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Autore: avalon9    18/02/2018    4 recensioni
Le cicatrici di Marin sono tanti strappi collezionati su un’anima ormai costellata di rattoppi, sottile come carta velina; tanto sottile che basta un accenno per lacerarla.
Ma l’anima di Marin è anche l’anima di una guerriera.

Post Ade; post Soul of Gold. Interludio fra i Cieli e Omega.
Marin. E la sua forza. Perché è un peccato che un personaggio come lei sia solo scomparsi. E perché no: Ljúfa non potrà mai sostituirla.
Attenzione: novel
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Eagle Marin, Leo Aiolia, Lyfia
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Crescendo'
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Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of live

Personaggi Principali: Marin dell’Aquila; Ljúfa

Altri Personaggi: Aioria solo nominato; Hilda e Freya e tutta la combriccola del nord

Rating: giallo

In proposito:

Le cicatrici di Marin sono tanti strappi collezionati su un’anima ormai costellata di rattoppi, sottile come carta velina; tanto sottile che basta un accenno per lacerarla.

Ma l’anima di Marin è anche l’anima di una guerriera.

Post Ade; post Soul of Gold. Interludio fra i Cieli e Omega.

Marin. E la sua forza. Perché è un peccato che un personaggio come lei sia solo scomparsi. E perché no: Ljúfa non potrà mai sostituirla.

Disclaimer: i personaggi sono di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^

Note: novel; one shot; missing moments

Cose: Rieccomi. E no, non credo che sarà un rientro lungo. Solo una passata, a volo di gabbiano. Veloce veloce. Ma ho bisogno di scrivere, in questo periodo. Un bisogno quasi viscerale di farlo (e qualcuno ne sa il motivo). Tanto bisogno e poco, pochissimo, tempo. E allora ritaglio tempo alla notte, al sonno, ad altre cose. A piccole altre cose. E mi ritrovo qui.

Questo “Crescendo” è un side story.

Non è un interludio come è successo con Shaina. No. È proprio una storia a parte. Un altro spaccato; un altro momento. Due anni dopo la fine della guerra contro Ade, Artemide e i Cieli. Due anni dopo l’ambientazione di Soul of Gold. E prima che i cavalieri d’oro tornino. Perché sì. Perché per me ritornano. Ma ci vorrà pazienza. E tempo. E intanto la vita va avanti, le storie vanno avanti. E ci si ritrova a fare scelte che forse una volta non si pensava di fare.

È Marin la protagonista di questa storia. Marin e il suo mondo, il suo sentire, il suo essere guerriera prima ancora che donna. Marin e il suo lutto. La perdita dell’uomo che ha amato; e la complicità con un fratello che ha ritrovato.

Se vogliamo, cronologicamente si colloca dopo Apteros (posto che Apteros non è inserita in Crescendo. Ma vabbè).

È anche il confronto fra due donne, due donne molto diverse che hanno avuto solo un uomo a unirle. È anche il confronto fra Marin e Lyfia( o Ljúfa come ha preferito scrivere il suo nome, con la versione nordica antica).

Soul of Gold mi è piaciuto. Forse non è stato quello che mi aspettato, ma mi è piaciuto. Molto (e sì: non dimentico certe forzature, o camicie inguardabili. Né certi atteggiamenti. Ma che ci volete fare? Le ciambelle non riescono tutto con il buco, ma anche se assomigliano a un krapfen sono comunque buone. No?).

Quindi.

Quindi. Ho deciso che un incontro fra Marin e Ljúfa ci doveva essere. Con tutto il carrozzone emotivo che comportava. Dovevo partire da lì. E invece, come spesso mi succede, ho preso la tangente ed è diventato…questo. Questo rimestarsi di pensieri e ricorsi ed emozioni. Il confronto c’è. Certo che c’è. Ma alla fine è diventato altro. È diventata Marin che si racconta. Non so nemmeno io se bene o male.

E comunque sì: ad Ásgarðr la situazione è cambiata, dopo l’ultimo scontro. E sì: ci sono i nuovi cavalieri del Nord sopravvissuti (Fróði e Sigmund), e ci sono anche i cavalieri del Nord storici, in questo mio personale headcap. Mizar e Alcor sono vivi: e per l’occasione ho trovato per loro anche un nuovo nome (giocando un po’ con quelli che sono i nomi nelle loro schede tecniche. Però, perdonatemi: ma chiamarli Syd e Bud proprio non mi piaceva. Nonono!). Quindi Mizar è diventato Syvurr (che sì, un po’ ci assomiglia a Syd) e Alcor è diventato Buðli (che come vedete ricorda Bud).

E poi: Siniy gorod è Blue Grado. Sì: le ho dato un nome più russo, perché non ce la vedo proprio, una città dal nome inglese persa nelle distese della Siberia. E visto che grado è assonante a gorod (e che sì, in russo indica una città) ho semplicemente tradotto Blue con il blu russo (Siniy ). Insomma, per me, Blue Grado è Siniy , una città al limite con il circolo polare artico, fra i ghiacci della (disabitata. E questo è narrativamente comodo) isola di Krupskoj, amministrata dal distretto di Tajmyrskij, nel distretto Federale Siberiano. Non ci avete capito niente? Non importa, neanch’io! (No, dai: esagero!). Comunque: prendete la Siberia, andate a nord, fra i ghiacci, e poi ancora più su, fra quelle isolette del mare di Kara che la terra ce l’hanno sotto metri e metri di ghiaccio purissimo. Ecco, avete capito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Crescendo – Storia parallela

Forza

 

 

 

Fuori dalla finestra, Ásgarðr è una distesa bianca fin oltre l’orizzonte.

Neve sottile, impalpabile; neve farinosa, di quella che ti si appiccica addosso senza quasi che tu te ne accorga. Ma c’è. È la neve peggiore, perché si deposita senza che tu te ne accorga; perché basta una folata di vento a farla sfavillare come cristalli. E poi. Poi ridiscende. Subdola. E spietata.

È arrivata ad Ásgarðr in una notte di dicembre. Con la neve che cadeva come polvere di ghiaccio. Quel pulviscolo sottile e farinoso che penetrava nelle vesti con il vento freddo del mare.

È arrivata senza essere realmente attesa, rivestita dell’argento di un’armatura che ancora porta su di sé i segni di una passata battaglia. Ed è arrivata per rendere omaggio alla nuova regina, a Freya Sveinndóttir Aeser, sovrana di Ásgarðr.

Perché è quello che Anissa le ha chiesto.

Perché è l’incarico che Anissa le ha assegnato, prima di concederle di nuovo quel riposo che le ha promesso. Quella preghiera che le ha intuito nella mente prima ancora che Marin la realizzasse appieno.

Ma da quando Touma.

Da quando i Cieli si sono chiusi e Touma è tornato con lei, è tornato per lei. Da quel giorno, Marin ha iniziato a cambiare. Ha iniziato forse a desiderare di ricordarsi un’altra vita, un’altra possibilità. Ha iniziato a sognare tutti i ma se però ricacciati nella gola, fatti rimestare nel fondo dello stomaco in anni e anni o in un solo istante. Perché gli istanti sono dei bastardi, e quando passano, e passano subito, sono passati. E allora puoi solo restartene lì, a chiederti tutti i ma se però che non hai detto. E a sognare.

