Autore: Avalon9
Genere: Introspettivo,
Malinconico, Slice of live
Personaggi Principali: Marin dell’Aquila; Ljúfa
Altri Personaggi: Aioria solo nominato; Hilda
e Freya e tutta la combriccola del nord
Rating: giallo
In proposito:
Le
cicatrici di Marin sono tanti strappi collezionati su un’anima ormai costellata
di rattoppi, sottile come carta velina; tanto sottile che basta un accenno per
lacerarla.
Ma
l’anima di Marin è anche l’anima di una guerriera.
Post Ade; post Soul
of Gold. Interludio
fra i Cieli e Omega.
Marin.
E la sua forza. Perché è un peccato che un personaggio come lei sia solo
scomparsi. E perché no: Ljúfa non potrà mai sostituirla.
Disclaimer: i personaggi sono
di Masami Kurumada; la situazione la rivendico come mia^^
Note: novel; one shot; missing moments
Cose: Rieccomi. E no,
non credo che sarà un rientro lungo. Solo una passata, a volo di gabbiano.
Veloce veloce. Ma ho bisogno di scrivere, in questo periodo. Un bisogno quasi
viscerale di farlo (e qualcuno ne sa il motivo). Tanto bisogno e poco,
pochissimo, tempo. E allora ritaglio tempo alla notte, al sonno, ad altre cose.
A piccole altre cose. E mi ritrovo qui.
Questo “Crescendo” è un side story.
Non è un interludio come è successo con Shaina.
No. È proprio una storia a parte. Un altro spaccato; un altro momento. Due anni
dopo la fine della guerra contro Ade, Artemide e i Cieli. Due anni dopo
l’ambientazione di Soul of Gold. E
prima che i cavalieri d’oro tornino. Perché sì. Perché per me ritornano. Ma ci
vorrà pazienza. E tempo. E intanto la vita va avanti, le storie vanno avanti. E
ci si ritrova a fare scelte che forse una volta non si pensava di fare.
È Marin
la protagonista di questa storia. Marin e il suo mondo, il suo sentire, il suo
essere guerriera prima ancora che donna. Marin e il suo lutto. La perdita
dell’uomo che ha amato; e la complicità con un fratello che ha ritrovato.
Se vogliamo, cronologicamente si colloca
dopo Apteros (posto che Apteros non è inserita in Crescendo. Ma
vabbè).
È anche il confronto fra due donne, due
donne molto diverse che hanno avuto solo un uomo a unirle. È anche il confronto
fra Marin e Lyfia( o Ljúfa come ha preferito scrivere il suo
nome, con la versione nordica antica).
Soul
of Gold
mi è piaciuto. Forse non è stato quello che mi aspettato, ma mi è piaciuto. Molto
(e sì: non dimentico certe forzature, o camicie inguardabili. Né certi
atteggiamenti. Ma che ci volete fare? Le ciambelle non riescono tutto con il
buco, ma anche se assomigliano a un krapfen sono comunque buone. No?).
Quindi.
Quindi. Ho deciso che un incontro fra Marin
e Ljúfa ci doveva essere. Con tutto il carrozzone emotivo che comportava.
Dovevo partire da lì. E invece, come spesso mi succede, ho preso la tangente ed
è diventato…questo. Questo rimestarsi di pensieri e ricorsi ed emozioni. Il
confronto c’è. Certo che c’è. Ma alla fine è diventato altro. È diventata Marin
che si racconta. Non so nemmeno io se bene o male.
E comunque sì: ad Ásgarðr la situazione è
cambiata, dopo l’ultimo scontro. E sì: ci sono i nuovi cavalieri del Nord
sopravvissuti (Fróði e Sigmund), e ci sono anche i cavalieri del Nord storici,
in questo mio personale headcap.
Mizar e Alcor sono vivi: e per l’occasione ho trovato per loro anche un nuovo
nome (giocando un po’ con quelli che sono i nomi nelle loro schede tecniche. Però,
perdonatemi: ma chiamarli Syd e Bud proprio non mi piaceva. Nonono!). Quindi
Mizar è diventato Syvurr (che sì, un
po’ ci assomiglia a Syd) e Alcor è diventato Buðli (che come vedete ricorda Bud).
E poi: Siniy
gorod è Blue Grado. Sì: le ho dato
un nome più russo, perché non ce la vedo proprio, una città dal nome inglese
persa nelle distese della Siberia. E visto che grado è assonante a gorod (e che
sì, in russo indica una città) ho semplicemente tradotto Blue con il blu russo
(Siniy ). Insomma, per me, Blue Grado è Siniy , una città al limite con il
circolo polare artico, fra i ghiacci della (disabitata. E questo è
narrativamente comodo) isola di Krupskoj, amministrata dal distretto di Tajmyrskij,
nel distretto Federale Siberiano. Non ci avete capito niente? Non importa,
neanch’io! (No, dai: esagero!). Comunque: prendete la Siberia, andate a nord,
fra i ghiacci, e poi ancora più su, fra quelle isolette del mare di Kara che la
terra ce l’hanno sotto metri e metri di ghiaccio purissimo. Ecco, avete capito.
Crescendo – Storia
parallela
Forza
Fuori dalla finestra, Ásgarðr è una distesa
bianca fin oltre l’orizzonte.
Neve sottile, impalpabile; neve farinosa,
di quella che ti si appiccica addosso senza quasi che tu te ne accorga. Ma c’è.
È la neve peggiore, perché si deposita senza che tu te ne accorga; perché basta
una folata di vento a farla sfavillare come cristalli. E poi. Poi ridiscende.
Subdola. E spietata.
È arrivata ad Ásgarðr in una notte di
dicembre. Con la neve che cadeva come polvere di ghiaccio. Quel pulviscolo
sottile e farinoso che penetrava nelle vesti con il vento freddo del mare.
È arrivata senza essere realmente attesa,
rivestita dell’argento di un’armatura che ancora porta su di sé i segni di una
passata battaglia. Ed è arrivata per rendere omaggio alla nuova regina, a Freya
Sveinndóttir Aeser, sovrana di Ásgarðr.
Perché è quello che Anissa le ha chiesto.
