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Autore: gattina04    10/02/2018    0 recensioni
Kathleen non è una ragazza come tante: sottoposta alla pressione di una famiglia che le chiede sempre troppo, ha un passato che non riesce a lasciare andare. Lei sa cosa vuole, sa qual è il suo sogno, ma ci ha rinunciato già da tempo per l'unica persona a cui sente di essere ancora legata.
Trevor invece è schietto, deciso, con un passato fin troppo burrascoso, che vorrebbe solo dimenticare. Trevor vuole voltare pagina e per questo si ritrova in un mondo, in una scuola, dove è completamente fuori posto.
Come potrà una ragazza legata al passato trovare un punto di contatto con un ragazzo invece che farebbe di tutto pur di recidere quel legame?
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Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 13
 
«Mia madre, è qui». Ci misi un secondo a capire il senso delle sue parole. Trevor non mi aveva detto molto su di lei, ma da quello che mi aveva raccontato aveva tutte le ragioni per essere sconvolto e arrabbiato per la sua apparizione improvvisa.
«Come? Quando?», domandai cercando di restare lucida. Il sonno mi era di colpo passato.
«È arrivata stamattina, cioè ieri sera. Oddio Katy ho bisogno di…». Non finì la frase e si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli ancora di più. Non era necessario che aggiungesse altro affinché io capissi. Mi bastava solo uno sguardo per comprendere cosa gli passasse per la mente e avevo tutte le intenzioni di dargli il maggior appoggio possibile.
Proprio per questo lo presi per mano e lo tirai verso la porta di casa. «Vieni».
«Cosa? E tuo padre?». Era evidente che volesse seguirmi ma che non avrebbe sopportato uno scontro faccia a faccia con mio padre; non a quell’ora di mattina, non in quello stato d’animo.
«Lascia perdere mio padre. E poi è nel suo studio, se siamo fortunati non ti vedrà neanche entrare».
«Non voglio compromettere ulteriormente la….».
«Trevor», lo interruppi brusca. «Smettila di parlare e seguimi». Senza aggiungere altro ritornai verso la porta e lo guidai silenziosamente lungo i corridoi fino a camera mia. Mia padre era ancora nello studio, mia madre sembrava essersi volatilizzata, così come mio nonno, per questo il nostro percorso fu abbastanza privo di ostacoli. Fu solo quando arrivai nel corridoio di fronte alla mia porta, che vidi Queen affacciata dalla sua camera. Il suo sguardo era circospetto, ma era evidente che avesse assistito alla scena dalla finestra.
«Ti prego non dire niente Queen», la scongiurai, sperando che la preoccupazione nella mia voce fosse palese. Non capii cosa fu a convincerla, ma semplicemente annuì tornando nella sua stanza.
Dopo aver fatto altrettanto e aver chiuso la porta, per concederci la giusta privacy e sicurezza, lasciai la mano di Trevor per poterlo abbracciare e stringere forte. Lo sentii sospirare tra le mie braccia e affondare la testa sulla mia spalla, sprofondando nella matassa informe dei miei capelli.
Gli accarezzai il collo con le dita e lasciai che restasse così per un po’, riprendendo la calma e trovando la forza di raccontarmi ciò che era successo. Sapevo che non sarebbe servito a nulla inondarlo di domande e, anche se morivo dalla voglia di farlo, dovevo concedergli i suoi tempi. Aveva bisogno di qualche minuto per elaborare la cosa e aveva bisogno di sapere che io avrei aspettato fino a che non si fosse sentito pronto.
«Sono qui, amore. Va tutto bene», sussurrai baciandogli l’orecchio.
Sospirò e mi strinse ancora di più. «Mi piace quando mi chiami amore». Sorrisi e lasciai un altro bacio sulla sua tempia, continuando a coccolarlo tra le mie braccia.
«Anche a me piace quando lo fai», gli confessai accarezzandogli l’attaccatura dei capelli. Trevor fece un altro profondo respiro e poi alzò la testa dalla mia spalla. I suoi occhi trovarono subito i miei, facendomi capire che era più o meno pronto a parlare.
«Vuoi raccontarmi di preciso cosa è successo?», lo spronai, prendendolo per mano e portandolo verso il letto. Lo feci sedere e mi misi al suo fianco continuando a massaggiargli il collo con le dita.
«Stamattina è arrivata mia madre», ripeté puntando lo sguardo su un punto indefinito del pavimento. «Saranno state le otto e mezzo, credo, quando è suonato il campanello. Ovviamente il rumore mi ha svegliato, ha svegliato tutti. Non volevo alzarmi, pensando che fosse qualche scocciatore; eravamo tornati tardi e francamente volevo solo continuare a dormire. Poi però ho sentito delle voci, sempre più concitate, come se stessero litigando. Quando sono uscito di camera per andare a vedere cosa diavolo stesse succedendo Linda mi ha detto che era tornata una signora che era passata la sera prima a cercarmi; e così quando sono arrivato giù me la sono ritrovata davanti senza preavviso».
«Oh Trevor», sospirai stringendogli una mano. «E lei cosa ti ha detto?».
«Beh non molto. Mi ha visto e le si sono illuminati gli occhi, come se non avesse mai desiderato altro. Un po’ ipocrita da parte sua, non trovi?».