E Anissa. Anissa aveva capito.

Anissa aveva capito e le aveva sorriso, in quel giorno d’autunno, le nuvole basse a rincorrersi nel cielo di Atene. Anissa le aveva sorriso, e le aveva detto puoi scegliere.

Perché l’amava, anche se non la capiva.

Perché intuiva dietro al suo dubbio e alla sua ritrosia, la difficoltà di una decisione che sembrava labile come un sogno. Perché Anissa sapeva il desiderio che si era fatto strada in Marin, nei giorni passati al capezzale del fratello. E perché conosceva le molte, troppe cicatrici che Marin si portava dentro, collezionate nel silenzio del guerriero saldo nella sua determinazione. Ma ci sono, quelle cicatrici. E bruciano.

Perché non era il rimpianto per una vita abbandonata da bambina, a tormentare Marin. Non era solo quel rimpianto. Ma anche un altro, un dolore che cresceva sordo nel fondo dello stomaco, che le artigliava il ventre con la rabbia e la fame di un cane randagio. Un dolore che la straziava senza avere il diritto, o forse il coraggio, di urlare.

Uno strazio che Anissa vedeva, sentiva nel cosmo di Marin che si straziava come l’urlo alto dell’aquila. Un’agonia che Anissa percepiva, e non capiva. Non come avrebbe voluto; e come mai avrebbe davvero potuto.

E per questo le aveva concesso tempo.

Il tempo del riposo; il tempo dello strazio. Il tempo di rialzarsi e ritrovare ancora, di nuovo, nel fondo del dolore, lì dove il dolore si deposita come un sudario, la forza di rialzarsi, di tornare a camminare fiera e risoluta nel sole.

Nankurunaisa diceva il vecchio Kido, con la saggezza degli anni nelle rughe collezionate e nel sorriso sereno che solo l’età regala. Con il tempo tutto si sistema, diceva.

E ti lasciava illudere. Che il tempo lo cancelli, quel dolore. Lo trasformi. Te lo faccia dimenticare. E invece. Invece con il tempo scopri solo che il dolore non passa, se ne resta lì; e quella a passare, quella a cambiare sei tu. Perché il dolore è quella cicatrice che ti ha strappato l’anima, e anche se l’hai rattoppata, una toppa è una toppa e ogni tanto anche le toppe cadono e te lo riportano a galla, il buco che volevano nascondere.

Le cicatrici di Marin sono tanti strappi collezionati su un’anima ormai costellata di rattoppi, sottile come carta velina; tanto sottile che basta un accenno per lacerarla.

Ma l’anima di Marin è anche l’anima di una guerriera.

Di una donna che ha dimenticato il suo viso dietro una maschera d’argento; che ha soffocato ogni sentimento, anche quando il respiro era un grumo di aria e saliva che bloccava la gola. Ma l’ha fatto. Ha piegato la testa e ha obbedito. Tante volte; molte volte. Cedendo alla volontà di Anissa sovrana.

E Anissa lo sa.

Sa cosa Marin ha sacrificato per lei; sa quanto le sia costato seguire i suoi doveri e i suoi comandi, senza permettersi un commento, senza osare un lamento.

Per questo le ha lasciato il tempo. Le ha donato la libertà.

E per la prima volta, Marin si è accorta che poteva davvero decidere.

Decidere se perseverare, impassibile in una volontà che le congelava i rimpianti, che le strozzava le lacrime; oppure. Oppure concedersi il tempo del dolore, fra le braccia di un fratello ritrovato. Di quel fratello che ha nelle carni una storia di sofferenza e amore che Marin ha terrore di domandare.

Ma poteva decidere. Il suo ruolo fra le schiere di Anissa o. O quello che aveva perso a otto anni; quella vita che forse le sarebbe appartenuta. E che ha giocato in un istante. Quando a otto anni le hanno detto: scegli. O tuo fratello o tu. Quando a otto anni l’hanno gettata nell’arena; quando a otto anni si è ritrovata il sangue in bocca e le ginocchia sbucciate da tante volte finita al tappeto. Da quando aveva imparato che la vita è piena di grandi fregature; e che la realtà fa male.

Quel giorno d’autunno.

Quel giorno pesante, con il sapore della pioggia in bocca e l’odore greve e salino del mare che insinua in ogni respiro, Marin ha osato sollevare il viso e guardare Anissa, guardare la dea cui ha immolato tutto: la vita, il cuore, il ventre.

E nel sorriso di Anissa, in quel sorriso che sapeva di luce e tranquillità, di concessione senza limiti o richieste, Marin ha respirato per la prima volta forse da sempre un respiro di libertà.

Libertà di decidere, di scegliere, di pensare. Pensare a. A qualcosa che non fosse un ordine da eseguire o una decisione da prendere, nell’arco di un respiro, mentre il tuo avversario calibra ogni tuo movimento e cerca il punto debole, la caviglia che ancora fa male, la giuntura dell’armatura che segna il confine fra vittoria o sconfitta.

È sempre stata una persona pratica, Marin dell’Aquila. Eppure.

Eppure, quel pomeriggio d’autunno, ha raccattato nel sorriso di Anissa l’illusione più grande.

Perché le illusioni servono a rendere più bella la realtà. E tu hai imparato che, per sopravvivere, devi avere il coraggio, invece, di guardarla in faccia la realtà. Di guardarla ogni momento, sia in quelli belli, dal sapore di olive e focaccia mescolata a sudore e polvere di rena; e in quelli brutti, quando la maschera è la sola cosa che ti impedisce di crollare, e ti ci appigli con la disperazione del naufrago che non si vuole rassegnare ad affondare. Soprattutto in quelli brutti, in verità. Perché la vita del soldato è come quella del pedone della scacchiera: basta un istante per uscire dalla partita.

Perché sì, anche il pedone può dare scacco al re. Ma è anche quello che si può sacrificare. Perché il cavallo avanzi; o la torre; o l’alfiere. O semplicemente perché è l’unico lì, davanti al re. E allora. Allora è meglio se a morire è il pedone. Chè forse il re, poi, la sua vittoria riuscirà ad averla.

Marin lo sa.

Lo ha scelto quando di scelte non ne aveva molte. Lo ha scelto a otto anni, scambiando la sua vita per la vita del fratello. Giocando al guerriero senza ancora nemmeno sapere cosa fosse esattamente, un guerriero. Lo ha scelto a otto anni, un robottino di plastica fra le mani e il braccio di suo fratello che le strizzava la vita. Ma lo ha scelto. Ha scelto di essere il pedone, ha scelto di essere il soldato. E ha scelto di raccontarsi la bugia più grande di tutte: di essere stata lei stessa a volerlo.

E forse. Forse fino a quando Touma non è ritornato; forse fino a quando Touma non è stato un corpo stretto fra le sue braccia, quella bugia era la sua verità. Era la normalità.

Perché Marin è sempre stata una persona pratica. E concreta. E quando ha scelto ha scelto e Anissa è diventata la sua vita. Anissa è diventata il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera. Anche quando tutto era confuso; anche quando al Tempio serpeggiava sospetto e confusione.

Per Marin, Anissa è stata la fede incrollabile di una scelta fatta a otto anni. Tanto forte e incrollabile da accettare il sospetto del tradimento in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni parola.

