Lost and Found.
“Because I wanna touch you baby
I wanna feel it, too
I wanna see the sunrise
On your sins, just me and you
Light it up, on the run
Let’s make love tonight
Make it up, try, fall in love, try.
But you’ll never be alone
I’ll be with you from dusk till dawn
I’ll be with you from dusk till dawn
Baby, I am right here.”
A
volte mi interrogo a
proposito di quel che ho perso. Sono attimi fugaci ma frequenti;
piccoli
sprazzi quasi quotidiani allinterno dei quali mi isolo e
navigo nel passato,
nel presente e pure nel futuro.
Se
penso al tempo trascorso
rimembro subito mio padre: l’ho perso un giorno di settembre
di tanti anni fa;
quasi un quarto di secolo, oramai. Eppure tuttora ricordo alla
perfezione il
suo volto e le profonde rughe che adesso vedo riflesse nello specchio
quando di sfuggita
mi rimiro in esso. Ci
assomigliamo tanto, io ed il mio papà.
Ho
perso tante battaglie, poi.
L’offensiva al villaggio di Barikju: venti civili rimasti
uccisi, tre soldati
caduti e dodici feriti dall’esplosione di
un’autobomba manovrata da un bambino.
L’attacco alla roccaforte talebana nella provincia di
Helmand: cinque
commilitoni morti, ma ho dimenticato il numero preciso di feriti. Era
quasi a
tre cifre, comunque. L’imboscata che i ribelli fecero al
nostro campo base
durante una nottata particolarmente fredda, infine: un morto ed un
ferito
grave; me medesimo, in realtà.
Quindi
ho quasi perso un
braccio; sicuramente una piccola parte della mia anima è
rimasta lì,
intrappolata in un groviglio denso di sangue raggrumato, polvere da
sparo e
sabbia. Conseguentemente a ciò ho perso il lavoro che mi
sentivo cucito
addosso; l’unico ruolo che oramai mi ritenevo in grado di
rivestire. Dopo tutte
quelle vite tolte non potevo tornare ad essere un semplice medico, mi
sono
sempre ripetuto. Lo credo ancora, onestamente.
Quindi
ho perso uno stipendio
fisso e regolare, la mia posizione sociale e pure la salute mentale. Ho
abbandonato con freddezza la maggior parte dei miei amici; ho perso
anche loro,
poi, perché così funzionano quasi tutti i
rapporti umani: niente si riceve
senza dare qualcosa in cambio.
Riflettendoci
su in maniera
metodica e seria, credo di non aver mai perso il portafoglio. In
compenso sono
stato capace di smarrire le chiavi della macchina di mia madre per ben
tre
volte; questa costante dei miei sabati sera universitari riesce tuttora
a
sortirmi un certo senso di nostalgica ilarità.
Ho
perso tante, veramente troppe
donne; neanche ricordo i loro nomi, né le loro facce. So
solo che le ho perdute
e che la maggior parte delle volte tali perdite sono avvenute solamente
per
colpa mia. Credo di non aver mai amato nessuna di loro, in fondo. Forse
in fin
dei conti devo aver perso anche il mio cuore, in qualche luogo ed in
qualche
tempo; ma non riesco a rimembrarmi il come ed il quando.
Magari
ho davvero perduto
troppe cose, durante tutta la mia esistenza, ecco. Quando ho perso pure
te,
Sherlock, è semplicemente stato troppo: insieme al tuo
corpo, giù da quel
tetto, ho visto planare anche il mio braccio martoriato. Alla tua
sinistra
c’era mio padre, mentre sul lato opposto tutti i miei
commilitoni caduti in
battaglia. Nel bel mezzo del tuo fisico maciullato sono riuscito a
vedere me
stesso ed una moltitudine di cose che oramai, grazie a te, mi
appartenevano.
Con
te ho perso il mio migliore
amico, in primis. La donna della mia vita; l’amore
della mia vita, anzi. C’era anche un figlio,
nascosto in quel macello di
sangue ed organi fuoriusciti. Puoi forse comprendere il sentimento di
un padre
che vede il proprio bambino morirgli davanti agli occhi? Non credo. Con
te ho
perso la mia stessa vita, già; proprio durante quel
maledetto momento.