Perché è l’incarico che Anissa le ha
assegnato, prima di concederle di nuovo quel riposo che le ha promesso. Quella
preghiera che le ha intuito nella mente prima ancora che Marin la realizzasse
appieno.
Ma da quando Touma.
Da quando i Cieli si sono chiusi e Touma è
tornato con lei, è tornato per lei. Da quel giorno, Marin ha iniziato a
cambiare. Ha iniziato forse a desiderare di ricordarsi un’altra vita, un’altra
possibilità. Ha iniziato a sognare tutti i ma
se però ricacciati nella gola, fatti rimestare nel fondo dello stomaco in
anni e anni o in un solo istante. Perché gli istanti sono dei bastardi, e
quando passano, e passano subito, sono passati. E allora puoi solo restartene
lì, a chiederti tutti i ma se però
che non hai detto. E a sognare.
E Anissa. Anissa aveva capito.
Anissa aveva capito e le aveva sorriso, in
quel giorno d’autunno, le nuvole basse a rincorrersi nel cielo di Atene. Anissa
le aveva sorriso, e le aveva detto puoi scegliere.
Perché l’amava, anche se non la capiva.
Perché intuiva dietro al suo dubbio e alla
sua ritrosia, la difficoltà di una decisione che sembrava labile come un sogno.
Perché Anissa sapeva il desiderio che si era fatto strada in Marin, nei giorni
passati al capezzale del fratello. E perché conosceva le molte, troppe cicatrici
che Marin si portava dentro, collezionate nel silenzio del guerriero saldo
nella sua determinazione. Ma ci sono, quelle cicatrici. E bruciano.
Perché non era il rimpianto per una vita
abbandonata da bambina, a tormentare Marin. Non era solo quel rimpianto. Ma
anche un altro, un dolore che cresceva sordo nel fondo dello stomaco, che le
artigliava il ventre con la rabbia e la fame di un cane randagio. Un dolore che
la straziava senza avere il diritto, o forse il coraggio, di urlare.
Uno strazio che Anissa vedeva, sentiva nel
cosmo di Marin che si straziava come l’urlo alto dell’aquila. Un’agonia che
Anissa percepiva, e non capiva. Non come avrebbe voluto; e come mai avrebbe
davvero potuto.
E per questo le aveva concesso tempo.
Il tempo del riposo; il tempo dello
strazio. Il tempo di rialzarsi e ritrovare ancora, di nuovo, nel fondo del
dolore, lì dove il dolore si deposita come un sudario, la forza di rialzarsi,
di tornare a camminare fiera e risoluta nel sole.
Nankurunaisa diceva il vecchio
Kido, con la saggezza degli anni nelle rughe collezionate e nel sorriso sereno
che solo l’età regala. Con il tempo tutto
si sistema, diceva.
E ti lasciava illudere. Che il tempo lo
cancelli, quel dolore. Lo trasformi. Te lo faccia dimenticare. E invece. Invece
con il tempo scopri solo che il dolore non passa, se ne resta lì; e quella a
passare, quella a cambiare sei tu. Perché il dolore è quella cicatrice che ti
ha strappato l’anima, e anche se l’hai rattoppata, una toppa è una toppa e ogni
tanto anche le toppe cadono e te lo riportano a galla, il buco che volevano
nascondere.
Le cicatrici di Marin sono tanti strappi
collezionati su un’anima ormai costellata di rattoppi, sottile come carta
velina; tanto sottile che basta un accenno per lacerarla.
Ma l’anima di Marin è anche l’anima di una
guerriera.
Di una donna che ha dimenticato il suo viso
dietro una maschera d’argento; che ha soffocato ogni sentimento, anche quando
il respiro era un grumo di aria e saliva che bloccava la gola. Ma l’ha fatto.
Ha piegato la testa e ha obbedito. Tante volte; molte volte. Cedendo alla
volontà di Anissa sovrana.
E Anissa lo sa.
Sa cosa Marin ha sacrificato per lei; sa
quanto le sia costato seguire i suoi doveri e i suoi comandi, senza permettersi
un commento, senza osare un lamento.
Per questo le ha lasciato il tempo. Le ha
donato la libertà.
E per la prima volta, Marin si è accorta
che poteva davvero decidere.
Decidere se perseverare, impassibile in una
volontà che le congelava i rimpianti, che le strozzava le lacrime; oppure.
Oppure concedersi il tempo del dolore, fra le braccia di un fratello ritrovato.
Di quel fratello che ha nelle carni una storia di sofferenza e amore che Marin
ha terrore di domandare.
Ma poteva decidere. Il suo ruolo fra le
schiere di Anissa o. O quello che aveva perso a otto anni; quella vita che
forse le sarebbe appartenuta. E che ha giocato in un istante. Quando a otto
anni le hanno detto: scegli. O tuo
fratello o tu. Quando a otto anni l’hanno gettata nell’arena; quando a otto
anni si è ritrovata il sangue in bocca e le ginocchia sbucciate da tante volte
finita al tappeto. Da quando aveva imparato che la vita è piena di grandi
fregature; e che la realtà fa male.
Quel giorno d’autunno.
Quel giorno pesante, con il sapore della
pioggia in bocca e l’odore greve e salino del mare che insinua in ogni respiro,
Marin ha osato sollevare il viso e guardare Anissa, guardare la dea cui ha
immolato tutto: la vita, il cuore, il ventre.
E nel sorriso di Anissa, in quel sorriso
che sapeva di luce e tranquillità, di concessione senza limiti o richieste,
Marin ha respirato per la prima volta forse da sempre un respiro di libertà.
Libertà di decidere, di scegliere, di
pensare. Pensare a. A qualcosa che non fosse un ordine da eseguire o una
decisione da prendere, nell’arco di un respiro, mentre il tuo avversario
calibra ogni tuo movimento e cerca il punto debole, la caviglia che ancora fa
male, la giuntura dell’armatura che segna il confine fra vittoria o sconfitta.
È sempre stata una persona pratica, Marin
dell’Aquila. Eppure.
Eppure, quel pomeriggio d’autunno, ha
raccattato nel sorriso di Anissa l’illusione più grande.