Perché è quello che ha vissuto; è quello che ha provato. Quando il Sacerdote le ha affidato, a lei bambina, un bambino da addestrare. Quando Saga le ha detto custodiscilo e crescilo, e lei si è ritrovata a educare un bambino come lei. Un bambino che prima della fedeltà aveva la volontà, un bambino che aveva imparato in fretta che la vita la devi graffiare con le unghie e con i denti. Per non essere tu, quello divorato e fatto a pezzi.

Seiya lo ha cresciuto così, sospeso fra il mondo di Anissa e il ricordo sfumato di una terra lontana, di quella terra che li ha visti entrambi nascere e che entrambi si erano visti strappare.

A Seiya, Marin ha scelto di non mentire.

Perché le bugie sono per le donne. E per gli sciocchi. E Marin non è mai stata una sciocca; e ha rinunciato a essere una donna.

Eppure.

Eppure quel pomeriggio d’autunno, con le nubi scure e dense a riempire il cielo e nell’aria quel sottile velo di elettricità che fa accapponare la pelle, Anissa le ha fatto il dono più grande: l’ha lasciata andare.

E lei. Lei ha scelto.

Ed è stato dolore lasciare il Tempio; è stato dolore imparare un’altra vita, un altro tempo. È stato strano scoprire di nuovo il viso, scoprire di avere ancora un viso, sotto la maschera d’argento. È stato come rinascere. Come imparare di nuovo a camminare, a respirare, a parlare.

E Touma.

Touma le è stato accanto. Touma continua a starle accanto. Si sono sorretti a vicenda, in quei due anni. Si sono riscoperti; si sono studiati. Il sospetto e la diffidenza mescolarsi a qualcosa; qualcosa di altro, di antico. Gesti che un tempo si conoscevano; sguardi che una volta si comprendevano.

È stato. Per Marin è stato un addestramento. Un lungo nuovo addestramento.

Nello scoprire come rilassare il respiro; nel ricordare il significato di un sorriso. Nell’apprendere di nuovo il ricordo di suoni, odori, sapori di una vita passata, di una vita sbiadita in ricordi che si credevano simili ai sogni.

Sono stati due anni trascorsi come sospesi, lasciando che il tempo sbiadisse le cicatrici e costruisse complicità, lasciasse sussurrare confessioni e ricordi, con il timore che si infrangano nel silenzio di un pensiero abbandonato.

Sono stati anche due anni consumati nella volontà di non ricordare, di lasciare sopito un dolore mai davvero vissuto, una sentimento mai pianto e abbandonato. Ma vivo; forte e graffiante come gli artigli dell’aquila, come lo squarcio che le ha mangiato il ventre.

Perché parlare di Leo. Perché parlare di Aioria.

Parlare di Aioria è solo dolore. È un dolore che non ha neanche voce, nel respiro che ti strozza la gola in quel nodo che non va né su né giù. Se ne resta solo lì. Fermo. Con il cuore che ti martella nella testa e le lacrime che non ne vogliono sapere di uscire.

E Marin ha imparato che le lacrime non servono a nulla. Le lacrime non ti ridanno i fratelli che ti sei visto strappare e nemmeno gli uomini che se ne sono andati, regalandoti un bacio d’addio.

Marin lo ricorda, quel bacio.

L’ultimo che Aioria le abbia dato. Sulle labbra fredde della maschera, prima che lei partisse per la sua missione. Era stato di luglio. Il luglio di due anni prima.

Con ancora sulla pelle il calore di un amore consumato per disperazione. Perché Marin sapeva che avrebbe potuto non rivederlo; e Aioria nascondeva dietro il sorriso innamorato e le promesse da marinaio la sua più grande menzogna. E mentre giurava di amarla, sapeva che l’avrebbe abbandonata. E mentre la toccava, sapeva che la stava toccando per l’ultima volta.

Lo sapeva Aioria; e lo sapeva Marin.

Per questo aveva deciso di andarsene per prima. Per questo aveva accettato senza esitazione la missione che Anissa le aveva affidato.

Trova Seika, le aveva detto Anissa. Trova la sorella di Seiya. È qualcosa che gli ho promesso. È tempo che mantenga quella promessa.

E Marin aveva chinato il capo, senza chiedere e senza esitare. Grata. Quasi sollevata. Perché non avrebbe dovuto attendere al Tempio l’avvicinarsi dell’autunno. E con l’alzarsi delle prime costellazioni invernali lo scadere della tregua e l’inizio della guerra.

Aveva accettato di partire; e aveva accettato di farsi amare un’ultima volta.

Quel pomeriggio che andava declinando; una sacca da viaggio ancora da finire e un’urgenza nei respiri che non era solo desiderio. Si era lasciata amare, quel pomeriggio di luglio, nel frinire delle cicale che la ubriacava, nel caldo che affannava ogni respiro.

E Aioria.

Oh. Aioria era bello. Bello come vuole ricordarlo. Con i capelli in disordine e la pelle, quella pelle abbronzata, lucida. Salina. Sudata.

Era bello; così bello. E le sorrideva. Le sorrideva in un modo selvaggio, ferino; le sorrideva con la disperazione e il desiderio. E c’erano le sue mani; quelle mani grandi e ruvide, da soldato. Quelle mani che le aveva sfiorato il seno e il ventre; quelle mani che l’avevano amata. Amata così tanto.

Ma era un soldato, Aioria. E lo è anche lei.

E quando sei un soldato, sai che ogni volta che ami può essere l’ultima volta. E sai che non ti devi illudere. Che il giorno dopo potrai crepare in battaglia, o a crepare potrà essere l’altro. E sai che prima o dopo stringerai di nuovo quel corpo che hai amato, amato così tanto. Lo stringerai per l’ultima volta, prima di lasciarlo sulla pira. E poi. Poi lo vedrai ardere. E la bocca sarà un grido muto al cielo.

Marin lo sapeva. Lo ha sempre saputo; e lo ha accettato.

Ha accettato un amore, un desiderio, destinato a finire assieme all’ansimare che torna normale. Ha accettato Aioria con la sua passione, la sua tristezza, con la rassegnazione alla vita che le graffiava la carne. Ha accettato che la amasse. Concedendogli tutto di sé, tranne il viso. Quel viso intrappolato in una maschera d’argento.

Perché togliere quella maschera. Oh. Toglierla sarebbe stato così facile, così semplice. E così bello. Sarebbe. Sarebbe stato quel passo che Marin non poteva permettersi; sarebbe stato ricordarsi di essere donna, e non solo cavaliere. Sarebbe stato ricordarsi di essere altro, di volere altro, di un amore consumato nella disperazione di chi non vuole rimpianti.

Marin lo sapeva. Lo ha sempre saputo; e lo ha accettato.

Ma non fa meno male per questo. Ti lacera le viscere ogni volta che il pensiero di travolge, a tradimento. Come una mareggiata improvvisa. Non fa meno male; non ne fa nemmeno di più. Fa solo male.

E allora. Allora anche quello può andar bene.

Anche quella missione fra le nevi del nord può servire. Perché Touma aiuta; perché la normalità di una vita recuperata è una vertigine che disorienta. Ma Marin sapeva. Sapeva che quando Anissa l’ha lasciata andare, non sarebbe stato per sempre.

Sapeva che, prima o poi, qualcosa sarebbe tornato. E le avrebbe chiesto di nuovo di scegliere. E lei. Lei non avrebbe esitato.

