnie possedeva un piccolo allevamento di pony che le dava da vivere, inoltre suo marito era un brav’uomo, non avrebbe permesso che i famigliari corressero pericoli, di questo Rordan era sicuro. Poi sarebbe tornato a Pyke per cercare lei. Immaginò il suo sorriso quando le avesse detto di aver tratto in salvo la sua famiglia, gli occhi dorati pieni di gratitudine. Per un momento, si cullò nel ricordo delle dita di lei che gli sfioravano la cicatrice, leggere e calde come lo zefiro di primavera e gli parve quasi di risentirle sul volto. Ma quando aprì gli occhi, la donna accanto a lui non era Kein.
“Eccoti qua” disse Riona, scivolandogli sulle ginocchia, lasciva. “Quando mi sono svegliata te n’eri andato. Non si fa così”. Gli prese il volto tra le mani e fece per baciarlo sulla bocca, ma Rordan si voltò dall’altra parte. Le afferrò i polsi, allontanandola da sé.
“Non eri così malmostoso, ieri sera” lo rimbeccò lei, alzandosi.
“E’ stato un errore, lo sai bene” rispose Rordan, di rimando, mettendosi in piedi a sua volta. Torreggiava sulla donna, alta appena cinque piedi. Come su Dwyn, poco prima di levare il pugno contro di lei. Non doveva più lasciarsi prendere dalla rabbia. “Né dalla lussuria”.
“Un errore che hai compiuto più di una volta, mi pare” insistette Riona.
“Un errore che non commetterò più, stanne certa” sibilò lui.
La donna alzò le spalle, con noncuranza, fece per voltarsi, poi tornò indietro, come se si fosse appena ricordata qualcosa.
“Oh, dimenticavo. Ieri sera, quando è venuta da noi, Kein non era sola” disse, un sorriso maligno stampato sulle labbra.
“Che intendi?” le domandò lui, prendendola per un braccio. All’improvviso, era come se la temperatura fosse calata. La costa si stava avvicinando rapidamente e presto attorno a loro si sarebbero accalcati i marinai pronti allo sbarco e anche i piccoli si sarebbero svegliati e sarebbero andari in cerca della loro madre. La scosse, doveva ottenere una risposta, subito.
“Quello che ho detto. C’era un uomo con lei. Un cavaliere” Riona sottolineò l’ultima parola con voce soave, morbida come seta e, al tempo stesso, affilata come un coltello.
“E cosa ci faceva con un cavaliere?”
“Quello che abbiamo fatto noi questa notte, suppongo” replicò con un sorriso furbo.
“Non è possibile” pensò Rordan. Tutti conoscevano la storia di Kein, giravano voci, c’erano diverse versioni, ma il risultato era sempre lo stesso: nessuno poteva avvicinarla senza incontrare il gelido bacio del suo pugnale. Quella carezza… “Solo io, soltanto io!”
“So quello che pensi. Ma non ti credere, per tutte le donne arriva il momento in cui bramano il corpo di un uomo e mia figlia non fa eccezione. Forse l’ha già fottuta, o forse no, te lo concedo. Ma stai certo che non manca molto prima che il lord delle terre verdi si prenda ciò che tu aneli da anni. Sono del mestiere, queste cose le so” disse Riona, liberandosi dalla sua stretta. Girò sui tacchi e tornò sotto coperta a prendere i bambini, lasciandolo solo con i suoi dubbi e le sue paure.
§§§
Era al quinto corno di birra, o forse al sesto. Aveva perso il conto. Doveva aspettare che il capitano finisse di sbarcare il suo carico, poi avrebbe concesso agli uomini qualche ora di riposo da trascorrere con le mogli di sale o con le puttane, prima di ripartire per Pyke. Così, a Rordan era rimasto molto tempo per struggersi sulle parole di Riona, cosa che non poteva certo fare da sobrio.
Perciò, corno dopo corno, si era ridotto in uno stato di semi incoscienza che lo portò a dubitare di ciò che stava udendo. Due uomini erano entrati nella taverna, sovraeccitati per una missione ben riuscita, avevano ordinato da bere e da mangiare e ora si trovavano ad un tavolo alle sue spalle.
Rordan riuscì a capire che si trattava di qualcosa che aveva a che fare con gli incendi e le sommosse di due notti prima. Evidentemente, i disordini erano stati solo un diversivo per allontanare da palazzo il grosso delle guardie reali. Ma qual era l’obiettivo? Per quanto agitati e brilli, i due non lo dissero. Ciò che invece Rordan udì chiaramente, fu che sulla nave sulla quale erano giunti ad Harlaw c’era il ragazzino con un solo occhio che aveva ucciso il fratello del loro capitano.
“Deve essere Ullen! Se è in mano a un Farwynd, non gli resta molto da vivere”, rifletté. Si alzò e si avvicinò al tavolo dove i marinai avevano nel frattempo chiamato compagnia, due puttane che avevano visto giorni migliori. “Anche quella che mi sono fottuto stanotte ha visto giorni migliori” pensò e, per l’ennesima volta, provò schifo per se stesso.
“Amici!” salutò, tentando di tenersi in piedi. I due lo scrutarono per qualche istante, cercando evidentemente di capire se era davvero loro amico.
“Che cosa vuoi?” chiese alla fine quello più grosso, un gigante nero dall’aspetto inquietante.
“Imbarcarmi. Non ho un equipaggio, al momento, e vi ho sentito parlare di grandi avventure e bottini. Vorrei presentarmi al vostro capitano e offrire i miei servizi, se avrete la compiacenza di dirmi come si chiama e dove trovarlo”.
Si scambiarono un’occhiata, quello che era rimasto in silenzio valutò velocemente la sua statura, la cicatrice che gli correva lungo la guancia, l’ascia da battaglia sulla spalla.
“Sì forse potrà farsene qualcosa di te” rispose. “Lo troverai al molo, si chiama Yohan Farwynd ed è capitano della “Abisso”. Digli pure che ti mandano Goran lo Svelto e Balaq il Gigante Nero.”
“Grazie, amico. A presto, spero. Oste! Il prossimo giro a questi bravi Uomini di Ferro lo offro io!” gridò facendo tintinnare il conio.
Uscì dalla taverna, seguito da canti e risate. Ma il suo cuore era pesante.
“Lo salverò, o almeno ci proverò. E se nemmeno questo servisse?” si chiese. L’ombra del cavaliere gli pesava addosso come un macigno.
 
 

 

RIONA

Come suo figlio fosse finito in mano agli Annegati ribelli, Riona non l’aveva capito. E nemmeno Rordan era stato in grado di spiegarglielo. Quello che sapeva era che il suo ragazzo ora era nelle mani del fratello di quel porco che le aveva distrutto il volto e la vita.
Ygon Farwynd meritava di morire e Riona era stata felice di sapere che Ullen gli aveva trapassato il cuore. Ora, però, temeva per la vita di lui. Si era salvato per puro miracolo dall’esecuzione, sarebbe stato altrettanto fortunato una seconda volta?
“No, non un miracolo. Sua sorella” pensò, mentre camminava svelta al fianco di Rordan verso il molo. Con gli occhi della mente, vide il volto di Kein contrarsi in una smorfia di dolore, la mano del cavaliere sulla sua spalla, il gesto triste e al tempo stesso sprezzante con cui le aveva lanciato le monete, l’addio al quale lei non aveva nemmeno risposto. Era stata ingiusta con la primogenita, ne era consapevole. Non solo quella notte, ma per gran parte della sua giovane vita. Eppure, non poteva fare a meno di riversare su di lei il risentimento e l’odio che covava da anni verso l’uomo che gliel’aveva messa dentro.
Aveva dodici anni quando Euron Greyjoy l’aveva comprata. Nonostante la giovane età, all’epoca Riona era già formosa quasi quanto una donna. Aveva splendidi capelli ramati che le ricadevano in morbide onde sulla schiena dritta, spalle candide, seni generosi, la vita talmente sottile che il lord poteva cingerla con le sue mani. E la fica stretta, come piaceva a lui. Sebbene impaurita, la ragazzina era rimasta affascinata da quell’uomo. Di più, lo aveva amato. Per qualche tempo, lui l’aveva voluta tutta per sé. Pagava perché nessun altro si infilasse nel suo letto e veniva a fotterla ogni volta che poteva. All’inizio il dolore era stato quasi insopportabile, ma Riona aveva finito per provare piacere durante le monte selvagge di lui. Ma poi se n’era andato al di là del mare stretto e la padrona del bordello l’aveva costretta a giacere con qualunque cliente si presentasse. Uomini rozzi, puzzolenti, disgustosi, rudi che avevano continuato a prenderla fino all’ultimo giorno, nonostante il suo ventre crescesse e crescesse.
Kein era nata in un giorno di pioggia, uno di quei giorni in cui si diceva che il dio Abissale e il dio della Tempesta stessero lottando. Aveva la pelle bianca come quella di lui, i suoi stessi capelli neri come ali di corvo, e grandi occhi come pozze d’oro liquido. Era la cosa più bella sulla quale Riona avesse mai posato lo sguardo. “Tornerà a prenderci” aveva pensato “Appena la vedrà capirà che è sua e la vorrà con sé. Ci vorrà entrambe”. Ma lui non era tornato per molti anni e Riona aveva avuto altri quattro figli da uomini diversi e quando infine Occhio di Corvo aveva ripreso le Isole di Ferro, con sé aveva una regina e della puttana dai capelli ramati che gli aveva dato una figlia identica a lui non aveva avuto bisogno.
Riona lo aveva odiato, aveva odiato se stessa per essere stata una bambina sciocca e aveva finito per odiare anche Kein. “Solo perché gli somiglia” pensò. Eppure, forse era stata proprio quella somiglianza a salvare Ullen da morte certa. Rordan aveva riferito a Riona il discorso accorato di Kein e anche le parole del sovrano. Dopo ventidue anni si ricordava ancora di lei, dei suoi capelli e del suo sesso.
“Iddio che sei annegato per noi, ti prego, non portarmi via un altro figlio” pregò. “Salva Ullen e ti prometto che mi farò perdonare per come ho trattato Kein”.
Arrivarono al porto al tramonto. Non faticarono a trovare il capitano Farwynd. Aveva gli stessi occhi cangianti del fratello maggiore e imprecava con le medesime colorite espressioni.
“Lascia parlare me” le sussurrò Rordan mentre gli si accostavano, poi si rivolse direttamente a lui.
“Il capitano Yohan Farwynd se non vado errato. Permetti una parola, mio signore?”
“Domani la dimenticherò. Cosa vuoi?” rispose quello, seccato.
Rordan si guardò intorno. Non c’era nessuno a portata d’orecchio, evidentemente l’umore del capitano era talmente nero da tenere a distanza di sicurezza tutto l’equipaggio. Riona sperò che questo non pregiudicasse la loro causa.
“Ho saputo che tieni prigioniero sulla tua nave un giovane con un occhio solo. Potrei sbagliarmi, ma credo che si tratti di Ullen, il ragazzino che è stato processato per la morte di tuo fratello Ygon. È corretto, mio signore?”
Il capitano non rispose subito. A Riona parve un’eternità il tempo che gli ci volle per scrutarli attentamente. I suoi occhi grigioblu passavano da lei a Rordan, rapidamente. Alla fine si decise a parlare. “Non sono il tuo signore, solo il capitano. Forse ho il ragazzo, forse no. Voi chi siete?”
“Il mio nome è Rordan. Mi dicono Rordan lo Sfregiato, ed ero di stanza sulla Tritone di Alon Wynch. E questa” disse spingendo leggermente Riona in avanti “E’ la madre del ragazzo”.
“Un traditore e la madre puttana del bastardo che ha ucciso mio fratello” replicò quello, sprezzante.
“Capitano, forse non hai colto. Ho detto che ERO di stanza sulla Tritone, quindi non sono un traditore. In quanto a questa donna, non ha alcuna colpa per quello che è successo”.
“Quindi mi stai dicendo che sei una spia del re” dedusse Yohan.
“Nemmeno questo, capitano. Sono un uomo di ferro, un uomo libero. Forse sono troppo stupido per capire chi ha ragione e chi torto in questa battaglia. Quello che so è che gli uomini di ferro non spargono il sangue di altri uomini di ferro. E quello che so è anche che questa donna ha già perso un figlio e non merita che un altro le venga strappato” replicò Rordan.
“E io ho perso un fratello. Qualcuno deve pagare e se quel qualcuno è suo figlio non è un mio problema. Sei solo una puttana e le puttane devono aprire bocca solo per succhiarlo ai clienti!” ribatté Yohan, imperterrito.
Nonostante l’ordine di Rordan di lasciarlo parlare, Riona non riuscì a rimanere zitta e lo interruppe “Aye, capitano, ed è quello che ho fatto. Ma Lord Ygon era ubriaco, furioso, ha dato la colpa a me perché non riusciva a compiere l’atto. Ti assicuro che ho fatto il mio lavoro al meglio… ma lui aveva bevuto troppo. Così si è arrabbiato e mi ha picchiata. Mi avrebbe uccisa se gli altri clienti del bordello non fossero intervenuti. Non si è comportato come un lord, te lo assicuro. Ma ti prego guardami” disse avvicinandoglisi. Era consapevole delle cicatrici, delle deformità del suo viso. “Ero la puttana più bella delle Isole, perfino il re ha giaciuto nel mio letto. Guarda il mio viso adesso, non potrò più lavorare né mantenere i miei piccoli. Dammi ascolto, te ne prego: so che il richiamo del sangue è forte e so che l’offesa è grave, ma anche tuo fratello ha arrecato offesa alla tua nobile Casa col suo gesto. So che mio figlio ha sbagliato, ma voleva soltanto difendere sua madre. Sono solo una puttana, ma per un figlio non fa differenza se viene dal grembo di una lady o di una sguattera. Un figlio ama una madre comunque, e una madre ama un figlio più della propria vita. Capitano, il dio Abissale si è preso il mio Roan due anni fa, sulla costa, durante una razzia. Ti prego, abbi pietà di una madre in ginocchio” dicendo questo si prostrò davanti a lui “Abbi pietà, fa’ di me ciò che vuoi ma lascialo vivere”.
“Che il dio degli abissi mi salvi!”esclamò il capitano Farwynd, esasperato. Si portò le mani alle tempie, come per scacciare pensieri fastidiosi. Borbottò qualcosa di incomprensibile, tra sé e sé, ma Riona riuscì a cogliere un nome. “Eccone un'altra, prima Enya adesso questa qui. Chi sarà la prossima? Una sirena?”
Rordan l’aiutò ad alzarsi, poi guardò Farwynd dritto negli occhi, stanco di quella farsa.
“Allora, capitano, qual è la tua risposta?” domandò.
“Non dovete chiederlo a me, ma al dio Abissale. Soltanto lui ha la risposta. Tendete l’orecchio, e potrete udirla” sentenziò.

 

KEIN

L’ultima volta che aveva dormito in quella baracca era stato con Rordan. Avevano trasportato il corpo di Roan e lo avevano tumulato a ridosso della scogliera. Lui non aveva fatto domande quando Kein gli aveva chiesto aiuto, nonostante quella pratica di sepoltura andasse contro la loro religione. “Voglio un posto dove andare a trovarlo” gli aveva detto e lui aveva annuito, semplicemente. Non c’erano stati baci quella notte, soltanto lacrime, e il sonno, quando alla fine l’aveva vinta, era stato agitato e popolato da incubi. Le si era spezzato qualcosa dentro e, nonostante fosse tornata regolarmente a pregare sulla tomba del fratello e a fare manutenzione della baracca, non era più riuscita a dormire tra quelle mura.
Nemmeno quella notte chiuse occhio. Sdraiato accanto a lei sul pagliericcio, il cavaliere respirava regolarmente, immobile, le dita intrecciate alle sue, il volto sereno. Nella penombra, Kein ne fissava i lineamenti, per imprimerli nel ricordo. Aveva tratti nobili, regolari, fronte ampia, naso dritto, labbra morbide, mascella ben delineata. I capelli, biondo scuri e lisci come seta, gli ricadevano sulla fronte e sul collo. Era bello, di una bellezza diversa da quella degli uomini delle isole, più delicata. Ricordò quando, al posto del cavaliere, su quel pagliericcio aveva dormito suo fratello. “Anche lui era biondo” pensò, con nostalgia “e bello come il figlio di un lord”. Forse lo era stato davvero, figlio di un lord… non era raro che sua madre fosse scelta dai clienti più importanti e danarosi del bordello. Il ricordo di Roan riusciva a scavarle dentro come una cascata. C’era una parte di lei distrutta dalla sua morte e quel solco, con gli anni, non faceva che allargarsi, eroso dalla nostalgia. Attraverso il velo di lacrime, per un attimo il cavaliere e il fratello morto furono la stessa persona. Strinse gli occhi e, quando li riaprì, Roan era sparito.
“Avrei dovuto proteggerlo. Avrei dovuto proteggere anche Ullen”. Nonostante quello che aveva detto alla madre la sera precedente, sapeva che se non avesse incoraggiato il ragazzo ad infliggere il colpo di grazia a lord Farwynd probabilmente la guardia cittadina lo avrebbe lasciato in pace. Era poco più che un bambino, alto cinque piedi, imberbe e con la voce che stava appena iniziando a cambiare, nessuno lo avrebbe incolpato di nulla. Si maledisse per la propria stupidità. Pensò anche a Rordan, si chiese se fosse riuscito a lasciare la Tritone o se fosse rimasto invischiato nella rivolta. Forse Dwyn non gli aveva nemmeno riferito il suo messaggio… e se invece la spia avesse ritenuto Rordan un traditore solo per il fatto che era suo amico? “Potrebbe essere in pericolo, o già morto, e anche quello sarebbe colpa mia”.
La dolcezza di poco prima, il calore che le avevano dato i baci del cavaliere stavano già lasciando il posto all’angoscia. Riusciva ancora a sentire un tenue pulsare di desiderio, ma era soffocato dalla preoccupazione per la sua famiglia, per l’amico e perfino per lui, Shin. “Ultimamente, chiunque venga in contatto con me corre un grave pericolo” pensò, con mestizia. Da quella maledetta notte in cui aveva tolto la vita a Ygon Farwynd, non era più riuscita a proteggere nessuna delle persone che amava. Non poteva permettere che anche quell’uomo rischiasse la vita per lei. Non voleva nemmeno separarsene, ad essere sinceri, però era meglio saperlo lontano da lei e al sicuro che averlo accanto e magari vederlo morire.
Avrebbe voluto svegliarlo, dirgli addio, baciarlo di nuovo, ma sapeva che, se l’avesse fatto, non sarebbero riusciti a separarsi. Ancora non capiva perché lui desiderasse proteggerla… il suo mantello bianco, seppur sporco e sbrindellato, raccontava una storia di gloria e nobiltà e lei era pur sempre una bastarda, figlia di una prostituta e di un pirata. Si liberò delicatamente dalla stretta delle sue dita e si tirò a sedere. Non c’era nulla su cui vergare un messaggio e, comunque, non sarebbe riuscita a trovare le parole. Si frugò in tasca e pescò un pezzo di stoffa ricamata. Era un fazzoletto, un regalo di Ciara, sul quale la bambina aveva meticolosamente disegnato una “K” tutta fronzoli con ago e filo. Era brava, a cinque anni cuciva molto meglio di quanto lei non avrebbe mai imparato a fare. Kein sapeva che a volte nei tornei le donzelle regalavano ai cavalieri fazzoletti ricamati, come pegno e portafortuna. Lei non era una dama e quello era solo un pezzo si stoffa grezza cucito da una bambina di cinque anni… ma per lei era prezioso. Sperò che lo fosse anche per Shin. Delicatamente, senza svegliarlo, glielo legò al polso sinistro. Si chinò su di lui e gli baciò i capelli, inalando l’odore del fumo mescolato alla fragranza della sua pelle.
Poi si alzò e andò alla porta, uscì senza voltarsi e si chiuse l’uscio alle spalle. Prima di andarsene, si fermò sulla tomba di Roan e pregò. “Se esiste un luogo per le anime buone, tu sei lì. Ti prego, veglia su Ullen… su Joryn, Ciara, sulla mamma. Proteggi Rordan e anche quest’uomo. Si chiama Shin… Shin della casa Estren”. §§§
Giunse al castello che il sole era già alto, stremata dalla fatica e dalla deprivazione di sonno, la gola riarsa dalla sete e dal fumo inalato alla locanda, la schiena dolorante e il cuore carico di tristezza. Sentiva ancora sulla pelle il tocco del cavaliere, le labbra le bruciavano e un sordo pulsare al basso ventre le impediva di distogliere il pensiero da quell’uomo.
Due guardie la fermarono all’ingresso della Grande Fortezza, ma bastò loro uno sguardo per riconoscerla e lasciarla passare. L’attività nel castello ferveva, il viavai delle guardie era continuo. A Lordsport, i disordini erano stati sedati, ma era evidente che gli scontri peggiori erano ancora a venire. I frammenti dei discorsi degli Annegati che aveva captato la notte precedente non lasciavano presagire nulla di buono. “Almeno non sono arrivati fin qui” pensò Kein. “Ullen è al sicuro.”
Tuttavia, desiderava trovarlo e accertarsi con i propri occhi della sua incolumità. Raggiunse il camminamento di pietra che univa la Fortezza Insanguinata e la Fortezza della Cucina e stava per imboccarlo quando percepì una presenza nascosta nell’ombra. La destra volò all’elsa della spada, la sinistra si chiuse nuovamente su quella del pugnale perduto. “Devo procurarmene un altro, e in fretta” pensò, a denti stretti.
Dall’ombra, emerse la spia. Alzò le mani in segno di pace e la salutò con un educato gesto del capo. La ragazza lasciò la presa sull’arma.
“Kein, per favore, seguimi” la invitò.
“Che cosa vuoi adesso? Sanguino ancora dal nostro ultimo incontro” gli rispose. Quell’uomo non le piaceva per niente. Il sovrano era un essere imprevedibile, incostante, pazzo. Di chi era il regno, dunque? Della regina, forse. O della spia. “O di entrambe”.
“Siamo partiti col piede sbagliato, io e te, Kein Pyke” ammise quello, con un sorriso. “O forse dovrei dire… Kein Greyjoy?”
La ragazza aggrottò la fronte, mentre l’uomo le passava una pergamena. L’afferrò e scorse velocemente il contenuto, sempre più sorpresa man mano che proseguiva nella lettura. In fondo al documento, la firma del sovrano e il suo sigillo, la piovra dei Greyjoy impressa in ceralacca nera.
“Un certificato di naturalizzazione” mormorò.
“Ovviamente è un falso creato da me, ma nessuno se ne accorgerà mai” gongolò la spia.
“Non capisco. Sono figlia di una prostituta, lo sanno tutti. Che senso ha questo?” domandò Kein. Cosa voleva da lei quell’uomo? Pensava davvero di poterla far passare per la figlia di Occhio di Corvo? E se anche ci fosse riuscito, a che scopo?
“So che è tuo padre, ho indagato a fondo. Non ti sei mai chiesta il perché del trattamento di favore che hai ricevuto? Beh, io sì”.
Non poteva negarlo. I capelli scuri come la notte, il viso pallido e affilato, il naso dritto, il fisico alto e asciutto… nemmeno a lei era sfuggita la somiglianza con il sovrano, molto più accentuata in età adulta di quanto non fosse stata l’ultima volta che l’aveva visto, da lontano, da bambina. “Soltanto gli occhi sono diversi. E preferisco i miei”. L’unico occhio di Euron, infatti, era talmente nero che a fatica si distingueva l’iride dalla pupilla, un abisso di odio e follia.
“Il re ha decine di bastardi. Perché naturalizzare proprio me?” chiese, sulla difensiva.
“Perché sei l'unica di cui ho una certezza: tu odi Euron Greyjoy. Per averti abbandonata come padre. Per aver ridotto così le isole. Per aver causato, seppur indirettamente, una morte orribile a tuo fratello. E credo anche per altre cose.” rispose la spia, centrando il bersaglio.
“O forse perché pensi che io sia facilmente manipolabile” ribatté lei, aggressiva. “Credi di sapere molte cose di me. Ma non mi conosci mio signore.”
“Hai ragione.” concesse la spia. “Mettiamola così: comunque vada la ribellione, Euron Greyjoy è un uomo finito. Io ho scommesso la mia vita su di te. Ci sono momenti in cui una spia deve rischiare tutto. Comunque tieni quel documento, io ora dovrò andare a dire a Euron la posizione della regina Cersei Lannister e dei ribelli. Qualunque cosa succeda spero di vederti presto sul trono del mare. Ah giusto sono un maleducato il mio nome è Kaplan” concluse con un sorriso e fece per accomiatarsi.
“Aspetta! Cersei Lannister? Di cosa stai parlando?” lo richiamò Kein. Cersei, la leonessa di casa Lannister, regina dei Sette Regni fino al ritorno dei Targaryen era stata dichiarata morta molto tempo prima, durante la Lunga Notte.
“Ah giusto!” fece Lord Kaplan, con noncuranza, battendosi una mano sulla fronte, come se avesse ricordato in quel momento le buone maniere “Dimenticavo di informarti. La misteriosa regina di Euron non è altri che Cersei Lannister”.
Quell’uomo le piaceva sempre meno, eppure la pergamena che aveva in mano, perfetta in ogni dettaglio, costituiva un lasciapassare per una vita diversa, migliore, non solo per lei e i suoi cari, ma per tutta la sua gente.
“Hai detto che è stata presa dai ribelli?” domandò “Il re vorrà salpare immediatamente, devo tornare alla Silenzio. Ma prima devo vedere mio fratello. Lord Kaplan, tu hai mille occhi: dove posso trovare Ullen?”
“Ad Harlaw, a quanto pare. I ribelli, stando alla mia fonte, lo hanno usato per arrivare a Cersei e poi lo hanno portato via con loro”
Kein lo prese per il bavero. “Se vuoi il mio aiuto devi imparare a darmi tutte le informazioni” disse, con rabbia. Poi lo lasciò andare, improvvisamente stanca. Ullen di nuovo in pericolo, di nuovo prigioniero. Se tra i ribelli c’erano i Farwynd, come sospettava fin dal primo istante, la sua vita era in serio pericolo.
“Li vorrei tutti morti, mio lord. Tutti.” sussurrò. “Ma il sangue chiama il sangue, dobbiamo fermare questa follia.”
“Se vuoi fermarla, quella è l'unica strada” rispose la spia, indicando la pergamena che la ragazza ancora stringeva nella sinistra.
“Chi mi assicura che non mi tradirai? La mia famiglia, Rordan? Saranno al sicuro se ti aiuto?” chiese. Non poteva vivere nell’angoscia che i suoi cari potessero morire da un momento all’altro, le loro teste appoggiate a un ceppo invisibile, pronte ad essere spiccate dal corpo.
“Hai la mia parola” replicò Kaplan. I suoi occhi, fissi in quelli di lei, erano fermi e limpidi. Le labbra non tremavano.
Kein gli strinse l'avambraccio: il sangue pulsava, calmo e regolare. Diceva il vero.
“Se menti avrò la tua vita. Te lo giuro.”
“Ti credo, mia regina.” disse lui, ricambiando la stretta e sancendo così il patto.
Si lasciarono. La spia accennò un inchino e si allontanò sul camminamento, diretto al solarium del re.
“Un momento!” lo richiamò Kein e quello tornò sui suoi passi. “C'è un'altra persona a cui tengo, mio signore. Un cavaliere delle Terre Verdi, un mantello bianco. Si trova a Lordsport, da qualche parte. Trovalo e tienilo al sicuro.”
“Sarà fatto”.
“La sua vita mi è cara quanto la mia, lord Kaplan” insistette.
“Ho capito” annuì la spia.
Kein lo lasciò andare. “Dio mio, fa’ che abbia fatto la scelta giusta” pregò. Poi tornò sui suoi passi, doveva raggiungere in fretta la Silenzio e prepararsi a salpare per Harlaw. Doveva salvare suo fratello e fermare la rivolta. Forse, sapeva come fare.
 