Perché le illusioni servono a rendere più
bella la realtà. E tu hai imparato che, per sopravvivere, devi avere il
coraggio, invece, di guardarla in faccia la realtà. Di guardarla ogni momento,
sia in quelli belli, dal sapore di olive e focaccia mescolata a sudore e
polvere di rena; e in quelli brutti, quando la maschera è la sola cosa che ti
impedisce di crollare, e ti ci appigli con la disperazione del naufrago che non
si vuole rassegnare ad affondare. Soprattutto in quelli brutti, in verità.
Perché la vita del soldato è come quella del pedone della scacchiera: basta un
istante per uscire dalla partita.
Perché sì, anche il pedone può dare scacco
al re. Ma è anche quello che si può sacrificare. Perché il cavallo avanzi; o la
torre; o l’alfiere. O semplicemente perché è l’unico lì, davanti al re. E
allora. Allora è meglio se a morire è il pedone. Chè forse il re, poi, la sua
vittoria riuscirà ad averla.
Marin lo sa.
Lo ha scelto quando di scelte non ne aveva
molte. Lo ha scelto a otto anni, scambiando la sua vita per la vita del
fratello. Giocando al guerriero senza ancora nemmeno sapere cosa fosse
esattamente, un guerriero. Lo ha scelto a otto anni, un robottino di plastica
fra le mani e il braccio di suo fratello che le strizzava la vita. Ma lo ha
scelto. Ha scelto di essere il pedone, ha scelto di essere il soldato. E ha
scelto di raccontarsi la bugia più grande di tutte: di essere stata lei stessa
a volerlo.
E forse. Forse fino a quando Touma non è
ritornato; forse fino a quando Touma non è stato un corpo stretto fra le sue
braccia, quella bugia era la sua verità. Era la normalità.
Perché Marin è sempre stata una persona
pratica. E concreta. E quando ha scelto ha scelto e Anissa è diventata la sua
vita. Anissa è diventata il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera.
Anche quando tutto era confuso; anche quando al Tempio serpeggiava sospetto e
confusione.
Per Marin, Anissa è stata la fede
incrollabile di una scelta fatta a otto anni. Tanto forte e incrollabile da
accettare il sospetto del tradimento in ogni sguardo, in ogni gesto, in ogni
parola.
Perché è quello che ha vissuto; è quello
che ha provato. Quando il Sacerdote le ha affidato, a lei bambina, un bambino
da addestrare. Quando Saga le ha detto custodiscilo
e crescilo, e lei si è ritrovata a educare un bambino come lei. Un bambino
che prima della fedeltà aveva la volontà, un bambino che aveva imparato in
fretta che la vita la devi graffiare con le unghie e con i denti. Per non
essere tu, quello divorato e fatto a pezzi.
Seiya lo ha cresciuto così, sospeso fra il
mondo di Anissa e il ricordo sfumato di una terra lontana, di quella terra che
li ha visti entrambi nascere e che entrambi si erano visti strappare.
A Seiya, Marin ha scelto di non mentire.
Perché le bugie sono per le donne. E per
gli sciocchi. E Marin non è mai stata una sciocca; e ha rinunciato a essere una
donna.
Eppure.
Eppure quel pomeriggio d’autunno, con le
nubi scure e dense a riempire il cielo e nell’aria quel sottile velo di
elettricità che fa accapponare la pelle, Anissa le ha fatto il dono più grande:
l’ha lasciata andare.
E lei. Lei ha scelto.
Ed è stato dolore lasciare il Tempio; è
stato dolore imparare un’altra vita, un altro tempo. È stato strano scoprire di
nuovo il viso, scoprire di avere ancora un viso, sotto la maschera d’argento. È
stato come rinascere. Come imparare di nuovo a camminare, a respirare, a
parlare.
E Touma.
Touma le è stato accanto. Touma continua a
starle accanto. Si sono sorretti a vicenda, in quei due anni. Si sono
riscoperti; si sono studiati. Il sospetto e la diffidenza mescolarsi a
qualcosa; qualcosa di altro, di antico. Gesti che un tempo si conoscevano;
sguardi che una volta si comprendevano.
È stato. Per Marin è stato un
addestramento. Un lungo nuovo addestramento.
Nello scoprire come rilassare il respiro;
nel ricordare il significato di un sorriso. Nell’apprendere di nuovo il ricordo
di suoni, odori, sapori di una vita passata, di una vita sbiadita in ricordi
che si credevano simili ai sogni.
Sono stati due anni trascorsi come sospesi,
lasciando che il tempo sbiadisse le cicatrici e costruisse complicità,
lasciasse sussurrare confessioni e ricordi, con il timore che si infrangano nel
silenzio di un pensiero abbandonato.
Sono stati anche due anni consumati nella
volontà di non ricordare, di lasciare sopito un dolore mai davvero vissuto, una
sentimento mai pianto e abbandonato. Ma vivo; forte e graffiante come gli
artigli dell’aquila, come lo squarcio che le ha mangiato il ventre.
Perché parlare di Leo. Perché parlare di
Aioria.
Parlare di Aioria è solo dolore. È un
dolore che non ha neanche voce, nel respiro che ti strozza la gola in quel nodo
che non va né su né giù. Se ne resta solo lì. Fermo. Con il cuore che ti
martella nella testa e le lacrime che non ne vogliono sapere di uscire.
E Marin ha imparato che le lacrime non
servono a nulla. Le lacrime non ti ridanno i fratelli che ti sei visto
strappare e nemmeno gli uomini che se ne sono andati, regalandoti un bacio d’addio.
Marin lo ricorda, quel bacio.
L’ultimo che Aioria le abbia dato. Sulle
labbra fredde della maschera, prima che lei partisse per la sua missione. Era
stato di luglio. Il luglio di due anni prima.
Con ancora sulla pelle il calore di un
amore consumato per disperazione. Perché Marin sapeva che avrebbe potuto non
rivederlo; e Aioria nascondeva dietro il sorriso innamorato e le promesse da
marinaio la sua più grande menzogna. E mentre giurava di amarla, sapeva che
l’avrebbe abbandonata. E mentre la toccava, sapeva che la stava toccando per
l’ultima volta.
Lo sapeva Aioria; e lo sapeva Marin.