Perché non puoi esitare, dopo che per anni la tua vita è stato il campo di battaglia e l’alalai urlato al cielo di Grecia, l’orgoglio dell’armatura conquistata a ricoprirti come un vanto, nel lucore del tuo cosmo. Forte. Saldo. Fedele.

Per questo Anissa l’ha scelta. E per questo Marin ha accettato.

Perché un soldato sarà sempre un soldato. Anche quando le sue mani non riusciranno più a combattere e la bocca avvizzita biascicherà parole come un mantra di vecchie memorie. Anche in quei momenti; anche allora. Anche allora Marin sa che sarà pronta a servire. Perché è quella, l’unica cosa che ha sempre saputo fare. E che ha sempre fatto con orgoglio.

“Sono contenta che tu abbia accettato di incontrarmi.”

Ljúfa ha un sorriso caldo, accogliente. Come il piccolo salotto dalle pareti di quercia. E c’è profumo di mele. Mele, cannella e miele. È come un sentore sottile che pervade l’aria, con il retrogusto della cenere e della neve.

È bella Ljúfa. Bella e fresca come una primula di maggio.

Marin non l’ha mai incontrata prima. Sa solo quello che ha sentito di lei, nelle ore trascorse nelle sale del palazzo: è la prima sacerdotessa del regno, dopo Hilda di Polaris, dopo che Freya sarà incoronata.

Ed è la sposa di Syvurr di Mizar. La sposa di uno degli ultimi cavalieri di Ásgarðr, di uno degli uomini che Seiya e i suoi compagni hanno affrontato per liberare la Sacerdotessa.

E si chiede perché, una donna come lei, una donna che ha nelle sue mani un potere pari solo a quello della casata reale, abbai chiesto di lei, di un semplice cavaliere d’argento. Abbia chiesto del rappresentante del Tempio.

E cosa sia, quel misto di imbarazzo e trepidazione che le legge sul viso, che le intuisce in quegli occhi che non riescono a smettere di guardarla, di fissarla, di studiarla.

Ljúfa parla.

Parla con la fretta che hanno le bambine, quando sono contente, trepidanti, quasi ansiose. E non sanno come riempire i vuoti di una situazione che è insieme gioia e imbarazzo. Ljúfa parla, ondeggiando per la stanza senza riuscire davvero a decidere cosa sia meglio fare. Se sedersi davanti al camino acceso o sotto la grande finestra piombata; se versare una coppa di dolce idromele e offrirlo alla suo ospite o starle semplicemente davanti, fissandola negli occhi ciechi della maschera.

Non sa cosa fare; non sa come fare.

E allora parla; e ondeggia come un fuscello carezzato dalla brezza. Ora muovendo appena le mani nell’aria, ora posandosele sul ventre gonfio che si indovina fra le pieghe del raffinato vestito.

Marin ascolta.

L’ascolta mentre racconta rapida, frenetica, un sorriso intrappolato sulle labbra, della cerimonia, di quello che significherà per Ásgarðr l’ascesa al trono di Freya. L’ascolta mentre le racconta delle condizioni di Hilda, di quel male che la sta divorando pezzetto per pezzetto e che non riesce comunque a fiaccare la sua resistenza, la sua determinazione. Le parla della scelta che la Sacerdotessa ha fatto, la scelta di ritirarsi, tenendo per sé solo gli incarichi sacri più importati, e la volontà di Buðli di Alcor di seguirla, di starle al fianco con devozione. Per proteggerla. Anche da se stessa.

Marin l’ascolta.

Mentre le parla di Hyoga, del ruolo che ricopre a palazzo, dell’importanza che un cavaliere di Anissa mantenga salda quell’alleanza ricostruita sul sangue di una guerra inutile e insensata. Mentre le racconta dei rapporti rinati con Siniy gorod, con la Città Azzurra, a Gardariki. Mentre.

È un fiume in piena, Ljúfa.

Un torrente che ha rotto gli argini e riversa le sue acque su tutto: case, alberi, persone. Marin se ne lascia solo investire. Come è abituata a lasciarsi investire da ogni cosa: cercando di capire.

Lo ha sempre fatto. Lo ha fatto per sopravvivere; lo ha fatto per abitudine. Lo ha fatto perché ce l’ha nel sangue, nell’eco di parole che una voce anziana le cantilenava. Quando era bambina, all’ombra di engawa fresche nel calore estivo, uno yukata sulla pelle e la bocca piena di kasutera lasciato a raffreddare nel pozzo.

Ce l’ha nel sangue, quel modo di ascoltare. Piegando la testa di lato senza malizia, come un cucciolo curioso che conosce i propri limiti.

Aioria l’aveva avvicinata anche per quello. Per quel modo che aveva di ascoltare il mondo, lieve e sfuggente come il frullio delle ali di un passerotto. Per il modo che aveva di stare ad ascoltare lui, lasciando solo che la confidenza crescesse spontanea nelle mani che si avvicinavano ogni volta un po’ di più. Ogni volta un centimetro alla volta.

Aioria.

Così semplice. Così genuino. Così. Aioria.

Marin lo può ricordare solo così. Con le prime confidenze riempite di parole impacciate; con le scrollate di spalle di quando, ragazzini, era arrabbiato con il mondo intero. Lo ricorda quando pestava i piedi, ostinato, e rifiutava di indossare l’armatura. Anche al Tempio. Ricorda il suo viso imbronciato e i capelli tinti per scurirli, di quel colore che le ricordava il fuoco di un tramonto. Ricorda il modo in cui le sorrideva, nascondendo il viso dietro una mano, e di come si stropicciasse i capelli quando lei lo rimproverava.

E ricorda quando se l’è ritrovato davanti per la prima volta fulgido dell’oro di Leo.

Era venuto per parlare anche quella volta. Di un uomo morto per difenderlo, dentro una centrale nucleare.

Aioria aveva un bisogno viscerale di parlare, di raccontare, di. Forse solo di sapere che c’era ancora qualcuno disposto ad ascoltare. Disposto a restare a conversare con il fratello di un traditore.

E Marin.

Marin si era strappata uno spiraglio, nei suoi silenzi e nei suoi malumori. Marin si era ritagliata la confidenza che nasce solo con l’esserci, con il guardare lo stesso orizzonte, giorno dopo giorno, senza chiedere e senza costringere. Ascoltando. Solo ascoltando. Fiumi di parole o mari di silenzio.

È per questo che Aioria l’aveva scelta.

Ed è per quello stesso motivo che Anissa le ha affidato quella missione. Perché ci vuole diplomazia e abilità, per non intaccare un equilibrio fragile che si sta ancora consolidando. Perché ci vuole esperienza, per saper ascoltare ogni cosa che ti circonda senza sentire davvero ogni parola, soffermandoti solo sull’utile, sul necessario. E Marin. Marin era stata la scelta più adatta. La scelta naturale.

Come era stato naturale accettare. Anche se il cuore urlava solo strazio.

Quest’incontro però. L’incontro con Ljúfa Nyström, sacerdotessa di Odino. Questo non era previsto. E Marin non riesce a trovarne ragione.

“Scusami” ride all’improvviso Ljúfa, stringendo le spalle sottili, da uccellino. “Davvero. Di certo ti sto annoiando”.