SHIN

Aveva girato a vuoto per Lordsport tutto il giorno, arrivando perfino a ritrovare la casetta di intonaco e pietra accanto alla locanda. Aveva bussato fino a spellarsi le nocche, ma era tutto sprangato, come se gli abitanti se ne fossero andati velocemente e senza alcuna intenzione di fare ritorno. Aveva ripercorso le strade e i vicoli dai quali erano passati la notte precedente, avanti e indietro, senza sosta, mentre le speranze di ritrovarla si facevano sempre più remote. L’unica possibilità era che fosse ritornata al castello e Shin si chiese se sarebbe riuscito a penetrarvi dopo gli eventi appena occorsi. Ormai appariva evidente che gli incendi e gli scontri erano stati soltanto un diversivo, altrimenti le poche guardie reali di Euron non sarebbero riuscite a sedare la ribellione tanto velocemente. “Un diversivo… ma per cosa?” si domandò il cavaliere, mentre tornava sui suoi passi, diretto alla fortezza. Ancora non sapeva come avrebbe fatto ad accedervi, ma era pronto a farsi largo con la spada se si fosse reso necessario. Tutto pur di ritrovarla.
Per la prima volta dopo anni, quella notte aveva dormito un sonno profondo e senza sogni. Si era addormentato accanto alla ragazza dagli occhi dorati, stringendole le dita, assaporando il calore emanato dal corpo di lei disteso a una spanna dal suo. Il pagliericcio era vecchio e duro, il pavimento sottostante umido e sconnesso: eppure, al cavaliere era sembrato infinitamente più comodo del letto di piume e delle lenzuola di seta cui era abituato. Avrebbe voluto attrarla a sé, stringerla, possederla, ma si era accontentato di quell’unico, lungo bacio e della sua presenza, convinto che quella fosse soltanto la prima di una lunga serie di notti assieme a lei. Si era sbagliato: quella mattina, quando aveva aperto gli occhi, Kein era sparita. Al suo posto, soltanto uno straccio consunto con la sua iniziale rozzamente ricamata. Per un momento, Shin si era sentito invadere dalla rabbia: come aveva potuto abbandonarlo così, senza una parola, andandosene come una ladra? L’istinto era stato quello di distruggere la baracca, dare fuoco a quelle rozze assi e quel povero mobilio marcescente. Poi, però, si era imposto la calma e aveva cercato di ragionare lucidamente. Aveva ripensato al suo sguardo dorato, al modo in cui il suo corpo era passato dalla tensione all’abbandono, alla pelle martoriata della sua schiena. Nelle orecchie, gli erano risuonate le parole di lei, la risposta alla sua domanda su chi l’avesse ridotta in quelle condizioni: “Gli uomini del re. Mi ha messo alle calcagna le sue maledette spie per controllare se mi ero unita ai ribelli. Per questo prima ho pensato che tu…”. E, a quel punto, aveva capito: lei si era allontanata perché sapeva di essere in pericolo e non voleva che la sua sorte avversa si riversasse anche su di lui. Shin aveva stretto il fazzoletto nel pugno, poi aveva passato l’indice su quella “K” che non gli era sembrata più tanto brutta… gli pareva assurdo che quella ragazza preferisse affrontare il re e le sue spie da sola anziché avvalersi di tutto l’aiuto possibile. Eppure l’aveva vista andare incontro alla morte, serenamente e con coraggio, pur di salvare il fratello. Anche lui aveva affrontato la morte molte volte nella sua vita, ma mai per amore di qualcun altro. Cosa si provava? A tenere a qualcun altro più che a se stessi? Aveva la sensazione che se fosse riuscito a trovarla, presto lo avrebbe scoperto.
§§§
Stava camminando di buon passo, a testa bassa, con la mano sull’elsa della spada quando vide in lontananza un gruppo di soldati intenti ad interrogare un uomo. Lo avevano circondato e lo stavano colpendo selvaggiamente, urlando ordini e domande. “Uno dei ribelli” pensò Shin “Oppure un semplice malcapitato che è passato di qui nel momento sbagliato…”. Per un momento pensò che in una situazione del genere forse Kein sarebbe intervenuta. La rivide gettarsi tra le fiamme per cercare di strappare a morte certa gli sguatteri e le puttane che lavoravano nella locanda incendiata. Gli parve di udire il giuramento di cavalleria, pronunciato dalla sua voce calda e un po’ roca. Se lei gli fosse stata accanto, l’avrebbe seguita in quella folle impresa o in qualunque altra la fanciulla avesse deciso di gettarsi. Ma era solo, e il suo unico pensiero era ritrovarla.
Era troppo tardi per cambiare strada, le guardie lo avevano visto, così decise di continuare a camminare come se nulla fosse, tenendosi alla larga senza dare troppo nell’occhio. Ad ogni buon conto, scosse leggermente la spada nel fodero perché, all’occorrenza, scivolasse fuori senza attriti. Aveva quasi superato il gruppo quando venne apostrofato da una delle guardie.
“Ehi tu! Un momento!” gridò il soldato. La via era deserta, probabilmente gli abitanti della città si erano barricati tutti in casa, ed era evidente che l’uomo si stesse rivolgendo proprio a lui. Si voltò.
“Dici a me?” chiese, come se avesse potuto esserci qualche dubbio.
“E a chi altri?” lo rimbeccò la guardia. “Chi sei, che ci fai da queste parti?”
“Un cavaliere errante” rispose Shin, laconico. Dubitava che quel bifolco avrebbe riconosciuto il suo emblema con la stessa rapidità con cui lo aveva fatto Kein. Il mantello bianco, però, era tutt’altra faccenda.
“Che vai cercando, cavaliere?” insistette il soldato, avvicinandosi, spada in pugno. Anche alcuni suoi compagni spostarono la loro attenzione dal prigioniero a Shin e iniziarono a muoversi a ventaglio, circondandolo.
“Non cerco nulla e vi consiglio di fare altrettanto se non volete finire per trovare guai”. Si era ripromesso di non perdere tempo con quegli idioti, ma era evidente che non lo avrebbero lasciato andare tanto facilmente, perciò tanto valeva affrontarli subito, farli fuori in fretta e proseguire la sua ricerca. In quel momento Kein poteva essere nuovamente nelle mani della spia, e lui non sopportava il pensiero delle sue carni straziate dalle armi di quell’uomo. La rabbia gli crebbe dentro, rapida e devastante come altofuoco e quando il primo soldato calò la sua spada, quella di Shin già era scivolata lesta e letale fuori dal fodero, incontrando un punto debole nell’armatura dell’avversario, che crollò a terra, un’espressione incredula dipinta sul volto.
“Maledetto!” gridò uno dei compagni e tutti si mossero per attaccarlo contemporaneamente. Shin si chinò, fulmineo, e strappò la spada all’uomo agonizzante. Fece roteare entrambe le armi con un movimento esperto del polso, fendendo l’aria. Il sibilo dell’acciaio riempiva l’aria calda e immobile del tramonto e gli uomini dovettero retrocedere per non venire falciati dalle due lame. Finalmente, uno di loro prese coraggio e provò ad attaccarlo: Shin parò facilmente con la sinistra, mentre con la destra affondava la spada nella pancia dell’avversario. Con un calcio liberò l’arma dalle carni dell’uomo che si portò le mani al ventre tentando inutilmente di rimettere gli intestini al loro posto. Ne erano rimasti tre, che si fecero sotto in un mulinare di lame che riflettevano gli ultimi raggi aranciati del giorno morente. Shin parò i fendenti che piovevano da ogni parte, la furia cieca che divampava in lui rendeva ogni suo colpo estremamente potente e pericoloso e in breve gli avversari si ritrovarono a doversi difendere più che ad attaccare. Tentarono di trovare un varco, invano: il cavaliere rinnegato aveva imparato dai migliori maestri d’armi dell’Ovest e della Capitale e la sua tecnica era decisamente superiore alla loro. Ma erano Uomini di Ferro, e non avrebbero accettato di lasciar andare un uomo delle Terre Verdi che aveva ucciso i loro compagni. Uno dei tre decise di imitare Shin e si chinò a raccogliere la spada di uno dei caduti. Mossa stupida, il cavaliere ne approfittò per fare una finta, scartare nella sua direzione e infine calargli la spada della mano destra sul collo. L’affilatissimo acciaio spiccò la testa che rotolò tra i piedi dei compagni.
“Ho fretta” ansimò Shin, in un sibilo “Quindi, se volete, potete andarvene.”
“Chi ti credi di essere, bastardo?” lo apostrofò con rabbia uno dei due che ancora riuscivano a reggersi sulle proprie gambe.
“Sono Shin della casa Estren” rispose lui, e, dopo tanto tempo, finalmente gli piacque pronunciare il suo nome e lo fece con orgoglio. “E sono l’ultima persona che vedrai”.
Detto questo, si lanciò sull’avversario. Era stanco di giocare al gatto col topo e il suo pensiero era rivolto esclusivamente alla fanciulla. Saperla in pericolo moltiplicava le sue forze, la sua rabbia, i suoi fendenti. Stava per colpirlo, quando sentì un sibilo alle proprie spalle: un rapido sguardo e si accorse che l’altro soldato non era più nel suo campo visivo: ruotò il braccio e, anziché colpire l’uomo davanti a sé affondò la lama all’indietro, abbassandosi. La sua spada incontrò la carne del nemico, mentre quella del soldato alle sue spalle si abbatteva involontariamente sul compagno. Shin si spostò e diede anche all’ultimo uomo il colpo di grazia.
Nella luce stanca del sole morente, le cinque guardie giacevano, morte o moribonde, insanguinate, sconfitte. Shin aveva ricevuto solo qualche colpo di striscio ed era ancora in piedi, trionfante. Si guardò il polso sinistro, il fazzoletto ancora legato stretto ma macchiato di sangue vermiglio. Il prigioniero, si era dileguato.
“Sto arrivando, Kein.”
Si voltò per riprendere la propria strada, quando vide che, a pochi passi di distanza, un ragazzino aveva assistito a tutta la scena. Se ne stava seduto a gambe incrociate, scalzo, gli abiti sporchi e laceri, il visetto attento, gli occhi vispi sotto un ciuffo di capelli scuri e ribelli. Era un bimbetto come tanti, come ne aveva visti a centinaia al Fondo delle Pulci. Eppure, la sua espressione scaltra, quasi navigata, gli ricordava qualcosa. “Gli uccelletti di Qyburn” pensò, mentre il ragazzino scendeva dalla cassa di legno sul quale era accomodato e gli si avvicinava.
“Ser Estren, devo presumere” disse, accennando un inchino.
“Hai sentito il mio nome appena un attimo fa, moccioso. Che vuoi?” domandò Shin, sgarbato. Quello non si scompose, probabilmente abituato all’atteggiamento dei nobili nei suoi confronti.
“Se al mio signore compiace” rispose, affabile “la sua presenza è richiesta sull’isola di Harlaw. C’è una nave in partenza al calar delle tenebre, con un passaggio riservato per voi”.
Shin non si fidava. Se quel piccoletto era davvero una versione delle Isole di Ferro degli uccelletti della Capitale (“Come li chiameranno, a proposito? sicuramente non uccelletti, visto che considerano tutti i volatili figli del dio della Tempesta. Pesciolini? che idea stupida” pensò scuotendo la testa), allora il suo padrone sapeva di lui e Kein. Perché Harlaw? Forse la ragazza era stata catturata e portata là? Stava cercando una risposta quando il ragazzino si portò una mano dietro la schiena. Il cavaliere vide un pugnale brillare tra le sue dita magre mentre, lesto, lo faceva roteare afferrandolo per la lama e porgendone a lui il manico.
“Sta bene, mio signore, e vi sta aspettando” disse.
Shin prese l’arma: era la stessa che Kein gli aveva puntato contro la notte precedente.
Forse stava bene davvero, o forse era prigioniera… forse era una trappola, ma non c’era modo di scoprirlo se non facendo il gioco della spia.
“E va bene” acconsentì alla fine “fammi strada”.
Se le fosse accaduto qualcosa, pensò, li avrebbe uccisi. Tutti quanti.
 

 

