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Autore: Moody_Espeon    13/02/2018    1 recensioni
Se non ero d’accordo con quello che voleva fare, allora perché sono scappata con lui?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leona
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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           Ali spezzate





Dieci anni. Sono passati dieci anni, e io sono ancora qui. Vivo da sempre nello stesso modo, mangio le stesse cose, vedo le solite persone. Non è un male, mi sono sempre detta, non è un male avere una vita abitudinaria, non è un male vivere da sola e non volere nessuno, non è un male piangere ogni notte. Quante bugie, quante menzogne ho raccontato a me stessa. All’inizio è stato facile, quando si ha dodici anni, si è così innocenti e ingenui che è facile illudersi da soli. Ma poi, con l’avanzare del tempo, e le incertezze che l’età adulta porta con sé, mentire non è più bastato. Era diventata una lotta. Dentro di me, ogni giorno, ogni notte, prendeva luogo una guerra, per restare e aspettare o andarmene. Andarmene? Mi dicevo io. E dove? Non è Targon che porta sofferenze, non è Targon il mio peso, la mia montagna. Ovunque potessi andare, in qualsiasi luogo, dove esso sia, non sarei mai riuscita a scappare. Non per sempre almeno, non da me stessa.       
            E così rimanevo e aspettavo. Non so con quale forza, non so con quale determinazione, so solo che mi impegnavo ogni giorno, mi sforzavo con tutta me stessa a non pesare. Al passato, all’infanzia, a lui.
Lui. La mia maledizione, così lo chiamavo, non aveva più un volto per me, né un nome, era solo un chiodo fisso, nelle notti afose d’estate, nelle giornate fredde d’inverno, nei sogni, nei desideri, negli incubi. Lui era la mia costante, un pensiero ricorrente. Fa ancora male. Dieci anni sono passati, e fa ancora male.          
            Ma riconosco che è colpa mia. Una ferita non si sana se sempre esposta, non si cicatrizza se non la si tratta con le giuste cure. Non posso farci nulla. Il dolore mi aiuta a ricordare, e mi mantiene in vita. Vita… sempre se questa si può chiamare vita. Me lo ricordo bene il mio passato, quelli sì che erano momenti felici, quella si poteva chiamare vita. Una doppia vita. Da bambina ero la maga delle bugie, dei trucchi, fingevo alla perfezione, mantenevo la maschera della brava figlia. I miei genitori erano orgogliosi di me, ero la migliore giovane guerriera della mia tribù, lo sono sempre stata, nessuno mi eguagliava. Tranne lui.

Mi ricordo che da bambino piangeva ogni volta che lo battevo, e che ogni giorno si ripresentava d’innanzi a me per combattere di nuovo. Per lui la gloria, la popolarità, l’onore, erano il suo motivo di esistenza. Per me non erano altro che ridicole motivazioni. Io ero solo un ostacolo, lui voleva essere il migliore, combatteva per la fama, era piccolo, ma pronto ad uccidere per ottenerla.
            Una volta cresciuto alle sconfitte smise di piangere, ma il suo cuore si riempiva di odio e rancore nei miei confronti. Sapevo bene che mi odiava. Io a dieci anni ero già persa per lui, lo spiavo quando si allenava da solo e nell’arena, insieme ai miei coetanei, lo guardavo come se non ci fosse nessun altro. Per me c’era solo lui. Quanto soffrivo, eppure non mi sono mai pentita, lui mi guardava con occhi spietati, mi voleva annientare, tremavano persino le mie ossa quando mi perforava lo sguardo con quei gelidi occhi. Avevano il colore del fuoco e del sangue. Lo stesso della sua anima probabilmente.    
            Fu una sera calda d’estate, quando il sole era ormai tramontato ma la notte ancora non aveva ricoperto il cielo con il suo manto, che si presentò a me. Quel giorno avevo dieci anni, e lui tredici. La spada in mano, lo scudo nell’altra e l’elmo che gli copriva il volto. Quell’elmo rappresentava tutto per lui, una corona degna di un re. Aveva il fiatone e gli occhi imbrattati di quella furia devastante che sarebbe stata in grado di spazzare via tutto al suo passaggio. Sapevo bene cosa voleva, ma non gli diedi la possibilità di vittoria che cercava. Lasciai cadere a terra la mia spada e lo scudo, avevo lo sguardo fisso sul suo, con gli occhi fragili di chi si sente in gabbia, senza paura. Con quel gesto disonorai le mie origini, il mio popolo, chiunque altro mi avrebbe rinnegata, ma non lui.  
            « Non voglio combattere. » Gli dissi. Semplicemente questo. Qualcosa in lui si era spento, ma non fu una cosa brutta. Lui mi aveva capito, forse era l’unico che l’aveva fatto o ci aveva provato. Io non cercavo la gloria, non volevo essere la migliore, volevo solo scappare da quella realtà così crudele e dura. Sono nata in un periodo di pace, ma il mio popolo aveva a guerra dentro e in un modo o nell’altro, arrivai anche io a combatterla, nonostante l’innocenza, finché non sparì, mi aveva impedito di sentirla. E lui era come me. Anche lui voleva scappare, ma come successe a me fino a quel momento, nessuno se ne era accorto.