«Forse sì», constatai. «Ma era tanto tempo che non ti vedeva, le sarai mancato».
«No!». Si alzò di scatto, allontanandosi di qualche passo per poi voltarsi a guardarmi. «No Kathleen non è così. Sono passati più di due anni dall’ultima volta che l’ho vista; io sono stato chiuso in un centro di disintossicazione per la maggior parte del tempo. Ero bloccato lì e se lei avesse voluto sarebbe potuta venire a trovarmi, se avesse voluto scusarsi, se avesse voluto farsi perdonare non mi avrebbe lasciato nel momento più difficile della mia vita. Non avrebbe permesso a niente e nessuno che tra di noi calassero due anni di silenzio assoluto». Beh non aveva tutti i torti, anzi, vedendola dal suo punto di vista, aveva perfettamente ragione ad essere arrabbiato o sconvolto.
«È questo che vuole?», domandai. «Il tuo perdono? Scusarsi e fare ammenda?».
«Non lo so. Non le ho dato il tempo di spiegarmi. Le ho chiesto che diavolo ci facesse là e lei mi ha detto che era venuta per me, per parlarmi. Allora io le ho risposto che poteva benissimo tornarsene a Boston perché non avevo niente da dirle e nessuna voglia di ascoltarla».
«Trevor…», lo rimproverai bonariamente.
«Lo so, ma non mi aspettavo un assalto così improvviso. Non ho nemmeno sentito cosa mi ha risposto perché ho preso e sono venuto via. Ho fatto un giro in macchina per cercare di calmarmi, ma più guidavo e più mi accorgevo che volevo solo vedere te».
Mi alzai e andai verso di lui, riprendendolo per mano. «Hai fatto bene. Lo sai che puoi sempre contare su di me amore». Lo baciai e lo strinsi forte tra le braccia.
«Sarebbe potuta venire da me, tanto tempo fa, quando ancora stavo lottando per rimanere a galla. Avrebbe potuto scusarsi per essersi voltata dall’altra parte quando io stavo toccando il fondo, per non avermi aiutato, per avermi costretto a cavarmela da solo e a chiamare Fred. Ed io l’avrei perdonata Katy, senza battere ciglio. Lei è stata tutta la mia famiglia per tutta la mia vita, si è sacrificata per farmi crescere e per non farmi mancare nulla quando mio padre se ne è andato. Era la persona che più amavo al mondo e nonostante mi avesse voltato le spalle io l’avrei accolta a braccia aperte». Non parlai sapendo che il suo sfogo non era ancora finito e perciò mi limitai ad accarezzargli il collo e i capelli.
«Non sai quanto ho sperato di vederla comparire in quel maledetto centro, quanto volte ho desiderato che si accorgesse dei suoi errori e che venisse da me, colma di rimorsi e di scuse. Avevo bisogno di lei Kathleen, io avevo bisogno della mia mamma e sembra stupido ammetterlo visto che a quel tempo ero già adulto, grande e grosso, ma io avevo davvero bisogno di lei».
«È naturale Trevor». Era più che naturale. «Ognuno ha bisogno della propria mamma». Io avevo cercato di essere accettata dalla mia per tutta la vita, e il fatto di esserci riuscita in quel momento mi sembrava ancora incredibile.
«Lei è stata l’unica persona che mi ha sempre voluto bene, tutta la mia famiglia. In tutta la mia vita ci siamo stati sempre io e lei, era una costante, fin da bambino. Crescendo mi sono un po’ allontanato, ma non ho mai smesso di considerarla la persona più importante». Capivo cosa stava cercando di fare anche se lui non se ne accorgeva neanche: stava cercando di dirmi che era stata una buona madre nonostante tutto, che aveva fatto il possibile per crescerlo come si deve. Non voleva che fossi prevenuta nei suoi confronti conoscendo solo ciò che lei aveva combinato negli ultimi anni.
«Sono così arrabbiato Kathleen», confessò, guardandomi negli occhi. «E non perché non mi ha aiutato quando poteva farlo, penso che comunque non sarebbe riuscita a fare granché. Sono arrabbiato perché ha deciso di voltarmi le spalle quando ero finito in un baratro da cui non riuscivo ad uscire. Lei sapeva dove ero, mi sarebbe bastato sentire la sua voce, avrei voluto…».
Non finì la frase, ma io sapevo come concluderla. «Che lei ti dicesse che sarebbe andato tutto bene». Annuì e mi abbracciò di nuovo, strusciando il naso sul mio collo.
«Andrà tutto bene Trevor». Erano le uniche parole che aveva bisogno di sentire e anche le uniche che avessero un senso. Mi strinse più forte e proprio in quell’istante sentii qualcosa vibrare contro la mia coscia.
«Ti vibrano i pantaloni», mormorai vicino al suo orecchio.
«Lo so. Fred ha già provato a chiamarmi tremila volte».
«Forse dovresti rispondere». Sapevo che era l’ultima cosa che avrebbe voluto fare, ma d’altronde avrebbe dovuto dire a sua madre quello che mi aveva appena confidato. Era la cosa giusta da fare ed io dovevo cercare di indirizzarlo in quella direzione senza fargli troppe pressioni. Avevo scoperto sulla mia pelle che certe volte parlare chiaro era l’unica soluzione per spiegarsi definitivamente.
