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Autore: _Darkqueen_    19/01/2018    0 recensioni
Nausicaa è sempre stata una ragazza con i piedi per terra e con un grande senso del dovere e del pudore. Quando si ritroverà in una casetta di montagna dove il suo rapinatore la tiene in ostaggio, tutte le sue difese crolleranno lascandola debole e vulnerabile.
E sarà proprio questo suo essere a portarla sul filo del rasoio, tra la realtà e l'immaginazione, tra l'odio e l'amore.
E' presente la patologia Sindrome di Stoccolma.
Genere: Avventura, Erotico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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Un dolore lancinante alla testa mi fa risvegliare dal mio stato confusionale. Non mi è ancora ben chiaro quel che è successo. Una rapina? Tutto quel lusso… Un attentato? No, sono ancora viva, il che non so sia un bene. Provo a guardarmi intorno, ma ogni mio tentativo fallisce a causa del buio pesto che riempie la stanza. Né una finestra, né uno spiraglio di luce; a malapena distinguo la sedia a pochi centimetri da me. Inoltre ogni movimento mi causa dolore alla base del collo che deve essere rimasto abbassato per tutta la durata del mio svenimento. Alzo la mano per massaggiarmelo, ma scopro ben presto che è legata al manico della sedia, così come le caviglie. Fantastico, non poteva andarmi meglio!
I vestiti sono ancora al loro posto, almeno hanno avuto la decenza di non approfittarsi di me quando ero inconscia. Non so se esserne sollevata o spaventata di quello che mi potranno fare una volta che si accorgeranno che sono sveglia. Ma per il momento sono sola e non sento rumori provenire dall’esterno, quindi non mi ci preoccupo più di tanto.
Alle elementari facevamo un gioco nel quale ognuno si immaginava da grande. Chi il pilota, chi l’astronauta, chi con i figli, chi sposato. Quando arrivava il mio turno facevo scena muta. Capitava che i miei compagni mi incoraggiassero a parlare, fin quando, scocciati, passavano al prossimo bambino. Semplicemente tutto ciò che vedevo del mio futuro era un enorme vuoto e ne avevo cosi paura che solo parlarne mi metteva i brividi. Ho imparato quindi ad affrontare le situazioni passo passo, senza affrettare niente, lasciandomi semplicemente trasportare dal corso degli eventi.
Il cigolio di una porta mi fa risalire. Alle mie spalle un fascio di luce illumina la stanza, accecandomi gli occhi per un istante. Il rumore dei passi va di pari passo con l’allungamento dell’ombra posta sul muro di fronte a me. Improvvisamente divento immobile e trattengo il respiro, ripetendomi che così non potrà vedermi.  Ovviamente inutilmente.
L’ombra si ferma, i passi cessano ed una presenza si abbassa alle mie spalle per sussurrarmi all’orecchio “Signorina questo posto è occupato da qualcuno?” La mia mente mi riporta a quelle che saranno state poche ore prima e subito l’immagine del cameriere mi si ripresenta nella testa. Apro ancora di più, se mi è possibile, gli occhi ricordandomi la cattiva impressione che mi fece.
Senza darmi il tempo di elaborare una possibile risposta, si siede sulla sedia accanto alla mia e mi osserva. I suoi occhi puntati addosso, non solo sul viso, ma anche sul restante corpo, mi incutono fastidio ma anche terrore. Lui deve essersene accorto poiché ghigna soddisfatto ed alza una mano per accarezzare la parte delle gambe lasciate scoperte dal vestito.
Le sue dita risalgono e riscendono un paio di volte, fino a fermarsi e impiantarmi le sue unghie dentro la pelle. I miei occhi si inumidiscono all’istante e la paura si imprime dentro di me facendomi urlare e invocare aiuto con tutta la voce possibile. Cerco di liberarmi dimenandomi sulla sedia, cosa che non fa che aumentare il rossore sulle braccia e le caviglie.
Improvvisamente un suono sordo riempie la stanza e le mie urla cessano. Ci metto qualche secondo per realizzare che mi ha dato uno schiaffo, ed anche bello forte. “Zitta! È inutile che urli, non c’è anima viva prima dei cinquanta chilometri da qui.” Mi dice con estrema freddezza e leggermente arrabbiato. La sua mano lascia la mia gamba dove sono presenti evidenti segni rossi. Di questo passo diventerò un pelle rossa.