Da quel giorno, crescemmo insieme, divenimmo inseparabili. Due complici, avevamo due vite. Agli occhi dei nostri genitori e di tutto il popolo facevamo la parte dei due rivali, i migliori tra i giovani combattenti della tribù, sempre in lotta per meritarsi il titolo di campione, due ragazzi promettenti che presto sarebbero entrati a far parte dei più grandi guerrieri. Ma nel segreto, fuori dallo sguardo giudizioso di chiunque, ci nascondevamo in posti che nessuno conosceva, giocavamo con la fantasia come due bambini, esploravamo le foreste del monte e ci trovavano dei rifugi tutti per noi, dove non eravamo i migliori dei giovani soldati, ma soltanto due ragazzini che vedevano il mondo con i propri occhi.     
            Per me al tempo era scontato, avere un compagno di giochi, un ragazzo, più grande, e per giunta prossimo a essere riconosciuto come adulto. Non mi rendevo conto, di quanto fosse fantastico parlare di qualsiasi cosa che non fosse la guerra e venire ascoltata. Non mi rendevo conto del suo sguardo, era sereno, era sé stesso, il vero lui.
            Ma ben presto il sogno di essere qualcos’altro, diventò un’utopia, e le bugie, le finzioni e i mascheramenti, erano sempre più ardui da attuare. La gente cominciava a mormorare, i miei genitori, sempre più severi e restrittivi, ciechi dal loro orgoglio fittizio, mi impedirono di vederlo sempre di più, fino a che non diventò un’imposizione irremovibile. Ma la cosa peggiore era che raggiunti i sedici anni, lui era vicino al rito di iniziazione per diventare adulto. Un sogno che si realizza, finalmente sarebbe entrato a far parte della tribù come membro di un grande organismo, come aveva sempre desiderato. O almeno così credevo fino a quel giorno. Il suo sogno era quello di combattere, e non si sarebbe fermato davanti nulla pur di raggiungere il suo scopo. Nulla tranne forse me. Sapeva che la strada che stava per compiere l’avrebbe portato lontano da me, e credo che fu solo in quel momento che realizzò quanto io fossi importante per il suo cuore. E se la scelta di avermi sempre con sé, comprometteva il sogno di una vita, allora lui avrebbe rinunciato anche ad esso.

E così fece. A qualche ora dalla sua iniziazione, decise di scappare portandomi con sé. Quando mi venne a prendere a casa mia, non mi spiegò nemmeno il motivo per cui era lì, si limitò a dire con tono frettoloso “Dobbiamo andarcene” e io, sciocca, innamorata, non feci alcuna domanda. Lo seguii.
           
            Corremmo per ore nella foresta, senza tregua, e ad ogni passo ci allontanavamo sempre più da casa, mano nella mano. Mi ricordo i dubbi che mi assalivano, non smettevo un attimo di pensare che tutto ciò fosse una follia, e che ci avrebbero trovati. Avevo paura, sapevo bene il motivo per cui stavamo scappando, ma sapevo anche quale sarebbe stato il nostro futuro se lui avesse compiuto l’iniziazione. Ma quando per un attimo incrociai i suoi vividi occhi scarlatti, tutte le mie paure si dileguarono, lasciando spazio al più grande sentimento di appartenenza che avessi mai provato nei suoi confronti.    
            Scesa la notte, non ci eravamo ancora fermati. Ero esausta, ormai non riuscivo più a stare in piedi e anche lui cominciava a sentirsi mancare le forze. Ma ancora qualche ora di cammino e saremmo usciti dal territorio della tribù, e già sentivo l’odore di libertà. Maledizione, pensavo, faticavo anche a camminare e dopo un enorme sforzo per muovermi di un passo, caddi in ginocchio, come una debole, stremata per la stanchezza. Questo non lo fermò. Mi prese in spalle e cercò un posto dove sostare la notte, camminando per lunghi minuti sul terreno ghiacciato e in pendenza del monte.  
            Ci rifugiammo in una grotta umida e fredda. Sudavo e tremavo, neanche il fuocherello che aveva acceso per me mi riscaldava. Giacevo per terra e respiravo a fatica, il mio viso era arrossato e la pelle scottava. Vedevo lui che mi guardava soffrire e brutalmente se ne dava delle colpe, niente lo faceva star male più del vedermi in quelle condizioni. Lo intuivo solo dal suo sguardo. Era in piedi davanti a me, e un raptus di ira lo colse in pieno, si tolse il suo elmo, simbolo che il popolo attribuiva alla valorosità, e lo scagliò a terra con prepotenza, come se volesse spaccarlo a metà. Cadde in ginocchio davanti a me e per la prima volta dopo tanti anni, si mise a piangere.
           