Mi
chiedo cosa ho perso, spesso
e volentieri. Ma forse sarebbe meglio parlare di quel che tu mi hai
tragicamente tolto, e di quel che poi mi hai ridato. Affogando questi
miei tormenti
con l’ausilio di un the molto zuccherato, ti guardo mentre tu
mi osservi di
rimando.
So
cosa pensi, sai? Il
cervello, almeno quello, non l’ho mai smarrito.
***
Adesso
siamo distesi sul letto,
completamente nudi ed ancora sudaticci. Hai terminato i tuoi usuali
metodi di
manipolazione: chiedere educatamente, aggiungere un po’ di
sfacciataggine; il
ricatto emotivo, infine. Ma tutto ciò con me non funziona
più, dovresti
saperlo. Ecco quindi che ritorni alla vecchia e amata logica.
“Se
adibissimo la tua stanza a
laboratorio non occuperei più la cucina con i miei
esperimenti, John.” articoli
piano, strusciandomi leggermente la mano sul petto, in
prossimità della mia
cicatrice. Ti accoccoli a ridosso della spalla, poi; beh, una bella
dose di
ruffianaggine non può proprio mancare, alla fine
“Dubito
che la cucina potrà mai
tornare ad essere un luogo decoroso.” è la mia
istantanea e sincera risposta,
ma da almeno dieci minuti la mia bocca non emette alcun suono e per
tale motivo
la voce mi esce un po’ roca.
Tu
sbuffi in maniera tragica ed
in mezzo secondo ti giri, porgendomi la tua schiena in modo stizzito.
Ecco, è a
questo che mi riferisco, quando parlo di te come del figlio che non ho
mai
avuto; sei un bambino viziato, Sherlock. Un infante particolarmente
incline al
capriccio che soventemente sono costretto ad assecondare.
Ma
stavolta no, Holmes. Non
tramuterai mai la mia camera, seppur oramai inutilizzata, in un nuovo
laboratorio costituito da sostante pericolose e gas tossici di dubbia
provenienza.
Ti
abbraccio da dietro, quindi,
facendo scivolare il mio braccio nell’incavo presente tra la
tua ascella e
l’avambraccio: le tue costole sono sporgenti e quasi
m’impediscono il
passaggio, ma esercitando un po’ di forza sconfiggo la tua
naturale armatura
anatomica.
Sei
freddo. Quel tipo di freddo
glaciale che proprio non sopporto; non riesco mai a dominarlo: finisce
sempre
con te che mi raffreddi. Due ghiaccioli viventi insieme; possibile non
esser
riusciti ad installare una caldaia nuova in dieci anni di convivenza?
Ma in
fondo è una costante caratterizzante i bambini, quella di
non preoccuparsi mai
di niente: patisci tragicamente la temperatura bassa, ma non
t’importa affatto.
Non mangi per giorni, sicuramente il tuo stomaco brontola, ma tu lo
ignori
bellamente. Ti lavi i capelli e li lasci umidi per ore intere; infine
accusi un
inevitabile torcicollo, ma l’unico atto che ti concedi
è quello di venire a
piagnucolare da me.
Comunque,
al di là di tutto,
sei un essere coerente. Non so se questa sia un’altra
caratteristica dei
fanciulli; in fondo ho avuto a che fare solamente con te. Non ho altri
metodi
di comparazione; so solo che mi piace consolarti, in ogni caso.
Anche
adesso ti consolo. Ti
dico un inflessibile ‘no’, ma poi mi prendo cura
della tua cocente delusione.
“Non si può giocare sempre e con qualunque
cosa.”, mi verrebbe quasi da dirti,
mentre odoro la tua nuca umidiccia da distanza praticamente nulla. So
che ti
arrabbieresti, in risposta, e quindi non sillabo alcunché.
La
tattica migliore è il
silenzio. Coccolarti, idolatrarti con baci e carezze, lasciandoti
portare
avanti il tuo personale e capriccioso mutismo fin quando ne avrai
voglia; fin
quando non ti
sarà passata.
