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Autore: cliffordsjuliet    23/01/2018    0 recensioni
Era così, la Periferia. Io non ero Kendra Saint, non ero la figlia di Missi e Jackson.
Non c’erano nomi, in periferia. Eravamo tutti numeri, volti un po’ scambiati, copie sbiadite di chi, prima di noi, in quel posto ci era marcito.
Io non facevo differenza.
**
Me ne sarei tornata a casa, con calma, senza correre. Sarei arrivata lì e a quel punto non ci sarebbe stato Luke ad aspettarmi.
Pensavo che mi sarei sentita sollevata, invece mi sentivo solamente miserabile.

**
Pensavo che avrei smesso di odiarlo, di disprezzarlo con tutta la forza che avevo in corpo.
Pensavo che mi sarei abituata a quell'affetto sordo e un po' cieco che lentamente si stava facendo spazio in me.
Non mi abituai mai. In fondo io ero Kendra e lui era Ashton, ed era questo che sapevamo fare.
L'odio era l'unica cosa che non potevano toglierci.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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III. Just starting to crawl


Luke aveva tenuto fede alla sua promessa, e un po’ avrei preferito che non l’avesse fatto.
Si sedeva accanto a me, in classe, mi abbracciava possessivo all’improvviso, quando gli veniva, e mi mischiava addosso ancora un po’ del suo profumo.
Sembrava tutto normale, poi si girava verso Ashton ed io capitombolavo di nuovo, trascinavo la mia sedia più lontana e per un po’ diventavo silenziosa. Luke non l’aveva capito, cos’era che avessi, ormai non ci provava neanche i più. Era abituato alle grida, alle parole cattive. Non li sapeva prendere i miei silenzi.
A volte fuori alla scuola c’era anche Michael. A volte ci fermavamo insieme a lui e Calum, e poi Ashton e Luke si comportavano come se niente fosse, come se fossimo tutti amici, un gruppo di vecchia data. Io non sapevo fingere così bene. Io Clifford e Irwin non li avevo mai accettati fino in fondo, non l’avrei fatto mai.
«Dovresti venire da me» biascicò una sera Luke, ubriaco marcio, stravaccato su uno dei divanetti del Paladar. «Non mi piace stare lì da solo, voglio dormire con te» sospirò e poi mi si buttò addosso, nella sua versione alticcia di un abbraccio. Me lo scrollai di dosso con veemenza, allontanandomi.
«Puzzi da far schifo, Luke»
«Quello non è l’alcool, Kendra. Quello è lo schifo che mi porto dentro...» e un attimo dopo si addormentò con la testa sul tavolino unto, che mi veniva nausea solo a guardarlo.
Mi alzai stizzosa, rovistai nelle tasche della sua giacca fino a trovare le chiavi della macchina.
«Aiutami a portarlo a casa» intimai a Calum.
Il moro non faceva mai domande, si limitava a sorridere – o ridere, come in quel caso, e sicuramente se non fossi stata rosa dalla tensione anch’io avrei riso del mio migliore amico – e a fare come gli veniva detto. Pensavo che fosse perché Calum in fondo non aveva pretese, gli bastava stare con noi.
Avrei dovuto capirlo che era semplicemente troppo buono, troppo per me, per noi, per il nero verso il quale ci stavamo tuffando.

 

Quella casa era buia, tremendamente buia anche con le luci accese, e puzzava di chiuso.
Trascinare Luke verso la stanza da letto era stata un’impresa, soprattutto perché neanch’io avevo idea di dove si trovasse e l’avevo dovuta cercare a lungo, in quell’intrico di stanze e stanzine.
Poi ne avevo trovata una con la porta socchiusa, e appena l’avevo spalancata avevo sentito il suo odore, forte, ed erano i suoi panni quelli piegati sulla scrivania, e la sua chitarra contro il muro, nella custodia. Luke era un casino fatto persona, e perciò intorno a sé voleva l’ordine. Non come me, che portavo confusione ovunque mettessi piede.
Tornai in soggiorno, dove Luke se ne stava abbandonato sul divanetto, e «Alzati, andiamo» lo richiamai asciutta «Sai che non ce la faccio a trascinarti, io»
Mi diede ascolto contro voglia. «Perché stai urlando? Smettila, smettila che mi fa male la testa»
Alzai gli occhi al cielo, trascinandolo per un braccio mentre camminava pesantemente dietro di me. «Non sto urlando, Luke, sei tu che sei ubriaco marcio»
«Tu urli sempre… non mi dirai che proprio adesso non lo stai facendo»
Mi venne da ridere.
Mi venne da ridere ma non lo feci, limitandomi a spingerlo sul letto ordinato, così come stava, vestito.
Feci per allontanarmi, ma sentii la sua mano artigliarmi il braccio. «Non te ne andare»
Quella era la casa di Ashton.
Sarei voluta scappare da quel posto, mi ricordava quello che stavo perdendo del mio migliore amico, ma non lo feci. Non lo feci e mi stesi accanto a lui, e per la prima volta dopo tanto tempo mi addormentai così: aggrovigliata a Luke, il suo corpo contro il mio, le nostre gambe incrociate e il suo odore che nuovamente diventava il mio.
Dopo tanto tempo, sapeva ancora di casa.