YOHAN

Yohan cercò rifugio in un luogo nascosto, una fonte incastonata tra rocce impervie. In una zona sopraelevata, di luminosa bellezza, del tutto appartata per le rocce che la circondavano quasi interamente. L’unico lato libero cadeva giù con un dirupo fino al mare, ma, allo stesso tempo, si apriva rivolgendosi all’orizzonte marino, dominandolo incontrastato. In quel religioso silenzio, a Yohan sembrò di rinascere, quando poté gettarsi nudo in quelle acque purissime e bollenti, respirare il profumo della vegetazione, sentire la carezza del sole e del vento fra i capelli. Sentì la stanchezza abbandonare le sue vene, e la forza gonfiargli di nuovo i muscoli.
Con il corpo immerso totalmente in quelle miracolose acque e il capo poggiato alla riva emersa, non prestò ulteriore attenzione a quello spettacolo che aveva davanti o quello che lo circondava, e chiuse gli occhi.
Era deciso ad andarsene da quel corpo e tornare libero a nuotare negli abissi, quando all’improvviso una lama gelida puntata al suo collo, lo riscosse. Non vide, ne sentì la minaccia, che, da dietro, gli si era avvicinata e ora era pronta a infliggere il colpo letale.
“Ti ho supplicato di non uccidere il ragazzo”
“Dio! Mi hai spaventato!” disse meravigliato Yohan quando riconobbe la voce di Enya.
“Ma tu l’hai annegato lo stesso” continuò lei fredda e distaccata, senza rimuovere la lama.
“Un annegamento non comporta morte certa. Ora, da brava, allontana questo coltello”.
“Mi prendi in giro?” Enya premette maggiormente il coltello contro la pelle del collo. Una pressione leggermente superiore avrebbe tagliato la carne. “Ti ho visto ucciderlo io stessa! O meglio, dovrei dire che ti ho visto dormire mentre altri lo uccidevano!”.
“Altri. Non io. Io non ho ucciso nessuno” Cercò di scandire quelle parole più che poteva.
“Ti sembra forse che sia stupida?” un rivolo di sangue comparve dove il coltello tagliò la carne.
“Non ho ucciso io il ragazzo” disse Yohan esasperato.
“Non mi sembra neanche che tu abbia fatto qualcosa per salvarlo!” reagì Enya.
“Non esattamente. È complicato…”
“Avevi dei complici? Il ragazzo è vivo sì o no?”
“Non ha importanza”
“Giuro che non te lo chiederò di nuovo” Per un attimo Yohan pensò di stare per morire. Enya non sembrava bluffare.
“Va bene. Va bene. Ma non mi crederesti e penseresti che io sia pazzo…”
Enya gli prese il mento, e gli tirò il volto per poterlo guardare negli occhi. Lo stava guardando alla rovescia. Nessuno dei due parlò, l’unico suono proveniva dalla gola di Yohan che, ritrovandosi in quella posizione, deglutì.
“Pazzo come i tuoi occhi?” Domandò Enya rivolta più a sé stessa. Rifletteva, e sembrava ponderare l’idea di uccidere Yohan all’istante “Come puoi averlo salvato?”.
“Non ho detto di averlo fatto io”.
“Ti sei fatto aiutare?” non attese risposta “No, non hai amici qui…”.
“Non servono amici quando si è lord…”.
“Un lord con un nome denigrato da tutti e da tutto: Farwynd...” a pronunciare quel nome le parve di vedere il tutto con più chiarezza “Girano strane voci su voi Farwynd...” Una scintilla di speranza spuntò dal suo volto “I tuoi occhi… erano bianchi quando l’hai ucciso”.
“Ti ho già detto di non aver ucciso nessuno, ricordi?”.
Enya continuò il suo ragionamento come se non lo avesse sentito “Occhi pazzi che vi permettono di diventare mostri marini… è così?” concluse allentando la pressione del coltello.
“Mi conosci da quando eravamo bambini. Lo avresti già scoperto se fosse così” rispose lui sbalordito.
Ma neanche stavolta gli diede ascolto, era immersa nei suoi pensieri e iniziò a cambiare atteggiamento. Tremava e una lacrima le rigava il viso. La sua voce iniziò a vibrare.
“Sei riuscito a salvarlo? Lo hai salvato?”.
“No, non penso. È un ragazzo ingenuo e stupido, avrà trovato la morte in un altro modo…”
Era ormai certo che lei non lo stesse ascoltando. Enya era ancora sconvolta e agitata. Sembrava commossa e le sue lacrime aumentavano in preda ad un diverso sentimento. Minuti infiniti passarono prima che rompesse il silenzio.
“Grazie” disse Enya respirando affannosamente e piangendo. Un’ansia pregressa e un tormento covato nel profondo del suo cuore, che la attanagliavano ormai da troppo tempo, stavano sparendo.
Yohan rimase stupito da quelle parole. Ma il suo collo era ancora in pericolo di vita
“Aspetta a ringraziarmi. Hai ancora il coltello sul mio… quindi se…”.
Enya troncò le sue parole con un bacio.
Le loro labbra si toccarono con leggerezza e dolcezza, quasi sfiorandosi. Fu solo un attimo. Lei si sentì sciogliere nel calore del bacio ed entrambi si abbandonarono al desiderio irrefrenabile che nutrivano, afferrandosi il volto rovesciato l’uno dell’altra. Una violenta passione si impadronì subito di entrambi.
Poi lei scese nella fonte, si tuffò, nuda, ed emerse improvvisamente avvicinandosi a lui, con i capelli che le scendevano luccicanti sulle spalle, le gocce che scorrevano come lacrime sul suo volto chiaro, gli occhi verdi sotto lunghe ciglia nere, le labbra scarlatte.
Continuò ad avvicinarsi a Yohan con le spalle e poi con il seno, fermo e sodo, il ventre piatto e teso, e da ultimo il suo pube umido e le cosce dritte e lucide come avorio. Gli era così vicina che sentiva l’odore della sua pelle. Un odore dolce e leggero, come un vino maturo del sud. Yohan la prese senza sforzo in quell’acqua purissima. Allungò una mano per afferrarle la nuca e stringerla a sé e l’altra mano la fece scorrere fino ad accarezzarle il seno e il ventre, per poi attrarla a sé cingendole la vita. Vide Enya chiudere gli occhi e sentì la pelle di lei fremere al tocco delle sue dita. Le sue labbra turgide rispondevano ad ogni bacio e le mani cercavano l’altro corpo con furente lussuria. Fu lei ad attirarlo dentro di sé con l’intensità degli occhi splendenti. Gli si avvinghiò, stringendo i suoi fianchi fra le cosce, mordendo e graffiando profondamente il collo e la carne della schiena. Yohan invano combatté per tenerla docile. Lei continuò a lungo, gemendo come una piccola fiera e gridando nell’estasi, con un grido ansante, che si attenuò alla fine, in un sospiro di abbandono.
Esausti si distesero l’uno accanto all’altra sulla riva della fonte, lasciando che la brezza asciugasse i loro corpi. La luce arancio del cielo li trovò abbracciati e immersi in una beatitudine torpida e umida.
Quando gradualmente si svegliarono, Enya, che aveva appoggiato la testa alla spalla di Yohan, si abbandonò, con gli occhi rivolti al vuoto orizzonte, alle onde dei ricordi:
“Aveva solo tredici anni, come quel ragazzo. I capelli così chiari… quando è nato sembravano quasi trasparenti. E gli occhi come un mare in tempesta. L’avevo chiamato come suo padre… era così vivace così intelligente. A otto anni già maneggiava la spada di legno come un vero uomo di ferro. Mi chiedeva di allenarsi e a me piaceva. Avrei voluto insegnargli tutto ciò che sapevo, vederlo diventare capitano. Invece è arrivato l’inverno. Dov’eri tu? Sapessi quanto è stata lunga la notte, quanto forti le bufere, quanto terribili le tempeste. Sono morti a centinaia Yohan. A centinaia… e anche lui.”.
Si interruppe. Il suo sguardo fu catturato dal mare. All’orizzonte apparve una flotta di navi. Il sole morente, che ancora non aveva oltrepassato l’isola, illuminò perfettamente la vela della nave ammiraglia, che velocemente si avvicinava. Sulla vela illuminata un kraken d’oro scintillò.
§§§
A guidare quella flotta c’era la Silenzio, con il suo commodoro, lord comandante e Re di Ferro, Euron Occhio di Corvo.
Yohan aveva lasciato Enya dicendole di aspettarlo, e tormentato dalle rivelazioni dell’amica, si era diretto da solo verso la spiaggia.
Quando le navi giunsero sulla battigia, la serata mutò: il cielo dai colori dolci e leggeri del tramonto veniva oscurato con grandi e cupe nubi nere, un forte vento freddo sferzava le onde, l’umidità cresceva nell’aria, una leggera pioggia giungeva da est e il volo convulso dei corvi annunciavano l’arrivo della tempesta.
Euron andò incontro a Yohan con le braccia aperte:
“Adoro questi brevi momenti di quiete prima della tempesta, riesci a sentirlo? Come quando poggi l’orecchio sull’erba e riesci a sentirla crescere” un sorriso sprezzante aggiungeva odio alle sue parole. Alle sue spalle, tra gli uomini che lo seguivano, Yohan riconobbe la sorella bastarda del ragazzo bastardo che aveva giustiziato.
“Una pioggia come un’altra” rispose rivolgendosi a Occhio di Corvo.
“No, no. Non una pioggia come un’altra. Una bufera, un temporale, una burrasca come me. Perché io sono la tempesta, mio lord. Io sono la prima tempesta e l'ultima che tu vedrai”.
“La vostra blasfemia non vi salverà dagli abissi”.
“Non sarà il tuo dio, né quello di mio fratello Aeron a prendermi, lord Farwynd. Altri dei, più potenti, si contenderanno la mia anima e mi reclameranno come loro eroe, profeta e messia. Oggi sono qui in nome della tempesta, e giuro su questo cielo che ci copre, che distruggerò ogni rimasuglio del vostro piccolo, infimo e misero credo” l’occhio solitario sorrise spudorato. Appoggiò le mani sulle spalle di Yohan, guardandolo dall’alto verso il basso. Ma Yohan non si scompose e con sguardo fermo continuò ad affrontarlo.
“I credenti degli Abissi sono in maggioranza, possono raggiungere ogni infedele che si nasconde dietro le mura di Pyke e ad un ordine di Capelli Bagnati, ingrandiranno le fila dei rematori del dio degli Abissi, con i vostri uomini”.
A quella minaccia Euron iniziò a ridere di gusto “Voi e il vostro dio siete così divertenti. Giullari di corte farebbero a gara per imparare le vostre barzellette.”.
Ma Yohan continuò “Ritirate la flotta, lasciate queste Isole in pace. Non fate più ritorno.”.
Dopo un attimo di silenzio, Euron rispose calmo “Oppure, mio lord, mi restituite la mia cara, amata e fedele regina incolume, disperdete i vostri omuncoli ribelli fanatici, mi restituite le mie navi che mi avete bruciato, e mi giurate fedeltà come vostro solo e unico Re di Ferro, Re delle Isole, Re del sale e della roccia, Figlio del Vento e del Mare, e vostro Capitano. Perdonerò voi, lord traditori, e risparmierò quei miseri pescatori e contadini che vogliono vedermi morto”
Le sue parole non erano neanche lontanamente credibili di fiducia, ma Euron non cercava neanche di fingere che lo fossero. Yohan non rispose.
“Avanti. Non avete né guerrieri né risorse per tenermi testa. Perché condurre queste povere anime al massacro? Non serve una battaglia, non serve una guerra. Inginocchiati a me, ora. Sono un Dio che perdona”.
“I nostri fedeli si annegherebbero da soli pur di non vedervi più sul Trono del Mare. Prima che voi possiate salvarla, ucciderebbero la vostra cara, amata e fedele leonessa” Yohan sottolineò chiaramente l’ultima parola, per abbassare la spavalderia del suo avversario.
Euron si fece serio e il suo occhio si immobilizzò sul volto di Yohan “La ucciderò io stesso, se me ne darai la possibilità” poi continuò con tono più conciliante “Dimmi Yohan Farwynd. Cosa vuoi? Potere, fortezze, isole, navi, villaggi da saccheggiare, donne da scopare, ferro e sale? Io posso darti tutto questo e molto altro, o, se la tua fede ti impedisce di essere ragionevole, sarò felice di fare di te il primo martire di questa guerra” poi prese la sua ascia e con decisione la appoggiò, di piatto, sulla spalla di Yohan, con la lama rivolta al suo collo.
Ma lui scelse di non rispondere alla provocazione di Euron, e tenne lo sguardo fisso sulla figura femminile che lo accompagnava. Stessi capelli corvini di Occhio di Corvo e suoi stessi lineamenti.
“La ragazza” disse indicandola “la sua vita appartiene al dio Abissale…”
“Ora basta, mi sono stancato delle tue manie religiose!” Euron si preparò a caricare il colpo fatale con la sua ascia.
“Maestà!” la voce della bastarda di Occhio di Corvo risuonò limpida, dura, abbastanza urgente da fermare la mano del sovrano. L’unico occhio di Euron si spostò su di lei e anche Yohan non poté fare a meno di rivolgerle lo sguardo. “Aveva fegato o era completamente pazza?” penso Yohan.
“Come osi?” ringhiò il sovrano. Per un attimo, Yohan pensò che avrebbe rivolto la sua ascia verso di lei, ma poi la abbassò. Gli occhi dorati di lei avevano qualcosa di ipnotico.
“Vostra grazia, lord Farwynd ha ragione. La mia vita appartiene al dio Abissale” disse Kein, inaspettatamente. Poi, si rivolse direttamente a lui.
“Mio signore, so che la clemenza del nostro sovrano nei miei confronti e di quelli di mio fratello, ha creato molto scontento tra i devoti capitani della Flotta di Ferro. Ma è anche vero che le ragioni di questa rivolta non sono legati solo alla religione. Ho prestato servizio abbastanza a lungo per ascoltare le lamentele degli equipaggi di metà della flotta e so che il popolo è allo stremo. Razziare le coste delle terre dei fiumi è sempre più pericoloso, Davos Seaworth ci contrasta fin troppo duramente e in molti pensano che dovremmo ricominciare a praticare una politica di espansione. Ebbene, hanno ragione. Ma la Lunga Notte ci ha decimati e se ci ammazziamo tra di noi non passeranno altri due lustri prima che degli Uomini di Ferro rimanga soltanto un ricordo e qualche nave pirata solitaria. Perciò ti prego di ascoltarmi: i tuoi uomini esigono un sacrificio, e sono certa che anche tu vuoi la mia vita. Prendila pure. Sarà il nostro dio a decidere se avrà ancora un compito da affidarmi o se preferisce prendermi con sé. Se vivo, significherà che il Re aveva ragione a credermi innocente. Se muoio, avrete avuto la vostra vendetta. In entrambi i casi, rivolgete le armi non contro i fratelli ma contro i nemici, non contro le altre isole, ma contro il continente”.
Yohan fece un lieve sorriso nel sentire quelle parole. Di certo la figlia non aveva ereditato lo sprezzante amore che il padre provava verso le religioni, e sicuramente non aveva ancora imparato a fare silenzio di fronte a un padre più potente e feroce. Non disse nulla, ma si voltò verso Euron e attese la sua risposta.
“Hai sentito Farwynd? Bastarda, assassina, figlia di puttana e anche stratega” la derise il re “ma ha ragione. Ammazzarci tra di noi non servire a niente se non ad annientare la nostra gente. Prenditi pure questa troia e facciamola finita” disse spingendo la giovane verso Yohan.
Con la testa acconsentì “Qui, domani all’alba, inizierà l’annegamento. Chiederò a Capelli Bagnati di presiedere al rito”. Poi Yohan afferrò il braccio della ragazza e la spinse nuovamente, davanti a sé, nella direzione di Harlaw. Finché poté si guardò alle spalle, per controllare che Euron non avesse cattive intenzioni. Nonostante fosse un uomo sconfitto, non si sarebbe dato per vinto, ancora una volta, così facilmente. Scomparve alla vista di Yohan, con un sorriso benevolo sul volto.
Solo in prossimità della città, Yohan parlò a Kein “Quanti anni hai?”.
La ragazza stupita da quella domanda, impiegò qualche secondo di troppo per rispondere “22”.
Yohan continuava ad essere assorto nei suoi pensieri, e come se non le avesse mai chiesto nulla, ricaddero nel silenzio.
Quando giunsero ad Harlaw il caos regnava sovrano. La notizia dell’arrivo di Euron si era diffusa immediatamente e tra chi preparava la fuga e chi la difesa della propria casa, Yohan e Kein passarono inosservati tra le vie strette, sporche e buie del quartiere occidentale. Arrivarono ad uno dei castelli di Casa Harlaw e lì la lasciò nel carcere ben sorvegliata.
“La stupidità deve essere un marchio di famiglia. Domani morirai come tuo fratello… soffocata dal mare, sperando invano che qualcuno ti salvi”.

 

KEIN

Tutto sommato, Farwynd si era dimostrato generoso. Le aveva concesso un pasto caldo, la visita di un maestro e perfino di dire addio ai propri cari, nel caso in cui il dio Abissale l’avesse chiamata a sé.
Le avevano portato una zuppa di pesce che, nonostante la tristezza e il rimorso, era riuscita ad ingollare per ingannare i morsi della fame, una pagnotta ancora morbida e un corno di birra. Il maestro di lord Harlaw, uno dei lord ribelli, che aveva messo a disposizione le proprie celle per ospitare la prigioniera, era un uomo poco più vecchio di lei ma con una catena formata già da parecchi anelli. Le aveva spalmato sulla schiena un unguento fresco che aveva lenito il dolore molto più degli impacchi di camomilla e ortica. Aveva perfino cercato di rassicurarla, parlandole della cerimonia dell’Annegamento e delle tecniche di rianimazione studiate dai sacerdoti del dio Abissale. Forse lo aveva fatto per gentilezza o forse per imbarazzo davanti alla sua pelle nuda. Ad ogni modo, Kein era stata grata per quella voce perché il silenzio, in quel momento, le faceva paura.
Nel silenzio, avrebbe udito di nuovo e di nuovo il grido di Ullen mentre piantava la spada di Roan nel cuore di lord Ygon, e non sarebbe riuscita a sopportarlo. Il maestro raccolse le sue boccette e le sue garze e si accomiatò. “Ciò che è morto non muoia mai” le disse. “Ciò che è morto non muoia mai” ripeté Kein, come d’uso. Dopo che fu uscito, si sedette, a riflettere.
Nonostante il dolore e la disperazione per la morte del fratello doveva mantenersi lucida. Non ne andava soltanto della sua incolumità, ma di quella di tutta la sua famiglia e forse perfino della sua gente. Era imperativo che ragionasse senza lasciarsi inghiottire dal rimorso. Sua madre sarebbe venuta? O la odiava ormai a tal punto di lasciarla morire senza nemmeno dirle addio? “Non posso pensarci, non ora” si impose.
C’erano due cose fondamentali a cui pensare, e per entrambe le serviva l’aiuto di Rordan. Di lui, era certa che sarebbe venuto dal momento che, come le aveva detto Kaplan a bordo della Silenzio, si trovava ad Harlaw. Kein ne ignorava il motivo, ma era comunque un incredibile colpo di fortuna. Per la centesima volta, si chiese era stata una buona idea quella di accettare la pergamena e l’aiuto della spia. Non aveva avuto alcun sentore che l’uomo stesse mentendo, e sapeva di essere brava ad intuire le menzogne, ma, d’altra parte, si trattava del maestro dei sussurri, l’uomo più scaltro delle isole. Non poteva avere la certezza di non essere stata ingannata. Ma che alternativa le restava, ormai?
Mentre si struggeva nel dubbio, udì un rumore di passi e di voci. Riconobbe quella di Rordan, bassa e roca, e ciò le procurò un intenso sollievo. Udì il carceriere rispondere bruscamente e poi aprire la porta. Kein si alzò per andargli incontro ma, inaspettatamente, ad entrare seguita dall’amico fu Riona. La ragazza aprì la bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non le venne fuori altro che un gemito mentre le lacrime iniziavano a sgorgare, calde e salate.
“Mi dispiace, mamma…” riuscì alla fine a mormorare, tra i singhiozzi, coprendosi il viso con le mani. Erano anni che non si permetteva di piangere così, senza riserve. Pensava che tutte le sue lacrime fossero state versate per Roan, invece eccone di nuove. “Dovevo perdere un altro fratello…”
“È tutto a posto” la consolò Riona, prendendole delicatamente le mani e scostandogliele dal volto. Kein non ricordava quand’era stata l’ultima volta che sua madre l’aveva abbracciata, accarezzata o semplicemente sfiorata. Eppure, da bambina ricordava come la prendesse spesso sulle ginocchia e la coccolasse. Perché ad un certo punto aveva smesso di amarla? E perché ora le diceva che andava tutto bene, quando invece Ullen giaceva in fondo all’oceano?
“Come può essere tutto a posto?” il suo era quasi un grido.
“Shhh” intervenne Rordan accostandosi a loro “Riona, dille tutto, a bassa voce e in fretta. Tra poco torneranno le guardie, non abbiamo molto tempo”.
La donna annuì e abbassò la voce quasi in un sussurro. “Lord Farwynd ha finto l’esecuzione. Rordan ha scoperto che aveva tuo fratello, siamo andati a parlare con lui e lo abbiamo convinto a risparmiargli la vita. Certo, davanti ai suoi uomini ha dovuto compiere ciò che aveva promesso, ma il nostro Ullen sta bene, è al sicuro.”
“Come puoi esserne certa? Lo hai visto?”
“L’ho portato personalmente da tua sorella Winnie” rispose Rordan, rapido “È nascosto da lei. Non può uscire di casa, ma quando tutto questo casino sarà finito troveremo il modo di sistemarlo.”
“È la prima volta che il dio Abissale ascolta le mie preghiere” mormorò Kein. Era incredula, sollevata, svuotata. “Ora davvero la mia vita gli appartiene” pensò.
“C’è un’altra cosa che devi sapere prima di…” Riona si morse un labbro e distolse lo sguardo, incapace di reggere quello della figlia.
“Lo so già.” Kein le risparmiò la penosa rivelazione “E capisco perché tu mi abbia sempre raccontato storie di coraggio e fascino. La verità… la verità fa davvero schifo mamma. Mi dispiace per quello che ti ha fatto quell’uomo e ti prometto che le pagherà tutte, una per una.”
“E come, se domani ti giustizieranno?” Negli occhi della donna, Kein lesse un dolore sincero, un’autentica preoccupazione per la sua vita. Per la prima volta dopo tanti anni si sentì di nuovo amata da sua madre. “Forse sto per morire” pensò “Ma almeno lo farò sapendo che a qualcuno importa ancora di me”. Era un pensiero triste, eppure la consolava.
“Mi rianimeranno, non preoccuparti. Sono molto forte, so resistere in apnea a lungo. Non ho intenzione di lottare, tratterrò il respiro e resterò immobile il più a lungo possibile in modo che mi credano morta molto prima di quanto non lo sarò in realtà. Dopodiché…” si voltò verso Rordan “Dovrebbe essere abbastanza semplice per gli Annegati rianimarmi. Se Farwynd ha risparmiato Ullen, può darsi che non abbia poi tanto interesse ad ammazzare me. Quello che mi preoccupa è Aeron, è il fratello del re e lo odia. Potrebbe scegliere di lasciarmi morire nella speranza che la ribellione prenda nuova linfa dal fatto che Euron mi ha risparmiata ingiustamente. Perciò ho bisogno che alla cerimonia tu stia in prima fila. Se noti che stanno solo fingendo di rianimarmi, intervieni. Non sarai esperto come un Annegato, ma abbiamo ripescato più di un uomo finito in mare sulla Tritone e hai visto come si fa.”
“Sì, questo posso farlo” concordò Rordan.
“Un’altra cosa: prima di rinchiudermi, mi hanno tolto la spada”. Kein fece una pausa, indecisa: in una tasca segreta cucita all’interno del fodero, aveva nascosto la pergamena di Kaplan. Si chiese se avrebbe dovuto parlarne alla madre e all’amico, ma poi decise che quello non era il luogo adatto. “Hanno detto che me la riconsegneranno dopo la cerimonia, nel caso il giudizio del dio sia favorevole, naturalmente. Vorrei che invece la prendessi tu. Sai quanto tengo a quella spada e, se dovessi morire, voglio che l’abbia Joryn. Vuole diventare un cavaliere… quella è una spada adatta ad un cavaliere”.
“La prenderò” assicurò Rordan “Ma la riconsegnerò a te, ne sono sicuro.”
Kein annuì. Doveva avere fiducia, speranza. “Ora andate” disse. Il tempo era quasi scaduto “Mamma dì ai ragazzi che gli voglio bene. Che si prendano cura gli uni degli altri. E tu…” Guardò Rordan, piena di affetto e gratitudine “Non capirò mai che cosa ho fatto per meritarmi tutto l’aiuto che mi hai dato. Sono sempre stata pessima con te e tu mi hai ricambiato sostenendomi in ogni momento. Non ti ringrazierò mai abbastanza”.
“Resta viva e ci sarà modo di ringraziarmi” le rispose lui con un sorriso, accomiatandosi. Kein sapeva che cosa intendeva, ma non ebbe il coraggio di dirgli, una volta e per tutte, che non sarebbe mai stata la sua donna. “Non voglio ferirlo? Oppure è perché mi serve il suo aiuto?” si chiese, sentendosi un’infame mentre lui le baciava i capelli. Aveva tutta la notte per pensarci, una notte che si prospettava lunga e insonne.
§§§
Dopo che Rordan e Riona se ne furono andati, Kein si raggomitolò sul pagliericcio con la speranza di riposare qualche ora prima dell’alba. La notizia che Ullen era in salvo le aveva alleggerito il cuore in maniera indicibile, e l’incontro con l’amico e la madre le faceva ben sperare nell’esito del suo piano per il giorno successivo. Tuttavia, non riusciva a prendere sonno e il pavimento, duro e freddo, non l’aiutava di certo. Non che si aspettasse una sistemazione migliore, ma non avrebbe disdegnato qualche comodità in più. Il rischio che fosse la sua ultima notte era pur sempre meno remoto di quanto avrebbe preferito.
Si era quasi appisolata quando la pesante porta rinforzata della cella si aprì per la terza volta. La guardia si affacciò, visibilmente irritata, mentre Kein si tirava a sedere.
“Inizio a domandarmi se questa sia una prigione o una fottuta locanda!” si lagnò il carceriere “Vedete di sbrigarvi!”
Sulla soglia, si stagliò una figura alta, avvolta in un mantello. Nella luce della torcia appesa nel corridoio, i suoi capelli mandarono bagliori dorati. Il cuore di Kein perse più di un battito mentre nella penombra Shin avanzava di un passo verso di lei.
La porta si chiuse con uno schianto mentre Kein si alzava in piedi, ancora incapace di credere ai propri occhi. Rimasero a guardarsi per un lungo momento nella luce fioca che filtrava dalla finestra sbarrata poi, quasi senza rendersene conto, la ragazza e il cavaliere si ritrovarono stretti in un abbraccio disperato.
“Ti ha trovato” sussurrò la giovane, quasi senza fiato, mentre Shin la allontanava delicatamente.
“Sì, aveva il tuo pugnale… ti spiegherò, ora non c’è tempo, dobbiamo andare” rispose lui, con urgenza. La prese per il polso e fece un passo verso la porta, ma Kein lo trattenne.
“Cosa stai dicendo? Andare dove?”
“Mi hanno tolto le armi, ma non è un problema” le spiegò “Oltre a quello che hai visto ce ne è soltanto un altro paio in fondo al corridoio. Posso farli fuori a mani nude, posso portarti via di qui, al sicuro!”
Aveva l’espressione determinata, la fronte corrugata, le labbra serrate. Kein capì che stava dicendo sul serio, che era disposto a tutto per salvarla. Scosse la testa, con immensa tristezza.
“Non posso” replicò. Sentì la mano di lui contrarsi sul suo polso, poi la lasciò andare.
“Perché? Perché lo hai mandato a cercarmi allora? Per farmi assistere alla tua morte?” le gridò in faccia.
“Non capisci? Non ce la faremo mai ad uscire dal castello, sarebbe una follia. E anche se ci riuscissimo, se domani non mi presentassi alla cerimonia sarebbe tutto perduto!”
“Tutto cosa?” domandò il cavaliere, incredulo, furioso. Nei suoi occhi, Kein lesse la delusione, il dolore. Non capiva. Gli si avvicinò e gli prese il viso tra le mani. Lo sentì contrarre la mascella, combattuto tra la rabbia e il desiderio.
“Ora non c’è tempo di spiegarti e in questo posto nemmeno parlerei. Ma ti prego, ti scongiuro di fidarti di me: ho un piano, è un buon piano, e se andrà bene saremo al sicuro, tutti quanti, una volta per tutte” lo implorò.
Shin stava per replicare, quando la porta si aprì di nuovo.
“Fuori di qui” berciò la guardia. Kein vide un lampo di odio nello sguardo del cavaliere. Gli strinse il braccio per fargli capire di non commettere sciocchezze. Dopo un lungo momento, lui si sfilò un sacchetto dalla cintura, ne estrasse una moneta e la lanciò al carceriere.
“Sei proprio sicuro che il tempo sia scaduto?” domandò, mentre quello afferrava la moneta al volo. La saggiò con un morso e sorrise.
“Forse mi sono sbagliato. Il mio signore ha ancora qualche minuto” sogghignò.
Shin gli lanciò un’altra moneta. “Non tirare troppo la corda, amico. Il tuo signore ha tempo fino all’alba”.
Quello annuì, soddisfatto, e se ne andò.
Quando rimasero di nuovo soli, Shin le accarezzò il viso. C’era un’immensa tristezza in lui e Kein si sentì responsabile. Si domandò se non avrebbe fatto meglio a lasciarlo al suo destino, forse sarebbe tornato sul continente. “O forse sarebbe rimasto ucciso in questo folle intrigo” pensò. Si chiese se lo avesse trattenuto per il suo bene o per egoismo.
Erano anni che aveva perso qualsiasi interesse nella vita. Dopo la morte di Roan aveva pensato di tagliarsi la gola più di una volta. Aveva resistito per la sua famiglia, per i bambini; aveva combattuto sempre in prima fila, senza paura, perché sapeva che la morte, se fosse venuta, le sarebbe stata dolce e amica. Eppure adesso, al pensiero di lasciare il cavaliere, il suo cuore si riempiva di inquietudine.
Con un gesto lento, deliberato, afferrò i lembi della tunica e se la sfilò. Si passò le dita sulla fronte, per togliersi i capelli dagli occhi e alzò lo sguardo su quello che ormai considerava il suo uomo. Aveva le labbra riarse e un formicolio fastidioso alle dita che tremavano leggermente mentre si slacciava le brache.
“Che cosa fai?” le chiese Shin, senza staccarle gli occhi di dosso.
Quando fu nuda gli si avvicinò e gli passò le mani sulla nuca, attirandolo a sé.
“Andrà tutto bene” sussurrò “Ma per sicurezza… se dovessi andarmene, non voglio farlo senza averti conosciuto, mio signore.”
Per un momento, credette che lui l’avrebbe respinta. Eppure sapeva che la desiderava, tanto quanto lei desiderava lui.
“Non voglio perderti” le disse Shin, lottando per non cedere. “Non capisci…”
“Non accadrà. Sono tua, ormai” lo rassicurò, accarezzandogli i capelli dorati. Non pensava che quell’uomo le sarebbe mai potuto sembrare vulnerabile. Nonostante ciò… “Quanto dolore nei suoi occhi”.
Gli cercò la bocca e, alla fine, lui rispose al suo tocco. Non come la notte dell’incendio, quando si era limitato ad accogliere i baci di lei senza mai prendere l’iniziativa, ma con trasporto, esplorandola, possedendola. La spinse contro la parete e le baciò l’orecchio, il collo, la spalla. Mentre la sua bocca scendeva, il cuore di Kein accelerava sempre di più. “Può quindi essere dolce il dolore?” pensò la ragazza quando sentì gli incisivi del cavaliere premere delicatamente su un capezzolo. Si sentiva mancare, inarcò la schiena offrendosi a lui, ormai inginocchiato ai suoi piedi.
Kein abbassò gli occhi, i loro sguardi si incrociarono in una muta domanda alla quale lei assentì con un sorriso. Quando le labbra di lui si posarono finalmente sul suo sesso, fu come se mille bocche le percorressero ogni centimetro del corpo. Il piacere esplose, inaspettato e potente, irradiandosi dal basso ventre in ondate calde e avvolgenti, sempre più intense man mano che le dita e la lingua di Shin la accarezzavano e la penetravano. Un tremore le percorse gli arti e le ginocchia cedettero. Il cavaliere la sorresse con la sinistra, senza fatica, mentre con la destra si slacciava il fermaglio che gli bloccava la cappa. La fece stendere sul suo mantello, che una volta era stato candido e perfetto mentre ora era sporco e sbrindellato. A Kein, non sfuggì il simbolismo di quel gesto: ai mantelli bianchi era proibito prendere moglie, poiché la loro vita era votata esclusivamente alla protezione del sovrano.
Si sdraiò, languida, godendosi il piacere che andava scemando. “Come un sasso nell’acqua” pensò, i cerchi concentrici sempre più larghi e lievi… Shin si coricò accanto a lei, dopo essersi sfilato a sua volta le vesti, e l’abbracciò. Kein aveva visto parecchi uomini nudi, praticamente tutti i suoi compagni d’equipaggio compreso Rordan, e alcuni clienti di sua madre. Aveva anche assistito a degli stupri durante le razzie, perfino a degli atti consenzienti tra membri della ciurma e puttane durante i festeggiamenti che seguivano ogni missione. Ma non aveva mai provato nulla, né eccitamento né repulsione, soltanto una fredda indifferenza. Il corpo di Shin, invece, snello e atletico, ricoperto di una sottile peluria dorata più folta nella zona pubica e quasi assente sul petto, le faceva venire voglia di baciarne ogni palmo, di esplorarlo come una costa sconosciuta, di razziare tutto il piacere che poteva offrire. E voleva darne a lui, tanto quanto ne aveva ricevuto, e di più. Di colpo, si sentì sciocca, inadeguata. Era evidente che quell’uomo aveva conosciuto il corpo di molte donne prima del suo, lei che cosa aveva da offrirgli? “Soltanto inesperienza” si rispose “E nemmeno la mia verginità…”
Eppure, il sesso di lui le premeva turgido contro il ventre. Quello era l’unico segnale che tradiva i desideri del cavaliere: per il resto, Shin si limitava a percorrerle il fianco con le dita, in una carezza lieve e costante, e baciarle il volto, la fronte e gli occhi con piccoli baci umidi, simili a pioggia di primavera.
“Sta aspettando che sia pronta” intuì, il cuore improvvisamente colmo di tenerezza e gratitudine. Come nella baracca, Shin stava mostrando profondo rispetto per il suo passato, il suo corpo e il suo cuore. Questo riaccese in lei il desiderio, allontanando le sue paure. Rispose alle carezze con le carezze, ai baci coi baci. Ma le sue carezze e i suoi baci, non erano delicati come quelli di lui: al contrario, tradivano la brama di possederlo ed esserne posseduta, la tensione, la voglia, l’istinto, quasi ferino.
Rotolò sulla schiena, portando il cavaliere con sé. Le ferite non le dolevano quasi più e il peso di lui era estremamente dolce. Nonostante tutti i suoi timori, sapeva cosa fare: lo guidò dentro di sé, senza vergogna né incertezza, poco per volta. Nel pallido lucore che rischiarava la stanza, gli occhi grigi di Shin la guardavano come se non si fossero mai posati su qualcosa di più bello, quasi con adorazione. Era lo stesso sguardo di stupita dolcezza, di affidamento, di amore che le riservava Roan. Uno sguardo che pensava non avrebbe mai più sentito su di sé.
Alzò il bacino, colmando la distanza tra il suo corpo e quello di Shin, accogliendolo fino in fondo. Il ricordo dello stupro, la sensazione di lacerazione che aveva provato mentre i suoi aguzzini si facevano dolorosamente largo dentro di lei, svanì. Si accorse che il sesso di Shin scivolava senza fatica dentro al suo, accarezzandolo. “È come il mare” pensò “Come la marea che lambisce la battigia”. Non aveva mai provato nulla di più appagante. Non era solo il suo corpo a godere: aveva il cuore allegro, pieno. Non avrebbe saputo dare un nome a quella sensazione, eppure… Come poco prima, sentì l’orgasmo arrivare da lontano, farsi strada nei suoi lombi ed esplodere. E Kein gridò, di pura gioia, e il grido si trasformò in risata e poi in sospiro. E alla fine, quando credeva che il suo corpo non potesse più contenere altre emozioni, sentì il suo seme spandersi caldo a riempirle il ventre.

