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Autore: sakichan24    01/02/2018    1 recensioni
Una one-shot introspettiva su Mirton e il suo problema col gioco d'azzardo
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mirton
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
- Questa storia fa parte della serie 'Addictions.'
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Sono semisdraiato sul divano di pelle nera nella mia stanza da Superquattro.
Tutto è silenzioso, se si esclude il tichettio di un orologio appeso al muro e il mio respiro.
Sono tre notti che dormo poco e male ed ho un sonno terribile.
Ma quel nuovo casinò che è stato aperto ad Austropoli sta consumando ogni centimetro di me. È lì solo da pochi mesi e già non riesco a farne più a meno.
Ogni tanto mi chiedo perché. Perché vado lì, tutte le sere, dopo che la Lega Pokémon chiude i battenti? Perché sperpero tutto il mio denaro in quei giochi? Perché continuo a giocare, nonostante sappia di perdere e basta?
Perché non riesco a liberarmi da questo demone che mi rode l’anima?
Inizio a mordicchiarmi nervosamente le unghie, già piuttosto rovinate.
Dico sempre questa è l’ultima volta, domani non ci vado più. E la sera successiva penso questa è l’ultima giocata che faccio, l’ultima veramente.
È già un mese che tutte le sere sono le ultime sere.
Non dovrei fare così.
Ripenso alla mia vita prima di arrivare ad Unima: abitavo nella bellissima regione di Johto - che mi manca terribilmente.
La mia famiglia aveva un importante titolo nobiliare, ma poco altro. Non si riesce a mangiare con un pezzo di carta che dice che sei conte o barone.
Da piccolo ho anche patito la fame per diverso tempo, i miei vestiti erano sempre di seconda mano, smessi e rovinati, e in casa non avevamo più nulla che ricordasse la nobiltà: tutta l’argenteria, ogni pezzo di metallo che luccicasse era stato venduto per tentare di ripagare i debiti creati dai miei genitori. Persino alcuni antichissimi cimeli di famiglia, che avevano, oltre che un valore economico, un valore affettivo non indifferente.
Fin da piccolo ho sempre cercato di aiutare come potevo: a dieci anni ho iniziato a vendere bicchierini di acqua o limonata assieme a qualche amico, a tredici facevo piccoli lavoretti per gli anziani del paese dove vivevo - andavo a far la spesa per loro, li accompagnavo per le commissioni, cose così. E mi davano sempre un pochino di soldi, forse anche per pietà nei confronti della mia famiglia.
E poi a sedici anni scoprii il gioco.
Fu un mio vicino di casa più grande a portarmi per la prima volta nel casinò di Fiordoropoli. Ero già abbastanza alto e far credere che avessi diciotto anni era semplice.
Quel vicino mi disse quanto potevo vincere in quel luogo partendo da pochi spiccioli, disse che era facile, e che comunque provare non costava niente.
Quella volta non provai, ero troppo preoccupato di perdere quel poco che avevo messo da parte. Ma tornai in quel luogo con lui e mi lasciai spiegare come funzionavano i vari giochi, quali erano i trucchetti per vincere e mi feci insegnare a giocare a poker.
E infine provai.
Fu la mia rovina.
La mia primissima giocata fu ad una roulette: sotto consiglio del mio amico, feci qualche puntata.
Alla prima persi, ma mi feci convincere a riprovare.
E vinsi.
Quella sera non giocai più, tale era la paura di perdere e il desiderio di portare subito dei soldi alla mia famiglia. Ma si sa come vanno le cose: tornai in quel casinò e cominciai a frequentarlo assiduamente.
Eppure mi accorgevo che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto: ogni volta che cercavo di smettere di giocare, magari dopo una vincita anche irrisoria o una perdita abbastanza corposa, sentivo il desiderio impellente di ricominciare subito. Se cercavo di resistere, cominciavo ad avere  nausea e crampi allo stomaco e la sensazione che stessi voltando le spalle ad una vittoria decisiva si impossessava della mia mente.
E allora, per calmare quel turbinio di emozioni, riprendevo a giocare, e i soldi diminuivano sempre di più.
I miei lo scoprirono.
Forse non avevo neanche cercato di nasconderlo bene, forse avevo voluto farmi scoprire per chiedere aiuto, forse ero stato troppo ingenuo, non lo so.
Ma so che erano molto arrabbiati, e lo ero anch’io. Con me stesso. Mi odiavo per aver rovinato così il piccolo patrimonio della mia famiglia, per essermi messo in quella spirale che sembrava senza uscita, per essere stato una delusione e un peso.
Mio padre decise di farmi tagliare una volta per tutte con quel mondo: mi spedì qui ad Unima, nota per non avere nemmeno un casinò. Niente casinò, niente tentazione. Niente tentazione, niente perdite di denaro.
Finora ha funzionato.
Ho viaggiato, mi sono impegnato, ho trovato nelle lotte Pokémon una valvola di sfogo.
All’inizio non è stato semplice: i primi giorni in cui ero qui stavo molto male per non riuscire a giocare. Mi capitava di vomitare, di piangere, di avere crisi isteriche. Ho meditato la fuga spesso, qualche volta addirittura il suicidio.
Ma piano piano ho superato tutto questo e sono arrivato qui. Superquattro della Lega Pokémon di Unima. Mica male.
Ma ora è ricominciato tutto. Quando hanno aperto quel maledetto posto, ho sentito il bisogno di andarci. Mi son detto, è solo un’occhiata veloce.
E adesso sono punto e a capo.
Sono passati tanti anni da quando me ne sono andato da Johto, ma il vizio del gioco è ancora ben radicato in me. Ogni volta che vado mi sento eccitato, desideroso di scommettere con la fortuna e vedere quanto riesco a vincere. Finora ho solo perso.
Ho sempre paura che qualcuno mi riconosca, cerco di passare inosservato, ma non posso non andare. Quando torno indietro mi odio, continuo a ripetermi quanto sono debole e stupido, ma non posso non andare.
Tiro un respiro profondo e mi alzo in piedi, affacciandomi alla finestra.
Il sole sta tramontando. Tra poco la Lega Pokémon chiuderà e...
No.
No, mi ripeto. Stasera devo riuscirci, devo rimanere qui.
Ho bisogno di dormire, ultimamente sono nervoso e irritabile e parlo poco con tutti.
Sono anche un membro della Lega, non posso rovinarmi così! Non posso far vedere agli altri quello che sono veramente. Cosa penserebbero di me?
Mi siedo, tenendo la testa tra le mani.
Potrei chiedere a qualcuno di chiudermi qui dentro in modo da non poter uscire.
Ma forse il mio vizio per il gioco è così forte che non funzionerebbe.
Un fruscio mi riscuote dai miei pensieri.
Liepard è uscita dalla Poké Ball e si sta strusciando sulle mie gambe, facendo le fusa.
Ha capito che ho bisogno di compagnia.
La gratto dietro le orecchie facendo un sorrisino tirato.
- Fammi un piacere, piccola - le sussurro, - se cercherò di uscire da qui stasera, dammi quei graffi che solo tu riesci a dare. Chiaro?



Angolo autrice
Hi! Non sono sicurissima che videogioco sia il contesto adatto, ma comunque. Temo che il personaggio sia un po' OOC, ma tant'è. Spero vi piaccia!
   
 
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