Allora,
a quel punto, un’altra
assurda idea si creerà all’interno del tuo
cervello. Magari la prossima volta
vorrai trasformare la mia camera in un obitorio artigianale; non la
puoi
proprio sopportare, quella stanza inutilizzata da anni. Oppure mi
chiederai di
riempirla con farfalle provenienti da ogni dove, così da
poter studiare le
varie specie e le differenze cromatiche osservabili dopo giorni interi
di
oscurità.
Io
ti dirò di no, ovviamente. E
tu mi pregherai, ti arrabbierai, mi minaccerai e poi mi volterai le
spalle. Io
mi avvicinerò ancora, stringendoti e perdonandoti,
consolandoti e coccolandoti.
Esattamente come si fa con i bambini, Sherlock.
Ma
tutto ciò, in fondo, tu non
puoi proprio saperlo.
***
“Mi
amerai ancora quando non
sarò più bello?”
Me
lo dici mentre mi sto
annodando la cravatta maldestramente e frettolosamente
poiché siamo in ritardo.
Siamo sempre in ritardo, io e te.
Sei
già pronto da mezzora,
comunque; stavolta è solamente colpa mia, non posso
articolare giustificazioni
infondate: ho impiegato veramente troppo tempo nel ricercare qualche
cosa di
decente da indossare.
Tu
sei magnifico, davvero.
Glorioso, quasi: il completo che Mycroft ti ha fatto arrivare stamani
è
caratterizzato da una classicità deliziosa e pare esserti
stato cucito addosso.
Ammetto internamente che è stato tutto ciò a
rendermi insicuro sui vestiti che
avevo già prontamente scelto ieri sera: accanto a te sfiguro
irrimediabilmente,
non c’è alternativa possibile. Però ci
provo e mi impegno, eh.
Potresti
tranquillamente essere
scambiato per lo sposo; questa constatazione mi fa provare una
stilettata di
gelosia profonda ed alquanto inopportuna. Forse Molly apprezzerebbe
l’avere te
al posto di Tom, accanto a lei sull’altare. Magari sei ancora
il suo sogno
proibito, ecco. Spero sinceramente di no, per lei e per il suo
altalenante
benessere psicologico: tu sei mio. Punto.
Sei
appoggiato in prossimità
dello stipite della porta, mentre mi osservi con sguardo fermo e serio.
La mise
total black che indossi ti fa sembrare ancor più filiforme
del solito, ma allo
stesso tempo mette in evidenza i muscoli tonici del tuo corpo. Sei
sicuramente
dimagrito, ultimamente, quindi mi appunto in testa un bel monito sul
farti
mangiare di più.
“Allora,
John?” m’incalzi,
quasi spazientito.
Ecco
la mia primadonna,
penso di sfuggita. È in momenti come questo
che mi rendo realmente conto di quanto poco io sia omosessuale, ma
soltanto
innamorato follemente di te. So che è un pensiero ridicolo e
magari anche un po’
paraculo; rideresti sicuramente, se te lo esplicassi. Quindi mi
mantengo in
silenzio.
Come
vuoi che ti risponda,
Sherlock? Vuoi solamente essere rassicurato, in fondo.
Ma
quella camicia nera,
terribilmente stretta ed ornata di bottoni in madreperla, non ti
starà mai più
bene di quanto ti stia adesso. Quei pantaloni attillati e perfettamente
stirati
non rivestiranno a dovere il tuo corpo come una seconda pelle, fra
venti anni o
anche meno. I tuoi capelli neri diventeranno grigi, oppure bianchi, e
le rughe
profaneranno il tuo levigato e statuario volto.
Molto
probabilmente ti verrà
l’artrosi poiché non hai consumato molti cibi
ricchi di calcio e non hai mai
preso in considerazione il mio invito ad assumere qualche integratore.
Perderai
la tua postura impeccabile e le tue mani, così lunghe ed
affusolate, diverranno
inevitabilmente tozze. Il tempo passa, Sherlock. Anche per te, anche
per noi.