 

YOHAN

Delle otto donne che facevano parte dell’equipaggio della Abisso, Arwaya Pyke era sicuramente quella che richiamava meno l’attenzione su di sé. Era piuttosto giovane, di statura media, non molto muscolosa ma sufficientemente agile con la spada. Occhi e capelli scuri, scialbi, naso piatto, nessun segno particolare. Certamente non bella, ma nemmeno tanto brutta da suscitare lo scherno dei compagni. Silenziosa, distante, sapeva ridere alle battute e partecipava alle bevute, ma sempre tenendosi in disparte, dentro e fuori dal gruppo allo stesso tempo. Una bastarda come tante, figlia di un lord minore di cui Yohan non ricordava il nome, una figura che, dopo le presentazioni, non aveva degnato di un secondo sguardo. Non rammentava nemmeno di averle mai impartito un ordine diretto, e, certamente, lei non gli aveva mai rivolto la parola prima di quel momento. Eppure ora era lì, davanti a lui, sbucata dall’ombra, a chiedergli un’udienza privata.
Yohan aveva appena finito di occuparsi della prigioniera e, preso dai suoi pensieri, non aveva alcuna voglia di conferire con un qualsiasi membro del suo equipaggio, men che meno con uno che conosceva appena. Ma qualcosa, negli occhi della donna, catturò la sua attenzione suscitando la sua curiosità. Cercò quindi un luogo appartato dove parlare con lei e i suoi passi quasi involontariamente li condussero nei quartieri padronali, in una stanza semplice e austera, ma abbastanza confortevole da rivelarsi come quella della lady del castello. Una stanza che gli risultava familiare, che gli riportava alla mente certi ricordi di gioventù… Si rese conto che era tutt’altra la donna di cui desiderava la compagnia in quel momento e questo gli fece passare la voglia di perdersi in inutili preamboli.
“Dunque, Arwaya, di che mi dovevi parlare con tanta urgenza?” domandò.
“Ho un messaggio per te, capitano” esordì lei, con un tono molto più sicuro di quello che Yohan si sarebbe aspettato da una donna tanto discreta.
“Fa’ in fretta. È stata una lunga giornata” Lo era stata. Le parole di Enya continuavano a risuonargli nelle orecchie. Cercò di scacciare il pensiero e di rivolgere la propria attenzione alla sua interlocutrice.
“Come ti compiace. Ebbene, qualunque cosa accada domattina alla cerimonia, il tempo di Euron può considerarsi concluso” disse, con fredda calma, in totale contrasto con la sua contundente affermazione.
“E chi lo dice?” domandò Yohan, scuotendo la testa. “Se domani la bastarda vive, e non ho dubbi sul fatto che Capelli Bagnati sia in grado di rianimarla, sarà dimostrata la sua innocenza e quella del re. Può darsi che i capitani non si accontentino, ma i più religiosi potrebbero interpretare tutto questo come un segno divino. È dogma che il nostro dio non approva che gli Uomini di Ferro versino il sangue dei loro fratelli”. Su quello, la ragazzina dagli occhi dorati aveva sicuramente ragione: “La Lunga Notte ci ha decimati” aveva detto “e se ci ammazziamo tra di noi non passeranno altri due lustri prima che degli Uomini di Ferro rimanga soltanto un ricordo e qualche nave pirata solitaria.”
“Dici il vero, capitano, l’esito del rito è scontato. Capelli Bagnati è il miglior sacerdote del Dio, e per quanto non lo dia a vedere, è troppo orgoglioso di non aver mai fatto morire qualcuno per annegamento per lasciare che questa volta accada. La ragazza vivrà. Quello che però non sai, ed è questa la parte più importante del mio messaggio, è che la vita di Kein Pyke segnerà la fine di quella di Euron Greyjoy.”
“Parla chiaramente, mi stai stancando con tutti questi giri di parole” intimò Farwynd. Non gli piaceva il tono misterioso della ragazza, le sue allusioni e, soprattutto, non gli piaceva il fatto che ancora non avesse rivelato il nome di colui che l’aveva mandata.
“Come desideri. Kein Pyke è la figlia illegittima del re, e questo immagino ti sia chiaro senza bisogno che sia io a dirtelo”. Yohan annuì, la somiglianza era evidente. Inoltre, al processo il sovrano aveva ammesso pubblicamente di ricordare molto bene le grazie della madre della ragazza. Arwaya proseguì. “Sarà lei, con piccolo aiuto, a togliere di mezzo Occhio di Corvo. Nel frattempo, il mio padrone si occuperà dell’ultimo Greyjoy ancora in circolazione, Capelli Bagnati. Senza di loro, la ribellione giungerà ad un punto morto, si creerà un vuoto di potere e i lord chiederanno un’acclamazione di re.”
Yohan cominciava a capire. Ma non era sicuro che quello che stava ascoltando fosse di suo gradimento.
“O di regina” disse, in un ringhio basso e minaccioso.
Arwaya alzò le mani, arrendevole. “Non essere così precipitoso, capitano.” disse. “Kein Pyke è un marinaio esperto, una donna che viene dal basso e che ha sempre combattuto in prima linea. Conosce bene i desideri degli Uomini di Ferro, le loro difficoltà e le loro aspirazioni. Ha carisma, ha affrontato a testa alta prove che avrebbero fatto tremare qualsiasi altra ragazzina della sua età, si è guadagnata dei consensi perfino tra i membri della ciurma della Silenzio. Tuttavia non è altezzosa, sa accettare un consiglio e cambiare rotta se necessario. Non è manipolabile, ma si può ricattare e questo la rende duttile. In parole povere, sotto di lei le isole possono trovare nuovi alleati e ricominciare l’espansione millantata da Euron e mai mantenuta. Il mio padrone sostiene che quella ragazza, con la giusta guida, sia una speranza per tutti noi.”
“E chi sarebbe il tuo fantomatico padrone? Fino a prova contraria, tu sei mia.”
“Aye, tua, mio capitano. Tua finché seguirai il mio signore”
Yohan perse definitivamente la pazienza e si portò la mano alla cintola, dove teneva legata l’ascia. Arwaya arretrò di un passo.
“Lord Kaplan” sussurrò. “Il maestro dei sussurri. Non uccidermi capitano, non ne trarresti alcun giovamento. Ascoltami piuttosto: tieni a bada i ribelli fino al momento dell’acclamazione, sei l’unico che può controllare Harras Harlaw e tutto il suo clan ed evitare che, morto Aeron, facciano scoppiare una guerra di religione. Il fanatismo è pericoloso, la storia ce l’ha insegnato”.
“E se non accettassi?” domandò Yohan. Aeron era pur sempre colui che gli aveva consegnato l’Abisso, che l’aveva reso un capitano. Si stava parlando di alzare le mani davanti all’assassinio del più alto tra gli annegati. “Morti Capelli Bagnati e Occhio di Corvo, non sarà difficile per gli Harlaw prendere il potere. Quali armi ha il maestro dei sussurri per opporsi alla famiglia più potente di tutto l’arcipelago?”.
“Ne ha molte, e molti occhi. Io sono una semplice emissaria, una voce, nulla di più, e non posso rivelare altro. Però ascoltami capitano, te ne prego: se non fermiamo questa rivolta lavorando insieme gli infedeli moriranno, ma i seguaci del dio Abissale pure periranno con loro. Sarà una carneficina e gli Ironborn verranno annientati. Gli unici ai quali questo non è chiaro sono i fratelli Greyjoy, troppo presi dai loro rancori personali per accorgersi di aver portato le Isole sull’orlo della rovina” lo supplicò la donna. “Una tua parola può fermare tutto questo. Kaplan ha detto sì, Kein Pyke ha detto sì. Dì di sì anche tu, e avremo una speranza”.
Yohan si prese un momento per riflettere: lui stesso aveva suggerito una tregua a Cersei Lannister, ma la leonessa gli aveva risputato in faccia la proposta. Ed era vero, le parole della bastarda di Euron sulla spiaggia gli erano sembrate quanto mai sagge. Eppure, fidarsi di un’emissaria che il nemico era riuscito ad infiltrare nella sua ciurma era una mossa al limite della spericolatezza.
Stava per fare ulteriori domande quando la porta della stanza si aprì di colpo e la lady del castello fece il suo ingresso nei suoi appartamenti. “Cosa sta succedendo qui?” domandò Enya guardandoli di sottecchi.
“Stavo per andarmene…” rispose Arwaya, con un inchino “Capitano” chinò il capo verso Yohan “Che messaggio devo portare?”
Yohan rimase immobile per un lungo istante. Poi, con deliberata lentezza, annuì.
 
 
 
 

 

RORDAN

Era un’alba tetra, fredda. Il mare aveva il medesimo colore plumbeo del cielo, tanto che la linea dell’orizzonte quasi sfumava in lontananza.
La cerimonia si sarebbe svolta sulla spiaggia, un lembo di terra abbastanza ampio da accogliere un gran numero di persone. In molti erano intervenuti, uomini di Euron, ribelli, lord, ma anche popolani. Durante la notte erano state costruite in fretta e furia delle piattaforme per le figure più autorevoli. Ad Euron era stato riservato uno scranno solitario, mentre i suoi capitani e il maestro dei sussurri stavano in piedi accanto a lui. Di fianco, un altro rialzo ospitava gli scranni per lord Farwynd e per il clan degli Harlaw al completo, ognuno con il suo vessillo. Rordan non riuscì a collegare i lord ai loro stemmi, poiché, essendo tutti rami dello stesso albero, avevano in comune il simbolo della falce. Quello che variava erano i colori e le volte in cui il simbolo di ripeteva sui vari vessilli. Uno di loro era quello che aveva offerto le segrete della sua fortezza per ospitare Kein, ma Rordan non ricordava quale fosse. “Lei ha cercato di insegnarmi l’araldica, la geografia, la posizione delle stelle” pensò con nostalgia, mentre aspettava che la giovane fosse condotta sulla riva, dove Aeron Capelli Bagnati e un’intera squadra di Annegati erano pronti a dare inizio alla cerimonia.
Finalmente, la folla si fendette per far passare la giovane.
“Di nuovo” pensò Rordan, ricordando la scena che si era svolta, più o meno allo stesso modo, solo poche settimane prima. Si augurò di cuore che Kein riuscisse a cavarsela un’altra volta e si tenne pronto ad intervenire. Passò il pollice sul filo dell’ascia bipenne che aveva passato la notte ad affilare, poi se lo portò alle labbra. Il sapore del sangue gli provocò, come sempre, una scarica di adrenalina. Era pronto.
§§§
Kein aveva un aspetto completamente diverso rispetto al processo che si era svolto a Pyke. Quel giorno era sporca, spettinata, aveva sangue rappreso sul viso e sui vestiti stracciati. Aveva gli occhi spiritati dal terrore per la sorte del fratello, le labbra fessurate, profonde occhiaie. Oggi, invece, era semplicemente splendida. L’avevano lavata e medicata, le avevano intrecciato i lunghi capelli corvini con delle alghe e le avevano fatto indossare una tunica candida, leggerissima, che le sfiorava le caviglie. Non aveva le mani legate e non veniva trattenuta da alcuno, anche se era seguita dappresso da due Annegati: camminava a piedi scalzi sulla sabbia, la schiena eretta, lo sguardo limpido, rivolto di fronte a sé, piantato in quello di Capelli Bagnati.
Quando lo raggiunse, i due sacerdoti si fermarono dietro di lei. Le sfilarono la tunica prima che entrasse in acqua e Rordan ebbe per la prima volta una visione piena del suo corpo. Sulla schiena, spiccavano cinque strisce vermiglie, là dove la frusta aveva baciato la carne. Di nuovo pensò a Dwyn e, per un attimo, desiderò di averla ammazzata, poi tornò a concentrarsi su ciò che stava accadendo.
Kein era immobile, il viso sereno, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Non mostrava paura nel sacrificare la sua vita al dio Abissale, voleva dimostrare la forza della sua fede. Capelli Bagnati si inoltrò in mare e lei lo seguì, docile. In piedi nelle onde fino alla cintola, Aeron afferrò la ragazza nuda per le spalle e le spinse la testa sotto l’acqua.
“Abbi coraggio” disse il sacerdote. La sua voce era profonda come l’abisso. “Dal mare siamo venuti e dal mare dobbiamo ritornare. Apri la bocca e bevi fino in fondo la benedizione del dio. Riempi d’acqua i tuoi polmoni, in modo che tu possa morire e poi rinascere. Non è bene lottare”. La ragazza non lottò contro il suo aguzzino. Rordan sapeva perché, ma il fratello del re probabilmente aveva creduto che lei stesse semplicemente seguendo il suo consiglio.
“Signore Iddio che per noi sei Annegato” intonò il prete con la sua voce profonda “lascia che Kein, tua serva, rinasca dal mare, come anche tu facesti. Benedicila con il sale, benedicila con la pietra, benedicila con l’acciaio”. Finalmente, dopo lunghi minuti, tutto fu compiuto. A faccia in giù nella risacca, Kein fluttuò, pallida, fredda e in pace. Aeron ringhiò un ordine e i suoi Annegati presero il cadavere e lo trascinarono sulla spiaggia. Lui li seguì, incitando la folla “La tempesta reca solo lutto e dolore! Solo gli abissi concedono la vita!”
Nel frattempo gli Annegati erano in cerchio attorno a Kein, pregando e iniziando le procedure di rianimazione: le tirarono indietro la testa, controllando che le sue vie aeree fossero libere. Poi iniziarono a massaggiarla sul petto: con una mano sopra l’altra, uno degli Annegati cominciò a spingere sul suo sterno. A tempo cadenzato i colpi venivano alternati a respirazioni bocca a bocca, ma la ragazza continuava a non respirare. Rordan era in preda a mille sentimenti diversi: temeva per la vita di lei, non riusciva a capire se era giunto il momento di intervenire, si sentiva in preda a una sciocca ma terribile gelosia al pensiero delle mani di quegli uomini sul suo seno, delle loro bocche sulla sua. Guardò il sacerdote. Il viso era impassibile, ma la mascella era serrata. Si diceva che non avesse mai fatto morire nessuno dei suoi annegati, ma, come aveva detto Kein, quel giorno la morte della ragazza avrebbe decretato la vittoria sul fratello tanto odiato.
“È trascorso troppo tempo” decise Rordan mettendo mano all’ascia bipenne e preparandosi a farsi strada fino al corpo di Kein, ma in quel momento anche Aeron si avvicinò. Con un gesto brusco fece allontanare il gruppo, divaricò con le dita le labbra fredde della ragazza e le diede il bacio della vita. Continuò fino a quando il mare non tornò a erompere dalla sua bocca. Kein iniziò a tossire e a sputare e gli Annegati si affrettarono a stenderla lateralmente per aiutarla a rimettere tutta l’acqua salata che aveva ingurgitato.
“Risorgi!” gridò Aeron “Sei Annegata e sei stata restituita a noi. Ciò che è morto non può più morire. Sorgi ancora!”. Kein tossì con violenza rigettando altra acqua, tentando di rimettersi in piedi. Rordan abbandonò ogni scrupolo e si lanciò verso di lei. Ma un’altra figura si era staccata dalla folla nello stesso istante. A Rordan bastò un secondo per capire di chi si trattasse, e si immobilizzò. “ Sorgi di nuovo. Vivi di nuovo. Più tenace e più forte!” ululò Capelli Bagnati mentre Kein si raddrizzava a fatica, incerta sulle gambe. “Tu ora appartieni al dio!” concluse Aeron. In quel momento, il cavaliere la raggiunse e lei gli crollò tra le braccia.
Nelle orecchie di Rordan risuonarono le parole di Riona: “So quello che pensi. Ma non ti credere, per tutte le donne arriva il momento in cui bramano il corpo di un uomo e mia figlia non fa eccezione. Forse l’ha già fottuta, o forse no, te lo concedo. Ma stai certo che non manca molto prima che il lord delle terre verdi si prenda ciò che tu aneli da anni. Sono del mestiere, queste cose le so”
Nel suo cuore c’erano dolore, disperazione, malinconia… ma soprattutto rabbia. Una rabbia inestinguibile, feroce, accecante. Si voltò e se ne andò. Aveva bisogno di una puttana da fottersi e anche di qualcuno da ammazzare.
 