Per questo aveva deciso di andarsene per
prima. Per questo aveva accettato senza esitazione la missione che Anissa le
aveva affidato.
Trova
Seika,
le aveva detto Anissa. Trova la sorella
di Seiya. È qualcosa che gli ho
promesso. È tempo che mantenga quella promessa.
E Marin aveva chinato il capo, senza
chiedere e senza esitare. Grata. Quasi sollevata. Perché non avrebbe dovuto
attendere al Tempio l’avvicinarsi dell’autunno. E con l’alzarsi delle prime
costellazioni invernali lo scadere della tregua e l’inizio della guerra.
Aveva accettato di partire; e aveva
accettato di farsi amare un’ultima volta.
Quel pomeriggio che andava declinando; una
sacca da viaggio ancora da finire e un’urgenza nei respiri che non era solo
desiderio. Si era lasciata amare, quel pomeriggio di luglio, nel frinire delle
cicale che la ubriacava, nel caldo che affannava ogni respiro.
E Aioria.
Oh. Aioria era bello. Bello come vuole
ricordarlo. Con i capelli in disordine e la pelle, quella pelle abbronzata,
lucida. Salina. Sudata.
Era bello; così bello. E le sorrideva. Le
sorrideva in un modo selvaggio, ferino; le sorrideva con la disperazione e il
desiderio. E c’erano le sue mani; quelle mani grandi e ruvide, da soldato.
Quelle mani che le aveva sfiorato il seno e il ventre; quelle mani che l’avevano
amata. Amata così tanto.
Ma
era un soldato, Aioria. E lo è anche lei.
E quando sei un soldato, sai che ogni volta
che ami può essere l’ultima volta. E sai che non ti devi illudere. Che il
giorno dopo potrai crepare in battaglia, o a crepare potrà essere l’altro. E
sai che prima o dopo stringerai di nuovo quel corpo che hai amato, amato così
tanto. Lo stringerai per l’ultima volta, prima di lasciarlo sulla pira. E poi.
Poi lo vedrai ardere. E la bocca sarà un grido muto al cielo.
Marin lo sapeva. Lo ha sempre saputo; e lo
ha accettato.
Ha accettato un amore, un desiderio,
destinato a finire assieme all’ansimare che torna normale. Ha accettato Aioria
con la sua passione, la sua tristezza, con la rassegnazione alla vita che le
graffiava la carne. Ha accettato che la amasse. Concedendogli tutto di sé,
tranne il viso. Quel viso intrappolato in una maschera d’argento.
Perché togliere quella maschera. Oh.
Toglierla sarebbe stato così facile, così semplice. E così bello. Sarebbe.
Sarebbe stato quel passo che Marin non poteva permettersi; sarebbe stato
ricordarsi di essere donna, e non solo cavaliere. Sarebbe stato ricordarsi di
essere altro, di volere altro, di un amore consumato nella disperazione di chi
non vuole rimpianti.
Marin lo sapeva. Lo ha sempre saputo; e lo
ha accettato.
Ma non fa meno male per questo. Ti lacera
le viscere ogni volta che il pensiero di travolge, a tradimento. Come una mareggiata
improvvisa. Non fa meno male; non ne fa nemmeno di più. Fa solo male.
E allora. Allora anche quello può andar
bene.
Anche quella missione fra le nevi del nord
può servire. Perché Touma aiuta; perché la normalità di una vita recuperata è
una vertigine che disorienta. Ma Marin sapeva. Sapeva che quando Anissa l’ha
lasciata andare, non sarebbe stato per sempre.
Sapeva che, prima o poi, qualcosa sarebbe
tornato. E le avrebbe chiesto di nuovo di scegliere. E lei. Lei non avrebbe
esitato.
Perché non puoi esitare, dopo che per anni
la tua vita è stato il campo di battaglia e l’alalai urlato al cielo di Grecia, l’orgoglio dell’armatura
conquistata a ricoprirti come un vanto, nel lucore del tuo cosmo. Forte. Saldo.
Fedele.
Per questo Anissa l’ha scelta. E per questo
Marin ha accettato.
Perché un soldato sarà sempre un soldato.
Anche quando le sue mani non riusciranno più a combattere e la bocca avvizzita
biascicherà parole come un mantra di vecchie memorie. Anche in quei momenti;
anche allora. Anche allora Marin sa che sarà pronta a servire. Perché è quella,
l’unica cosa che ha sempre saputo fare. E che ha sempre fatto con orgoglio.
“Sono contenta che tu abbia accettato di
incontrarmi.”
Ljúfa ha un sorriso caldo, accogliente.
Come il piccolo salotto dalle pareti di quercia. E c’è profumo di mele. Mele,
cannella e miele. È come un sentore sottile che pervade l’aria, con il
retrogusto della cenere e della neve.
È bella Ljúfa. Bella e fresca come una
primula di maggio.
Marin non l’ha mai incontrata prima. Sa
solo quello che ha sentito di lei, nelle ore trascorse nelle sale del palazzo:
è la prima sacerdotessa del regno, dopo Hilda di Polaris, dopo che Freya sarà
incoronata.
Ed è la sposa di Syvurr di Mizar. La sposa
di uno degli ultimi cavalieri di Ásgarðr, di uno degli uomini che Seiya e i
suoi compagni hanno affrontato per liberare la Sacerdotessa.
E si chiede perché, una donna come lei, una
donna che ha nelle sue mani un potere pari solo a quello della casata reale,
abbai chiesto di lei, di un semplice cavaliere d’argento. Abbia chiesto del
rappresentante del Tempio.
E cosa sia, quel misto di imbarazzo e
trepidazione che le legge sul viso, che le intuisce in quegli occhi che non
riescono a smettere di guardarla, di fissarla, di studiarla.
Ljúfa parla.
Parla con la fretta che hanno le bambine,
quando sono contente, trepidanti, quasi ansiose. E non sanno come riempire i
vuoti di una situazione che è insieme gioia e imbarazzo. Ljúfa parla,
ondeggiando per la stanza senza riuscire davvero a decidere cosa sia meglio fare.