“Tu
sarai sempre bello.” ti
dico, però, perché io sono qui per fare questo:
dirti la mia personale verità,
in fondo. “Come armi particolarmente costose e fiere
carnivore in via
d’estinzione.” aggiungo, poiché
è d’obbligo fornirti un metro di comparazione.
Sorridi.
Quel sorriso che,
anche su un volto ormai vecchio e segnato dal tempo, sono certo non
perderà mai
la sua strabiliante bellezza.
“Sono
tutte cose che fanno del
male, John.” mormori dopo esserti avvicinato, ponendo le tue
mani intorno al
mio collo ed iniziando ad armeggiare con la cravatta ancora penzolante.
Annuisco
debolmente, sapendo
quanto ti piaccia accomunarti a simboli funesti ed adrenalinici; tu in
fondo
sei il pericolo fatto persona, in tal senso non mento, né
ometto.
Ma
no, Sherlock, vorrei dirti.
Non fanno alcun male, se sai come gestirle ed addomesticarle.
***
Non
è facile sostenere
l’eterogeneità assurda che caratterizza te e tutto
quello che ti circonda; ecco
ciò che potrebbe pensare chiunque, conoscendoti almeno un
poco. Comprensibile,
dunque, il fatto che tu abbia passato gran parte delle tua esistenza
avvolto da
una profonda solitudine. Ma io, beh. Quanto
avrei voluto esserci, Sherlock.
Avrei
adorato osservarti da
bambino, un bimbo sicuramente molto ingenuo e privo di qualsiasi tipo
di
malizia; non posso fare a meno d’immaginarti così.
Ti vedo concretamente mentre
corri a perdifiato attraverso i rigogliosi campi intorno alla villa
della tua
famiglia; in testa porti una scintillante bandana rossa e fra le mani
stringi
un lungo bastone di legno secco. Sbraiti qualcosa che non comprendo; ma
la
natura ti capisce ed il prato si trasforma all’improvviso in
un oceano
infinito: tu sei il Re dei mari ed io sono il tuo fidato braccio
destro.
Solchiamo le acque in burrasca saltando sopra massi scoscesi; i nostri
visi
vengono sferzati da vento e pioggia gelida ma a noi non importa. Noi
ridiamo e
basta.
“Dobbiamo
ammainare le vele,
generale Watson!” urli a pieni polmoni, mentre il nostro
galeone sfreccia sulla
densa schiuma provocata da onde immaginarie.
“Ai
suoi ordini, capitano.” oh,
sei sempre stato l’egocentrico comandante della mia personale
nave alla deriva.
Navighiamo per sempre, Sherlock;
vorrei semplicemente dirti.
Ma
quanto avrei voluto esserci,
esserci davvero. Magari riuscire anche nell’intento di venire
a svegliarti ogni
mattina, sentendoti borbottare lamenti e toccando il tuo corpo caldo,
ancora
protetto da lenzuola in flanella e grossi piumini d’oca.
“Mettimi
i calzini.” ti sento
adesso mormorare fiocamente dal tuo accogliente nascondiglio.
“Per favore.”
aggiungi con un tono ancora più fievole, quasi un sussurro.
Non mi sforzo
affatto, nell’immaginarmi ciò: quando sei
particolarmente svogliato non ti fai
remore nel chiedermelo tutt’oggi.
Ed
allora, senza obbiettare alcunché,
cerco nell’oscurità quel determinato cassetto; tu
non ti muovi, né mi aiuti nella
ricerca. Te ne stai fermo lì, a crogiolarti nel calore del
risveglio, finché
non mi siedo sul materasso ed il tuo piede destro spunta fuori
automaticamente
dal groviglio di lenzuola. Ne sfioro inconsapevolmente la pianta, ma la
mia
mano è fredda, ed il tuo corpo per una volta è
veramente a bollore: mi
costringo a non toccarti, mentre velocemente ti infilo il calzino,
poggiandomi
il tuo arto sul ginocchio e facendo in seguito esattamente lo stesso
con
l’altro.
“Buongiorno,
Sherlock.” ti dico,
poi.
“Buongiorno.”
sorridi; anche se
è buio, so che lo fai. Sorridi e basta.