«Non ho voglia di parlare né con lui né con mia madre», borbottò.
«Lo so, ma certe volte dobbiamo fare cose che non ci piacciono». Trevor si staccò e mi guardò con espressione truce.
«Credi che dovrei andare da lei?».
«Io credo che dovresti dirle quello che hai appena detto a me e che dovresti ascoltare ciò che ha da dire. Dopo sarai libero di mandarla a quel paese se vuoi». Lui sospirò e si rimise a sedere sul letto, prendendosi la testa tra le mani.
«Non voglio forzarti Trevor». Mi sedetti accanto a lui, posandogli una mano sulla schiena. In quel momento il suo telefono, che aveva smesso giusto un attimo prima, riprese a vibrare. Trevor sbuffò e poi con un gesto repentino lo tirò fuori, rispondendo alla chiamata.
«Che vuoi?». Il suo tono avrebbe spaventato chiunque non lo conoscesse. Non riuscivo a sentire ciò che diceva il suo interlocutore, ma immaginai che fosse piuttosto sorpreso.
«Lo sai benissimo dove sono», continuò. «Non c’è bisogno che te lo dica». Beh anche se non fossi stata la sua ragazza probabilmente sarebbe venuto da me lo stesso. Ero il suo porto sicuro in quella cittadina per lui relativamente nuova.
«Io non lo so», rispose ad un’altra domanda. Di nuovo silenzio. «Fred io non ho… io non voglio…». Non finì la frase e mi passò direttamente il telefono, mentre suo padre dall’altra parte continuava a parlare.
Lo presi titubante, non sapendo bene neanche io cosa fare o dire. «Pronto? Signor Simons?».
«Kathleen…», sospirò.
«Mi dispiace molto, ma Trevor non se la sente di parlare con nessuno in questo momento». Era la verità, anche se avevo appena cercato di convincerlo a fare il contrario.
«Sì lo so e purtroppo non ha neanche tutti i torti. Sua madre… vederla arrivare qua ieri sera ha complicato le cose non solo a lui. Speravo di avere il tempo di avvisarlo stamattina, invece Claire ha deciso di fare la sua comparsa appena sveglia».
«Lei sa perché è qui?», domandai.
«Più o meno, per scusarsi in parte e per chiarirsi con lui. Vuole parlargli Kathleen, ed io non posso impedirlo: è suo figlio e l’ha cresciuto lei.  So che Trevor è arrabbiato e ferito e che è venuto da te a leccarsi le ferite, e so di chiederti molto, ma potresti convincerlo ad incontrarla?». Sapevo di poterci riuscire, ma non mi andava molto di costringerlo; tuttavia il tono di lui era supplicante.
«Sì, penso di sì», risposi sospirando.
«Lo so che ti sto mettendo in una posizione difficile, ma sei l’unica a cui da davvero ascolto». Era vero, almeno lo riconosceva. «Portalo a casa quando sei riuscita a convincerlo. Adesso devo andare perché ho lasciato Claire con Susan e non sono sicuro di ritrovarle entrambe vive». Riattaccò ed io feci altrettanto. Mi alzai e mossi qualche passo per la stanza, per poi voltarmi a guardarlo.
Trevor alzò la testa e mi fissò con uno sguardo profondo. «Dobbiamo andare?». Avrei tanto voluto dirgli di no, ma quello era l’unico modo per chiudere la questione.
«Penso proprio di sì». Andai da lui, afferrandogli la mano e stringendola forte nella mia. «Io sarò accanto a te, ad ogni passo».
Mi tirò verso a sè in modo da appoggiarmi l’altra mano sulla guancia. «Te l’ho già detto che ti amo, vero?».
«Ed io amo te». Era tutto quello che ci occorreva sapere.
 
Dopo essermi preparata e aver fatto sgattaiolare via Trevor di casa, ci ritrovammo sulla sua mustang e ben presto parcheggiammo di fronte al vialetto di casa sua. Linda ci corse incontro, tutta imbacuccata con cappello, sciarpa e guanti.
«Trevor!», gridò abbracciandolo.
«Ehi peste». Lui gli rivolse un magnifico sorriso, anche se era evidente che il suo umore era decisamente l’opposto. «Dove sono tutti?».
«Sono dentro. La mamma mi ha detto che potevo andare fuori a giocare con la neve se mi fossi coperta per bene e se fossi rimasta nel vialetto». In altre parole avevano evitato che Linda si trovasse immischiata in quella difficile situazione.
«Giochi con me?», gli chiese prendendolo per mano e guardandolo con occhi da cucciolo.
«Oh non sai quanto vorrei. Ma immagino che debba andare dentro, giusto?». Mi guardò aspettando una mia conferma. Mi ritrovai ad annuire mentre gli rivolgevo il migliore sorriso di incoraggiamento che riuscissi a sfoggiare.
«La tua mamma ti sta aspettando? Non mi avevi detto che veniva a trovarti».