Se sedersi davanti al camino acceso o sotto la grande finestra piombata; se
versare una coppa di dolce idromele e offrirlo alla suo ospite o starle
semplicemente davanti, fissandola negli occhi ciechi della maschera.
Non sa cosa fare; non sa come fare.
E allora parla; e ondeggia come un fuscello
carezzato dalla brezza. Ora muovendo appena le mani nell’aria, ora posandosele
sul ventre gonfio che si indovina fra le pieghe del raffinato vestito.
Marin ascolta.
L’ascolta mentre racconta rapida, frenetica,
un sorriso intrappolato sulle labbra, della cerimonia, di quello che significherà
per Ásgarðr l’ascesa al trono di Freya. L’ascolta mentre le racconta delle
condizioni di Hilda, di quel male che la sta divorando pezzetto per pezzetto e
che non riesce comunque a fiaccare la sua resistenza, la sua determinazione. Le
parla della scelta che la Sacerdotessa ha fatto, la scelta di ritirarsi,
tenendo per sé solo gli incarichi sacri più importati, e la volontà di Buðli di
Alcor di seguirla, di starle al fianco con devozione. Per proteggerla. Anche da
se stessa.
Marin l’ascolta.
Mentre le parla di Hyoga, del ruolo che
ricopre a palazzo, dell’importanza che un cavaliere di Anissa mantenga salda
quell’alleanza ricostruita sul sangue di una guerra inutile e insensata. Mentre
le racconta dei rapporti rinati con Siniy gorod, con la Città Azzurra, a
Gardariki. Mentre.
È un fiume in piena, Ljúfa.
Un torrente che ha rotto gli argini e
riversa le sue acque su tutto: case, alberi, persone. Marin se ne lascia solo
investire. Come è abituata a lasciarsi investire da ogni cosa: cercando di
capire.
Lo ha sempre fatto. Lo ha fatto per
sopravvivere; lo ha fatto per abitudine. Lo ha fatto perché ce l’ha nel sangue,
nell’eco di parole che una voce anziana le cantilenava. Quando era bambina,
all’ombra di engawa fresche nel
calore estivo, uno yukata sulla pelle e la bocca piena di kasutera lasciato a raffreddare nel pozzo.
Ce l’ha nel sangue, quel modo di ascoltare.
Piegando la testa di lato senza malizia, come un cucciolo curioso che conosce i
propri limiti.
Aioria l’aveva avvicinata anche per quello.
Per quel modo che aveva di ascoltare il mondo, lieve e sfuggente come il
frullio delle ali di un passerotto. Per il modo che aveva di stare ad ascoltare
lui, lasciando solo che la confidenza crescesse spontanea nelle mani che si
avvicinavano ogni volta un po’ di più. Ogni volta un centimetro alla volta.
Aioria.
Così semplice. Così genuino. Così. Aioria.
Marin lo può ricordare solo così. Con le
prime confidenze riempite di parole impacciate; con le scrollate di spalle di
quando, ragazzini, era arrabbiato con il mondo intero. Lo ricorda quando
pestava i piedi, ostinato, e rifiutava di indossare l’armatura. Anche al
Tempio. Ricorda il suo viso imbronciato e i capelli tinti per scurirli, di quel
colore che le ricordava il fuoco di un tramonto. Ricorda il modo in cui le
sorrideva, nascondendo il viso dietro una mano, e di come si stropicciasse i
capelli quando lei lo rimproverava.
E ricorda quando se l’è ritrovato davanti
per la prima volta fulgido dell’oro di Leo.
Era venuto per parlare anche quella volta.
Di un uomo morto per difenderlo, dentro una centrale nucleare.
Aioria aveva un bisogno viscerale di
parlare, di raccontare, di. Forse solo di sapere che c’era ancora qualcuno
disposto ad ascoltare. Disposto a restare a conversare con il fratello di un
traditore.
E Marin.
Marin si era strappata uno spiraglio, nei
suoi silenzi e nei suoi malumori. Marin si era ritagliata la confidenza che
nasce solo con l’esserci, con il guardare lo stesso orizzonte, giorno dopo
giorno, senza chiedere e senza costringere. Ascoltando. Solo ascoltando. Fiumi
di parole o mari di silenzio.
È per questo che Aioria l’aveva scelta.
Ed è per quello stesso motivo che Anissa le
ha affidato quella missione. Perché ci vuole diplomazia e abilità, per non
intaccare un equilibrio fragile che si sta ancora consolidando. Perché ci vuole
esperienza, per saper ascoltare ogni cosa che ti circonda senza sentire davvero
ogni parola, soffermandoti solo sull’utile, sul necessario. E Marin. Marin era
stata la scelta più adatta. La scelta naturale.
Come era stato naturale accettare. Anche se
il cuore urlava solo strazio.
Quest’incontro però. L’incontro con Ljúfa
Nyström, sacerdotessa di Odino. Questo non era previsto. E Marin non riesce a
trovarne ragione.
“Scusami” ride all’improvviso Ljúfa,
stringendo le spalle sottili, da uccellino. “Davvero. Di certo ti sto
annoiando”.
È così minuta, e delicata. Come Marin. Ma
Marin ha imparato il portamento fiero del soldato; Marin ha una corazza a
irrigidirle le spalle e offre al nemico l’orgoglio dell’argento vinto
nell’arena.
Ljúfa invece.
Ljúfa sorride, stringendo le mani fra loro,
rimestando nello stomaco forse l’imbarazzo forse il coraggio per dire quello
che davvero vorrebbe dire.
Ma non è facile. Non è affatto facile.
È qualcosa che ha voluto fin dal primo
istante. Fin da quando Fróði l’ha informata che come rappresentante di Atena
sarebbe giunta alla cerimonia una sacerdotessa: Marin dell’Aquila.
Ha temuto e aspettato quel momento con la
stessa trepidazione che aveva quando ha stretto il corno che avrebbe condiviso
con Syvurr. E adesso. Adesso che la vede, adesso che ha trovato il coraggio di
incontrarla e parlarle, non riesce davvero a dirle quello che vorrebbe.
Perché Marin è bella.