Fra
calzini inevitabilmente
spaiati e pirati leggendari avrei quindi voluto vederti crescere;
lentamente
sbocci, ed io non posso fare meno di ammirare la tua innaturale
bellezza ed il
tuo egoismo crescere di pari passo, fino a renderti una viziata puttana
drogata. Un rosa che cresce, fiorisce ed infine marcisce, riducendosi
ad essere
una poltiglia densa e maleodorante.
Anche
se fa male è necessario,
credo. Non so perché, ma in questo istante ti immagino - ti vedo - truccato: un bellissimo
fuscello d’uomo, o forse sarebbe
meglio usare il termine ragazzo; sei in piedi, nel bel mezzo di una
stanza
estremamente vuota e buia. I tuoi capelli sono incredibilmente lunghi e
scompigliati, la tua bocca è rossa, i tuoi occhi neri. Mi
avvicino e ti faccio
scivolare di dosso la leggera vestaglia di seta che indossi; il fruscio
è
fievole, mentre il tuo corpo è nudo. Ai tuoi piedi non porti
i calzini.
Ed
io ti amo, ti amo anche se
in questo momento ti odio; ti amo così tanto che il mio
cuore sembra scoppiarmi
nel petto. Forse è esattamente questo, l’istante
in cui l’ho perso: anche se
non lo sapevo, anche se non me ne sono mai reso conto. Come potevo, in
fondo?
Tu
caschi all’improvviso; ti
pieghi su te stesso, un movimento quasi inquietante nella sua
innaturale scompostezza.
I tuoi occhi si chiudono e questo è quanto: sei morto; sei
morto per la prima
volta ed il mio cuore sta scomparendo insieme a te. Sei morto,
sì, e forse
muoio anch’io. Sono deceduto per
colpa
della morte di una fragile drogata viziata.
Ma
io sono un dottore; l’hai
forse dimenticato, Sherlock? Un medico che forse ha spezzato troppe
vite per
ritenersi ancora tale. Ma se è vero che ho spesso messo in
gioco la mia stessa
esistenza per dimostrare al mondo il mio coraggio e la mia forza, allo
stesso
modo stanotte rischierò e perderò il mio cuore
senza remore pur di dimostrarti
il mio amore.
Quindi
stendo il tuo corpo
etereo e mortalmente bianco; spaventosamente leggero e glabro, pure.
Sei tutto
ossa, pelle e cervello, in fondo. Inizio poi a comprimere il tuo petto
nudo,
inginocchiandomi vicino al torace. Spingo cento volte al minuto, chiudo
il tuo
naso e pratico due insufflazioni in prossimità della tua
bocca; ma le tue
guance sanno di lacrime, quando mi stacco da te, ed i tuoi occhi
spalancati mi
fissano. Sei vivo e piangi di tristezza, oppure di gioia; beh, non lo
so. Non
lo posso proprio sapere.
So
solo che a grazie a te ho
scoperto il sapore della vita: è salato, sa di lacrime. Un
po’ come il mare
dentro il quale ci siamo persi da bambini, con il nostro vascello
indistruttibile. Quell’oceano che tanto hai sempre amato,
senza mai averlo
detto a nessuno; nemmeno a me, Sherlock.
Avrei
voluto esserci anche
quando hai deciso di saltare giù da quel maledetto tetto.
Essere lì sopra,
proprio davanti a te, intento nel guardare la strada sottostante e nel
respirare quel vento gelido composto principalmente da mestizia e
sacrificio.
“Non
devi farlo.” ti avrei
detto. Te lo dico.
Tu
guardi ancora giù; non mi
osservi, non riesci a farlo: non vuoi ascoltarmi.
“Non
posso fallire.” ti limiti
a dire.
“Tutti
sbagliamo, Sherlock.”
insisto ancora, ma oramai sto parlando alla tua schiena appena un
po’ ricurva.
Il giubbotto che indossi ondeggia sinuoso ed io vorrei - dovrei
- afferrarlo, strattonarlo e trascinarti via con forza. Ma
non lo faccio.