 


Che le cose si stessero mettendo male lo capii quella sera al canyon, il nostro ritrovo in campagna. Era nascosto dal mondo, uno spiazzo dove non cresceva natura e c’era solo polvere e strada, un posto dimenticato da Dio.
Il luogo perfetto per quelli come noi, dei rinnegati come noi.
Ero seduta tra Luke e Ashton e un po’ mi stavo abituando, a quelle presenze malate, anche se non le avrei accettate mai. Ero seduta tra loro e aspiravo la nicotina che esalavano dalle labbra screpolate, quella che non avrei voluto mai per me.
Si respirava aria cattiva, a stare con loro.
Luke non mi aveva dato scelta: decidendo per sé aveva automaticamente imposto anche a me quella situazione malsana, quel peso nei polmoni, e non potevo fare altro che accettare. Non stavo rendendo le cose facili a nessuno di loro, no, ma sicuramente neanche sarebbe cambiato molto.
Quando Michael arrivò aveva uno sguardo da pazzo che notai in fretta, forse prima di Ashton, sicuramente prima di Luke. Gli lanciai un’occhiata e «Chi è morto?» domandai ironicamente.
Michael posò su di me quel suo sguardo, facendomi rabbrividire. Io due occhi così malati non li avevo visti mai.
«Che hai detto?»
«Che ho detto? Che hai la faccia di uno fuori di testa, questo ho detto...»
Ashton si alzò in piedi, andò accanto a Michael. Cercarono di abbassare la voce mentre parlavano tra loro, e intanto Luke cercava di distrarmi, mi abbracciava, chiacchierava, ma io lo ignoravo. Volevo capire di più. Più di quanto loro volessero farmi sapere.
«Allora è così. Stanno arrivando...»
«Che Cristo ne so, me ne sono andato, ti pare?»
«No, non mi pare per un cazzo! La ragazzina loro non la devono vedere»
«Anche se fosse è troppo tardi, Ashton. Ci si è ficcata lei in mezzo a tutto questo, perché la proteggi?»
Istintivamente tremai. Chi era che non doveva vedere chi? Chi stava proteggendo, Ashton?
«Kendra, ti ho chiesto se lunedì vieni da Charlotte e Jesse con me...» Luke mi diede una scrollata, io mi girai di scatto nella sua direzione. Charlotte e Jesse erano i suoi nonni materni, abitavano dall’altra parte della città, le uniche persone umane della sua famiglia.
Mi piacevano, quei due. Mi facevano credere che esistesse qualcosa di bello, al mondo.
«Certo che ci vengo, Lu»
Lui annuì, sollevato. «E se Charlotte riprende con la storia del matrimonio...»
«Io dirò che ci stiamo pensando, lo so. Tanto lo avrà dimenticato poco dopo»
Fu in quel momento, con una bottiglia di birra pescata dallo zaino e un mezzo sorriso, la sensazione che quasi mi sarei potuta adattare di nuovo, forse sarei riuscita a far funzionare quel casino, che li vidi.
Mi girai e laddove prima c’era solo il vuoto e il cielo del colore dell’alba, ora c’erano nuove persone dalle facce scure, brutte, che non avevo mai visto.
C’era questo ragazzo, che forse brutto non era, con quei lineamenti duri e gli occhi neri come pozzi senza fondo, come quei capelli incasinati che non si capiva da che parte volessero andarsene. Forse brutto non era, ma la sua espressione sottile e crudele mi spaventava. E, come sempre quando avevo paura, sentii una rabbia immotivata montarmi dentro. Accanto a lui la ragazza era bassa, forse più di me. I capelli portati a caschetto sembravano quasi bianchi, lei riluceva di un pallido bagliore, sembrava di un altro mondo, e Cristo se era inquietante. Gli occhi neri pure lei, li fece vagare svogliata sul nostro gruppetto prima di sorridere.
Si avvicinò ad Ashton e, senza troppi preamboli, gli stampò un bacio sulle labbra piene.
«Allora, Ash, trascini nuove persone nel giro e non ce le presenti? Sarebbe bello, avere un’amica» indicò con la testa nella mia direzione e rise, ed io mi agghiacciai.
Sentii Luke spingersi impercettibilmente più avanti, proteggendomi, tenendomi un po’ nascosta.
«Non vedi, Mor? Il suo ragazzo lì vicino è geloso. Non ti conviene provarci, secondo me» il ragazzo accanto a lei ci rivolse un occhiolino, poi salutò Michael ed Ashton. «Potevate invitarci, però. Morrigan la tengo a bada io, così non dà fastidio alla vostra amichetta»
Michael scrollò le spalle «Ora siete qui, no?»
Morrigan annuì. «Già, ora siamo qui… tu, come ti chiami?»
Anche senza guardarla in faccia seppi che si stava rivolgendo a me.