«Beh diciamo che mi ha fatto una sorpresa». Tutt’altro che gradita, ma questo non gliel’avrebbe detto. Diciamo che il suo era stato un vero attacco a sorpresa. «Comunque facciamo una cosa: tra un po’ ti prometto che verrò a giocare con te, giusto il tempo che la situazione là dentro diventi insostenibile. Sarà un vero sollievo fare a pallate con te mostriciattolo».
Linda gli rivolse un enorme sorriso e saltellò di gioia. «E anche Kathleen giocherà con noi?».
«Certamente», risposi sorridendole.
«Ma ti avverto Linda, Kathleen è del tutto inesperta, dovremo insegnarle tutto». Gli tirai una gomitata, ma vidi comunque un piccolo sorriso sincero comparire sul suo volto. Era meglio di niente.
«Andiamo, mio dolce e presuntuoso ragazzo». Lo trascinai verso la porta, lasciando che Linda tornasse a divertirsi con la neve.
Non appena entrammo in casa sentimmo delle voci provenire dalla cucina e per questo, dopo esserci tolti i cappotti, ci dirigemmo in quella direzione. Sentii Trevor irrigidirsi mentre ci avvicinavamo, sospirare e stringere più forte la mia mano. Per tutta risposta intrecciai di più le dita alle sue e gli posai un bacio sulla guancia.
«Dov’è?», stava chiedendo una voce femminile. «Fred perché non me lo vuoi dire?».
«Ti ho detto che arriverà Claire. Dagli tempo».
«Tempo?», continuò la donna. «È mio figlio, è assurdo che io voglia vederlo e parlargli?».
«Beh ti sembra tanto strano che lui non voglia?», intervenne Susan.
«Oh se l’avete messo contro di me…».
«Nessuno mi ha messo contro di te», intervenne Trevor entrando in cucina. «Hai fatto tutto da sola».
«Oh Trevor». Una donna alta e giovanile gli andò incontro ma lui indietreggiò stringendosi di più a me. La madre di Trevor era davvero molto bella: magra ma formosa, capelli scuri ed occhi chiari, carnagione perfetta nonostante qualche ruga naturale; era facile capire da chi il figlio avesse preso l’avvenenza ed era anche facile capire cosa ci avesse trovato il padre.
«Sono così contenta che tu sia tornato», continuò non perdendosi d’animo. «Abbiamo così tante cose di cui parlare».
«E non potevi telefonarmi? Mi pare che non ti sia sprecata negli ultimi tempi». Il suo tono era tagliente e anche se non potevo vedere il suo sguardo immaginai che fosse freddo come il ghiaccio.
«Trevor lo so che hai passato un periodo davvero difficile…».
«No», la fermò alzando la voce. «Tu non lo sai. Sei proprio l’ultima persona che lo può sapere».
«D’accordo». Sospirò e si guardò intorno in cerca di un appiglio; solo in quel momento sembrò notare la mia presenza, minuscola dietro la spalla di Trevor. «E lei chi è?». Non lo chiese direttamente a me, ma si rivolse al figlio.
Trevor mi tirò leggermente avanti facendo aderire il suo braccio al mio, le mani sempre intrecciate. «Lei è la mia ragazza, anche se non penso che la cosa ti importi veramente».
«Piacere sono Kathleen», mi presentai allungando l’altra mano.
«Che sciocchezze, certo che mi importa Trevor. Tanto piacere Kathleen, sono Claire». Strinsi la sua mano e le rivolsi un sorriso tirato non sapendo ancora come sentirmi a suo riguardo. Dovevo ancora capire chi fosse per esprimere un giudizio su di lei.
«Non perdiamo tempo», tagliò corto Trevor. «Perché diavolo sei qui? Cosa c’era di tanto urgente da dirmi da non poterlo fare al telefono?».
«Volevo vederti Trevor», sbottò lei tornando a guardarlo. «E poi volevo parlarti da sola».
«Beh qualunque cosa tu abbia da dire, puoi farlo benissimo anche di fronte a loro».
«Trevor…», lo supplicò. «Solo cinque minuti».
«No mamma. Sono troppo arrabbiato per restare solo con te».
«E ne hai tutte le ragioni, ma sono tua madre…».
Non riuscì a terminare la frase perché Trevor la interruppe. «Non sei stata mia madre negli ultimi due anni, non sei stata proprio nessuno. Si può dire che negli ultimi sei mesi Susan si sia comportata più da madre di te». Era una cosa pesa da dire, ma era la verità, anche se cattiva.
«Trevor!», lo rimproverò Claire.
«Trevor», intervenne contemporaneamente Susan. «Chiedi scusa a tua madre, immediatamente». Non mi aspettavo che lei difendesse la sua rivale, ma l’affermazione di Trevor era stata maligna.
«No, perché è la verità anche se le fa male».
Susan sospirò e si alzò dal posto dove era seduta. «Vado a controllare Linda, non voglio essere coinvolta in questa discussione». Era un gesto molto maturo e coscienzioso da parte sua; non sapevo se sarei riuscita a fare altrettanto al suo posto.
«D’accordo», sospirò Claire, una volta che Susan fu uscita. «Almeno una persona in meno… immagino che lei debba restare?». Mi indicò con un cenno del capo.
«Se va via lei, vado via anch’io», affermò Trevor, lasciando la mia mano e passandomi un braccio dietro la schiena.