È così minuta, e delicata. Come Marin. Ma Marin ha imparato il portamento fiero del soldato; Marin ha una corazza a irrigidirle le spalle e offre al nemico l’orgoglio dell’argento vinto nell’arena.

Ljúfa invece.

Ljúfa sorride, stringendo le mani fra loro, rimestando nello stomaco forse l’imbarazzo forse il coraggio per dire quello che davvero vorrebbe dire.

Ma non è facile. Non è affatto facile.

È qualcosa che ha voluto fin dal primo istante. Fin da quando Fróði l’ha informata che come rappresentante di Atena sarebbe giunta alla cerimonia una sacerdotessa: Marin dell’Aquila.

Ha temuto e aspettato quel momento con la stessa trepidazione che aveva quando ha stretto il corno che avrebbe condiviso con Syvurr. E adesso. Adesso che la vede, adesso che ha trovato il coraggio di incontrarla e parlarle, non riesce davvero a dirle quello che vorrebbe.

Perché Marin è bella.

Di quella bellezza discreta e selvaggia che hanno i predatori. Elegante, aggraziata; eppure Ljúfa avverte in lei gli echi del suo cosmo, un cosmo duro, determinato. Un cosmo plasmato nella vita strappata con artigli e unghie affilate. Il cosmo di chi è pronto a servire, rinunciando a tutto. Anche a sé stessi.

Le ricorda il cosmo di Fróði.

Le ricorda la determinazione che gli incendia lo spirito quando scende in battaglia, quando combatte in difesa della sua terra. Avrebbe voluto combattere anche per lei, Fróði. Per lei e per il suo sorriso, per il suo cuore. Per lei e per un amore nato d’estate, nell’estate della prima giovinezza. Quando i sentimenti sono ancora una farandola confusa che ti lascia con gli occhi bassi e le guance rosse; quando due mani che si sfiorano sanno di nuovo e sconosciuto e lasciano un rimescolio nello stomaco che non riesci a decifrare.

Fróði l’ha amata, Ljúfa lo sa. L’ha amata come si può amare a quindici anni, innamorandosi di un’idea, di un’immagine, del proprio stesso sentimento.

L’ha amata; e l’ha lasciata andare, cingendole i capelli con un velo grazioso, dalla trama sottile di argento e i ricami d’oro e ambra. L’ha amata, Fróði, e le ha fatto da testimone quando Liúfa aveva unito le mani e il sangue con Syvurr e con lui aveva bevuto dal corno.

Adesso, Fróði le è accanto come quando, da bambini, si sostenevano nella crescita. E combatte per lei, per il figlio che porta in grembo e per la sua patria. E combatte anche per il sentimento nuovo, diverso, che gli ha confidato sta crescendo dentro di lui per una ragazza dalle guance piene di vita. Una ragazza che non è né una guerriera né una sacerdotessa, ma solo la ragazza che Fróði adesso desidera.

È anche per questo che Ljúfa ha voluto incontrare Marin. Ha voluto incontrare la donna che ha intravisto anni prima, nel sorriso malinconico di un cavaliere che era giunta a salvarla. Come nei racconti degli skaldi. Un cavaliere di cui conserva ancora il ricordo vivido, palpabile. Come del primo raggio di sole, come del calore di una terra che non ha mai visto. E che mai vedrà.

“No, gyðja” inclina il capo Marin. Un cenno appena, di cortesia. “Sono a vostra disposizione.”

Sì. Marin le ricorda Fróði.

Il cenno della testa, il portamento rigido e altero; i gesti misurati e l’attenzione apparente che riserva ad ogni cosa. E sa; sa che anche gli occhi di Marin sono come quelli di Fróði: sono gli occhi di chi è abituato a servire. Non può vederle il viso; e non le chiederà di mostrarglielo. Hyoga ha raccontato loro qualcosa, nei pigri pomeriggi invernali, delle tradizioni che vigono al Tempio.

Già. Hyoga.

“Hai notizie di Hyoga?” le chiede. Tergiversando ancora. Aggrappandosi come un naufrago ad ogni pretesto, ad ogni parola che le sfiori la mente. Cercando disperatamente un modo, un’occasione, una breccia per dire quello che davvero vorrebbe dire. La sola cosa che davvero le preme dire. Il solo motivo per cui ha voluto davvero incontrare Marin dell’Aquila.

“Sta bene” soffia Marin, la voce impassibile. “Appena avrà risolto a Siniy tornerà. Gli dispiace non poter essere presente, ma”

“Conoscevo Aioria.”

Ecco. Lo ha detto. Non le ha dato il tempo di finire la sua risposta, e glielo ha detto. Stringendo forte le mani fra loro e gridando, quasi. Perché la voce era un nodo nella gola e non sapeva se avrebbe avuto davvero la forza per dirle, quelle parole.

Lo ha detto, e le sembra di riuscire di nuovo a respirare. Le sembra di aver appena confessato qualcosa di grande, e pesante, e segreto. Qualcosa che ha conservato gelosamente per sé per troppo tempo per non essersi trasformato in un macigno che le gravava sullo stomaco.

Glielo ha detto. E si pente di non aver chiesto a Marin di mostrale il viso. Perché, almeno, adesso non dovrebbe fissare degli occhi ciechi e. E potrebbe vedere una qualche espressione. Un’espressione qualsiasi che non fosse l’indifferenza dell’argento che cela Marin.

Perché Marin è immobile.

Marin ha solo smesso di parlare, lasciando la frase così, sospesa. Perché Marin non è né arrabbiata né sorpresa. Solo. Solo non capisce. Solo non riesce a capire come, quando, dove. Dove Ljúfa possa aver incontrato Aioria. E perché. Soprattutto il perché.

“È stato” riprende piano Ljúfa, mentre si siede lenta. Le mani su quel ventre che ora a Marin sembra troppo grande, troppo pieno, troppo vivo. Quasi osceno.

“È stato due anni fa. Mentre Atena combatteva con Ade” ricorda Ljúfa, gli occhi socchiusi a recuperare un periodo che. No, non può definire bello. Ma che le ha lasciato una cosa, un qualcosa che ha il ricordo di una carezza di luce calda, avvolgente. E la speranza, anzi la sicurezza, di un nuovo inizio: nel freddo traslucido e crudele di Ásgarðr, sotto lo sguardo di Odino benevolo. Nel suo abbraccio benigno e spietato.

“Non” tentenna. “Non sai nulla, di quella battaglia?”

No.

Marin vorrebbe scuotere la testa. E vorrebbe non dover ricordare. Perché Aioria è morto, nella guerra contro Ade. È morto al Muro del Pianto, frantumato in una miriade di stelle. E lei. Lei si è sentita lacerare, quando il cosmo di Aioria ha semplicemente smesso di essere. Quando si è spento come una fiammella ad un alito di vento. Improvviso; e devastante. Come il vuoto che le si era scavato dentro in quell’istante.

E dopo quell’istante tutto è diventato rapido, quasi frenetico. Anissa che ritorna, fulgida di potere e vittoria. Seiya. La sua vita come un filo. E poi ancora Artemis, e Touma e il Tempio violato da riconquistare e un fratello da sottrarre alla battaglia, da ridestare alla vita. E poi ancora. Sei mesi alla ricerca di Seiya. I Cieli e la follia di una nuova guerra appena sfiorata. La ferita che le squarciava il ventre rimarginarsi, lasciandosi dietro solo la sensazione dell’assenza. E poi ancora. La vita lontana dal Tempio; la vita con Touma. Una vita trascinata cercando di rimettersi in sesto, di non pensare a. Cosa si è perso. E poi. Poi ancora.