 

 

RORDAN

La ragazza che si era portato al piano superiore della locanda doveva avere più o meno vent’anni, lunghi capelli corvini e la pelle morbida e chiara. Non era alta quanto Kein e, seppur bella, i suoi lineamenti non erano neanche lontanamente eleganti come quelli della donna che amava. Si era spogliata con grazia, sorridendo, felice di giacere finalmente con un cliente giovane e piacevole. Gli aveva slacciato le brache aveva iniziato a darsi da fare col suo uccello. Vista dall’alto, una massa di capelli scuri ondeggianti nell’atto, avrebbe potuto benissimo essere Kein. Rordan immaginò che fosse lei, come faceva quasi sempre quando si scopava una donna e la cosa gli procurò eccitazione e rabbia al contempo. Prese la puttana per i capelli e iniziò a muoversi con forza, fin quasi a soffocarla. La ragazza gli appoggiò le mani alle cosce e provò a tirarsi indietro, ma era un affarino di appena cinque piedi e lui un gigante di quasi sette. La dominò senza problemi e la lasciò andare solo quando ebbe raggiunto il piacere.
Dopo aver inghiottito il suo seme, la giovane si staccò da lui tossendo, si rialzò e cercò i vestiti. Aveva paura, Rordan poteva sentirne l’odore.
“Dove credi di andare?” l’apostrofò. “Ho pagato per molto più di questo”
La prese per un braccio e la spinse verso l’alcova. Per essere sulle isole, quello era un bordello quasi di lusso: le ragazze erano piuttosto giovani, apparentemente sane e quasi tutte di bell’aspetto e le stanze erano accoglienti, dotate di un vero letto, un focolare e anche di un catino per le abluzioni.
Sotto le sue dita, la fanciulla tremava. “Quanto vorrei che fosse lei, nuda e tremante davanti a me” pensò. La buttò sul letto, le montò sopra e la penetrò, brutalmente ma senza incontrare ostacoli. Si ritrovò a pensare che con Kein non sarebbe stato tanto semplice. Certo, non era più vergine, ma era accaduto una volta soltanto, molto tempo prima. Immaginò la sua fica stretta e umida e, subito dopo, la rivide, vulnerabile, delicata, abbandonata tra le braccia del cavaliere.
Sentì l’erezione scemare velocemente e la rabbia crescere. Anche la ragazza se ne accorse e cercò di rimediare: lo fece sdraiare supino e cercò di rialzarglielo, usando le mani, la bocca, i seni… ma Rordan riusciva a pensare ad una cosa soltanto, Kein e i suoi occhi dorati, il suo sorriso, il suo pollice che percorreva la cicatrice di lui e si fermava sulle sue labbra. Aveva aspettato due anni, con pazienza, che lei lo accettasse. Aveva fatto di tutto per conquistarsi la sua fiducia e il suo affetto. Aveva sepolto suo fratello, le aveva guardato le spalle in battaglia, aveva sfamato la sua famiglia quando lei era stata presa prigioniera, aveva rischiato la vita per avvertirla, per proteggerla… che altro avrebbe dovuto fare? Che cosa aveva fatto il cavaliere delle Terre Verdi per conquistarla? Rordan rivide i capelli biondo scuri di lui, gli occhi grigi, le sue braccia che si chiudevano attorno al corpo esanime di Kein. L’aveva già avuta? Era stato dentro di lei? Era stato dolce o l’aveva presa con forza? Quel pensiero ossessivo tornava e tornava e tornava ancora.
Quando fu chiaro che niente di quello che la ragazza faceva sarebbe riuscito ad eccitarlo di nuovo, la spinse di lato in malo modo, si alzò e le gettò i suoi vestiti.
“Tieniti pure i soldi, buona a nulla” le disse e quella fu lesta a prendere la porta, ancora mezza nuda.
Si sedette sul letto, la testa tra le mani, furibondo e disperato allo stesso tempo. A terra, giacevano le armi: la sua ascia bipenne e la spada di Kein infilata nel fodero di cuoio. Si chinò e la prese tra le mani. Con le dita percorse l’elsa a forma di testa di falco. Nelle scanalature si potevano intravedere piccole gocce di sangue rappreso. Scosse il fodero e la estrasse, la soppesò, la brandì. Era una spada bastarda, Kein la maneggiava con una o due mani a seconda della fase di combattimento, per Rordan era una piuma, avrebbe potuto brandirla anche con la mano mancina, quella più debole, senza difficoltà. Pensò alle dita affusolate di lei strette su quell’elsa, le immaginò strette sul suo membro… gli sembrava di impazzire. Aveva voglia di vederla, di parlarle, di possederla. Anche senza il suo consenso, era così stanco, così stanco di aspettare… aveva voglia di uccidere quell’uomo biondo, di spaccare quel naso dritto, gli zigomi alti e nobili, sfondargli il petto con la sua ascia. Doveva uscire di lì e fare qualcosa.
Si accinse a rinfoderare la lama, ma la punta incontrò un ostacolo. Scosse il fodero, ma niente. Appoggiò la spada di lato, infilò le dita nel fodero e tastò fino a trovare una tasca segreta cucita all’interno, rigonfia. Incuriosito, sfilò il pezzetto di pergamena più volte ripiegato che era stato nascosto all’interno. Lo aprì e aggrottò la fronte. Rordan non aveva mai imparato a leggere, fin quando Kein non si era imbarcata sulla Tritone. Era stata lei ad insegnargli l’alfabeto utilizzando un vecchio libro di storie che le era stato regalato da Sefron, alternando incoraggiamenti, sfottò e occasionali sberle sulla nuca. Non era mai diventato svelto come lei, ma, con lentezza ed impegno, riuscì ad arrivare in fondo al documento. “Dunque per questo era così importante che tenessi al sicuro la spada!” pensò. La relazione col cavaliere, la naturalizzazione… che altro gli aveva tenuto nascosto? Possibile che lo avesse soltanto usato, per tutto il tempo, approfittandosi del suo amore per fargli fare tutto ciò che voleva? Eppure c’era sincerità nel suo sguardo, nel suoi ringraziamenti, in quella carezza. “Sto impazzendo” pensò. Doveva vederla, doveva vederla quanto prima.

 

KEIN

Dopo la cerimonia, l’avevano lasciata libera. Ricordava vagamente l’accaduto, gli occhi di Capelli Bagnati, le sue parole, l’apnea… poi c’era un vuoto fino alla sensazione delle braccia di Shin che la stringevano. Per un momento aveva creduto di essere morta e che quel tocco fosse solo dentro la sua testa, la memoria dell’ultimo momento in cui era stata felice. Aveva abbassato le palpebre e si era abbandonata, finalmente serena e in pace.
Aveva riaperto gli occhi molte ore più tardi, si capiva dalla luce aranciata che filtrava dalla finestra. Era sdraiata su un letto – un vero letto – coperta da un lenzuolo pulito. Il cavaliere era seduto accanto al focolare, di spalle, intento ad affilare la sua spada lunga da combattimento, in attesa che lei si svegliasse. Su una seggiola ai piedi del letto c’erano dei vestiti puliti, sistemati in bell’ordine e, più sotto, un paio di stivali di cuoio morbido.
Kein si tirò a sedere e lui si voltò, udendo il fruscio delle lenzuola. Appoggiò spada e cote e andò a sedersi accanto a lei, ansioso.
“Come ti senti?” domandò.
“Mi fa male il petto” rispose lei, dando un colpo di tosse. In fondo ai polmoni sentiva rimasugli di acqua gorgogliante. Tossì di nuovo, mentre lui le premeva una mano sulla schiena, col palmo aperto.
“C’è ancora del liquido” diagnosticò “Ma nel giro di qualche giorno dovresti stare meglio. Mi hai fatto morire, non ti svegliavi più”.
“Ci hanno messo molto a rianimarmi?”
“A me sono sembrate ore. Adesso puoi spiegarmi a cosa è servita quella messinscena? Siete dei pazzi voi Uomini di Ferro e il vostro dio è il più pazzo di tutti”.
Kein scoppiò a ridere, ma la risata si trasformò in un accesso di tosse bulicante.
“È qualcosa di simile al vostro processo per singolar tenzone. Ho offerto la vita al dio Abissale, sono morta e sono stata riportata indietro dal suo sacerdote. Se Yohan Farwynd mantiene la parola data, la ribellione si conclude qui, almeno per il momento. Kaplan ha dei piani, se tutto fila liscio presto non dovrò più preoccuparmi di Euron e sarò libera” spiegò quando le tornò il fiato.
“Puoi fidarti di quell’uomo? A me è sembrato viscido, untuoso” disse Shin.
“Oh, lo è. Come suppongo lo fosse il vostro Ragno tessitore. È la caratteristica di tutti i maestri dei sussurri, credo. Ma ti ha portato da me e la mia famiglia sta bene… ha mantenuto le sue promesse. Inoltre, è un uomo lungimirante, sa che Euron non sarà sovrano ancora per molto. Ha giocato le sue carte e presto sapremo se ha in mano quelle vincenti”.
Kein non voleva parlargli della pergamena, non ancora. C’erano molte cose che voleva chiedergli, una in particolare che riguardava Cersei Lannister. Ma doveva rimandare il discorso a più tardi. In quel momento, quello che le premeva era recuperare la sua spada. Scostò il lenzuolo e si alzò.
“Dove vai?” le chiese il cavaliere.
“Da mia sorella” replicò dirigendosi alla sedia “Voglio vedere mia madre e i miei fratelli e riprendere le armi. Presto ritorneremo a Pyke, ma preferisco che loro restino qui. Chiederò a Kaplan del denaro, così che possano trovare una sistemazione”.
“Dovresti riposare” la contraddisse Shin, attirandola a sé. La baciò dolcemente e Kein non riuscì a resistergli. Si lasciò guidare di nuovo all’alcova e giacque con lui. Quand’ebbero finito, gli concesse un ultimo, lungo bacio.
“Tornerò per cena. È una locanda, giusto? Avranno sicuramente qualcosa di buono e io ho una fame terribile”.
Infilò i vestiti appoggiati sulla sedia, gli stivali e il pugnale che Kaplan aveva misteriosamente recuperato dalla taverna bruciata. Sulla soglia, si voltò a dare un’ultima occhiata all’uomo che giaceva nudo e rilassato sul letto. Presto avrebbe dovuto metterlo di fronte ad una scelta… “E se non scegliesse me?” si chiese. Il dubbio, l’accompagnò fino a casa di Winnie.
§§§
I bambini le avevano fatto festa, Ciara le si era arrampicata addosso come una piccola scimmia delle Isole dell’Estate, Joryn l’aveva abbracciata con tutta la forza delle sue scarne braccia da undicenne e Ullen l’aveva pregata di perdonarlo per essersi fidato di Yohan Farwynd. Era stato imprudente, in effetti, ma Kein non pensava che a soli tredici anni lei sarebbe stata molto più scaltra del fratello. Si era lanciato anche in una descrizione fantasiosa del suo salvataggio ad opera, a quanto pareva, di un enorme mostro marino. A Kein era sembrato un altro dei suoi voli di fantasia (come il resoconto dello scontro con lord Ygon) ma aveva finto di interessarsi alle sue parole e di credergli.
Alla fine li avevano spediti tutti nelle stalle ad occuparsi dei pony, in attesa che Winnie e suo marito facessero ritorno dal mercato. Rimaste sole, Kein e Riona avevano provato un vago imbarazzo. La riconciliazione della notte precedente era stata dettata soprattutto dalla paura che fosse la loro ultima occasione di chiarirsi ma ora, alla luce del sole, si sentivano nuovamente distanti.
“Non si possono colmare anni e anni di rabbia e disprezzo in una sola notte” pensò Kein. Eppure, alla luce di ciò che aveva scoperto sulle sue origini, capiva il disagio che doveva aver provato sua madre nel vederla crescere tanto simile a quell’uomo. “Lo vedeva ogni giorno sul mio viso” pensò “Non deve essere stato facile nemmeno per lei. In fondo, era solo una bambina”
Mentre cercava qualcosa di confortante da dire alla madre, qualcuno bussò alla porta. L’istinto le fece correre la mano all’elsa del pugnale e si alzò talmente di scatto da rovesciare la sedia. Il pensiero fu subito per Ullen, nelle stalle.
“Sono Rordan, aprite!”
La voce familiare dell’amico le fece tirare un sospiro di sollievo, ma quando aprì l’uscio e se lo vide davanti quel sollievo svanì e cedette immediatamente il passo all’inquietudine. Lui aveva i capelli scarmigliati, la barba sporca, gli occhi spiritati. Sembrava si fosse vestito in fretta e furia e aveva addosso un odore stagnante di sudore e sesso. Portava in mano l’ascia bipenne, la lama affilata come un rasoio, e la sua spada bastarda al fianco.
“Che cosa ti è successo?” domandò, allarmata.
“A me?” fece lui, mostrandosi incredulo “Proprio niente!”
Entrò nella stanza con passo sicuro, come in casa propria, e si sedette pesantemente su una seggiola, appoggiando l’ascia sul tavolo. Kein scambiò uno sguardo con Riona, che scosse la testa.
“Mamma, perché non vai in dispensa a prendere del buon vino per Rordan?” domandò la ragazza. Sentiva nell’aria qualcosa di estremamente sbagliato e voleva allontanare la madre dal pericolo. La donna si affrettò ad obbedire, in silenzio, dileguandosi.
“Grazie per avermi riportato la spada” disse Kein, per tastare il terreno, anche se lui ancora non se l’era sfilata dalla cintola.
Rordan portò una mano alla testa di falco mentre con l’altra saggiava la lama dell’ascia. Kein ripensò a quella mattina, al suo corpo nudo esposto, a Shin che correva a sorreggerla e iniziò a capire. “Lui lo sa… lo ha intuito”.
Non era mai stato un uomo gentile, lo Sfregiato. Era un gigante di quasi sette piedi, muscoloso, forte e incazzato che spiccava teste con la bipenne come una donna avrebbe affettato le verdure. Ed era anche dotato di famelici appetiti sessuali, Kein lo sapeva bene. Eppure con lei si era dimostrato comprensivo, quasi delicato. La ragazza aveva sempre avuto cieca fiducia in Rordan ma, ora, ne aveva paura. Armata solo del pugnale corto, estremamente inferiore fisicamente, che cosa avrebbe potuto fare contro di lui? Era arrabbiato ed eccitato, poteva sentirlo nell’odore della sua pelle abbronzata e dura come cuoio.
Rordan si alzò e andò verso di lei, obbligandola ad arretrare, fino a chiuderla in un angolo.
“Kein… Kein Greyjoy” sussurrò. Alle orecchie della ragazza, suonò quasi come un insulto.
Si passò la lingua sulle labbra riarse e inghiottì a vuoto un paio di volte. Aveva trovato la pergamena e l’aveva letta. “Sono stata io ad insegnarti a leggere…” pensò con rabbia.
“È così. Sai cosa significa?” domandò cercando di mantenere un tono calmo, superiore.
“Oh sì, lo so” rispose lui, in un sibilo “Significa che ora che sei nobile puoi aspirare a qualcosa di più di un pirata o un marinaio. Un cavaliere, per esempio” concluse, mentre la destra schizzava verso il collo di Kein. In un attimo la giovane si trovò a cercare il terreno con la punta dei piedi, le dita strette intorno al polso di quello che fino al giorno prima era il suo migliore e unico amico.
“Ne puoi ricavare qualcosa anche tu” rantolò. “Kaplan mi vuole sul trono. Avrai terre, un tuo vessillo, un castello, tutto ciò che vorrai”
“Un vessillo, dici? Un castello?” Rordan rise, senza gioia “Il mio vessillo era la luna insanguinata di Wynch, non ne ho mai voluto un altro, e il mio castello la Tritone. Quello che volevo era avere te, volevo baciarti la bocca ogni mattina e farti l’amore ogni notte e combattere al tuo fianco, razziare, diventare ricchi, volevo metterti un figlio dentro e vederlo crescere, è chiedere tanto, dannazione? Ho fatto di tutto per farti felice. Ti ho dato la parte migliore di me riservando la peggiore alle mie mogli di sale e alle puttane. Sapevo che ti avevano violentata, tutti lo sapevamo, e ho aspettato, ho aspettato due anni. E tu ti sei concessa al primo stronzo venuto dalle Terre Verdi!” gridò aumentando la stretta.
Kein cominciava ad avere la vista annebbiata, il cervello lento, incapace di reagire.
“Ti ho sempre voluto bene…” riuscì ad articolare con fatica.
“Volermi bene? Tu mi hai usato!” le rinfacciò. “Ma ora basta, prenderò ciò che mi spetta”
Kein sentì la sua mano sinistra sollevarle la tunica e stringersi dolorosamente sul seno. Le trovò il capezzolo e lo torse, soffocando il grido di lei con un bacio umido, pastoso, che sapeva di vino. Cercò di divincolarsi, ma se avesse alzato il ginocchio per colpirlo al basso ventre avrebbe perso la poca presa che aveva sul terreno, mozzandosi il fiato. “Me la sono cercata” pensò. “Ha ragione, mi sono approfittata di lui per tutto questo tempo, forse l’ho perfino illuso”.
Rordan continuava a frugarle la bocca e il corpo e lei si sentiva così sporca, così stanca. Serrò le palpebre e smise di lottare, non riusciva più a combattere. Poi, incredibilmente, lui allentò la presa. Kein aprì gli occhi e nel suo campo visivo apparve il viso di lui, un’espressione dolorosamente sorpresa. Boccheggiò un paio di volte, la lasciò andare e si accasciò tra le sue braccia. In piedi dietro di lui, Riona stringeva un coltello insanguinato.

 

SHIN

Erano trascorsi un paio di giorni dalla cerimonia dell’annegamento e ora era quasi giunto il momento di far ritorno a Pyke. A parte la prima sera in cui Kein si era allontanata per far visita alla sua famiglia, il resto del tempo lo avevano passato a letto, facendo l’amore, mangiando il cibo che uno sguattero portava loro in camera, dormendo abbracciati. Erano stati giorni di serenità e pace, come mai in vita sua ne aveva vissuti. La ragazza dagli occhi dorati era tornata dalla casa della sorella con qualcosa che le pesava sul cuore, ma Shin non aveva insistito perché lei gliene parlasse: a tempo debito sarebbe venuto fuori tutto, come alla capanna, ne era certo. Si era limitato ad aprire le braccia e lasciare che lei ci si raggomitolasse, l’aveva stretta a sé e l’aveva amata. L’aveva amata come nessuna, perché per la prima volta non usava solo il corpo, ma anche il cuore. Cercava in ogni modo di darle piacere, gli piaceva sentirla tremare sotto le sue dita e chiamarlo “mio signore” mentre raggiungeva il climax. Gli piaceva stare sopra di lei e fissarla negli occhi mentre la penetrava, poggiarle una mano sotto il seno sinistro e sentire il cuore di lei impazzire in un battito quasi disperato. Gli piaceva stuzzicarla, provocarla, obbligarla a cercarlo e ad offrirsi in un gioco di seduzione venato di un erotismo sottile. E lei, per quanto inesperta, si era rivelata fantasiosa e intrigante, delicata e passionale allo stesso tempo, timida e sfacciata a seconda delle situazioni. Quella donna era preziosa come l’oro dei suoi occhi, rara, tanto pericolosa quanto vulnerabile. Ed era sua.
“Shin”. Il suo nome, che lei non pronunciava quasi mai, lo riscosse dai suoi pensieri. Lo chiamava “mio signore”, “ser”, “cavaliere”, ridendo con quella risata roca e sensuale.
Quella mattina, per la prima volta, Kein non aveva voluto fare l’amore. Aveva ricevuto un messaggio che annunciava l’imminente partenza della Silenzio per Pyke e gli aveva chiesto di uscire a passeggiare. Avevano camminato in silenzio, fianco a fianco fino alla spiaggia e si erano seduti sugli scogli a guardare il mare. L’espressione di lei era triste, malinconica. “Sta per dirmi addio” pensò il cavaliere. “Questi giorni sono stati solo un sogno, un miraggio, un inganno”. Sentì rabbia e dolore pervadergli il cuore.
“Per quanto tempo sei stato una guardia reale?” gli chiese, senza guardarlo.
“Non mi va di parlarne. Te l’ho detto la prima sera, alla locanda” rispose, asciutto.
Lei allungò la mano e gli passò le dita tra i capelli, con immensa tenerezza, gli voltò il volto verso il suo e gli fissò quello sguardo dorato e ipnotico negli occhi.
“Ti prego, è importante” sussurrò, la voce quasi coperta dal mormorio delle onde.
“Perché?” le chiese. Il passato era passato, lui non era più quella persona. Non voleva pensare a quel periodo della sua vita, in certi momenti, quando era dentro di lei, riusciva perfino ad allontanare il desiderio di vendetta. Perché Kein voleva rivangare quei ricordi?
“Per quanto tempo, Shin” ripeté lei. Gli occhi le brillavano di lacrime. Il cavaliere non riusciva a comprendere, ma provò pena e tenerezza insieme.
“Quasi dodici anni” rispose alla fine.
“Hai servito sotto il regno di Cersei Lannister, quindi”.
“Sì è così. Ho servito la regina di Lannister e lei è morta. Vedi quanto poco valevo come guardia reale”. Il ricordo era straziante. Aveva dedicato tutta la vita alla conquista del mantello bianco: ultimo di tre figli non avrebbe mai ereditato il seggio di Estren e, in quanto a donne, non aveva mai provato nulla per alcuna. L’unica gloria per lui era rappresentata dalla guardia, della quale avrebbe voluto diventare capitano, ma aveva fallito.
“Non è così, mio signore” Kein scosse la testa. “La regina di Euron, in realtà, è Cersei”
“Non è possibile, vaneggi!” L’aveva vista la regina di Occhio di Corvo, al processo. Certo, non aveva speso più di uno sguardo per lei, le sue attenzioni erano tutte rivolte a Kein, ma non gli sarebbe potuto sfuggire un particolare tanto importante!
“Te lo assicuro, è lei. Me lo ha detto Kaplan. Non so come sia sopravvissuta, ma è stata molti anni in esilio e ha degli alleati al di là del mare stretto. Presto potrebbe tornare sul trono di spade e tu potresti riprendere il tuo posto” gli disse, d’un fiato, le lacrime che le rotolavano giù per le guance arrossate dal vento. In quel momento, Shin capì perché quella mattina non avesse voluto concedersi, perché lo avesse trascinato fuori da quel letto fino alla spiaggia, perché avesse l’aria di prepararsi a dirgli addio.
“Potrei” concordò. “Avrei di nuovo un mantello bianco sulle spalle, un’armatura splendente, una vita di agi e lusso. Avrei indietro il mio nome e il mio onore” disse, con enfasi. Fece una pausa, lunga e studiata, godendosi lo sguardo di lei, così struggente. “Ma non avrei te”.
Le prese il volto tra le mani e la guardò con tutta la tenerezza di cui era capace. “Niente di quello che avevo nella mia vita passata vale lontanamente quanto ciò che tu riesci a darmi. Sono un uomo diverso da quando sei con me. Da quella notte alla locanda, quando mi hai costretto a salvare un branco di servi che prima non avrei esitato a lasciar bruciare… sono un uomo migliore. Non nego che ci sono momenti in cui il desiderio di vendetta ancora mi consuma, e se Cersei Lannister marciasse su Approdo del Re per riprendersi il trono non mi dispiacerebbe essere al suo fianco. Ma soltanto se tu fossi con me. Solo con te posso essere Shin Estren. Senza, non sono nessuno.”
Man mano che parlava, vide lo guardo di lei farsi più limpido. Sentiva che le sue parole le accarezzavano il cuore come un balsamo e godeva di quella sensazione. “È felice” pensò “E sono io a renderla tale”.
“Forse puoi avere entrambe le cose, cavaliere” gli disse, sorridendo di nuovo e asciugandosi le lacrime.
“Una guardia reale non può avere una donna, Kein. È la regola”.
“Una guardia reale no. Ma un re…” Gli passò una pergamena che teneva in una tasca del farsetto.
“Greyjoy…” sussurrò. Aveva capito da un pezzo che Kein veniva dai lombi folli di Occhio di Corvo. Al processo di Pyke non lo aveva notato, era quasi ubriaco e troppo distante, ma lì, ad Harlaw, li aveva visti abbastanza vicini da notare l’incredibile somiglianza.
“Quando mio padre sarà morto, e questo avverrà molto presto, mi presenterò all’Acclamazione di Re. Ho fermato la rivolta con il mio sacrificio, ho il sangue dei Greyjoy e ora anche il loro cognome. Ho l’appoggio di Kaplan e ho intenzione di chiedere a Yohan Farwynd di essere uno dei miei campioni. Posso farcela, Shin.”
C’era determinazione nella sua voce e nel suo sguardo la pericolosa ferinità che lo aveva attratto e spaventato fin dal primo momento. Ora capiva perché avesse tenuto quella pergamena nascosta fino a quel momento, perché avesse deliberatamente scelto di parlargli prima di Cersei e solo in un secondo momento di Euron. Ma voleva sentirlo dire da lei.
“Da quanto lo sai?”
“Kaplan mi ha dato il documento la mattina che sono tornata al castello, quando ti ho lasciato alla baracca. Mi ha offerto la corona in cambio del mio aiuto a tenerlo a galla, con gli stessi compiti e privilegi che ha ora e che rischia di perdere.”
“Perché hai aspettato tanto a dirmelo, Kein?”
Lei lo guardò, a testa alta, la schiena dritta, senza vergogna. Altera come una regina, ma pur sempre dolce come la fanciulla che aveva stretto in quei giorni tra le braccia.
“Volevo essere sicura che fossi davvero io quello che volevi per la tua vita. Volevo che potessi scegliere ciò che il tuo cuore realmente desiderava. Ti ho ingannato, e ti chiedo perdono. Ma avevo bisogno di avere la certezza dei tuoi sentimenti.”
“E ora? Sei felice?”
“Ora sono pronta a qualsiasi cosa, Shin. Ci prenderemo il trono del mare, quello di spade e tutto ciò che ci spetta. Sarò la tua regina e tu il mio re. Da questo giorno fino all’ultimo dei miei giorni”.