Di quella bellezza discreta e selvaggia che
hanno i predatori. Elegante, aggraziata; eppure Ljúfa avverte in lei gli echi
del suo cosmo, un cosmo duro, determinato. Un cosmo plasmato nella vita
strappata con artigli e unghie affilate. Il cosmo di chi è pronto a servire,
rinunciando a tutto. Anche a sé stessi.
Le ricorda il cosmo di Fróði.
Le ricorda la determinazione che gli
incendia lo spirito quando scende in battaglia, quando combatte in difesa della
sua terra. Avrebbe voluto combattere anche per lei, Fróði. Per lei e per il suo
sorriso, per il suo cuore. Per lei e per un amore nato d’estate, nell’estate
della prima giovinezza. Quando i sentimenti sono ancora una farandola confusa
che ti lascia con gli occhi bassi e le guance rosse; quando due mani che si sfiorano
sanno di nuovo e sconosciuto e lasciano un rimescolio nello stomaco che non
riesci a decifrare.
Fróði l’ha amata, Ljúfa lo sa. L’ha amata
come si può amare a quindici anni, innamorandosi di un’idea, di un’immagine,
del proprio stesso sentimento.
L’ha amata; e l’ha lasciata andare,
cingendole i capelli con un velo grazioso, dalla trama sottile di argento e i
ricami d’oro e ambra. L’ha amata, Fróði, e le ha fatto da testimone quando
Liúfa aveva unito le mani e il sangue con Syvurr e con lui aveva bevuto dal
corno.
Adesso, Fróði le è accanto come quando, da
bambini, si sostenevano nella crescita. E combatte per lei, per il figlio che
porta in grembo e per la sua patria. E combatte anche per il sentimento nuovo,
diverso, che gli ha confidato sta crescendo dentro di lui per una ragazza dalle
guance piene di vita. Una ragazza che non è né una guerriera né una
sacerdotessa, ma solo la ragazza che Fróði adesso desidera.
È anche per questo che Ljúfa ha voluto
incontrare Marin. Ha voluto incontrare la donna che ha intravisto anni prima,
nel sorriso malinconico di un cavaliere che era giunta a salvarla. Come nei
racconti degli skaldi. Un cavaliere di cui conserva ancora il ricordo vivido,
palpabile. Come del primo raggio di sole, come del calore di una terra che non
ha mai visto. E che mai vedrà.
“No, gyðja” inclina il capo Marin. Un cenno
appena, di cortesia. “Sono a vostra disposizione.”
Sì. Marin le ricorda Fróði.
Il cenno della testa, il portamento rigido
e altero; i gesti misurati e l’attenzione apparente che riserva ad ogni cosa. E
sa; sa che anche gli occhi di Marin sono come quelli di Fróði: sono gli occhi
di chi è abituato a servire. Non può vederle il viso; e non le chiederà di
mostrarglielo. Hyoga ha raccontato loro qualcosa, nei pigri pomeriggi invernali,
delle tradizioni che vigono al Tempio.
Già. Hyoga.
“Hai notizie di Hyoga?” le chiede.
Tergiversando ancora. Aggrappandosi come un naufrago ad ogni pretesto, ad ogni
parola che le sfiori la mente. Cercando disperatamente un modo, un’occasione,
una breccia per dire quello che davvero vorrebbe dire. La sola cosa che davvero
le preme dire. Il solo motivo per cui ha voluto davvero incontrare Marin
dell’Aquila.
“Sta bene” soffia Marin, la voce
impassibile. “Appena avrà risolto a Siniy tornerà. Gli dispiace non poter essere
presente, ma”
“Conoscevo Aioria.”
Ecco. Lo ha detto. Non le ha dato il tempo
di finire la sua risposta, e glielo ha detto. Stringendo forte le mani fra loro
e gridando, quasi. Perché la voce era un nodo nella gola e non sapeva se
avrebbe avuto davvero la forza per dirle, quelle parole.
Lo ha detto, e le sembra di riuscire di
nuovo a respirare. Le sembra di aver appena confessato qualcosa di grande, e
pesante, e segreto. Qualcosa che ha conservato gelosamente per sé per troppo
tempo per non essersi trasformato in un macigno che le gravava sullo stomaco.
Glielo ha detto. E si pente di non aver
chiesto a Marin di mostrale il viso. Perché, almeno, adesso non dovrebbe
fissare degli occhi ciechi e. E potrebbe vedere una qualche espressione.
Un’espressione qualsiasi che non fosse l’indifferenza dell’argento che cela
Marin.
Perché Marin è immobile.
Marin ha solo smesso di parlare, lasciando
la frase così, sospesa. Perché Marin non è né arrabbiata né sorpresa. Solo.
Solo non capisce. Solo non riesce a capire come, quando, dove. Dove Ljúfa possa
aver incontrato Aioria. E perché. Soprattutto il perché.
“È stato” riprende piano Ljúfa, mentre si
siede lenta. Le mani su quel ventre che ora a Marin sembra troppo grande,
troppo pieno, troppo vivo. Quasi osceno.
“È stato due anni fa. Mentre Atena
combatteva con Ade” ricorda Ljúfa, gli occhi socchiusi a recuperare un periodo
che. No, non può definire bello. Ma che le ha lasciato una cosa, un qualcosa
che ha il ricordo di una carezza di luce calda, avvolgente. E la speranza, anzi
la sicurezza, di un nuovo inizio: nel freddo traslucido e crudele di Ásgarðr,
sotto lo sguardo di Odino benevolo. Nel suo abbraccio benigno e spietato.
“Non” tentenna. “Non sai nulla, di quella
battaglia?”
No.
Marin vorrebbe scuotere la testa. E
vorrebbe non dover ricordare. Perché Aioria è morto, nella guerra contro Ade. È
morto al Muro del Pianto, frantumato in una miriade di stelle. E lei. Lei si è
sentita lacerare, quando il cosmo di Aioria ha semplicemente smesso di essere.
Quando si è spento come una fiammella ad un alito di vento. Improvviso; e
devastante. Come il vuoto che le si era scavato dentro in quell’istante.
E dopo quell’istante tutto è diventato
rapido, quasi frenetico. Anissa che ritorna, fulgida di potere e vittoria. Seiya.