No ripete a se stessa. Non ne so nulla.

Non sa cosa sia successo ad Ásgarðr in quegli anni. Non ha mai chiesto; non era suo interesse chiedere. Hyoga. Hyoga qualche volta forse ne ha parlato. Durante alcune riunioni, sì; durante alcune riunioni in cui tornava. Ma lei. Lei era lontana. Un mare diverso e un cielo diverso ad accoglierla. Lei era lontana da quella terra, dalla Grecia profumata di ulivo e ginestra. Da quella terra che le ricordava troppo Aioria, il suo odore e quel suo sorriso così dolce e crudele.

E Ljúfa la sta osservando.

Sta cercando di indovinare nel suo corpo una risposta che non esprime sul viso, che non esprime con le parole. Una risposta che è il realizzare qualcosa che forse non si vuole sentire, che non si vuole conoscere. Senza avere la forza di negarlo.

“Il Vento. Loki. Ha tentato. Ha tentato di” non riesce nemmeno a dirlo. Perché fa ancora troppa paura, il pensiero di quello che sarebbe potuto accadere. Il pensiero di quello che solo lei sembrava vedere. Ljúfa ricorda ancora con orrore l’indifferenza che Fróði aveva negli occhi. E le fa male ripensarci. La fa male ricordare cosa Ásgarðr ha rischiato.

Inghiotte a vuoto e guarda Marin, le spalle rigide e le mani abbandonate lungo i fianchi. Sembra che ogni parola le scivoli addosso senza toccarla. Sembra che l’ascolti raccontare quello che è successo due anni prima come stesse parlando di una sciocchezza, di un bisticcio fra bambini.

“Mi ha creduto” ricorda ancora Ljúfa, un sorriso come di nostalgia a incresparle il labbro che trema appena. “Aioria, intendo. Mi ha creduto; anche se nessuno voleva farlo.”

Perché Aioria era così.

Perché Aioria non era capace di negare qualcosa. E Marin rivede Lithos, nel viso di Ljúfa. Rivede i tratti infantili di una bambina raccolta per solitudine, e fatta crescere al riparo delle colonne di Leo. Una ragazzina incontrata per inciampo, e raccattata come si fa con un gattino infreddolito.

“Aioria era così” riesce appena a sussurrare Marin. “Amava credere alle cose difficili” aggiunge, e la voce le sembra un pigolio. Le sembra che le resti incastrata in gola, mescolata al dolore e allo strazio. Al ricordo di come Aioria affermasse, incrollabile, la sua volontà, la sua sicurezza. È cresciuto nella sicurezza di una verità che tutti ritenevano impossibile; che forse anche lei stessa non ha mai voluto ammettere vera. Eppure. Eppure Aioria ci ha creduto. Ha creduto in suo fratello con la cieca caparbietà che solo l’ingenuità può dare.

“Già” ride appena Ljúfa, sfiorandosi il collo come a ripetere una carezza, un contatto che è vento nella sua mente. “Era quello che lo rendeva bello.”

E si rivede, il capo biondo in grembo e la neve a vorticarle accanto. Si rivede come la prima volta che lo ha visto davvero, soffuso del lucore dorato di un cosmo che sapeva di sabbia calda e mirto e ginestra profumata. Che sapeva di una terra che Aioria sembrava portarsi addosso come una seconda pelle.

Era bello; così bello.

Nonostante il sangue e i segni di Einherjar a marchiargli il viso, Ljúfa lo aveva trovato bello. Bello in un modo nuovo, quasi doloroso. In un modo che le aveva fatto stringere le viscere e desiderare. Desiderare che lui la sfiorasse, anche solo per errore. Desiderare che la guardasse con negli occhi lo stesso scintillio che riverberava di cosmo. E poi forse. Forse.

Lo ricorda ancora con un sorriso di imbarazzo e malinconia, quel sentimento sconosciuto che aveva provato. Diverso dall’affetto che la lega a Fróði, dal sentimento di devozione che la lega a Odino. Diverso anche da quell’amore che adesso ha per Syvurr, quel sentimento forse più maturo forse solo diverso, cresciuto nei mesi di convivenza, al chiarore dei fuochi dei camini, nel quotidianità di una pace riconquistata.

Quello che provava per Aioria era diverso; era un sentimento diverso.

Ma è ancora così vivido; così palpabile da lasciarle un’eco di. Forse nostalgia. Sì: forse è solo nostalgia. Per l’ingenuità di una ragazzina cresciuta al riparo delle mura di Ásgarðr, nell’abbraccio rassicurante di un mondo visto all’improvviso precipitare.

E Marin lo vede.

Lo vede con disperazione e rabbia e rassegnazione, quell’accenno lieve che le addolcisce le labbra, mentre le parla di Aioria. Lo vede su Ljúfa come non ha mai osato vederlo su se stessa. E stringe il pungo e stringe i denti, per non ringhiare la sua frustrazione e la sua rabbia. Per.

“Me ne ero innamorata.”

Ljúfa glielo confessa con le guance imporporate, forse di imbarazzo forse di calore. Glielo confessa con la leggerezza di un frullio d’ali, le mani strette al ventre e il ricordo di un viso a sfumarle lo sguardo.

E Marin.

Marin non può far altro che chiudere gli occhi e inghiottire.

Inghiottire quello che non potrà mai dire, assieme al rimorso e al rimpianto. Assieme ad una mancanza che è un cratere che le scava lo stomaco, le viscere, l’anima. Perché lo ha perso, quel diritto. Lo ha perso un pomeriggio di luglio, la frenesia nelle mani e la rassegnazione nel cuore; lo ha perso quel pomeriggio che lo ha amato per l’ultima volta, senza concedergli, di nuovo, ancora, come sempre, di guardare il suo viso. Di guardare il piacere intenso, ferino, selvaggio, che le riusciva a dare; il modo in cui la faceva ansimare, le strappava la pacatezza per trasformarla in. In altro. In qualcosa che Marin non aveva mai conosciuto altrimenti; e che non pensa potrà conoscere ancora.

E allora inghiotte. E accetta.

Accetta che altre braccia lo abbiano stretto, che un altro corpo abbia conosciuto la carezza dei suoi capelli, la fame della sua bocca. Forse Ljúfa conosce la risata che gli gorgogliava in gola quando lo sfiorava dietro l’orecchio, o il modo che aveva di metterle la testa sul seno dopo aver fatto l’amore, il mento forte con un’ombra di barba a solleticarla.

Forse ha scoperto una ad una le cicatrici che gli schiarivano la pelle, quella pelle calda dal profumo di uomo. Lei le conosceva; le conosceva una per una. Quelle dell’addestramento, conquistate nell’arena. E quelle della battaglia, sofferte per devozione. Anche la cicatrice piccola, una linea sottile, che gli attraversa la tempia, lì dove Milo lo aveva colpito a sedici anni, quando Aioria aveva scrollato le spalle alla sua preoccupazione.