Non volevo parlarle, non volevo neanche muovermi, ero lì seduta e avrei solo voluto chiedere a Luke chi cazzo fossero quelle persone, e poi rinfacciargli la sua stupida preoccupazione, ricordargli che in quel casino mi ci aveva ficcata lui.
Mi alzai in piedi, andai verso di lei cercando di mostrarmi sicura. Non lo vedevo, ma ero sicura che il mio migliore mi avrebbe seguito, forse mosso dal senso di colpa per il verme che era stato, perché aveva esposto anche a me e adesso aveva paura. Adesso era colpa sua.
«Sono Kendra» risposi semplicemente, senza offrirle la mano.
Lei sorrise. «Kendra… mi piace»
«E quest’idiota qui non è il mio ragazzo»
Ashton mi affiancò, parandosi dall’altro lato rispetto a Luke. Mi sentivo piccola, a disagio in mezzo a loro due così dannatamente alti, e non mi piaceva. Mi sentivo in svantaggio ed era una cosa che detestavo, mi sembrava che così sarei stata più facile da controllare.
Volevo solo che mi lasciassero in pace, tornarmene a casa, dormire e magari dimenticare la sensazione di paura, l’idea che non avrei mai potuto avere un momento positivo.
Avrei voluto avere il tempo di coccolare il mostro di rabbia e risentimento che covavo dentro, e poi sputarlo in faccia a tutti, lasciare che distruggesse il mio mondo una volta di più.
«Strano. Ti proteggono tutti come fossi un pulcino, eppure da come parli direi che sono i nostri ragazzi, quelli che dovrebbero proteggersi da te» Morrigan inarcò un sopracciglio. «Capirai bene che delle mie cose sono un po’… gelosa»
Ashton alzò gli occhi al cielo. «Tu sei gelosa di tutto e tutti, Mor, piantala una buona volta che tanto sei qui solo per creare rogne»
«Ashton, Ashton… non te l’hanno mai insegnato, come si parla alle signore?»
Il ragazzo – Chester? - fece un movimento fulmineo, e in un attimo nella sua mano era piantato un coltellino che un attimo prima non c’era, ed era puntato contro la gola di Ashton. Di nuovo la paura e la furia si mischiarono in me, in una sensazione terribile, sgradevole, sentivo il mostro che iniziava a ruggire e non sapevo quando sarebbe venuto fuori, facendomi del male, facendo del male a chiunque. Istintivamente mi scagliai contro quel tizio, scrollandogli il braccio.
«Che cazzo ti viene?» gli sbraitavo contro e continuavo a scrollarlo, ci mettevo la mia rabbia, cercavo di smuoverlo. «Non so chi tu sia ma sei pazzo, Cristo, metti giù quella roba. Perché non fai niente?»
Mi girai d’istinto verso Michael che mi guardava con gli occhi spalancati, cercava di comunicare qualcosa, ma io non capii. Non me n’era mai fregato di capire sguardi e sottintesi, io volevo le parole, i fatti, l’apatia mi faceva schifo, in situazioni come quella.
«E aiutami, cazzo!» sbottai nuovamente, e mi girai anche verso di Luke, esortandolo.
Prima che potessero muovere un passo, però, Morrigan scoppiò nuovamente a ridere con quella sua risata acuta e insopportabile, gettando indietro la testa.
«Ne ha di palle, il pulcino» asserì, tra le risate «Non mi divertivo così da tempo. E tu, ‘Ter?»
Il ragazzo dagli occhi scuri sorrise, e abbassò il braccio che ancora stringevo.
Lo lasciai come avvelenata da quel contatto.
«No, neanch’io. Mai visto niente del genere. Magari ce ne andiamo, però. Non vogliamo che la ragazzina qui dia di matto. Però tu parlale, Ash, chissà… sarebbe un buon acquisto»
Fece un cenno alla ragazza e si voltò senza aggiungere altro, allontanandosi piano, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo. Come se non avesse appena puntato un coltello alla gola di un ragazzo.
«Mi spiegate che diamine è successo, eh?» sbraitai non appena se ne furono andati, girandomi verso i tre alle mie spalle. Odiavo quel silenzio, odiavo le loro facce apprensive, io semplicemente odiavo. Sentivo il sapore di fiele della cattiveria sulla lingua e l’avrei scaricata violentemente su tutti e tre, se avessi dovuto, ma quel silenzio io l’avrei spezzato.
Proprio quando stavo per scagliarmi contro di loro, però, venni immobilizzata da un paio di braccia che si strinsero intorno a me. Respirai un odore che mi era sconosciuto, e in quel momento mi resi conto che la persona che mi stava abbracciando, quasi aggrappandosi a me, non era Luke.
Era Ashton.
«Che cosa...» balbettai, incapace di muovermi, immobilizzata lì.
«Sei assurda, ragazzina» decretò lui.
Si scostò poco dopo, avvicinandosi alla propria auto nera, coi vetri oscurati, che adesso mi chiedevo a cosa servissero.
Forse in fondo non volevo saperlo.