«Va bene», acconsentì. «Perché non ti siedi adesso e ascolti quello che ho da dire?». Per una volta Trevor fece come le aveva detto e si accomodò dall’altra parte del tavolo facendomi sedere accanto a lui. Fred invece rimase appoggiato al mobile della cucina con le braccia incrociate.
«Beh per prima cosa sono qui per scusarmi Trevor», iniziò. Era ovvio che fosse quella la ragione.
«Un po’ tardi per le scuse non ti pare?». Lui non aveva provato neanche ad essere gentile.
«Lasciami finire ti prego. Lo so che hai tutte le ragioni per essere arrabbiato con me, io ti vedevo, immaginavo che…». Si fermò e posò lo sguardo su di me, non sapendo quanto sapessi di quella storia. Probabilmente molto più d lei.
«Puoi parlare liberamente di fronte a Katy, sa tutto». Trevor si voltò un secondo verso di me per lanciarmi uno dei suoi sguardi che valevano più di mille parole.
«Oh d’accordo». Claire mi studiò per un momento prima di ricominciare a parlare. «Ti vedevo Trevor, vedevo il baratro in cui stavi cadendo ma ho fatto finta di non sapere ed è stato imperdonabile da parte mia. Ma ho avuto paura e non avevo la minima idea di come fare ad aiutarti, ad aiutare anche me stessa; preferivo fare finta di non vedere e non sapere».
«Mamma io questo lo capisco», intervenne sorprendendo tutti. «Non credo che tu avresti potuto fare molto da sola».
«Davvero?». La sua espressione era incredula, e penso che anche la mia fosse piuttosto simile.
«Sì non è colpa tua se ho iniziato a drogarmi, è solo colpa mia». Non aveva mai ammesso una cosa del genere neanche con me; avevo sempre creduto che ritenesse i genitori, soprattutto il padre, responsabili di ciò che gli era capitato. Vidi il signor Simons alzare la testa e osservarlo piuttosto sorpreso dalle sue parole, ma d’altronde, quella confessione, aveva colto tutti alla sprovvista.
Inconsciamente gli presi la mano che aveva appoggiato sul tavolo e la strinsi forte, dandogli una sorta di conforto con quel piccolo contatto.
«Lo so che è colpa mia, nessuno mi ha costretto a drogarmi. Forse all’inizio ero arrabbiato con te per questo, ma poi ho capito. Adesso non è questo il motivo per cui sono arrabbiato».
«Ah no?». Gli occhi di Claire si illuminarono e riuscii a scorgere sul suo volto le stesse identiche espressioni che avevo più volte visto su quello del figlio.
«No. Sono infuriato perché mi hai lasciato solo nel momento più difficile della mia vita. Avevo bisogno di te e tu non c’eri, non ti importava di sapere come me la stessi cavando? Quanto fosse dura disintossicarmi? Quanto avessi davvero bisogno dell’unica persona che credevo mi volesse bene?».
«Oh Trevor certo che ti voglio bene, ti amo più di qualsiasi altra cosa al mondo. Come puoi dubitarne?».
«Allora perché non sei venuta a trovarmi? Perché non mi hai anche solo telefonato? Perché sono passati più di due anni prima che trovassi il coraggio di alzare quella dannata cornetta?».
Lei sospirò e alzò lo sguardo, lanciando una fugace occhiata al suo ex marito. Fu solo un attimo ma io me ne accorsi e notai anche l’espressione di lui farsi più truce, quasi come quella del figlio. «Ho avuto paura Trevor, ho pensato che dopo quello che avevo fatto non avresti voluto vedermi».
«Beh non è così. Potevi almeno telefonarmi per chiedermelo, per sapere come stavo e non farmi sentire una merda ancora di più. Già stavo da schifo, dover affrontare anche l’idea che non contassi nulla per te ha reso tutto peggiore».
«Io… io…». Claire tornò a guardare Fred e questa volta riuscii a leggere una supplica nei suoi occhi. C’era qualcosa che non ci stavano dicendo e probabilmente era anche qualcosa che avrebbe ferito ulteriormente Trevor. Per quanto fosse giusto sapere tutta la verità, non volevo che niente gli facesse del male, ma d’altronde sembrava inevitabile.
«Diglielo Claire, tanto peggio di così non può andare», mormorò Fred, portandosi una mano tra i capelli. Sembrava frustato e sfinito.
«Dire cosa?», domandai visto che Trevor stava osservando quello scambio di battute in silenzio.
«Quando dal centro hanno rintracciato tuo padre», spiegò Claire, «e lui ti ha trovato in quelle condizioni, è venuto subito da me. Diciamo che non è stata una discussione amichevole; appena me lo sono trovato davanti ha iniziato ad urlarmi contro e ad accusarmi». Era comprensibile che l’avesse fatto; in fondo per andarsene doveva aver creduto che il figlio fosse in buone mani.
«Ero fuori di me e furioso con tua madre», continuò lui. «Volevo sapere cosa diavolo fosse successo e perché mai lei non aveva fatto nulla per impedirlo».
«E perché diavolo ti sarebbe dovuto importare di me?», domandò Trevor puntando lo sguardo dritto verso di lui. «Te ne sei andato quando avevo quattro anni senza mai più una parola».