Lo guardo arrabbiata con ancora le lacrime che rigano la mia guancia; le parole sembrano boccate nella parte più bassa della gola, come se ci fosse qualcosa ad ostruirle. Lui mantiene il mio sguardo per qualche secondo, nel quale la freddezza e l’irrilevanza sono dominanti.
Il suono di un telefono lo distrae facendolo uscire cosi come è entrato. Fortunatamente per me si dimentica di chiudere la porta, cosi che il buio non ritorna a farmi visita. Faccio il punto della situazione. Sono rinchiusa in una stanza, probabilmente uno scantinato data la mancanza di finestre, il mio rapinatore è il cameriere che mi ha servito, non so se credere a quello che ha detto, anche se mi sembrava abbastanza tranquillo e non sento macchine all’esterno e per ultimo non per importanza, o forse sì, sono completamente legata ad una sedia. Devo pensare ed in fretta.
Difficilmente riesco a girarmi e dare le spalle al muro: lo scantinato è completamente vuoto fatta eccezione per le due sedie e nessun oggetto appuntito capace di liberarmi rientra nel mio campo visivo. Sono in trappola. Vado nel panico ed inizio a non capirci più niente. Corde. Schiaffi. Graffi. Legata. Spaventata. Sola. Tutto si sovrappone e l’ossigeno inizia a diminuire.
Un milione di anni fa, o forse due, c’era chi guardava il tempo e le stelle… Tutto il caos presente nella mia testa lasciò spazio alla canzoncina della buonanotte di mia madre che mi cantò all’età di otto anni quando il mio pesciolino morì. Ero andata, come ogni mattina, a dargli da mangiare. Me ne prendevo sempre cura, era il mio bambino, ne ero affezionata. Quel giorno il suo cibo non tocco l’acqua, ma bensì il pavimento sul quale l’avevo fatto cadere quando l’avevo visto a galla con gli occhi chiusi. Non una sola lacrima usci dai miei occhi. Il respiro pero iniziava a diventare sempre più affannato. Mi trovò così mia madre, in piedi davanti la boccia quasi senza fiato. Cercò di calmarmi con l’unico modo che conosceva, che risultò essere il più efficace. Quella fu solo la prima di una serie di sofferenze.
La canticchio nella mia testa prendendo grosse boccate d’aria fino a che, mano a mano, non mi calmo definitivamente. Devo riuscirmi a liberarmi, in un modo o nell’altro. Un’idea mi balena nella testa e non so se prenderla in considerazione viste già le mie condizioni fisiche. Al diavolo!
Mi alzo portando la sedia con me. Prendo la rincorsa. Uno. Due. Tre. Sbatto violentemente contro il muro. Niente. La sedia è ancora intatta. Ci riprovo. Uno. Due. Tre. “Aaah!” Si spezza una parte della gamba della sedia. Un’ultima volta. Uno. Due. Tre. Con forza. Crash!
La sedia si rompe e le corde scivolano slegandomi gli arti. Un dolore alla schiena accompagna tutta la mia camminata verso la porta. Non c’è traccia del rapinatore. Nessun rumore. Percorro il piccolo corridoio che porta alle scale. Avevo ragione, è un seminterrato. Le salgo, una ad una, fino ad arrivare in cima dove una porta mi blocca. È chiusa. “Merda!” Ci deve essere un modo per uscire da qui.
Le voci mi arrivano ovattate, ma mano mano prendono sempre più forma. Pensa in fretta! Pensa in fretta! Scendo dalle scale e prendo il corridoio opposto alla stanza dov’ero rinchiusa, appiattendomi al muro. La porta si apre con uno stridulo. Piccole parole indicano che sta per terminare la sua chiamata. Scende le scale. Mi passa affianco. Trattengo il respiro. Va dal lato opposto al mio.
Tutto succede velocemente poi. Faccio le scale di corsa e attraverso la porta nel momento in cui lo sento imprecare per la mia scomparsa. Corro per tutto il salone che separa la porta di casa e la apro. Sento altri passi oltre al mio e corro, corro, corro, ancora più veloce. Mi fermo solo quando non mi ritrovo nel bosco inoltrato che circonda circolarmente l’abitazione. Sono libera.
   
 
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