“Non
mi è permesso, John.”
mormori, una pronunziazione che si disperde nel vento.
“Perché quando io
fallisco..” mi doni uno sguardo ed io so perfettamente che
è l’ultimo.
L’ultimo, l’ultimo.
“Le cose
esplodono.”
Ti
butti. Ti lanci dal
cornicione e scompari dalla mia vita e dalla tua esistenza senza alcun
rimorso,
perché il punto è che tu non hai mai voluto far
esplodere niente; non hai mai
voluto ferire veramente nessuno. Hai sempre preferito sacrificare te
stesso, in
fondo.
Mentre
guardo il tuo cadavere
posticcio maciullato per terra; mentre osservo me stesso accorrere in
soccorso,
ignaro e completamente sconvolto da tale scena, capisco finalmente che
io,
tutto ciò, non ero mai stato in grado di comprenderlo.
È una consapevolezza che
potrebbe atterrirmi; è un plausibile rimpianto eterno.
Potrebbe esserlo, se tu
fossi davvero morto quel giorno.
Ma
ti vedo ancora, adesso. Ora
sei il mio amante e non esiste al mondo cosa più viva del
tuo corpo. Il mio non
è più un viaggio mentale nei tuoi ricordi fittizi
creati a dovere dal mio
cervello. A volte mi domando chi sia realmente il più pazzo,
tra noi due: la
maggior parte della gente non esiterebbe un attimo
nell’indicarti, ma io oramai
ho forti dubbi. Dubbi che non ti esplicherò mai, comunque.
Ma
non è il bambino iperattivo
e creativo, colui che adesso esige le mie attenzioni. Non è
neanche la donna
tossica e completamente a pezzi, né il martire moderno
più famoso
d’Inghilterra. Sei semplicemente
tu. Il
mio Sherlock.
Così
bello, così reale. Un
essere materiale che mi sovrasta, prendendo possesso della mia anima e
del mio
corpo in maniera inaudita. E mi colpisci, mi colpisci ripetutamente,
mentre
annaspi ansiti pronunciati sulla mia bocca e mi spingi ad attorcigliare
le
gambe intorno ai tuoi fianchi.
In
questo istante di completa
unione penso che non mi hai mai detto che mi ami, né che non
potresti mai
vivere senza di me. Eppure noi siamo due morti che camminano tenendosi
per mano
da tempo immemore; sembra quasi un’eternità
intera. È paradossale, non credi? D’altronde
sono proprio io, l’uomo che ha fatto del paradosso
l’essenza stessa della
propria vita.
Ma
anche se tu la lasciassi,
Sherlock. Anche se tu mollassi all’improvviso la stretta
della mia mano come
già hai fatto in passato, io ormai sono certo del fatto che
non cambierebbe
assolutamente nulla.
Il
cuore che mi è scomparso dal
petto saresti sempre e comunque tu.
***
Quando
mi sveglio la mattina,
soventemente rifletto su quel che ho perso. “È
stupido farlo.”, mi
esclameresti, se solo tu sapessi. “Quel che è
perduto è perduto e non si potrà
mai riavere indietro.”
Non
mi dispiacerebbe affatto
risponderti pacatamente che per una volta ti sbagli, Sherlock. Molto
probabilmente ti annoieresti e basta, durante l’ascolto di
quel che avrei da
esplicarti.
Quindi
anche stamani mi limito
a fissarti; recentemente faccio sempre così, so che
l’hai notato. Stai
sorseggiando svogliatamente un po’ di the, raccolto nella tua
usuale seduta
scomposta. La nostra nottata di sesso selvaggio ti ha donato
un’acconciatura
catastrofica ma sei come sempre bellissimo, credimi. Ai piedi porti i
calzini
di lana verdi che ti ho infilato prima di recarmi al bagno; ridacchio
leggermente, osservandoli.
Dopo
qualche minuto di
rimirazione mi avvicino, senza però dar voce ad alcuna
parola.
“A
cosa pensi ultimamente,
John?” me lo dici dopo qualche secondo, aggrottando un
po’ le sopracciglia. Io
sorrido appena di rimando.