«Questo non ha importanza», tagliò corto la madre. «Comunque tuo padre ha preso la tua roba e mi ha minacciato di stare lontana, visto che avevo combinato già abbastanza guai. Mi ha detto che sarebbe stato meglio per te se non mi fossi fatta viva fino a quando non avessi capito la gravità della situazione. Così dopo, quando ho realizzato fin dove ti eri spinto, mi sono sentita morire per il modo in cui mi sono comportata, ma ascoltando le minacce di tuo padre ho preferito lasciarti spazio, anche perché avevo paura che tu mi avresti colpevolizzato. So che forse è stato stupido, ma avresti avuto tutto il diritto di accusarmi ed io non me la sono sentita di affrontarti».
Trevor ascoltò tutto il discorso, irrigidendosi di più. Sentivo che stava faticando a mantenere la calma e purtroppo sapevo anche contro chi l’avrebbe canalizzata. «Che cosa diavolo ne sapevi tu di cosa avevo bisogno? Chi eri tu per impedire all’unico genitore che ho mai avuto di starmi vicino?». Lo sguardo di Trevor era puntato dritto verso suo padre ed era freddo come il ghiaccio.
«Hai chiamato me Trevor», ribadì lui. «Hai chiesto il mio aiuto ed io ho fatto quello che ritenevo necessario».
«Necessario?», sibilò. Strinsi la sua mano cercando di trattenerlo, ma era furioso e all’improvviso lo era solo verso suo padre. Capivo che potesse avercela con lui, ma se avesse ragionato più lucidamente avrebbe compreso che delle semplici minacce non sarebbero dovute bastare per impedire ad una madre di vedere il proprio figlio. Io non conoscevo Claire ma non doveva essere una donna debole che si lascia soggiogare facilmente dagli uomini, visto che era riuscita a crescere Trevor da sola.
«Tu non sapevi un bel niente di me», continuò, «come non lo sai tuttora. Tu non hai idea di come sia stata la mia vita e per questo non avevi nessun diritto di fare minacce, non conoscendo neanche i fatti. Tu non c’eri ed io sono cresciuto solo con la mamma. Tu non lo sai cos’è successo visto che mi hai abbandonato e mi hai voltato le spalle». Ed eccolo là il nocciolo della questione: Trevor non riusciva a superare il fatto che il padre se ne fosse andato preferendo di non crescerlo.
«Non è stata solo colpa mia», soffiò lui a mezza voce.
«Come?». Ero stata io a parlare ma non ero certa di aver sentito bene. Se dovevano tirare fuori la verità era bene che lo facessero fino in fondo. Sembrava che quell’affermazione fosse sfuggita al signor Simons senza neanche accorgersene.
«Beh certo la sincerità prima di tutto, non è vero Claire?», sbottò Fred. Non l’avevo mai visto così minaccioso. «Perché sono io l’unico che deve sopportare l’ire di nostro figlio, giusto?».
Lei lo guardò storcendo le labbra. «Se avessi voluto dirglielo lo avresti già fatto».
«No, invece solo perché non volevo riaprire una ferita non ancora del tutto rimarginata. In fin dei conti per lui è più semplice avercela con me invece che con te».
«Si può sapere di cosa accidenti state parlando?», scattò Trevor alzandosi in piedi e lasciando le mie dita. Guardò prima sua madre che abbassò lo sguardo e poi si fermò su suo padre. «C’è altro che dovrei sapere? Dimmelo».
«Non avrei voluto che tu lo scoprissi, non così almeno». Abbassò lo sguardo e sospirò. Quando rialzò la testa riuscii a leggere solo una profonda tristezza. «Tu mi accusi di essermene andato, di aver lasciato te e tua madre, ma non è del tutto vero. Sì sono andato via, ma non è mai stata solo una mia iniziativa. Non volevo abbandonare te Trevor, non l’ho mai voluto».
«Non capisco». Trevor si rimise a sedere e afferrò la mia mano, stringendola forte.
«Il matrimonio tra me e tua madre non è mai andato bene», iniziò lui assumendo un’espressione seria. «Non eravamo felici, non lo siamo mai stati. Tua madre mi tradiva Trevor e purtroppo lo ha sempre fatto».
Lo sentii trasalire e voltarsi di scatto verso di lei. «È vero?».
«Pensavo te l’avesse già detto e che fosse anche per questo che non volevi parlarmi».
Trevor boccheggiò e poi cercò in qualche modo di riprendersi. «D’accordo, ma questo non giustifica il fatto che te ne sia andato».
«No è vero. Sapevo che tua madre mi tradiva, ma facevo finta di non vedere perché l’amavo. Ma ero infelice, molto infelice, e poi c’eri tu e continuavo a illudermi che le cose potessero migliorare. Poi un giorno abbiamo litigato come non ci era mai capitato prima; tua madre non voleva più continuare ed aveva ragione: io la rendevo infelice e il mio accanirmi in una relazione già chiusa da tempo era stupido, adesso lo riconosco. Quel giorno mi disse che era colpa mia se non mi era stata fedele, e ripensandoci so che forse in parte aveva ragione. Mi ha detto che la soffocavo e che te e lei sareste stati meglio senza di me, che avrei fatto meglio a lasciarvi e a non essere più invischiato in quel matrimonio fallito».