E forse. Forse Ljúfa ha conosciuto anche il sapore della sua bocca, e la morbidezza delle sue labbra. Di quelle labbra che. Che lei.

Marin si lascia scivolare sulla poltrona, davanti al camino, davanti a Ljúfa. Sta tremando. Sta tremando dentro: nelle viscere, nello stomaco, nell’anima. Sta tremando fino nel cosmo.

“Aiolia era speciale” soffia, la voce come di pianto. “Davvero speciale.”

“Sì. Lo era” le sorride Ljúfa, due lacrime a inumidirle le labbra. “E ti amava. Tanto”

E le raccoglie una mano. Fredda; dimenticata in grembo. Su quel ventre che le è stato strappato in battaglia, lasciandosi dietro il ricordo di una cicatrice.

Ljúfa gliela cerca e gliela stringe con confidenza, con la sicurezza di una verità che ha il sapore dell’ovvietà, della normalità.

Me? vorrebbe dire Marin, ma non si fida. Non si fida di una voce che le uscirebbe in singhiozzi, non si fida di un respiro che tradirebbe il pianto che la maschera le nasconde. Perché fa male sentirselo dire. Fa male sentire su labbra straniere, con parole straniere, il sentimento che Aioria le portava.

Non glielo ha mai detto a parole. Ma con i gesti. Oh, con quelli glielo ha fatti capire. Molte e molte volte. Nel modo che aveva di abbracciarla, all’ombra dei rocchi. O per come se la stringeva al petto, dopo gli allenamenti, mentre le massaggiava le spalle.

O ancora guardandola. Con quel modo che aveva di fissare tutto e niente, che aveva di guardare lei. Come fosse. Non lo sa. Ma Aioria era capace di guardarla con una tale intensità, con un tale misto di desiderio, brama e dolcezza negli occhi che Marin a volte ne aveva paura. Una profonda, intensa paura. Come di antica eccitazione.

Ljúfa le stringe più forte la mano.

Marin le appare sempre di più quella donna che Aioria le aveva raccontato, nei deliri della febbre. Non è più solo la percezione di un affetto, di una nostalgia rincorsa nella penombra dei riverberi di un fuoco; e non è nemmeno il cavaliere giunto per assolvere alla sua missione.

Marin è come lei.

È carne e sangue e desiderio. È una donna che ricorda di essere tale solo nel riflesso di un sentimento. Ma Marin è anche una guerriera. Quella guerriera bella e fiera, selvaggia, che Aioria le ha raccontato in un sussurro, il sorriso a increspargli le labbra piene e il rimpianto negli occhi. La consapevolezza che quella vita trovata d’inciampo si sarebbe consumata senza poterla rivedere, senza poterle parlare.

C’erano la devozione e la determinazione, negli occhi di Aioria, quando scintillavano di cosmo. E c’era la malinconia di una terra lontana, della calda terra di Grecia, e dell’abbraccio di una donna, nel suo viso che cercava il Meridione, durante la tregua della battaglia.

“Non te lo ha mai detto. Vero?”

“No” riesce a gorgogliare. “Non lo ha mai fatto.”

Non gli ho mai permesso di farlo.

“Sapeva che non serviva” stringe le spalle Ljúfa, con una sicurezza che Marin si chiede da dove le derivi. “Altrimenti, lo avrebbe fatto. Aioria era quel tipo di persona.”

“Ne sembri sicura.”

“Lo sono, infatti.”

Ljúfa ne è convinta. Lo sa.

Aioria era il tipo di persona che non amava né i segreti né i fraintendimenti. Aioria era quel tipo di persona che le aveva messo un dito sulle labbra prima che le sfuggisse una parola di troppo, la confessione di un sentimento che non voleva accettare. Che non poteva accettare.

Quando già stava svanendo nella luce liquida del prima mattino. Un dito di vento alle labbra e un ciondolo al collo. Le aveva detto lo custodiresti per me? e lei lo aveva stretto. Stretto forte, mentre lui l’abbracciava con un calore come di sole. Mi dispiace le aveva sussurrato, un alito tiepido all’orecchio. Mi sei diventata cara, Ljúfa. Tanto. Ma.

E in quel ma lasciato così, sospeso fra loro, Ljúfa aveva conosciuto la vera forza del Leone. Non quella di imprigionare i fulmini o fendere la terra. Nemmeno la potenza di zanne d’oro che squarciano il vento. No. Ljúfa aveva conosciuto la forza più pura e profonda che Aioria si portava dentro: quella viscerale capacità che aveva di amare. Concedendo tutto se stesso.

È davvero così bella? gli aveva chiesto, sospirando fra le lacrime, il viso premuto al suo petto.

Lo è. Avevo riso lui, una risata di cuore. Per me è davvero bellissima.

E dovrò darle il ciondolo? aveva pigolato ancora, come un uccellino che si vede spingere fuori dal nido. Ancora troppo inesperto e impaurito per testare le ali. Per questo me lo hai affidato?

Se vorrai. Un giorno, sì le aveva sussurrato, bagliore flebile che si andava confondendo con la prima alba. Vorrei che tu la incontrassi. Allora capiresti.

Si era dissolto così, Aioria.

Con sulle labbra il nome della donna amata, e fra le braccia una ragazzina che dell’amore conosceva il palpitare frenetico del cuore. Se ne era andato così, lasciandole forse la gelosia forse solo la curiosità verso una donna che era solo un nome appena sussurrato.

Ljúfa allora non aveva capito.

M adesso. Adesso sì; adesso l’ha vista. E ha capito.

Lo ha capito nel primo istante che, dallo spiraglio socchiuso della porta, ha osservato Marin, ritta e fiera nella penombra della stanza dal profumo di miele e neve. Marin ha quel portamento, quel modo di tenere ferme le spalle di chi sa affrontare la vita. Marin irradia quella forza, quella quieta determinazione di chi non si rassegna e sa strappare alla vita ogni istante, ogni passo, ogni emozione.

Quando l’ha vista, ha capito perché Aioria la trovasse bella, bellissima.

E anche lei. Anche lei l’ha trovata bella. Molto più bella di come potrà mai essere lei. Anche senza oro né gioielli; anche con addosso il sangue e la stanchezza delle battaglie, Marin sarebbe sempre stata bella. Di quella bellezza primitiva, selvaggia, che Aioria riusciva a capire, ad apprezzare.

Perché Marin è una guerriera.

Perché Marin è prima di tutto una guerriera. E Aioria lo ha conquistato così, con la salda determinazione della sua volontà, con la cieca fedeltà.

“Oggi ho capito perché ti amasse tanto.” la sorprende Ljúfa, stringendo di riflesso il ciondolo che porta sul seno. “Davvero. Sei così bella.”

Bella? vorrebbe ridere Marin. Graziosa forse. Forse una volta lo sarebbe stata, sì. Una graziosa piccola ragazzina, con le guance di porpora e le mani strette strette. Ma bella. Bella proprio no. Un soldato non deve essere bello. Un soldato deve essere solo un corpo, una volontà, una determinazione che piega anche la carne.

E Marin sa di aver piegato la sua carne e il suo corpo a quella determinazione. E il suo è il corpo del guerriero, del soldato che ha come gioielli le cicatrici e come belletti il sangue e il sudore.