 

CERSEI

La nausea dovuta all’oscillazione della nave, l’umidità che penetrava nelle ossa e gli uomini dai capelli incrostati di sale e alghe che cercavano di inorridirla o sconvolgerla sussurrandole all’orecchio cosa le avrebbero fatto se solo avessero sorpreso il suo sorvegliante allontanarsi, erano stati fedeli compagni per l’intero giorno di navigazione. Ma lei non avrebbe mai ammesso il suo disagio. Ogni qualvolta qualcuno incrociava il suo sguardo, lei raddrizzava la schiena, accavallava le gambe e piegava la testa di lato con un sorriso beffardo stampato in faccia. Non sapeva quanto il suo atteggiamento fosse credibile, aveva gli occhi contornati da profonde ombre scure, gli abiti lerci e fradici, così come i capelli. Probabilmente appariva come una caricatura di se stessa, ne era consapevole, ma non conosceva altri modi di porsi. E dopo la camminata dell’espiazione, si era ripromessa che non avrebbe permesso più a nessuno di godere della sua fragilità, di riderle in faccia mentre gli occhi le si riempivano di lacrime e il cuore di umiliazione. Quando erano arrivati ad Harlaw era stata consegnata come una merce qualsiasi a Hotho Harlaw di Tower of Glimmering. Quest’ultima sorgeva su un dirupo a strapiombo sul mare e il sentiero ghiaioso e il forte vento avevano reso la salita impervia. I cavalli procedevano a rilento e lei ben presto aveva preso a tremare. Il sole era ancora basso nel cielo e la sua veste leggera e ancora umida era poco consona a quelle temperature. Fortunatamente era stato un viaggio piuttosto breve…e silenzioso: non avrebbe avuto la forza di colloquiare e replicare con i suoi soliti modi sferzanti. Era stata scortata in una stanza modesta, con le pareti in pietra bianca. Il letto era a ridosso della parete ad est e al centro della stanza¸ davanti a un focolare, era posta una vasca in ottone ricolma d’acqua calda. Sul materasso erano stati disposti ordinatamente un asciugamano, un semplice abito ocra ricamato, una veste da notte e un portagioie all’interno del quale vi erano una piccola spazzola, un sapone e un unguento. Quando le porte erano state chiuse alle sue spalle Cersei si era liberata dello straccio che aveva indosso e si era precipitata nell’acqua. L’abbraccio bollente l’aveva fatta sussultare. Aveva strofinato il sapone vigorosamente, eliminando ogni traccia di salsedine, sangue e catrame dalla pelle e dai capelli ed era rimasta immersa finché l’acqua non era diventata insopportabilmente fredda. Poi si era raccolta i capelli in una treccia, aveva passato l’unguento sul labbro tumefatto e si era infilata nel letto crollando in un sonno profondo e senza sogni. Si era risvegliata al tramonto a causa del sibilo del vento. Tinte rosacee coloravano il cielo e si riflettevano sul mare, sarebbe stato un bello spettacolo di cui godere, se non fosse che la sola vista di onde e strapiombi rocciosi le faceva storcere il naso. Non sapeva quanto tempo sarebbe rimasta rinchiusa lì e non aveva osato domandarlo, non le avrebbero risposto. Aveva trascorso la serata e il mattino seguente sfogliando tomi impolverati riposti nella piccola libreria ad angolo, pensando a Jaeron, alla lettera che gli non aveva fatto in tempo ad inviargli… L’unico motivo per il quale avrebbe voluto fare ritorno a Pyke era attendere il suo arrivo, sapeva che non gli avrebbe mai negato il suo aiuto, e insieme a lui pianificare la disfatta di Euron. Perché ormai era chiaro che affianco a quell’uomo non sarebbe andata da nessuna parte. Nel primo pomeriggio gli uomini di suo marito avevano fatto irruzione a Tower of Glimmering e l’avevano scortata sulla Silenzio, dove il Re l’attendeva. Aveva decantato le proprie gesta, insistendo su quanto lei gli fosse debitrice e, sotto lo sguardo nauseato di Cersei, aveva alluso ad una certa ricompensa che gli sarebbe spettata e che avrebbe riscosso quella sera. In realtà, la leonessa aveva scoperto ben presto ascoltando le chiacchiere sussurrate da quei marinai che ancora avevano la lingua, che il merito della sedazione della rivolta andata in larga parte alla ragazzina che Euron aveva processato e graziato qualche tempo addietro. La stessa ragazzina che era stata causa di quella dannata rivolta, dal momento che il sovrano avrebbe dovuto ammazzarla senza pietà invece di salvarla all’ultimo momento. Quel giorno, Cersei si era domandata il motivo di quel gesto e si era risposta che il marito si stava rammollendo. Ma ora cominciava a capire che quella sciocca che sembrava non vedere l’ora di sacrificarsi per qualcun altro poteva essere un punto debole di Occhio di Corvo, qualcosa che avrebbe potuto usare contro di lui. Ancora non sapeva come, ma, una volta a Pyke, avrebbe scritto a Jaeron e, nel frattempo, avrebbe elaborato un piano.
§§§
Ma quella notte, Euron non aveva riscosso la sua ricompensa, né l’aveva fatto nelle sere successive. Dal loro ritorno a Pyke, infatti, il sovrano era diventato ancora più pallido, emaciato. Inizialmente aveva rifiutato di consultare il maestro, ma dopo giorni passati praticamente alla latrina si era deciso a farsi visitare. Il sapiente aveva stabilito che l’acqua, raccolta in botti poste nella stiva della Silenzio, o, più plausibilmente, la botte contenente il liquore ad uso esclusivo del Re, potesse essere stata contaminata da qualche topo e aveva prescritto lassativi che purgassero il corpo e le viscere dell’ammalato. Ma ciò non aveva fatto che peggiorare la situazione, ed Euron si era fatto sempre più debole, finché non era più riuscito ad alzarsi dal letto. Cersei sogghignava ad ogni sua imprecazione, si rasserenava ad ogni rantolo di dolore. Forse la malattia l’avrebbe finalmente liberata dal legame che aveva stupidamente stretto con quel pazzo buono a nulla, pensava, e aveva rimandato i contatti con Jaeron nella speranza di potergli comunicare una buona notizia.
Sebbene si fosse tenuta a debita distanza dal marito fin dagli esordi dell’infezione, un pomeriggio si decise a fargli visita per controllare con i suoi occhi che il Maestro, il quale sosteneva che la malattia si era radicata e sarebbe stato impossibile debellarla, avesse ragione.
Quando la regina fece il suo ingresso nelle stanze di Euron lo trovò disteso, sudato, stordito dal latte di papavero. Aveva scalciato le coperte ai piedi del letto e un tanfo nauseabondo saturava l’aria. Kein Pyke era intenta ad asciugare il sudore dal petto nudo del re. I movimenti erano delicati, gentili, ma, allo stesso tempo, meccanici. Vederli così vicini rendeva impressionante la loro somiglianza e a Cersei non rimasero dubbi circa l’identità della ragazza.
“Mia regina” disse Kein inchinandosi quando si accorse della sua presenza nella stanza.
Cersei inclinò la testa di lato e osservò per qualche altro istante la scena. Si domandò perché la giovane avrebbe dovuto vegliare su un padre che aveva conosciuto solo poche settimane prima, assente dalla sua vita per vent’anni, un uomo spietato che aveva fatto cavare un occhio al suo dolce fratellino, che lei aveva cresciuto come un figlio. Si chiese se solo lei, Cersei, non fosse in grado di perdonare, se fosse l’unica a lasciarsi logorare dal rancore, oppure se quella fanciulla, apparentemente sciocca, fosse in realtà più scaltra e pericolosa di quello che sembrava.
“Oh eccola la mia regina” farfugliò il Re “perché non vieni qui a darmi un bacio? Cos’è? Ti faccio schifo?” la sua risata venne interrotta da spasmi di dolore e venne assalito da un conato di vomito. Cersei portò la mano davanti alla bocca “Magari quando vi rimetterete” rispose strizzandogli l’occhio “Riposate caro marito e state sereno, siete in buone mani” aggiunse guardando Kein. Poi si voltò e si incamminò verso la porta.
“Permettete che vi riaccompagni nelle vostre stanze, vostra grazia” si offrì la giovane dai capelli corvini. Cersei alzò le spalle e lasciò che la seguisse. Forse avrebbe scoperto qualcosa di più sulle motivazioni della ragazza, era curiosa. Per un po’ camminarono in silenzio poi, mentre procedevano lungo il corridoio umido e tetro Kein disse: “Dev’essere penoso per voi vedere vostro marito soffrire tanto”. Il tono era neutro, poteva essere ironica o sincera, Cersei non riuscì a capirlo.
“Oh, certamente. Tu piuttosto… deve essere dura assistere alla imminente dipartita di tuo padre” rispose la Regina.
“Mio padre… non credo che avermi generata faccia di lui mio padre, vostra grazia. Credo che consideri i suoi figli rifiuti del suo corpo, al pari del sudore o degli escrementi. Perdonatemi, non sono discorsi adatti alle orecchie di una donna del vostro lignaggio”.
“Non temere, ho sentito ben di peggio. Mi chiedo, comunque, perché ti prodighi tanto se è questa la considerazione che hai di lui” Non attese che Kein rispondesse “Io ho tanti difetti, ragazza, sono incapace di perdonare, per esempio, ma sono ben consapevole che altri, per quanto per me sia incomprensibile, siano in grado di farlo. Tuttavia, non vedo amore o pietà nei tuoi occhi, non c’è premura nei tuoi gesti, sono deliberati, quasi meccanici…” Cersei cercò lo sguardo della ragazza. La leonessa di Lannister riconobbe in quegli occhi la determinazione e la furbizia, la spregiudicata ambizione della sua giovinezza. Sorrise. Aveva ragione, non c’era pietà nella figlia del re e questo ne faceva una preziosa collaboratrice.
“Ho già sentito quell’odore una volta.” Proseguì “Il putridume che si fa strada nelle viscere di un uomo…avvelenato”
“Shin mi aveva detto che eravate estremamente scaltra. Aveva ragione”.
“Shin, Shin, Shin” sussurrò portando l’indice sulle labbra “Ricordo questo nome singolare…”. Il suo sguardò si illuminò “Il mantello bianco? Il ragazzino?”
Kein annuì “Dopo la vostra presunta dipartita ha abbandonato la guardia reale. Ora si trova sulle isole, ed è pronto a marciare per riprendere ciò che vi è stato tolto. Come me, del resto”.
Cersei scoppiò a ridere. “E che cosa pensi possa farmene di due spade, ragazza?”
“Non siamo solo due spade, maestà, ma seimila” rispose la giovane, sempre con quel mezzo sorriso furbo dipinto sul viso, mentre le passava un documento scritto su pergamena. La regina lo scorse rapidamente.
“Mmmh, adesso ha tutto più senso. Avvelenare un uomo semplicemente perché è stato un cattivo padre suonava un po' infantile, in effetti. Quindi, questo documento ti permetterà di ereditare il trono del mare…”
“Ereditare, vostra grazia? Non c’è successione diretta al trono del mare. Oh no, io ho intenzione di conquistarlo. Ci sarà un’acclamazione di re, e sarà il mio nome, alla fine, quello a cui gli Ironborn inneggeranno”.
“Mi piacciono le persone che sanno giocarsi bene le loro carte, ma sei sicura di avere la mano vincente?”
“Ne ho di buone dalla mia. L’appoggio di lord Kaplan e dei lealisti di mio padre, ma anche quello di Yohan Farwynd. A tal proposito… devo scusarmi per la trappola che vi tese mio fratello. Spero possiate concedere il vostro perdono, era stato ingannato”
“Occhio di papera” sogghignò Cersei. “Ora non ho tempo né voglia di accanirmi contro un ragazzino e se quello che proporrai mi aggraderà, potrai star tranquilla che quella voglia non si risveglierà mai”.
Erano giunte agli appartamenti regali. Cersei lasciò entrare Kein nella stanza e richiuse la porta.
“Un’alleanza, maestà. So che avete dei contatti a Volantis, con il triarca Jaeron Maegyr. Senza Euron tra i piedi, potrete riallacciare i rapporti con lui e rinsaldare la vostra posizione. Io aggiungerò diecimila Ironborn all’esercito che il volantiano riuscirà a mettere insieme e tutta la Flotta di Ferro. Un contingente sufficiente per iniziare a sferrare un attacco e indebolire il nemico, che non se lo aspetta”
L’intraprendenza di Kein le piaceva, ma sapeva quanto l’ambizione potesse interferire con il buon senso. Era rischioso stringere patti con ragazzine in preda agli ormoni e alla sete di potere.
“Ciò non toglie che loro siano numericamente superiori, conoscano il territorio e siano uniti sotto un’unica corona.” suggerì
“La corona di una ragazzina, il cui unico potere deriva dal cognome. A parte ciò, che cosa può vantare? I draghi sono morti e questa volta possiamo stare certi che non torneranno. Inoltre, non siamo gli unici ad essere usciti indeboliti dalla lunga notte, anzi, a quanto pare le regioni più ricche, come l’Altopiano, sono state quelle che hanno subito maggiori perdite. Inoltre, le spinte indipendentiste ed espansionistiche non sono certo una caratteristica delle sole Isole di Ferro. Prendete il Nord, per esempio. Il matrimonio di Sansa Stark con Harrold Hardyng ha unito due grandi casate e due regni vasti e potenti. È cosa nota che gli alfieri di Stark hanno sempre puntato ad un Nord indipendente, eleggendo per ben due volte un re del nord. In entrambi i casi, si è rivelato un fallimento, ma, forse, con una regina potrebbero ottenere ciò che bramano da tempo. A sud, stessa situazione. Arianne Martell ha preso le redini di Lancia del Sole e non è donna da lasciarsi piegare o spezzare, come recita il suo motto. Si è inchinata, sì, ma per quanto? Come vedete, maestà, per la prima volta nella storia del Continente Occidentale il potere è saldamente in mano a delle donne. Possiamo trovare un accordo, possiamo trovare nuove alleanze. Abbiamo molte carte da giocare, mi basta un vostro sì.”
La risposta di Kein le lasciò un senso di soddisfazione. Conosceva bene Sansa Stark e ricordava che Arianne Martell avrebbe voluto sua figlia Myrcella sul trono di spade. Poteva funzionare. “Bene, ma arriviamo al punto… Cosa vorresti in cambio del tuo aiuto?”
“Prima dell'arrivo di Aegon il Conquistatore, gli uomini di ferro controllavano le Terre dei Fiumi e gran parte della costa occidentale del continente. Non ti chiederei mai di privarti del seggio della tua nobile Casa, ma Delta delle Acque e i territori di pertinenza devono essere miei. È una questione sentimentale, ma anche strategica. Da una parte, voglio vendicarmi del lord della Cipolla: sono stati i suoi uomini ad uccidere mio fratello. Dall’altra, per mantenere la pace una volta terminata la conquista, avrò bisogno di terreni coltivabili, contadini che paghino le tasse, denaro proveniente dai balzelli per passare il Tridente. Avete avuto modo di conoscere le nostre isole: sono povere, brulle. Sono trecento anni che gli Ironborn non hanno altra scelta che combattere, distruggere, depredare. Io voglio che il mio popolo possa iniziare a seminare, a costruire”.
Cersei si accostò al fuoco. “Versami del vino” le comandò guardandola fissa negli occhi. La ragazza le piaceva, ma non avrebbe permesso che si ergesse su un piedistallo, lei era ancora la sua regina. Kein obbedì, passandole la coppa. “Adesso versane una anche per te” aggiunse.
La giovane si avvicinò con il bicchiere colmo di liquido rosso sangue e lo alzò, imitando la leonessa Lannister.
“Abbiamo un accordo dunque?”
“Lo abbiamo”. Il tintinnio delle coppe sancì l’alleanza.
 
 
 
 

KEIN

Aveva bisogno di una boccata d’aria. Negli ultimi tempi, i miasmi emanati dal corpo putrescente di Euron le stavano dando alla testa. Kaplan aveva detto che sarebbe stata un’agonia breve, ma il bastardo era forte come un toro e cocciuto come un asino e si rifiutava di morire.
Kein si era completamente immersa nel ruolo di figlia devota, faceva parte del piano, ma era stufa marcia del lezzo e degli sproloqui di Occhio di Corvo. Aveva provato anche a costringersi a provare pena, senza peraltro riuscirvi. Le sue scorte di empatia e tenerezza si erano completamente esaurite nel momento in cui Rordan le era spirato tra le braccia. Dopo quel tradimento, aveva chiuso il cuore a tutto e a tutti, tranne che a Shin.
Il cavaliere si era tenuto in disparte, alloggiato in una locanda di buona nomea poco fuori città, dove lei andava a trovarlo regolarmente. Al castello avrebbe fatto il suo ingresso più tardi, quando Kein avesse preso il potere. Nonostante non potessero trascorrere insieme tutto il tempo che desideravano, i momenti che condividevano li univano sempre più. Per quanto estremamente attratti l’uno dall’altra, poco a poco erano riusciti ad allontanarsi dall’alcova e praticare altre attività. Capitava che andassero a nuotare nel golfo, cosa in cui lei era molto più esperta di lui, o che si allenassero alla spada. In questo, il cavaliere aveva un’abilità eccezionale. Kein era rimasta estasiata vedendolo combattere: era preciso, veloce, si muoveva come se danzasse. Caricava i colpi senza fatica ed era difficile per l’avversaria calcolarne la portata finché la spada di lui non si abbatteva tanto potente da farle battere i denti. Riusciva a prevedere quasi ogni sua mossa, era bravo nelle finte, fantasioso negli attacchi… in quelle settimane Kein aveva imparato più di quanto non avesse fatto negli ultimi due anni di stanza sulla Tritone.
Dopo l’ultimo episodio di violenza, voleva essere certa di sapersi difendere in ogni situazione. Certo, se avesse ottenuto il trono del mare avrebbe avuto una guardia personale, ma preferiva non doversi affidare ad alcuno.
Prese una scorciatoia, passando da uno stretto vicolo che tagliava la città verso ovest. Fu un attimo: uno spostamento d’aria, un fruscio di abiti e l’acciaio sulla pelle. “Devo dire che hai i riflessi migliori di tuo fratello” sorrise l’uomo. Kein abbassò il pugnale e si allontanò di un palmo.
“Lord Farwynd” lo salutò, accennando un inchino col capo. Non lo vedeva da quella sera, sulla spiaggia, quando si era offerta per l’Annegamento. “Non ho ancora avuto modo di ringraziarti per aver risparmiato mio fratello. Io avevo ucciso il tuo, ma hai mostrato clemenza. Nel bene o nel male, io non dimentico.”
“Meno male...” Yohan si massaggiò il collo, la pelle arrossata nel punto in cui c'era stato il coltello “Purtroppo dobbiamo saltare i convenevoli, non ho molto tempo” si guardò intorno controllando che non ci fosse nessuno, poi con lo sguardo ancora rivolto al vicolo “il tuo amico Kaplan mi aveva fatto sapere che saresti diventata regina dopo la morte di Euron” a quel punto spostò lo sguardo su di lei “ma davanti a me vedo ancora una sguattera del Re con un nome da bastarda”
Il tono era schietto e fermo, non c’era traccia di scherno. Una semplice constatazione.
“Ho ereditato la sua scorza dura, mio signore” replicò. Sperava che presto lui si sarebbe dovuto inchinare e chiamarla “maestà”, ma per il momento era lei a dovergli rispetto. “Ma peggiora di giorno in giorno. Se me lo concedete, puzza più della latrina di un bordello. Non manca molto prima che il nostro dio lo richiami a sé. O che io lo mandi a lui”.
A quelle parole, Yohan aggrottò la fronte. “Per quanto non ami Euron, e lo consideri un miscredente, è, e rimane, un uomo di ferro. Come puoi pensare di uccidere tuo padre e un ironborn?” domandò.
Kein giocherellò con il pugnale che non aveva ancora rinfoderato. Lo fece volteggiare, riprendendolo per la lama, saggiandone il bilanciamento.
“Non essere ipocrita, mio lord” replicò spostando di nuovo l’attenzione sul volto di lui. “Accorciare le sofferenze di un moribondo è soltanto un atto di clemenza, non ti pare?” Gli occhi di lui erano mutevoli come il mare in tempesta, ipnotici almeno quanto gli abissi dorati dei suoi. Quel suo essere così legato al dio la spaventava. Ricordava bene le lezioni di Sefron sul fanatismo religioso e non voleva avere niente a che fare con gente di quella risma. Eppure, Yohan aveva graziato suo fratello e ora era lì a parlamentare con lei. Forse la sua era soltanto fede genuina, nulla di più. “Gli uomini hanno bisogno di qualcosa in cui credere. Un potere superiore, una giustizia divina… non c’è nulla di male”. “Perdonami, capitano, sono solo stanca. Straparlo. Ma il maestro dice che non ci sono speranze, quindi…” lasciò la frase in sospeso e Farwynd non insistette.
“Comunque” disse l’uomo “anche ammettendo che Euron trovi la via degli abissi, come pensi di farti avanti all'acclamazione di re? Per una donna già è difficile, per una bastarda impossibile.”
“Il nostro sovrano non lascerà questo mondo prima di avermi riconosciuta come frutto dei suoi lombi. D’altra parte, nessuno potrebbe nutrire dubbi.” replicò Kein accennando con un gesto della mano al proprio viso. “ A quel punto, dopo la sua dipartita, non sarò più una bastarda, ma una Greyjoy ed erede diretta. Naturalmente non mi aspetto di salire al trono senza passare per un’Acclamazione, è necessaria, come hai fatto giustamente notare. Avrò dalla mia parte il nome, la benedizione del dio Abissale che mi ha richiamata dalla morte per mano di Capelli Bagnati, e dei campioni che mi sosterranno. A proposito” la sua voce si fece lieve ed affilata come la lama che stringeva “che fine ha fatto mio zio?”
“Quando ancora boccheggiavi nuda tra le braccia del tuo cavaliere, Euron ha dato l'ultima benedizione al fratello. Pochi se ne sono accorti, i più fuggivano” rivelò Yohan. “Poco male: se non fosse stato lui a porre fine alla sua vita ci avrebbe pensato il tuo Kaplan. Strano che tu non ne fossi a conoscenza.”
“Non è il mio Kaplan, capitano” scattò Kein. “Non lo hai ancora capito? È un uomo dai mille occhi, incapace di fedeltà. L’unica cosa che gli importa è rimanere a galla e ha capito che con Euron di mezzo sarebbe affondato come una spada gettata fuoribordo. Perciò ha scelto me, ben sapendo che non avevo modo di rifiutarmi dal momento che teneva sotto scacco la mia famiglia, i miei amici e probabilmente anche il mio uomo. Mi dice quello che vuole che io sappia, e nient’altro. Per il momento, non posso farci niente, ma appena avrò la corona la musica cambierà.”
“A tal proposito” Yohan fu lesto a cambiare argomento “Pensi di riuscire a mantenere quei sogni di gloria che hai sputato fuori davanti a tuo padre quel giorno sulla spiaggia?”
“Una cosa per volta, mio signore> lo bloccò Kein, poiché non era ancora sicura al cento per cento di potersi fidare del suo interlocutore. “Innanzitutto, mi servono dei campioni che mi supportino durante l’acclamazione. Kaplan mi ha suggerito di scegliere qualcuno del clan Buonfratello, fedelissimi alla corona. Gormond o Gran o il loro terzo gemello di cui ora mi sfugge il nome andrebbero bene. Ne mancano due. Volevo chiederti di farmi questo onore, se ti compiace”.
“Ammettendo che accetti e, bada, non ho detto che lo farò: che cosa otterrei?” chiese lui, diretto.
Kein rispose alla domanda con un’altra domanda. “Immagino che avrò bisogno di un lord comandante. Ti interesserebbe guidare la Flotta di Ferro nel nome della regina, mio signore?” disse, fermandosi e bloccandogli il passo. Erano vicini quasi quanto prima, ma il pugnale, ora, era tornato nel fodero legato alla coscia sinistra di lei. Kein era abbastanza alta per guardarlo dritto negli occhi e rivolse lo sguardo a quel mare in tempesta. Voleva che la prendesse sul serio, come una sua pari.
L’uomo sostenne il suo sguardo e parve riflettere, soppesare le sue parole. Nel giro di poco tempo aveva ottenuto il comando di una nave e ora lei stava ventilando l’ipotesi di affidargli la più alta carica nelle Isole. Eppure, sapeva che costituiva un grosso rischio legarsi a doppio filo a una bastarda il cui unico appoggio sicuro era quello di una spia voltagabbana. Alla fine, però, accennò un cenno affermativo del capo.
“Dillo, mio signore” insistette. Voleva la sua parola.
“Sarò il tuo campione” concedette Farwynd, e solo allora Kein gli cedette di nuovo il passo. Ripresero a camminare, fianco a fianco.
“Devo chiederti un altro favore: mi serve un terzo campione e voglio una donna. Purtroppo l’unica che ho conosciuto degna di prestarmi questo servizio è morta molto tempo fa. Forse hai sentito parlare di Orla della Baia. Hai sottomano una di questo stesso stampo?”
“Non ho avuto il piacere di incontrarla. Sono mancato per lungo tempo dalle Isole” rispose lui.
“Già, dimenticavo…” Per un attimo, fu sopraffatta dai ricordi. “Era una vera Donna di Ferro, forte, coraggiosa e anche giusta. Capitano della sua prima nave a soli diciannove anni. Era di umili natali, molto più umili dei miei, nipote di uno schiavo oltre che bastarda. Ma tutti la rispettavano. Ho prestato servizio sulla sua Fanciulla Nera fino alla sua morte. È buffo… la nave si chiamava così in onore di mia cugina Asha e del suo uomo, Qarl. Era il fratellastro di Orla, dicono che si amassero molto. Anche loro sono morti per mano di mio padre.”
Farwynd rifletté qualche istante prima di rispondere. “Forse ho un nome, ma aspetta: non hai quel gigante come amico? Quello sfregiato che è venuto a chiedermi di salvare tuo fratello. Non ricordo come si chiamasse, certo non è una donna, ma un mostro come quello non passa inosservato, pochi riuscirebbero a contrastarlo.”
Il riferimento a Rordan le fece male. Molto più di quanto avrebbe creduto. Le era morto tra le braccia, aveva visto i suoi occhi spegnersi piano piano. Aveva implorato sua madre di tamponargli le ferite, di correre a cercare un guaritore. Si era sentita un’idiota, lui stava per violentarla, Riona aveva fatto ciò andava fatto. Eppure, sapeva di essere stata in parte causa di quel comportamento. Gli aveva sussurrato all’orecchio parole di conforto, gli aveva chiesto scusa, gli aveva ripetuto che gli voleva bene, era arrivata a sfiorargli le labbra con le sue, accogliendo il suo ultimo respiro. Era stato suo amico, il suo unico amico. E ora non c’era più.
“Ha cercato di prendermi contro la mia volontà” rispose. La sua voce stillava tristezza e pena. Era la prima persona a cui lo diceva, non ne aveva parlato nemmeno con Shin. “Ora riposa con il nostro dio”.
Si fermò per la seconda volta e Yohan Farwynd con lei.
“Mio signore, non ho più intenzione di subire i ricatti, le violenze e gli abusi di alcuno. Non è una minaccia, devi credermi, solo un dato di fatto. Ho passato tutta la vita a lottare per restare a galla, spesso letteralmente e non ho alcuna intenzione di affondare proprio ora che sono ad un passo da una vita libera e migliore. Ti voglio dalla mia parte, ti assicuro che è quella giusta. Quindi, ti chiedo di nuovo: hai un nome da propormi?”
Yohan parve sinceramente turbato. Non insistette, e Kein gliene fu grata perché sentiva le lacrime pericolosamente prossime. “Sì, Enya Harlaw di Casa Harlaw di Giardino Grigio” replicò Farwynd, con semplicità.
“Parente di quel lord Harlaw che mi tenne prigioniera? Brava gente, mi concessero cure, un buon pasto… mi resero presentabile prima della cerimonia. Sta bene. Sarò onorata di avere lady Enya tra i miei campioni.”
“È arrivato per me il momento di andare” si congedò il capitano dell’Abisso “non sono al sicuro qui a Pyke. Alla morte del re mi rifarò vivo.” Fece per andarsene. Si bloccò e la squadrò un'ultima volta attentamente “Forse la prossima volta che ci vedremo sarai regina”.
“Non temere mio signore” sorrise di rimando “Lo sarò”.
Yohan inchinò il capo, senza sarcasmo, quasi con rispetto, e lei fece altrettanto. Sperò di rivederlo presto. Avrebbe significato che era libera dal giogo di Euron, una volta e per sempre.