«E tu le hai obbedito? Non hai nemmeno opposto resistenza?».
«Certo che l’ho fatto! Ho urlato, ho detto cose orribili ma poi… poi mi ha detto che tu non eri mio figlio». Trevor vacillò sentendo quella bomba, non riuscendo a credere alle proprie orecchie; d’altronde anch’io ero piuttosto incredula. Chiunque avesse visto Fred e Trevor, almeno in quel momento, avrebbe scorto una sorta di parentela; erano molto simili e sospettavo non solo fisicamente. Stessi occhi, stessi tratti, talvolta stesse espressioni: erano padre e figlio senza ombra di dubbio. Ma forse all’epoca era stato diverso?
«Non sono tuo figlio?». Trevor si passò la mano libera tra i capelli. «Questo non ha senso».
«Certo che sei mio figlio Trevor, ma all’epoca quell’insinuazione bastò per farmi vacillare. Non mi somigliavi molto e sapevo per certo dell’infedeltà di tua madre, quindi poteva essere accaduto anche prima. E forse Trevor io ho voluto crederci per salvarmi, nonostante amassi ancora tua madre quel matrimonio mi stava uccidendo. Andarmene era la scelta più semplice e tua madre mi stava offrendo la soluzione per uscire da quell’inferno su un piatto d’argento». Era plausibile che avesse creduto a quella bugia, soprattutto in un momento simile, ma poi come aveva fatto a capire la verità? Se credeva che Trevor non fosse suo figlio perché rispondere al suo appello quattordici anni dopo? Solo perché aveva cresciuto quel bambino per quattro anni pensando che fosse suo? Sarebbe stato molto cavalleresco e nobile, ma sospettavo che ci fosse dell’altro.
«E come l’ha scoperto poi?», intervenni. «Voglio dire come ha saputo che sua moglie aveva mentito?».
«Quando volevo sposare Susan, ho avuto dei problemi con i documenti del divorzio e fui costretto a rintracciare Claire. Quando la trovai le chiesi di te, come ve la stavate passando e se potevo vedere almeno come eri cresciuto. Avrai avuto circa dodici, tredici anni».
«Visto che stava per sposare un’altra donna», intervene lei, «non trovai una scusa valida per non mostrargli una tua foto. Non avrei potuto evitarlo, prima o poi l’avrebbe scoperto e, visto che eri a scuola, non volevo che lo incontrassi rientrando a casa».
«L’ho capito al primo sguardo che eri mio figlio e che tua madre mi aveva mentito. E forse là ho sbagliato di nuovo a non restare, a non insistere; ma c’era Susan, la possibilità di una nuova famiglia e tu sembravi felice. Entrare di nuovo nella tua vita avrebbe portato solo scompiglio». 
«E quindi te ne sei andato di nuovo», sussurrò Trevor ma non ero certa che lui l’avesse sentito. Era scosso e confuso ed io cominciavo ad averne abbastanza di tutta quella storia. La mia famiglia in confronto sembrava perfetta, considerando il fatto che nessuno sembrava capire l’impatto che quelle parole avevano avuto su loro figlio.
«Va tutto bene», mormorai avvicinandomi al suo orecchio. «Andrà tutto bene». Trevor mi guardò con la coda dell’occhio, quasi sorpreso di trovarmi lì, come se non si aspettasse che io sarei stata al suo fianco in ogni istante.
«Mamma», parlò questa volta in un tono udibile. «Perché l’hai fatto? Perché mi hai fatto credere che lui ci avesse abbandonato?».
«Perché non avresti capito Trevor e ce l’avresti avuta anche con me. Ma non l’ho fatto con cattive intenzioni devi credermi».
«E cosa dovrei pensare? Sono cresciuto senza un padre, pensando che lui non ci avesse voluto!».
«Non volevo farti crescere senza tuo padre», replicò lei, «ma non volevo neanche che crescessi in mezzo a genitori in lite o costretti in un matrimonio infelice. Non volevo che fossi costretto a frequentare tribunali, a scegliere con chi restare, chi dei due amare di più. Conoscevo abbastanza tuo padre da sapere che continuava ad amarmi nonostante i miei sentimenti per lui si fossero spenti. Lui era infelice eppure non demordeva, io ero infelice ed invece lo tradivo; ma nonostante tutto lui restava lì. Non lo faceva solo per me, ma anche per te Trevor. Perciò, nonostante quello che tu adesso possa pensare di me, dissi lui l’unica cosa che l’avrebbe fatto allontanare senza voltarsi. In fondo non ce la siamo cavata male da soli io e te?».
Trevor non rispose e strinse più forte la mia mano. Capivo benissimo ciò che stava provando: aveva passato tutta la sua vita ad odiare suo padre, a dargli la colpa di tutto, e in quel momento, all’improvviso, scopriva che non era del tutto colpevole come aveva creduto. Certo sarebbe potuto restare, avrebbe potuto lottare invece di scegliere la via di fuga più facile, tuttavia non era stata sua intenzione abbandonarlo.
«So che ho molte colpe da espiare Trevor», continuò Claire. «Sono qui anche per questo. Voglio che tra noi le cose tornino come prima».