            Senza timore, mostrò le sue debolezze, ritornando per un attimo bambino. Lo stesso bambino che piangeva tutte le volte che davanti alla mia forza, finiva in ginocchio sconfitto.
         
            Alzai la mano e mi feci spazio tra le sue amare lacrime. Piano, facendo scivolare le dita su quella pelle segnata dalla violenza e troppo vissuta per quell’essere innocente che si celava sotto la sua mente corrotta, fino a che non raggiunsi la guancia e lì appoggiai tutta la mano.     
            « Perché piangi? » chiesi. Lui immediatamente si asciugò le lacrime, come se non volesse farsi vedere anche se entrambi sapevamo che era troppo tardi. Afferrò la mia mano, si, proprio così fece, e portandosela alla bocca, la baciò. Con morbidezza e una certa tensione, posò le sue labbra sulle nocche e ricordo perfettamente che per un attimo sentii il suo fiato tremare. Fuori era un uomo di ferro, ma dentro il suo piccolo universo stava esplodendo e cadendo a pezzi. Io li vedevo quei pezzi, uno dopo l’altro si sgretolavano fino a diventare polvere.
            « Non è cambiato nulla… - disse facendo un sorriso triste – alla fine riesci sempre a farmi piangere in ginocchio. Sei ancora tu la più forte. » risi e lo guardai negli occhi come solo io potevo fare.        
            « Non sono mai stata la più forte, – gli rigettai addosso quelle parole con crudeltà e insofferenza – il più forte tra noi due sei sempre stato tu. Hai avuto il coraggio di lottare per ciò che hai sempre desiderato e sei sempre stato il migliore. Io, io non ho mai avuto la forza di ribellarmi, né di far valere i miei ideali. Mi sono soltanto limitata a fare ciò che mi dicevano, lasciandomi scivolare addosso tutta la mia esistenza, come se non mi appartenesse. » le mie parole erano come delle lame affilate, che entravano nella sua pelle e laceravano ogni cosa si trovassero là sotto.  
            « Sai bene che quello non è il mio desiderio se non è come lo voglio io… - aveva la voce rotta – sei tu la mia forza. »    
            « No. Io sono solo un ostacolo, so che anche tu lo pensi. » ci fu silenzio e lui non contestò, niente l’aveva più ferito di quelle parole.     
            « Non siamo più bambini, guarda in faccia la realtà, stai per diventare adulto. È finito il tempo dei sogni. » Cominciai a tossire violentemente, persino parlare stava diventando troppo faticoso. Lui si gettò su di me e portandomi al suo petto, mi strinse forte, come se fossi la cosa più preziosa su questa terra.          
            « Non dovresti essere qui, lo sai. A quest’ora saresti già entrato a far parte della tribù. » lo sapeva bene e lo feriva questo, ma non si pentì della sua scelta di scappare, neanche un secondo, anche se tutto il mondo era contro la sua decisione, persino io. Strinse ancora di più, come se volesse farla tacere. Se non ero d’accordo con quello che voleva fare, allora perché sono scappata con lui?
            « Il mio posto è dove sei tu, questo lo sai bene… » ci stava provando ancora, ma la mia ragione mi impediva di credere a certe cose, anche se avrei voluto.          
            « Ci troveranno, lo sai? » gli dissi spietata.    
            « Allora lotterò con le unghie per riuscire a scappare. » amavo la sua ingenuità, il suo essere patetico, era una delle cose che mi aveva fatta innamorare perdutamente di lui. Ma io conoscevo la crudeltà del mondo, ero molto più realista, e se non fosse per quello che provavo, gli avrei certamente detto che era uno sciocco. Non si può scappare per sempre.