La sua vita come un filo. E poi ancora Artemis, e Touma e il Tempio violato da
riconquistare e un fratello da sottrarre alla battaglia, da ridestare alla
vita. E poi ancora. Sei mesi alla ricerca di Seiya. I Cieli e la follia di una
nuova guerra appena sfiorata. La ferita che le squarciava il ventre
rimarginarsi, lasciandosi dietro solo la sensazione dell’assenza. E poi ancora.
La vita lontana dal Tempio; la vita con Touma. Una vita trascinata cercando di
rimettersi in sesto, di non pensare a. Cosa si è perso. E poi. Poi ancora.
No ripete a se
stessa. Non ne so nulla.
Non sa cosa sia successo ad Ásgarðr in
quegli anni. Non ha mai chiesto; non era suo interesse chiedere. Hyoga. Hyoga
qualche volta forse ne ha parlato. Durante alcune riunioni, sì; durante alcune
riunioni in cui tornava. Ma lei. Lei era lontana. Un mare diverso e un cielo
diverso ad accoglierla. Lei era lontana da quella terra, dalla Grecia profumata
di ulivo e ginestra. Da quella terra che le ricordava troppo Aioria, il suo
odore e quel suo sorriso così dolce e crudele.
E Ljúfa la sta osservando.
Sta cercando di indovinare nel suo corpo
una risposta che non esprime sul viso, che non esprime con le parole. Una
risposta che è il realizzare qualcosa che forse non si vuole sentire, che non
si vuole conoscere. Senza avere la forza di negarlo.
“Il Vento. Loki. Ha tentato. Ha tentato di”
non riesce nemmeno a dirlo. Perché fa ancora troppa paura, il pensiero di
quello che sarebbe potuto accadere. Il pensiero di quello che solo lei sembrava
vedere. Ljúfa ricorda ancora con orrore l’indifferenza che Fróði aveva negli
occhi. E le fa male ripensarci. La fa male ricordare cosa Ásgarðr ha rischiato.
Inghiotte a vuoto e guarda Marin, le spalle
rigide e le mani abbandonate lungo i fianchi. Sembra che ogni parola le scivoli
addosso senza toccarla. Sembra che l’ascolti raccontare quello che è successo
due anni prima come stesse parlando di una sciocchezza, di un bisticcio fra
bambini.
“Mi ha creduto” ricorda ancora Ljúfa, un
sorriso come di nostalgia a incresparle il labbro che trema appena. “Aioria,
intendo. Mi ha creduto; anche se nessuno voleva farlo.”
Perché Aioria era così.
Perché Aioria non era capace di negare
qualcosa. E Marin rivede Lithos, nel viso di Ljúfa. Rivede i tratti infantili
di una bambina raccolta per solitudine, e fatta crescere al riparo delle
colonne di Leo. Una ragazzina incontrata per inciampo, e raccattata come si fa
con un gattino infreddolito.
“Aioria era così” riesce appena a
sussurrare Marin. “Amava credere alle cose difficili” aggiunge, e la voce le
sembra un pigolio. Le sembra che le resti incastrata in gola, mescolata al
dolore e allo strazio. Al ricordo di come Aioria affermasse, incrollabile, la
sua volontà, la sua sicurezza. È cresciuto nella sicurezza di una verità che
tutti ritenevano impossibile; che forse anche lei stessa non ha mai voluto
ammettere vera. Eppure. Eppure Aioria ci ha creduto. Ha creduto in suo fratello
con la cieca caparbietà che solo l’ingenuità può dare.
“Già” ride appena Ljúfa, sfiorandosi il
collo come a ripetere una carezza, un contatto che è vento nella sua mente. “Era
quello che lo rendeva bello.”
E si rivede, il capo biondo in grembo e la
neve a vorticarle accanto. Si rivede come la prima volta che lo ha visto
davvero, soffuso del lucore dorato di un cosmo che sapeva di sabbia calda e
mirto e ginestra profumata. Che sapeva di una terra che Aioria sembrava
portarsi addosso come una seconda pelle.
Era bello; così bello.
Nonostante il sangue e i segni di Einherjar
a marchiargli il viso, Ljúfa
lo aveva trovato bello. Bello in un modo nuovo, quasi doloroso. In un modo che
le aveva fatto stringere le viscere e desiderare. Desiderare che lui la
sfiorasse, anche solo per errore. Desiderare che la guardasse con negli occhi
lo stesso scintillio che riverberava di cosmo. E poi forse. Forse.
Lo ricorda ancora con un sorriso di
imbarazzo e malinconia, quel sentimento sconosciuto che aveva provato. Diverso
dall’affetto che la lega a Fróði, dal sentimento di devozione che la lega a
Odino. Diverso anche da quell’amore che adesso ha per Syvurr, quel sentimento
forse più maturo forse solo diverso, cresciuto nei mesi di convivenza, al
chiarore dei fuochi dei camini, nel quotidianità di una pace riconquistata.
Quello che provava per Aioria era diverso;
era un sentimento diverso.
Ma è ancora così vivido; così palpabile da
lasciarle un’eco di. Forse nostalgia. Sì: forse è solo nostalgia. Per
l’ingenuità di una ragazzina cresciuta al riparo delle mura di Ásgarðr,
nell’abbraccio rassicurante di un mondo visto all’improvviso precipitare.
E Marin lo vede.
Lo vede con disperazione e rabbia e
rassegnazione, quell’accenno lieve che le addolcisce le labbra, mentre le parla
di Aioria. Lo vede su Ljúfa come non ha mai osato vederlo su se stessa. E
stringe il pungo e stringe i denti, per non ringhiare la sua frustrazione e la
sua rabbia. Per.
“Me ne ero innamorata.”
Ljúfa glielo confessa con le guance
imporporate, forse di imbarazzo forse di calore. Glielo confessa con la
leggerezza di un frullio d’ali, le mani strette al ventre e il ricordo di un
viso a sfumarle lo sguardo.
E Marin.
Marin non può far altro che chiudere gli
occhi e inghiottire.