 

KEIN

Nelle stanze private di Euron regnavano l’oscurità e il silenzio. Il maestro, incapace di diagnosticare il male che affliggeva il sovrano, aveva decretato che nessuno dovesse disturbarne la guarigione e, di conseguenza, aveva proibito visite e sforzi. Non che ci fosse la fila… nessuno amava Occhio di Corvo e, ormai, nemmeno lo temevano più. Girava voce che almeno tre capitani si stessero preparando all’Acclamazione di Re. “Come corvi su un cadavere, già sentono sulla lingua il sapore del suo unico occhio, vuoto e cieco” pensò Kein, mentre, alla luce di una candela, gli passava un panno umido sulle labbra fessurate e riarse.
Si sedette al capezzale dell’uomo che dicevano essere suo padre e ne scrutò il volto. Provava sentimenti contrastanti: da una parte, era disgustata dall’idea di essere stata generata dal suo seme, avrebbe voluto tingersi i capelli, abbronzare la propria pelle, cambiare ogni tratto in comune con lui. Eppure, quella somiglianza era la sua sola speranza in un mondo che d’improvviso, le era divenuto ostile. “E se avessi ereditato anche la sua ferocia, la sua follia?” si domandò. Stava partecipando all’assassinio del suo stesso padre e non provava né vergogna né rimorso. Elencò mentalmente tutte le motivazioni che Euron le aveva dato per odiarlo, non ultima il modo in cui l’aveva apostrofata davanti a Farwynd: “Prenditi pure questa troia e facciamola finita” aveva detto, spingendola rudemente in avanti. Kaplan gli aveva attribuito indirettamente anche la colpa della morte di Roan. Quella, forse, era un’esagerazione della spia per far leva su ciò che più le doleva del suo passato ma, finché non avesse messo le mani su Seaworth, Occhio di Corvo era pur sempre un’ottima valvola di sfogo.
Verosimilmente, stava per diventare regina, ma non provava alcun sentimento a riguardo. Le mancava la sua vita di prima, quella vita semplice che aveva condotto per tanti anni, in cui l’unica preoccupazione era portare a casa il pane. Le mancavano Roan, i giochi sulla spiaggia, le canzoni, le storie di cavalleria che leggeva per lui. Le mancavano gli spruzzi di salsedine sul volto, il rumore dell’acciaio, le grida dei compagni, il sapore della birra, le battute di Rordan. Com’era arrivata a quel punto? Dio, se solo fosse potuta tornare al tempo in cui le bastava solcare il mare con suo fratello a fianco per essere felice! I volti dei morti le tormentavano l’anima ogni notte. “Se solo avessi Shin…”
Kaplan le aveva sconsigliato di incontrare il cavaliere al castello e questo, unitamente all’aggravarsi delle condizioni di Euron, aveva diradato drasticamente i loro incontri. Al calar delle tenebre, la stanza diventava fredda e soffocante allo stesso tempo, popolata di fantasmi. Il mormorio incessante delle onde si univa al delirio del sovrano, che sussurrava parole incoerenti, minacce, nomi. A volte chiamava i fratelli, altri la leonessa di Lannister che, dopo il loro colloquio, non si era più presa la briga di accostarsi al marito. Non poteva darle torto, dall’odore putrescente che impregnava la stanza pareva che il sovrano avesse già iniziato a decomporsi in vita.
“Padre” provò a sussurrare. Euron riuscì ad aprire l’occhio per qualche istante. La guardò senza vederla e poi tornò ad abbandonarsi sui cuscini. Kein glieli sistemò dietro la schiena e gli cambiò la pezza bagnata sulla fronte e quella dietro la nuca.
“Ti ricordi di mia madre? Sì che te la ricordi” proseguì “Lo hai detto al processo. Capelli rossi e fica stretta sono state le tue parole. L’hai comprata quand’era ancora una bambina, l’hai ingravidata e te ne sei andato. Potevi farne una moglie di sale, avrebbe avuto una buona vita. Non sarebbe stata costretta a vendersi per tutti questi anni, non sarebbe finita tra le mani di lord Ygon, sarebbe ancora bella come allora. Non è più bella, sai? Le hanno rotto il naso, spaccato le labbra, il sopracciglio, fratturato gli zigomi. Il suo viso è una maschera grottesca, ora. La puttana più bella delle Isole…”
“Acqua…” rantolò Euron, in risposta. Kein prese la brocca e riempì una coppa di acqua fresca. Gli sorresse delicatamente il capo e gliela accostò alle labbra. Il sovrano bevve avidamente, poi, senza forze, si lasciò ricadere.
“Quand’ero piccola ti aspettavo. Ogni giorno andavo a sedermi al porto, guardavo le navi e immaginavo che tu tornassi da oriente, il tuo vascello carico di tesori. Fantasticavo di vederti arrivare a casa nostra, che mi prendessi con te”. Una lacrima le scivolò per sulla guancia e cadde sul volto di Euron. “Mi imbarcai a tredici anni. Dovevo scegliere, pirata o puttana. Non volevo assomigliare a mia madre, volevo essere come mio padre, il prode navigatore dei sette mari, il guerriero, il conquistatore. Invece mi presero e mi stuprarono come l’ultima delle meretrici. Se non fosse stato per il capitano, mi avrebbero ammazzata. Dov’eri quando tua figlia veniva violentata?”
Mentre parlava, sentiva la rabbia crescerle dentro. Il dolore, la pena che aveva provato quand’era ancora giovane e indifesa le facevano bruciare gli occhi di lacrime. Non si era mai lamentata, non era solita piangersi addosso, ma ora, ora che finalmente suo padre era costretto ad ascoltare le sue parole, ora capiva quanto la sua vita era stata dolorosa, quanto aveva perduto.
“Avevi promesso di conquistare il mondo per gli ironborn” continuò, imperterrita, china su di lui “Avevi detto che ci saremmo ripresi ciò che ci era stato tolto, che saremmo stati di nuovo temuti e rispettati, invece veniamo sterminati dagli uomini delle terre dei fiumi, che nemmeno possono chiamarsi uomini! Mio fratello è stato ucciso da una pattuglia di Davos Seaworth. Aveva quindici anni! Non è mai esistito un ragazzo più bello, più forte e buono del mio Roan. Era la mia luce, il mio tutto e me l’hanno ammazzato come un cane davanti agli occhi, quegli stessi uomini che avevi promesso di soggiogare! Dov’eri?”
Euron aprì di nuovo l’occhio, un lampo di lucidità. “Taci, troia…” sussurrò “lasciami morire in pace”
“Allora lo sai chi sono. Lo sai che stai per morire maledetto bastardo! Hai mai amato qualcuno? Sai cosa vuol dire?” domandò Kein, ma conosceva la risposta. “Che tu sia maledetto” mormorò mentre gli premeva il palmo della mano sulla bocca. “Che la tua anima non trovi mai pace. Ti maledico padre, ti maledico!” Aumentò la pressione. Euron era troppo debole per lottare. Il suo corpo si contrasse debolmente, uno, due spasmi. Poi tutto fu compiuto.
Il grido di Kein lacerò il silenzio e le tenebre, un ululato di dolore e disperazione. Aveva maledetto suo padre, aveva maledetto se stessa.
“Dio mio perdonami” pensò.
Nel giro di pochi minuti, la stanza si riempì. I servitori, il maestro, le guardie. Kein rimase aggrappata al corpo esangue di Euron, in pianto. Poi sentì un tocco, gentile ma fermo. Alzò gli occhi. Kaplan era in piedi accanto a lei. Annuì solennemente. Non era finita. Era appena cominciata.

 

YOHAN

Il vento spirava da nord quando l’Abisso doppiò la punta, entrando nella baia sacra chiamata Culla di Nagga. Dopo la morte di Euron, i sacerdoti del dio Abissale ancora in vita, era usciti fuori dai loro nascondigli e avevano convocato a gran voce tutti i comandanti e re. Sulle Isole le cariche combaciavano, ogni comandante era re sul ponte della propria nave e ogni re doveva essere comandante. E così valeva anche per Kein, che dopo la morte del padre aveva ereditato la Silenzio. La nave che terrore e distruzione aveva portato fino ai confini più orientali del mondo. Ora la nave si trovava in mezzo alle altre centinaia di vascelli già arrivati e piaggiati. Capitani e ciurme si erano accampati lungo tutta la spiaggia. Uno di loro alla fine della giornata successiva, sotto le “ossa della Sala del Re Grigio”, avrebbe portato la corona di legno sul capo e tutti gli altri avrebbero gridato il suo nome.
“Ammainate le vele procediamo a remi” disse Yohan rivolto a Charun Treccia bianca, che ripeté l’ordine agli uomini.
Di fronte a loro si profilavano le venerabili sponde di Vecchia Wyk e, sopra, la collina erbosa, dove le costole di Nagga emergevano dalla terra come tronchi di enormi fusti bianchi, larghi quanto l’albero maestro di un dromone e alti il doppio.
Le, ormai, vecchie navi lunghe punteggiavano tutta la sacra costa, ma non si vedevano bottini di guerra, come dromoni o cocche stagliarsi nelle acque profonde. Da troppo tempo quegli uomini subivano solo sconfitte.
Tra tutti i vascelli, spiccava la Canto del Mare di lord Harlaw di Dieci Torri, lo stemma con la comune falce era inquadrata insieme al pavone. Lo stemma della famiglia di Enya. In quelle settimane tra loro era successo tutto e niente. Quanto potevano si appartavano per amarsi, rimanevano stretti in lunghi abbracci fino alle nuove albe, altre volte Enya non riusciva a sostenere gli occhi di Yohan e se ne andava rammaricata, triste per i ricordi che le riaffioravano. Ma il più delle volte Enya si trovava a dover passere il suo tempo con il compagno Balaq. Non gli aveva detto nulla e ancora non sembrava volerlo lasciare.
Yohan, in piedi sul ponte dell’Abisso, guardava la Canto del Mare. La ricordava come la nave di Rodrik Harlaw il Lettore, ma ormai, quella nave innalzava un altro stemma. Si rivolse ad Enya che nel frattempo lo aveva raggiunto.
“Chi della tua famiglia seguirà la tua scelta?” chiese pur conoscendo già la risposta.
“I miei parenti di Giardino Grigio, ma gli altri appoggeranno tutti il lord di Dieci Torri, Harras, mio fratello”.
“Come ha fatto ad ereditare Dieci Torri? Ho sentito che l’ha ereditata grazie ad Euron, ma durante la ribellione era contro di lui”.
“Mio fratello, “il Cavaliere”, è famoso per la sua coerenza e fedeltà, non ricordi?” disse con leggero sarcasmo “Dopo l’acclamazione di Re fu un sostenitore di Euron, combatté valorosamente per lui nella Battaglia delle Isole Scudo e Euron lo premiò facendolo lord di Scudo Grigio. Dopo la morte di Hotho Harlaw il Gobbo, che nel frattempo aveva ereditato Dieci Torri, spodestando lo zio di Asha Greyjoy, Euron diede Dieci Torri a mio fratello, che non era stato capace di tenere le isole dell’Altopiano. Finita la lunga notte, cambiò fazione, e si piegò a baciare i piedi dell’altro fratello Greyjoy, fingendosi un devoto figliol prodigo. Ha sempre coltivato il sogno di sedere sul Trono del Mare. Adesso, con i Greyjoy tutti morti, vorrà dare inizio alla dinastia Harlaw per regnare sulle isole. Gli altri rami cadetti non baderanno al passato, non sono mai stati così potenti fino ad oggi. Coglieranno l’occasione di far sedere sul Trono del Mare un Harlaw, a prescindere della sua passata lealtà, o della sua devozione al dio degli Abissi. Inoltre, in tutto l’arcipelago, mio fratello è tra i pochi possessori di una spada di Valyria, Crepuscolo, ne farà gran mostra, vedrai”.
Non si sbagliava. Purtroppo non era una buona notizia, il clan degli Harlaw, secondo solo ai Greyjoy, ora non aveva più rivali.
Giunti sulla spiaggia furono accolti da degli Annegati che urlavano “Le onde parleranno, ascoltate le onde!”.
Ma le loro grida difficilmente venivano udite. Il vociare degli uomini ai bivacchi riempivano tutta la spiaggia. Si parlava di guerra, corone, razzie, gloria e libertà. Il fumo delle braci si diffondeva sempre più denso. I comandanti preparavano grandi mense da offrire ai sostenitori e portarli così dalla loro parte. Patti, alleanze, sotterfugi venivano stretti, ma pochi sarebbero stati fedeli. Birra e rum viaggiano scorrevano veloci come un fiume in piena. Gli uomini scommettevano ubriachi, cantavano vecchie canzoni di razzie come La coppa insanguinata e Pioggia d’Acciaio. Molti danzarono il ballo delle dita, molte dita saltavano in aria al suono di risate scroscianti.
Yohan si rivolse ad Enya “Cerca la tenda di Kein, raggiungila e aggiornala sugli Harlaw, io cercherò le informazioni sugli altri pretendenti”.

 

KEIN

Kaplan le aveva fatto preparare un padiglione con i colori dei Greyjoy, dotato di ogni comfort e sorvegliato da guardie armate di tutto punto. All’interno, un vero letto poggiato sopra tappeti, un braciere, perfino un grande catino che aveva fatto riempire di acqua bollente e profumi. Si spogliò e vi si immerse abbandonando la testa all’indietro. Chiuse gli occhi. Avrebbe voluto prepararsi un discorso per il giorno successivo, qualcosa in grado di arringare la folla, ma aveva la mente vuota. Tutto quel lusso la distraeva, le era estraneo. Presto sarebbe vissuta al castello, non nell’ala della servitù o in quella delle guardie, ma nella Fortezza Insanguinata. Pensò alle stanze reali, dove Euron si era spento e dovette reprimere un conato di vomito.
“Sei pallida, mia signora. Ti senti bene?” aprì gli occhi e incontrò quelli verde brillante di Enya Harlaw. Non si era accorta del suo arrivo.
“Lady Enya” la salutò, imbarazzata. L’istinto la portava ad inchinarsi, ma non poteva farlo senza uscire dall’acqua. La donna lo notò e le rivolse un sorriso gentile.
“Domani sarai regina. Non c’è bisogno che ti inchini a me” la rassicurò. “Hai del vino?”
“In quell’angolo” rispose Kein. Uscì dall’acqua e si avvolse in una veste leggera e morbida mentre la donna versava il liquido ambrato in due coppe. Si sedettero sul letto e bevvero in silenzio per qualche istante.
“Non devi mostrare alcuna debolezza, mia signora” le disse la donna. “Devi essere decisa, diretta e coincisa. Molti verranno prima di te: alcuni senza una chance, altri con un gran numero di seguaci. Devi catturare la loro attenzione, puntare dritta ai loro cuori”.
“Non sono mai stata al comando di nulla, sono sempre stata un semplice marinaio. Ho promesso a lord Kaplan che avrei ottenuto la corona, alla mia famiglia che li avrei protetti, a Shin che avremmo conquistato il mondo insieme” si sfogò “Ma se gli Uomini di Ferro non dovessero seguirmi?”
“Yohan ha scelto di seguirti” replicò Enya, posandole una mano sulla spalla. “E anch’io”. Aveva un volto bello, aristocratico, gentile. I capelli biondo cenere e gli occhi verdi, piccole cicatrici sulla pelle chiara. Stupidamente, Kein si ritrovò a pensare a sua madre, al fatto che non l’aveva mai incoraggiata come stava facendo ora quella sconosciuta.
“Gli devo molto. Mio fratello… Non avrei potuto perdere un altro fratello mia signora.”
“Ti capisco. So cosa significa. Il dolore ti scava dentro e la tua vita non ha più alcun significato”
Kein annuì, sorseggiando il vino. “Sai cosa vorrei davvero?” domandò. Le ombre, il calore del braciere, il liquido ambrato giù per la gola la presenza confortante di quella donna la stavano rilassando sciogliendole la lingua. “Una casa sulla spiaggia. Vivere con l’uomo che amo. Un pezzo di terra da coltivare. La mia famiglia al sicuro e la mia gente in pace. Sono una donna semplice, con desideri semplici. Non sono una regina.”
Enya le prese il mento e la obbligò ad alzare lo sguardo. “A volte chi non desidera il potere è proprio la persona più adatta ad esercitarlo” disse. “Sei una giovane donna, forte, coraggiosa, determinata. Ti ho vista offrirti in sacrificio, convincere Yohan ed Euron a deporre le armi. Hai affrontato Capelli Bagnati a testa alta, l’Annegamento senza lottare, con grande dignità. Le Isole di Ferro hanno avuto re spietati, conquistatori, ma mai una regina. Questa gente non ha bisogno soltanto di vane promesse, di stupri, di razzie, di conquiste. Hanno bisogno di qualcuno che sappia ricercare il benessere anche per l’ultimo dei marinai. E solo qualcuno che è stato tra gli ultimi marinai sa cosa significa. Kaplan pensa di poterti manipolare, ma tu puoi decidere che cosa fare della tua vita e come guidare il tuo popolo. Hai l’occasione di cambiare le cose, non soltanto per te e la tua famiglia, ma per tutti gli Ironborn. Non sprecarla”.
Le tolse la coppa di vino dalle mani e la baciò lievemente in fronte. “Ora riposa, domani sarà una giornata difficile. Ricorda ciò che ti hi detto: è tutto nelle tue mani”.
E la lasciò ad un sonno senza sogni.
 