Nessuno dei due parlò, e rimanemmo abbracciati a lungo alla luce fievole di quel focolare che stava morendo. Sentivo solo il battito dei nostri cuori, che per un attimo, mi sembravano andare all’unisono. Mi sentivo al sicuro tra le sue forti braccia. Il suo respiro caldo sulla pelle mi faceva rabbrividire, conoscevo quella sensazione. Era da quella che nascevano i desideri proibiti.        
            « Io ti proteggerò, Leona. » e in quell’istante tutto sembrava andare finalmente come aveva sempre desiderato. Aveva pronunciato il mio nome, un suono così dolce dalle sue labbra, e di nuovo il desiderio proibito che si faceva largo tra i miei pensieri.

Improvvisamente, come un fulmine dal cielo, una lancia, scagliata con una forza immane, si conficco nella parete rocciosa, proprio accanto a noi. Sobbalzai terrorizzata per lo spavento. Al seguito di essa, si sentirono delle voci in lontananza che si facevano sempre più vicine e delle ombre si muovevano minacciose verso l’entrata della grotta. 
            « Che succede?! » esclamai spaventata.        
            « Ci hanno trovati! » rispose a denti stretti. Mi afferrò con forza e mi sollevò di peso facendo leva con le gambe. Non so bene cosa volesse fare, probabilmente portarmi in un posto sicuro, non se lo sarebbe mai perdonato se mi fosse successo qualcosa. Ma neanche il tempo di percorrere un passo che si sentì lo scoccare di una frusta, gli si legò al piede e lo strattonò forte fino a farlo scaraventare a terra e insieme a lui, caddi anche io. Quell’urto fu così violento che mi traumatizzò profondamente. Vedevo in modo confuso la sua sagoma alzarsi e cercare di venirmi in contro.      
            « LEONA! » mi gridò, ma neanche fece un passo verso di me che un'altra frusta, con più violenza di quella precedente, gli si legò al collo quasi strozzandolo. Tutto si fermò in quel momento. Guardavo la scena impotente e incapace di ribellarmi. Eravamo sempre lì, sempre insieme, ma non aveva il suo solito sguardo sereno. Il ragazzo che vedevo, non era lui, rabbia e paura avevano colmato il suo cuore. Un’altra volta. E io non potei fare nulla per impedire che lo inghiottissero.           
            Cinque uomini, armati di fruste, lance e spade, entrarono nella caverna e due di loro lo presero con prepotenza tirandolo e scalfendolo con le fruste. Li conoscevo tutti quegli uomini. Uno di loro aveva il volto di mio padre, ma in quel momento non ero sicura che fosse davvero lui, o semplicemente non volevo credere che lo fosse. Lui si dimenava e faceva di tutto per riuscire a raggiungermi, mi chiamava a gran voce sperando di riuscire a svegliarmi. Non so cosa mi avesse dato la forza, ma finalmente riuscii a riprendere conoscenza, forse era il mio senso di protezione, o il mio amore, mi alzai per correre verso di lui, ma fui fermata dagli altri tre uomini della tribù che non ci permisero neanche per un attimo di sfiorarci. Almeno per l’ultima volta prima di dirci addio.      
            Lottavamo con tutte le nostre forze per riavvicinarci ma ci allontanavamo sempre di più e il nostri cuori, lacerati come se fossero stati divisi, presero a battere forte. Era finita. Ormai non c’era più motivo di lottare, l’avventura dei due bambini sognatori fu spezzata come si spezzano le ali ad un aquila.

« Perdonami Leona… non sono riuscito a proteggerti. » fu l’ultima frase che mi disse prima di essere portato via. È ancora vivo in me il dolore straziante che dovetti sopportare in quel momento. Lanciai un urlo e scoppiai in lacrime. Se non fosse stato per quegli uomini che mi tenevano, sarei finita faccia a terra.  
            “ Sei sempre stato tu il più forte ” continuavo a ripetermi, e in quell’istante sentì un’enorme voragine nel petto, qualcosa di così atrocemente grosso che divorò tutte le mie emozioni, facendomi diventare ciò che sono adesso. Nient’altro che un barattolo vuoto.   
            Se non ero d’accordo con quello che voleva fare, allora perché sono scappata con lui?     
            Perché tu eri sua, Leona.
   
 
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