Aioria non ha conosciuto altro di lei: e il corpo che ha stretto con mani ruvide, da soldato, era il corpo di un altro soldato. E l’odore che sentiva confuso con il sandalo e la mirra era quello del cuoio e dell’acciaio di un’armatura. E non c’erano lenzuola raffinate, dal dolce profumo di rose, ma fieno e paglia nei capelli e il sapore forte del sale su coperte ruvide stese ad asciugare al sole.

“Non riesci a vederlo?

“Non lo so” si schernisce Marin, un disagio che non ha mai provato. “Un soldato non deve essere bello. Deve saper combattere.”

“Appunto” ride appena Ljúfa, la leggerezza di chi conosce una verità tanto semplice da essere quasi sciocca. “Ma non lo capisci?”

No.

No. Marin non lo capisce. Non lo vuole capire.

Come non lo capiva quando era Aioria a dirglielo. Quando Aioria la guardava, un misto di sorpresa, meraviglia e qualcosa. Qualcosa che era affetto, desiderio e fame. Quelle volte. Quelle volte Aioria la guardava con una tale intensità che Marin tremava, perché accettare quello sguardo significava anche accettare quello che Aioria non le diceva a parole. Quello che le faceva capire nella mano che le attorcigliava ai capelli, con la bocca che la baciava così com’era, stanca sudata e accaldata dopo una giornata passata nell’arena.

Eppure.

Eppure anche in quel momento, anche con la sabbia e le escoriazioni addosso, Aioria la trovava bella. Tanto bella che a Marin faceva male il cuore, per quel modo che aveva di stringerla forte. E di fare poi l’amore con lei. Come se ogni volta fosse la prima volta; e potesse essere l’ultima.

“Sai” stringe le spalle Ljúfa, sorridendo della sua stessa ingenuità. “Sono gelosa.”

“Gelosa?”

Di me?

“Sì” mormora, le mani ad accarezzare il grembo e la vita che vi sta crescendo. “Io posso stare accanto a Syvurr. E lo farò. Lo voglio fare. E forse. In un’altra vita. Forse avrei potuto stare accanto ad Aioria” continua, uno sbuffo di immaginazione. “Ma tu. Tu non starai mai accanto ad un cavaliere. Tu non sei mai stata accanto ad Aioria. Tu gli sei sempre stata al fianco.”

“Già” soffia in un respiro. “L’ho sempre fatto.”

E si rivede ragazzina.

Si rivede ragazzina, le gambe raccolte e una mela in mano. Si rivede ragazzina a consolare un ragazzino come lei, un ragazzino con la rabbia e la solitudine in fondo agli occhi. Si rivede per quello che è sempre stata: lo sguardo, la mano, il respiro che Aioria cercava fra la folla, cui Aioria si aggrappava senza paura.

Aioria non ha mai dovuto fingere, davanti a lei. Con Marin, Aioria ha imparato che era altro, oltre al fratello di un traditore. Che era altro, oltre l’oro di Leo che lo rivestiva. Con Marin Aioria aveva imparato che era prima di tutto un ragazzo, un uomo.

Ed era quel ragazzo, quell’uomo, che Marin aveva affiancato in battaglia, che aveva sorretto quando era solo troppo stanco per provarci ancora. Era con quell’uomo che aveva riso e scherzato, nei tramonti sotto gli ulivi. Ed era quello il ragazzo, l’uomo che aveva accolto sul suo seno e nel suo ventre.

Un uomo che di sé le aveva mostrato la forza fiera, selvaggia, e le debolezze profonde, abissi che a volte lo risucchiavano.

Un uomo che le sussurrava, che la pregava, nel furore della battaglia o nel calore di un amplesso, di non rifiutarlo, di non lasciarlo. Perchè con Anissa era lei, era Marin dell’Aquila, la sola cosa che lo facesse andare avanti, la sola cosa che lo facesse restare saldo in piedi.

È pericoloso, lo so, le aveva detto una volta, accarezzandole il profilo della spalla, nella luce fredda di un luna di febbraio. Però. Se non ci fossi tu, a volte non so se riuscirei ad alzarmi le aveva soffiato all’orecchio. Marin, le labbra un respiro caldo sulla maschera, dove la trovi ogni volta la forza di raccattare anche me?

Quella volta non gli aveva risposto. Si era fatta baciare sulla maschera e lo aveva rovesciato nel letto, stringendogli i fianchi e amandolo di nuovo, bella nuda e audace sopra di lui. Per farglielo capire, da dove venisse quella forza che aveva. Quella brama di vita, di sentirsi viva, che è tutto ciò che possiede un soldato destinato alla battaglia.

Perché lo sapeva lei; e lo sapeva anche lui.

Lo sapevano entrambi che per loro non sarebbe mai esistito un per sempre. Che il solo sempre era l’attimo che riuscivano a strappare. E che uno dei due, prima o dopo, non sarebbe tornato. Aioria sapeva che probabilmente sarebbe morto a vent’anni; e Marin sapeva che sarebbe dovuta andare avanti. Raccattando se stessa, il suo dolore e i suoi ricordi. Per tornare di nuovo, un giorno, in battaglia, senza lui al fianco.

“Mi ha lasciato questo” le mostra Ljúfa, mettendole nelle mani a coppa il ciondolo d’argento e peltro. “Diceva. Diceva che a te non serviva. Però. Forse. Forse sarebbe giusto che lo avessi tu.”

“No” soffia Marin, richiudendo le mani su quelle di Ljúfa e sul ciondolo che le ha restituito. “No. Tienilo tu.”

Marin si accorge che non ha bisogno di ciondoli, parole o consolazioni. Si accorge che ha già tutto quello di cui ha bisogno. Che lo ha sempre avuto. È la stessa cosa che le ha permesso di continuare ad andare avanti, in quegli ultimi due anni. Vivendo. Vivendo anche nel dolore della perdita; anche nel disorientamento. Marin non è una sopravvissuta; non ha mai voluto essere solo una sopravvissuta.

Marin è forza.

La forza del soldato, la forza di chi sa accettare ogni istante dalla vita, con l’intensità che solo la vita possiede. Una forza profonda, viscerale, una brama di vita che solo la frequentazione con la morte conosce.

E Marin ce l’ha, quella fame di vita. L’ha sempre avuta. Ed era quello che Aioria amava, che ha sempre amato di lei. Ed è quello che la farà camminare ancora fiera: anche con l’armatura a pezzi e il corpo a brandelli. Anche con la nostalgia e la malinconia dell’assenza.

Aioria le manca. Le mancherà sempre.

Ma andrà avanti. Come ha sempre fatto; come fanno tutti i soldati.

“Aioria mi conosceva bene. Davvero bene” sorride dietro la maschera, una lacrima a percorrerle la guancia. “Non mi serve. Non mi è mai servito.”

“Ma” tenta ancora Ljúfa, cercando di intuire da dove arrivi davvero quella determinazione, quella intensità che sembra irradiare. Non è la forza del cosmo, non è il lucore delle stelle e del cielo di Grecia. Ma è lo stesso abbagliante.

“Tu hai Syvurr di Mizar” la ferma Marin. “Tu hai questo” le ricorda, sfiorandole il ventre in un gesto di vago rimpianto. “E io ho questo” e si preme una mano sulla corazza, lì sul petto dove Aioria poggiava la testa quando voleva sentire il sapore della tranquillità.

“Andrò avanti.”

 

  
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