YOHAN

Non gli ci volle molto a trovare il bivacco di un altro pretendente. I discorsi, che i lord e gli uomini ubriachi facevano attorno al fuoco, erano contrari a ogni altro tipo di pensiero, rasenti la blasfemia. A parlare era Symond Botley, terzo figlio del vecchio lord di Lordsport, prima di essere annegato da Euron per essersi opposto al Re. Lo zio aveva preso il posto del fratello annegato e giurato fedeltà ad Euron.
Dopo la morte del fratello Tristifer tempo addietro, e con la morte di Euron adesso, Symond da Lord si faceva vivo e con forza e decisione argomentava le sue idee ad un branco di ubriaconi. “Tu sarai il mio primo cavaliere” disse indicando un compagno non più sobrio, che si mise a ridere e a vomitare a quelle parole. Ma il lord continuò lo stesso “Nessun re può governare da solo. I draghi che siedono sul trono di spade hanno degli uomini che li aiutano. Poniamo fine a questa guerra con i lord dell’est. Prima che siano loro a porre fine a noi. Raggiungiamo un patto di pace!” pochi lo ascoltavano. Quelli non ancora sbronzi, si alzavano indignati e se ne andavano insultandolo.
Yohan non rimase molto attorno a quel fuoco. Quelle parole non avrebbero attecchito molto su un popolo di razziatori e stupratori. Eppure, paradossalmente fu uno dei discorsi più interessanti ed originali, gli altri erano più rivolti a nominarsi portatori della voce del dio degli Abissi o ad esaltare la gloria della propria famiglie con antiche e famose origini, come gli Ironmaker. Dopo la disfatta della precedente Acclamazione, i figli di Erik Ironmaker, castellano di Pyke, sembravano certi di poter riportare lustro alla loro famiglia e regnare sulle isole, forti dei vantaggi che Euron aveva concesso loro negli anni passati. Altri esaltavano un futuro di razzie e conquiste di terre verdi con strategie poco credibili, che giungevano al sogno di catturare un drago da opporre alla regina di Westeros. Questi tipi di discorsi erano i più diffusi e probabilmente molti avrebbero voluto proporsi, argomentando le loro idee di conquista, ma pochi, una volta che l’acclamazione sarebbe iniziata, si sarebbero fatti avanti. La corona di legno per quanto leggera fosse, diventava un macigno insopportabile una volta a portata di mano.
Verso sera, Yohan, tornò ubriaco al bivacco del suo equipaggio, dove Vik Scudo Osceno, il mastro d’ascia, intratteneva tutti con le sue storie ormai comiche ed erotiche. Si beveva, mangiava e rideva di gusto. E piano piano, uno dopo l’altro, tutti andavano nelle proprie tende. Enya e Balaq Rematore Nero si ritirarono insieme. Yohan cercò i suoi occhi, ma lei lo guardò appena.
Birra e rum gli avevano annebbiato la mente ormai da tempo. Non vedeva, né sentiva, più nulla con chiarezza. Impiegò minuti, che sembravano ore, per raggiungere la sua tenda a pochi metri. Quando entrò, ad una prima occhiata sembrò vuota. Cercò di respirare e trovare una calma che non aveva. Poi la vide. Bellissima e orgogliosamente nuda di fronte a lui, in piedi, contro il palo della tenda, e lo guardava con un sorriso malizioso e divertito.
Allungò una mano ad accarezzarle la guancia e lei gliela baciò delicatamente, sfiorandola appena con le labbra. Poi la sollevò con fra le braccia, improvvisamente, e con naturalezza e delicatezza la distese sul giaciglio. La sua mente e il suo corpo erano ormai catturati da lei. Le mani si cercavano, i piedi si stringevano, le labbra si amavano. In lontananza i canti e i suoni non diminuivano, ma all’interno della tenda Yohan ascoltava solo le parole di lei che come il dolce suono delle onde sulla riva inondavano il suo cuore. La vide trasfigurarsi a mano a mano che lui riusciva a suscitare il piacere dal suo corpo. La schiena si inarcava sensualmente e dal volto reclinato all’indietro di lei provenivano gemiti lussuriosi. Si amarono fino allo sfinimento.
§§§
Fu svegliato dai lunghi capelli di lei che gli ricoprivano il volto. Capelli color rosso ramato, baciati dal fuoco.
Uscì dalla tenda e constatò che non era ancora sorto il sole. Mentre camminava con la luce della luna e i fuochi degli ultimi bivacchi, sentì qualcuno urlare e ridere rumorosamente. I suoni provenivano da un gruppo ubriaco fradicio ancora intenti a far baldoria, quando ormai i più erano crollati dalla stanchezza. Inneggiavano al nome Farwynd, con scherno e irriverenza. “Vogliamo Gylbert Farwynd! Re delle Isole!” “Farwynd!” poi tra le risate del gruppo, un marinaio calvo e magro, si alzò e chiese silenzio, finse di imitare un vecchio e parlò “Vi guiderò tutti verso terre ignote e piene di ricchezza, vi offro doni degni di re e regine” gettò a terra le ossa della carne che aveva finito di mangiare, poi continuò “Tutti voi sarete re e regine con troni e corone d’oro e d’argento”, poi prese parola un altro pirata non più sobrio di quello “E dove si trovano queste terre?” “Ad ovest!” urlarono tutti in coro.
Yohan si avvicinò a passi cadenzati e applaudendo lentamente a quelle parole finché non calò il silenzio.
“Occhi pazzi” dissero i più sussurrando impauriti. Yohan si era avvicinato sorridendo, ma i lunghi capelli bui come il mare di mezzanotte, sciolti sulle spalle, e la barba ancor più scura, rendevano il suo volto spaventoso e pazzo “Lord Farwynd per voi” Nessuno fiatò. Ormai tutti sapevano del suo ritorno dal mare dell’estate, l’Uomo di Ferro, che secondo solo a Occhio di Corvo, era tornato dalle terre di Asshai. Pazzo, folle e seguace di Euron prima e fedele servitore degli Abissi e strumento della ribellione di Capelli Bagnati poi. Comandava una nave maledetta dalla morte poco chiara del precedente capitano. Lo avevano visto giustiziare e annegare un giovane senza mostrare alcuna pietà, con un rito di annegamento che non lasciava speranza di sopravvivenza. Avevano ascoltato voci sul fatto che fosse lui l’artefice del rapimento della regina e della scomparsa di Capelli Bagnati. E nulla di tutto questo aiutava a mettere lord Farwynd in buona luce. Il silenzio che lo circondava aumentava l’incapacità di tutti a capire da che parte stava quell’uomo.
“Belli i vostri stemmi” li squadrò tutti, come se stesse prendendo nota dei loro volti e del nome delle loro famiglie “Ciò che è morto non può più morire, ma risorgerà più forte e vigoroso. Preghiamo insieme” nessuno aprì bocca “Nessuno?” si guardò intorno “Bene inizio io. Signore iddio che per noi sei annegato, proteggi oggi questi uomini. Hanno lasciato le loro dimore e i loro tuguri, i loro castelli e le loro fortezze, e dal più piccolo villaggio di pescatori e dalla valle più nascosta, sono giunti qui. Dona a loro la saggezza di riconoscere il vero re e concedi loro la forza per respingere il falso re. Annega i tuoi nemici e conducili al tuo palazzo negli abissi. Falli rematori della tua nave e conducili verso le terre inesplorate dell’ovest” poi li riguardò tutti, ma nessuno accennava ad una risposta, l’ubriachezza anziché renderli spavaldi, li rese solo più atterriti.
Al mattino, degli uomini che erano a quel bivacco, nessuno seppe più nulla. Solo molto tempo dopo l’acclamazione, tre corpi irriconoscibili furono trovati annegati e ancora fluttuanti alla deriva. Il dio degli abissi li aveva reclamati a sé.
 

 

ACCLAMAZIONE DI RE

Sulla spiaggia Yohan, con uno sguardo tetro nato dalla notte insonne, guardava il mare che iniziò ad agitarsi “Il dio abissale si sta svegliando” disse a uno dei sacerdoti che sonnecchiava li accanto, Norjen Harlaw Onda Impetuosa, il prediletto di Capelli Bagnati, che a differenza del mentore era sfuggito alla vendetta di Euron. Quello si svegliò e andò a chiamare l’adunata. Annegati e preti iniziarono a percuotere tra loro le loro mazze di legno, altri si aggiunsero sbattendo gli oggetti che avevano a portata di mano. Un fragore si levò su tutta la spiaggia. Tamburi e corni da guerra risuonarono spaventosamente in mezzo a tutti i bivacchi. Gli Uomini di Ferro si diressero verso la Sala del Re Grigio e le sue 44 costole mostruose.
Yohan vide arrivare tutti i comandanti e re, rematori e timonieri, guerrieri e pescatori, mogli e schiavi. E li vide salire il terreno, dapprima lieve, poi sempre più ripido della collina. I nobili salivano fino alle pendici, la gente comune rimanevano alla base dell’altura.
Poi, una volta che tutti furono pronti, Onda Impetuosa diede inizio all’Acclamazione.
“Siamo nati dal mare e al mare dobbiamo fare tutti ritorno” disse incerto. Yohan lo aveva sentito più volte predicare, e sapeva che non era un pessimo oratore, ma Norjen continuò impaurito “Il dio ha reclamato a Euron, il re miscredente”. Un coraggio impulsivo gli fece dire quelle parole, che furono accolte dal silenzio più totale. Il timore di Euron era ancora forte in tutti degli uomini di Ferro li riuniti, e molti, degli antichi alfieri fedeli del re, si irritarono.
“Il Re del Ferro è morto!” urlò qualcuno. Poi tutti risposero gridando “Un Re risorgerà!”
“Sì, un re risorgerà. Ma chi? Chi siederà al posto di…” ancora una volta Norjen ebbe paura di pronunciare il nome di Occhio di Corvo “Chi governerà queste sacre isole? È qui tra noi? Chi sarà il re che ci governerà?”.
I lord cominciarono a guardarsi tra loro e a bisbigliare. Nessuno voleva proporsi per primo perché nessuno poi avrebbe acclamato il suo nome.
In mezzo a quell’incertezza, Yohan vide il volto di Kaplan, calmo e rilassato, sicuro di sé. Per nulla preoccupato, era il vero artefice di quello spettacolo, e da regista assaporava l’inizio della sua opera. “Doveva aver pensato a tutto, le urla di acclamazione avrebbero gridato un solo nome, un solo re, una sola regina” pensò Yohan.
Poi intervenne una voce “Io”, si aprì un varco tra la folla, e comparve un sacerdote del dio Abissale e comandante di nave. Era alto, con lunghi capelli bianchi e una barba lunga fino alla vita, bianca anch’essa. L’abito talare grigioverde nascondeva la sua enorme massa di muscoli. Non aveva campioni con sé che portassero stemmi o doni per i capitani.
“Sono Rus il Prete Grigio” urlò con voce cupa.
Cominciò a parlare di religione, dio Abissale contro dio della Tempesta, l’Antica Via e la gloria degli Annegati. Elencò tutte le grandi opere del mitico Re Grigio e le misure immense del Drago Nagga “Acclamatemi! E il dio Abissale parlerà attraverso di me e vi porterà gloria e fama”.
Era sta una predica sacerdotale che aveva creato riverenza e rispetto tra la platea. Nessuno parlava per acclamarlo e nessuno si lamentava dei doni che non aveva portato per comprare la corona di legno.
I suoi occhi bui scorrevano le facce intimorite degli astanti. Poi dal fondo della collina qualcuno parlò “Ciò che è morto non muoia mai”. Tutti poterono quindi rispondere alle parole del prete “Ciò che è morto non muoia mai, ma risorga più forte e più duro”.
Non fu mai pronunciato il nome di quel pretendente.
Norjen si fece di nuovo avanti “ve lo chiedo di nuovo. Chi sarà il Re che ci governerà?”
“Io” tuonò una voce profonda. Un gigante tutto muscoli si fece avanti a petto nudo, i suoi tre campioni lo seguivano, tutti con gli stessi lineamenti, “cugini o fratelli” pensò Yohan. I tre portavano una mazza mostruosa, con il manico ricoperto di pelle usurata e la testa costituita da un mattone d’acciaio grande quanto una pagnotta, un altro lo stendardo della famiglia Ironmaker, e l’ultimo trascinava un’enorme cassa.
Non aveva bisogno di presentazioni ma disse lo stesso il suo nome: “Sono Thormor Ironmaker. Sono nipote di Erik il Temibile Fabbro, Il Giusto e il Distruttore. Mio nonno mi ha consegnato di persona la sua mostruosa mazza” a quelle parole il cugino o fratello alzò, così che tutti potessero vederla, l’arma “con questa mio nonno ha navigato con Dagon Greyjoy, schiacciato teste, combattuto battaglie e governato da castellano la fortezza di Pyke. Sì Pyke, la sede della Piovra! Perché è a lui che si è rivolto quando andava via per mare, quando ha portato la sua flotta ad Approdo del Re è in lui che ha posto la più grande fiducia. Poi questa mazza è passata nelle mie mani, e con me ha conquistato le Isole Scudo e distrutto la flotta di Asha Greyjoy! Questa mazza nelle mie mani ha minacciato le Serpi di Dorne! E poi ancora la flotta della regina dei Draghi a Lannisport, quando il Nano Leone a scalato la roccia di Castel Granito. Sarei stato io il futuro  castellano di Pyke, se Euron fosse ancora vivo!”
I suoi sostenitori iniziarono a gridare il su nome, ma ancora nessuno degli altri capitani ne era rimasto colpito. Così Thormor continuò “Se volete ascoltare discorsi suadenti andate da qualcun altro. Sapete chi sono. Conoscete la mia forza. Avete visto la mia determinazione. Io vi guiderò alla conquista della Costa Pietrosa. Nessun Cipollaro fermerà la mia mazza!”
Poi il terzo cugino o fratello aprì il forziere, e altri fratelli o cugini ancora aprirono altre casse. Un fiume di argento, bronzo e acciaio si riversò sul pubblico. Bracciali, collari, daghe e asce occupavano il terreno davanti al Re, perché con quei doni, le acclamazioni si fecero maggiori “Thormor Re!”
Alcuni capitani presero i doni che rotolavano giù e si unirono a quel coro. Sembrava non cessare più, poi, sempre dal fondo, più voci presero forza. E altre grida si unirono rivolte a Thormor “Dov’è tua nonna? Vogliamo vedere tua nonna! Aaaah aaaaah” grida di uomini, che imitavano il suono di una foca, spuntarono in più punti e le urla di acclamazioni divennero cori di derisione.
Yohan era venuta a sapere solo più tardi che la presa in giro riguardava una foca: Euron aveva dato in sposa Asha Greyjoy a Erik Ironmaker, il nonno di Thormor. Ma Asha era fuggita, senza fare più ritorno, così Euron durante il matrimonio aveva fatto usare una foca al posto della nipote. E quella vicenda era ancora oggetto di scherno per gli Ironmaker. Euron aveva dato loro la gloria, ma li aveva resi altresì innocui.
Il nome di Thormor ormai era scemato. Riprese la parola nuovamente il sacerdote del Dio Abissale:
“Chi governerà gli uomini di ferro? Chi sarà il nostro re?”
Il successivo fu Symond Botley, preceduto dallo stemma rappresentante un seminato di pesci argento su un campo verde, i suoi campioni erano i fratelli minori ancora in vita. Harlon, Vikon e Bennarion. Il fratello maggiore era morto nell’assedio di Moat Cailin, quando ancora Balon era Re, il padre annegato perché si era opposto ad Euron e infine l’altro suo fratello maggiore, Tristifer, morto al seguito della sua amata Asha Greyjoy.
Cominciò male e continuò peggio. Ricordò a tutti le innumerevoli sconfitte subite negli ultimi anni, prima e durante il regno di Euron. Descrisse la dinastia dei Draghi considerandoli invincibili. Infine, ricordò a tutti come la speranza di sconfiggere Davos Seaworth fosse inesistente.
“Chiediamo la Pace. Il trono di spade ce ne sarà riconoscente e ci cederà terre da coltivare nel continente. I nostri sogni di gloria sono vecchi e logori. Cambiamo la nostra tradizione! Basta stupri, basta saccheggi, basta distruzione che inevitabilmente porta noi alla morte, non loro. Diventiamo mercanti, usiamo le navi per commerciare. Coltiviamo le terre di Westeros e domineremo il mare con la pace!”
Belle parole forse, ma non per gli uomini di ferro. I sostenitori di Symond non riuscirono a gridare il suo nome, né a mostrare i loro miseri doni. Il risentimento, l’odio e la voglia di vendetta era troppo radicato nel sangue di tutti gli uomini di ferro, che iniziarono a colpirlo con sassi e ad insultarlo per quelle blasfemie. Ci fu quasi un inizio di rissa, ma i sacerdoti riuscirono a placare gli animi.
Norjen, un volta tornata la calma, richiese chi volesse essere re e comparve, acclamato da tutto il clan Harlaw, una figura imponente, accompagnato da tre grandi e grossi campioni, due dei quali portavano due lunghe e splendenti spade di Valyria. Una era Crepuscolo, la spada di Harras il Cavaliere che si presentava come pretendente, l’altra era Pioggia Rossa. Il possessore era Denys Drumm, figlio di Dunstan Drumm che si era proposto come re all’ultima acclamazione. Durante il regno di Euron aveva perso potere fino a vedersi privato del suo braccio Andrik il Triste, l’uomo più forte delle Isole di Ferro. Pioggia Rossa era passata al primogenito e Denys e la famiglia Drumm iniziò ad avere sempre più contatti con il clan Harlaw più che rimanere fedele alla Piovra. Ora Pioggia Rossa, che dal nome si pensava essere stata la spada ancestrale della Casa Reyne, era la campionessa della sorella Crepuscolo. Il possessore di quest’ultima, “il Cavaliere”, era più che deciso a prendersi la corona di legno.
“Il mio nome è Harras Harlaw” le falci e i pavoni del suo stemma venivano scossi dal vento, e la spada di Valyria brillava accanto a lui. Sembrava di vedere un cavaliere delle Terre Verdi, se non fosse stato circondato dagli uomini di ferro del clan degli Harlaw.
“Le piovre hanno fatto il loro tempo. La loro dinastia è finita. Harlaw è l’isola con il clan più forte. Harlaw è l’isola con le navi più lunghe. Harlaw è l’unica ad avere la capacità di guidare tutti voi uomini di ferro” pensieri molto eccentrici, ma veritieri “Dove ci hanno condotto le piovre? Quanta gloria e ricchezze ci hanno portato?” domante retoriche a cui nessuno rispose, tutti lo ascoltavano interessati “tutti voi siete testimoni di ciò che ho fatto. Durante la Battaglia delle Isole Scudo, io da solo, ho sfidato e sconfitto l’intero castello di Grimmstone. Ho sfidato da solo sette uomini e uccisi cinque. I Grimm si sono arresi a me, non alla piovra. Io da solo ho conquistato un’intera isola! Con voi conquisterò tutto! Seguitemi e vi guiderò a saccheggiare tutta la costa. Le falci degli Harlaw porteranno la morte a chi si porrà di fronte a noi!”.
Tutto il clan Harlaw, tranne i pochi parenti stretti di Enya di Giardino Grigio, acclamarono il suo nome “Harras re! Harras re!”
“Il nostro sangue ha più volte regnato sulle isole del tramonto e saccheggiato la città più ricca, Vecchia Città. Io vi riporterò li ed oltre, io riporterò l’Antica via a dominare i mari e le tempeste!” piano piano altri capitani iniziarono ad acclamare il suo nome.
“Una nuova dinastia nascerà dal mare e sconfiggerà i nostri nemici! Harlaw! Perché Harlaw è l’isola più ricca” a quelle parole i suoi campioni e compagni aprirono numerosi ed enormi casse. A cascata fuoriuscivano argento, oro e gemme. I comandanti lottarono per prendere i pezzi migliori.
Sembrava fatta. L’acclamazione aveva incoronato un nuovo Re.
Sarebbe stato difficile zittire quelle grida, nessun altro candidato avrebbe potuto provare a pensare a farsi largo tra quella folla. Eppure Kaplan era tranquillo.
Con il passare dei secondi iniziarono a serpeggiare sussurri malevoli. “Ingrato”, “Traditore”, “Occhio di Corvo avrà la sua vendetta”, “Il Kraken è vivo”.
Molti si impaurirono, i capitani che avevano raccolto i doni di Harras li abbandonarono. Gli uomini di ferro si guardavano tra loro, ma nessuno capiva da dove nascevano quelle voci. Urla, grida e incitazioni scemarono fino al silenzio più totale, rotto, infine, dall’Annegato che domandò, ancora una volta: “Chi reclama il trono del mare?”
“Io” disse una voce femminile, bassa e roca “Kein Greyjoy”. Il nome della casata fu scandito con orgoglio, quasi con arroganza. La donna avanzò, fendendo la moltitudine di uomini accalcati sulla collina, seguita dai suoi tre campioni. La voce della naturalizzazione della giovane era girata come un lampo dopo la morte del re: nonostante ciò la folla fu percorsa da mormorii e sussurri.
“Il sangue del kraken scorre nelle mie vene” esordì, il suo sguardo dorato, risaltato dal pesante trucco oscuro, scivolava sugli astanti. Per l’occasione, aveva abbandonato la tela e il cuoio a cui era abituata: indossava un elegante farsetto, nero come la notte, sul quale era ricamato in oro il simbolo della nobile casa Greyjoy. Tra i capelli, fili d’oro erano stati sapientemente intrecciati e brillavano al sole. Brache e stivali, aderenti e corvini, ne slanciavano la figura alta e asciutta. Aveva i colori della piovra impressi sulla pelle e questo, unito alla sua bellezza e all’incredibile somiglianza col padre, contribuiva a mantenere la folla pendente dalle sue labbra. “Il kraken è vivo e le sue spire sono pronte a stritolare ogni nemico. Il dio Abissale ha richiamato mio padre a sé, ma mi ha restituito alla terra perché compissi le sue promesse.” Si interruppe e si volse a destra e a mancina, abbracciando con lo sguardo ogni uomo. “Ho prestato servizio sulla Fanciulla Nera di Orla della Baia, sulla Tramonto del capitano Stonehouse, sulla Tritone di Alon Wynch. Ho razziato le coste delle terre dei fiumi, Isola Bella, i territori bagnati dal mare del Tramonto. Ho visto i miei compagni morire, il sangue del mio sangue trafitto dalle frecce degli uomini del Lord delle Cipolle. Ho udito i vostri mormorii, le vostre recriminazioni, conosco i vostri desideri e i vostri cuori. Sono una di voi.”
A quelle parole, molti assentirono. Non erano poi così tante le donne imbarcate sulla flotta di ferro, e ancora meno quelle con una nomea per le abilità in combattimento e per il loro passato. Era conosciuta. Alcuni dei presenti l’avevano vista far fuori lord Farwynd e a nessuno era sfuggito che, nonostante ciò, un Farwynd figurava tra i suoi campioni. Lo stesso stupore di quella scelta, proveniva anche alla vista del secondo campione, Enya Harlaw di Giardino Grigio, sorella del pretendente Harras. Ciò voleva dire che il clan Harlaw non era poi così unito come si pensava. Infine, per terzo, uno dei tre gemelli Buonfratello, difficile capire quale fosse, rappresentante del clan Buonfratello, il terzo clan, per influenza, di tutto l’arcipelago, e la casata più importante di tutta Grande Wyk.
“Alcuni pretendenti vi hanno parlato di pace, altri di espansione e di gloria. Alcuni si sono presentati a mani vuote, altri con ricchi doni” Allargò le braccia, i palmi rivolti verso il suo pubblico, muovendo il busto per farsi vedere da tutti. “Io non possiedo ricchezze, se non quelle ereditate da mio padre, e non ve le posso offrire perché non sono state conquistate con il ferro. Nulla ha valore, nulla possediamo davvero se non ce lo siamo guadagnato con il sangue e la spada. Ma posso offrirvi sia gloria, sia pace. In quest’ordine, poiché non c’è pace senza guerra. Non credete a chi vi promette di conquistare le Terre Verdi: siamo decimati, quasi annientati. Non ce la faremmo. Non credete a chi vi dice che si può raggiungere un accordo con i draghi: non ci piegheremo davanti a chi non ci rispetta e non ci teme.”
La folla rumoreggiò. In molti iniziarono a battere spade e asce contro gli scudi. Lei i lasciò fare, poi alzò una mano e tornò il silenzio.
“Quello che vi offro, è un’alleanza” ruggì “Un’alleanza con una delle più antiche e potenti Casate del Continente e un’alleanza con l’antico sangue di Valyria. Presto al nostro fianco ci sarà un gran numero guerrieri venuti da oltre il Mare Stretto, compagni con i quali marciare sulle Terre Verdi. Il leone di Lannister, la tigre di Volantis e la piovra di Pyke si uniranno. Le spire del kraken afferreranno il drago, il leone e la tigre affonderanno le loro zanne e insieme ne strapperemo le ali! Vendicheremo i nostri compagni, stermineremo i nostri nemici, ci prenderemo le loro case e le loro terre, non in una semplice razzia, ma per una conquista duratura e definitiva!”
Si portò la destra dietro la schiena, dove portava la sua vecchia spada bastarda la cui elsa a forma di testa di falco era stata sostituita da una piovra che allungava i suoi tentacoli verso la lama. La estrasse dal fodero e la levò alta sopra la testa.
“Ironborn!” gridò, in un ringhio ferino.
“Ironborn!” proruppe la folla. E poi il suo nome “Kein! Kein Greyjoy Regina!” “Kein, Kein, Kein!”
Il coro di voci divenne boato e lei unì la sua voce a quella del suo popolo in un grido di guerra tanto potente che parve far tremare la terra.
   
 
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