 

 

Ashton era completamente pazzo, e pian piano iniziai ad accorgermene anch’io.
Aveva un modo di ridere brutto, roco e singhiozzante, che ti faceva accapponare la pelle.
A volte ti guardava, e aveva quella faccia da stronzo, l’aria di uno che non puoi fottere, che ne ha già viste e sentite troppe per la sua età. Ti guardava e non c’era niente nei suoi occhi, se non buio e sporco, lo schifo della nostra Periferia, il nero di un mostro come tanti, come quelli che ci portavamo appresso tutti noi.
Erano mesi difficili. Morrigan e Chester a volte ci raggiungevano, a volte se ne stavano per cazzi loro, ma anche quando stavano con noi era come se non ci fossero.
Alludevano a cose, fatti, persone di cui io non sapevo niente e questa cosa mi dilaniava da dentro, mi tormentava, era diventata il mio pallino fisso e forse Mor lo sapeva, per questo ne parlava così spesso. Chester invece era più silenzioso. A volte mi stava vicino e lo sentivo inspirare il mio odore, altre volte lo percepivo che mi guardava da lontano, assente, e rabbrividivo. In quei momenti mi allontanavo e mi distraevo con Luke, con il suo modo di parlare semplice e allegro, anche se un po’ macchiato del peso delle cose che faceva che, poi, non mi aveva ancora detto.
Avevo provato a tartassare Ashton e Michael. Loro si erano appropriati di pezzi della mia vita, ci si erano ficcati dentro con la forza, a testa bassa, come a voler sfondare il muro della mia diffidenza, e si erano costruiti un posto che io non gli avevo dato.
In cambio non avevo ottenuto mai niente.
«Di cos’è che parlano sempre Chester e Morrigan, Ashton? Cos’è la 332?»
«Niente, Kendra, niente»
«Sei proprio uno stronzo»
«E tu sei una scassapalle. Grazie per aver sottolineato l’ovvio»
Me ne andavo per giorni, quando faceva così. Tornavo a casa e scomparivo dalle loro giornate finché i miei lo permettevano, prima che mia madre venisse a cacciarmi dalla mia stanza a calci in culo, pur di mandarmi a scuola. Lei un’istruzione non l’aveva avuta, quindi voleva che me ne facessi una io. Io avevo avuto il desiderio di scappare, studiare, diventare qualcuno. Ci avevo creduto, un tempo. Adesso non riuscivo a vedere altro che i ragazzi e la Periferia e il canyon e le corse in motocicletta e le nostre sbronze colossali, e le giornate senza fine al liceo alle quali non facevamo neanche tanto caso.
Riuscivo a vedere solo il loro segreto, le cose che non mi dicevano, e mi facevo corrodere da esse, mi rodevano l’anima al punto che sentivo sarei diventata pazza.
Mai come Ashton, però. Lui la pazzia ce l’aveva nelle vene e sembrava che avrebbe potuto contagiarti con essa, a passarci troppo tempo insieme. Forse in fondo era ciò che sarebbe successo a me.
Tra me e Luke era sempre un dannato casino, ma ci stava bene così, finché ci appartenevamo ancora. Finché eravamo ancora un’anima sola smezzata in due corpi, e ancora riuscivamo a stare insieme. Finché ancora eravamo interi.
Non sapevamo quanto sarebbe durata, e quindi vivevamo la giornata, silenziosamente grati per ogni mattino che ancora passavamo insieme. Sapevamo che prima o poi anche quello stallo precario avrebbe trovato una fine.

  
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