«Non torneranno mai come prima», rispose atono. «Sono successe troppe cose perché possano tornare come prima, non credo neanche di volerlo in fin dei conti».
«Trevor, ti prego, dammi una possibilità». Potevo leggere nei suoi occhi la supplica, ma speravo proprio che Trevor non cedesse. Ero stata prevenuta nei confronti di sua madre, anche se avevo fatto di tutto per non esserlo, sin dai suoi primi racconti, ma avevo scoperto che non mi ero sbagliata. Non era la persona che pensava lui, o almeno non lo era in quel momento. Non riuscivo a scorgere in Claire la madre amorevole che cresce un figlio da sola, vedevo solo una donna debole ed egoista che continuava ad insistere con lui, nonostante la cosa lo ferisse.
«Sono cambiata Trevor», continuò, «non sono più la stessa persona che ha permesso tutte quelle cose. Ho commesso molti sbagli, ma in questi anni ho capito i miei errori. Ho conosciuto una persona e ho rimesso in piedi la mia vita e vorrei davvero che tu la conoscessi e che…».
«Adesso basta!». Mi ritrovai in piedi prima ancora di rendermene conto. «Basta così! Trevor ne ha abbastanza. E, visto che è sua madre, lei dovrebbe accorgersene».
«Kathleen», intervenne il signor Simons cercando di mettermi in guardia.
«No!», sbottai. «Adesso ascoltate me tutti quanti. Forse a voi non importa di come possa sentirsi Trevor in questo istante ma a me sì. Quindi smettetela di parlare: mi pare ovvio che nessuno dei presenti sia da eleggere come genitore dell’anno e mi pare altrettanto evidente che non sapete affatto chi Trevor sia, o sia diventato, dopo tutto ciò che ha passato. Lei signor Simons deve smetterla di trattarlo come se potesse sbagliare ad ogni passo; Trevor è forte e stargli addosso non risolverà i vostri problemi, non finché non si fiderà di lui come mi fido io».
Mi voltai verso sua madre, nonostante Trevor si fosse alzato e mi avesse appoggiato una mano sulla spalla, come per trattenermi. «E lei… lei… signora Claire dovrebbe vergognarsi. Non è tanto difficile comprendere che dopo due anni di silenzio suo figlio possa non volerla vedere, così come non è difficile capire per una madre quando suo figlio ha bisogno di lei. Mi dica dov’è la donna forte che è stata capace di crescere questo ragazzo meravigliosamente dolce e gentile? Dov’è finita se bastano delle semplici minacce ad allontanarla dal proprio unico figlio nel momento in cui lui ha più bisogno di lei?». Avevo parlato senza quasi riprendere fiato, ma avevo buttato fuori tutto quello che avevo da dire.
«Adesso basta Katy». Fu Trevor a parlare passandomi un braccio intorno alle spalle, mentre gli altri due mi guardavano attoniti. Non era da me reagire in quel modo di fronte a persone quasi del tutto estranee, ma avevano ferito Trevor ed io non avrei più permesso a nessuno di far del male apertamente alle persone che amavo.
«Penso che non ci sia nient’altro da aggiungere», proseguì Trevor. «Ho promesso a Linda che avremo giocato con lei, quindi adesso ho decisamente finito tutta la pazienza che avevo per potervi ascoltare ancora. Ho cose più importanti da fare». Senza aspettare una risposta mi portò via della cucina e si fermò soltanto quando fummo di fronte alla porta di ingresso.
Stavo ancora realizzando quanto repentina fosse stata la nostra uscita di scena, quando le labbra di Trevor si posarono sulle mie, travolgendomi in un bacio appassionato.
«E questo per cosa era?», mormorai quando si staccò per riprendere fiato.
«Grazie», disse soltanto appoggiando la fronte sulla mia.
«Per cosa?». Non capivo esattamente a cosa si riferisse; non avevo fatto granché oltre a perdere la pazienza in quel modo.
«Per essere stata lì, per essere scattata in quel modo, per aver detto quello che avrei voluto tanto dire io. Adoro quando tiri fuori gli artigli Katy».
Arrossii ma non per l’imbarazzo; per una volta mi sentivo orgogliosa di me ed evidentemente anche quella sensazione, per me del tutto nuova, mi faceva avvampare. «Chi vuole farti del male dovrà passare prima sul mio cadavere».
Lui accennò un sorriso, anche se non era abbagliante come al suo solito. «Sembri molto minacciosa Katy».
«Ma è la verità», ammisi perdendomi nel suo sguardo.
«E nessuno può farne a te, senza passare sul mio», affermò. «Adesso andiamo da Linda, ti prego, perché ho davvero bisogno di non pensare e giocare con quella peste mi sembra un ottima alternativa». Annuii e lasciai che lui prendesse i cappotti per poter raggiungere la sua sorellina.
Sapevo benissimo che avremo dovuto parlare, che Trevor avrebbe dovuto digerire tutta quella storia, che per lui la strada dei ricordi non era ancora finita; tuttavia visto che quella giornata era stata dolorosa quanto essere travolti da un treno in corsa, sapevo anche che aveva bisogno di essere lasciato in pace almeno per un po’. C’erano già troppe persone a metterlo sottopressione, ed io non sarei mai stata una di quelle.
  
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