Penso
a quante cose ho perso,
vorrei dirti, poiché sono un malinconico uomo senza
speranza, dotato di una
memoria sicuramente non eccelsa come la tua, ma obbiettivamente buona o
addirittura superiore alla media nazionale. Penso a quanto poi ho
ritrovato,
solo ed esclusivamente grazie a te.
Un
amico fidato, a volte
insopportabile, altre fin troppo saggio. Un figlio di cui prendermi
cura e con
il quale viaggiare ancora attraverso universi fittizi: con te io gioco
ogni giorno;
in fondo riesci a farmi sentire l’uomo più
importante del mondo senza neanche
rendertene conto, esattamente come un bimbo fa con il proprio padre.
Una
donna fragile e malmessa, poi,
incredibilmente bella seppur avvolta dalla più completa
oscurità; quel fascino
del degrado che non tutti sanno apprezzare, ma che io adoro
inevitabilmente
poiché lo posso curare. Sono il suo - tuo
- dottore, alla fine.
Un
amante ingordo ed
insaziabile, osceno e dolce, adorabile e meschino. Egocentrico ed
altruista;
Dio, quante fottute dicotomie. Quante
cazzo di personalità.
Ma
il punto è che io amo tutto
questo, Sherlock. Anzi, io ti amo disperatamente proprio per questo.
Quindi
ti guardo, mentre tu mi
guardi, mentre m’inginocchio, mentre tu sussulti, mentre io
sorrido e penso.
Penso
che da oggi sarai altro,
ancora. Un altro Sherlock per me; sempre e soltanto per me.
“Vuoi sposarmi, Sherlock
Holmes?”
“We were shut like a jacket
So do your zip
We would roll down the rapids
To find a wave that fits
Can you feel where the wind is?
Can you feel it through
All of the windows, inside this room
I’ll hold you in these forearms
I’ll be with you from dusk till dawn
I’ll be with you from dusk till dawn
Baby, I am right here
I’ll hold you when things go wrong
I’ll be with you from dusk till dawn.”
THE END
Note:
Eccomi!
Non sono morta, ma
quasi: il blocco mi ha raggiunta di nuovo, ed ho pensato veramente di
essere
fottuta. Non sono riuscita a leggere niente per un mese o
più, ed inforcare la
penna con la mano mi donava quasi un senso di riluttanza. Un
‘blank space’ grosso
come una casa si è impadronito del mio cervello
finché non ho udito la canzone
che ho inserito nella storia, ovvero “Dusk Till
Dawn” di ZAYN ft Sia; il fatto
è quasi spassoso, poiché l’ho sentita
per la prima volta in sottofondo della
pubblicità dell’Intervista di Maurizio Costanzo.
Paradossale; commenterebbe
così il John Watson di questa mia fan fiction, ed io lo
quoterei alquanto. :)
Al
di là di Maurizio ‘senza
collo’ Costanzo, la visione della quarta stagione su
Paramount Channel ha fatto
la sua bella fetta di parte nel compito di rianimare i miei sopiti
spiriti; anche
se quelle puntate mi fanno davvero incazzare. Comunque nel giro di tre
giorni
ho scritto questa serie di riflessioni romantiche ed oniriche; mi
piaceva l’idea
di tornare a scrivere su John e sulla visione che ha di Sherlock. In
effetti,
ad oggi, ho voglia di scrivere altro, ma dopo la visione del pestaggio
in TLD
mi sento l’anima infuocata da una vena cattiva che preme per
esplodere. Chi
vivrà poi vedrà; credo che possiate capirmi,
comunque.
Non
credo di aver altro da
dire; sulla storia non ho molti dubbi e mi piace il modo in cui ho
raggiunto il
finale: non avevo mai scritto di possibili matrimoni, quindi sono anche
contenta di aver toccato tale argomento, che ad essere sincera
è venuto fuori
senza alcun tipo di riflessione. Spero vi possa essere piaciuta e che
nell’insieme
risulti capibile e ben articolata; fatemi sapere il vostro pensiero, mi
renderebbe molto felice.
Grazie
di aver letto,
AintAfraidToDie