Inghiottire quello che non potrà mai dire,
assieme al rimorso e al rimpianto. Assieme ad una mancanza che è un cratere che
le scava lo stomaco, le viscere, l’anima. Perché lo ha perso, quel diritto. Lo
ha perso un pomeriggio di luglio, la frenesia nelle mani e la rassegnazione nel
cuore; lo ha perso quel pomeriggio che lo ha amato per l’ultima volta, senza
concedergli, di nuovo, ancora, come sempre, di guardare il suo viso. Di
guardare il piacere intenso, ferino, selvaggio, che le riusciva a dare; il modo
in cui la faceva ansimare, le strappava la pacatezza per trasformarla in. In
altro. In qualcosa che Marin non aveva mai conosciuto altrimenti; e che non
pensa potrà conoscere ancora.
E allora inghiotte. E accetta.
Accetta che altre braccia lo abbiano
stretto, che un altro corpo abbia conosciuto la carezza dei suoi capelli, la
fame della sua bocca. Forse Ljúfa conosce la risata che gli gorgogliava in gola
quando lo sfiorava dietro l’orecchio, o il modo che aveva di metterle la testa
sul seno dopo aver fatto l’amore, il mento forte con un’ombra di barba a
solleticarla.
Forse ha scoperto una ad una le cicatrici
che gli schiarivano la pelle, quella pelle calda dal profumo di uomo. Lei le
conosceva; le conosceva una per una. Quelle dell’addestramento, conquistate
nell’arena. E quelle della battaglia, sofferte per devozione. Anche la
cicatrice piccola, una linea sottile, che gli attraversa la tempia, lì dove Milo
lo aveva colpito a sedici anni, quando Aioria aveva scrollato le spalle alla
sua preoccupazione.
E forse. Forse Ljúfa ha conosciuto anche il
sapore della sua bocca, e la morbidezza delle sue labbra. Di quelle labbra che.
Che lei.
Marin si lascia scivolare sulla poltrona,
davanti al camino, davanti a Ljúfa. Sta tremando. Sta tremando dentro: nelle
viscere, nello stomaco, nell’anima. Sta tremando fino nel cosmo.
“Aiolia era speciale” soffia, la voce come
di pianto. “Davvero speciale.”
“Sì. Lo era” le sorride Ljúfa, due lacrime
a inumidirle le labbra. “E ti amava. Tanto”
E le raccoglie una mano. Fredda;
dimenticata in grembo. Su quel ventre che le è stato strappato in battaglia,
lasciandosi dietro il ricordo di una cicatrice.
Ljúfa gliela cerca e gliela stringe con
confidenza, con la sicurezza di una verità che ha il sapore dell’ovvietà, della
normalità.
Me? vorrebbe dire
Marin, ma non si fida. Non si fida di una voce che le uscirebbe in singhiozzi,
non si fida di un respiro che tradirebbe il pianto che la maschera le nasconde.
Perché fa male sentirselo dire. Fa male sentire su labbra straniere, con parole
straniere, il sentimento che Aioria le portava.
Non glielo ha mai detto a parole. Ma con i
gesti. Oh, con quelli glielo ha fatti capire. Molte e molte volte. Nel modo che
aveva di abbracciarla, all’ombra dei rocchi. O per come se la stringeva al
petto, dopo gli allenamenti, mentre le massaggiava le spalle.
O ancora guardandola. Con quel modo che
aveva di fissare tutto e niente, che aveva di guardare lei. Come fosse. Non lo
sa. Ma Aioria era capace di guardarla con una tale intensità, con un tale misto
di desiderio, brama e dolcezza negli occhi che Marin a volte ne aveva paura.
Una profonda, intensa paura. Come di antica eccitazione.
Ljúfa le stringe più forte la mano.
Marin le appare sempre di più quella donna
che Aioria le aveva raccontato, nei deliri della febbre. Non è più solo la
percezione di un affetto, di una nostalgia rincorsa nella penombra dei
riverberi di un fuoco; e non è nemmeno il cavaliere giunto per assolvere alla
sua missione.
Marin è come lei.
È carne e sangue e desiderio. È una donna
che ricorda di essere tale solo nel riflesso di un sentimento. Ma Marin è anche
una guerriera. Quella guerriera bella e fiera, selvaggia, che Aioria le ha raccontato
in un sussurro, il sorriso a increspargli le labbra piene e il rimpianto negli
occhi. La consapevolezza che quella vita trovata d’inciampo si sarebbe
consumata senza poterla rivedere, senza poterle parlare.
C’erano la devozione e la determinazione,
negli occhi di Aioria, quando scintillavano di cosmo. E c’era la malinconia di
una terra lontana, della calda terra di Grecia, e dell’abbraccio di una donna,
nel suo viso che cercava il Meridione, durante la tregua della battaglia.
“Non te lo ha mai detto. Vero?”
“No” riesce a gorgogliare. “Non lo ha mai
fatto.”
Non
gli ho mai permesso di farlo.
“Sapeva che non serviva” stringe le spalle
Ljúfa, con una sicurezza che Marin si chiede da dove le derivi. “Altrimenti, lo
avrebbe fatto. Aioria era quel tipo di persona.”
“Ne sembri sicura.”
“Lo sono, infatti.”
Ljúfa ne è convinta. Lo sa.
Aioria era il tipo di persona che non amava
né i segreti né i fraintendimenti. Aioria era quel tipo di persona che le aveva
messo un dito sulle labbra prima che le sfuggisse una parola di troppo, la
confessione di un sentimento che non voleva accettare. Che non poteva
accettare.
Quando già stava svanendo nella luce
liquida del prima mattino. Un dito di vento alle labbra e un ciondolo al collo.
Le aveva detto lo custodiresti per me? e
lei lo aveva stretto. Stretto forte, mentre lui l’abbracciava con un calore
come di sole. Mi dispiace le aveva
sussurrato, un alito tiepido all’orecchio. Mi
sei diventata cara, Ljúfa. Tanto. Ma.
E in quel ma lasciato così, sospeso fra loro, Ljúfa aveva conosciuto la vera
forza del Leone. Non quella di imprigionare i fulmini o fendere la terra.
Nemmeno la potenza di zanne d’oro che squarciano il vento. No. Ljúfa aveva
conosciuto la forza più pura e profonda che Aioria si portava dentro: quella
viscerale capacità che aveva di amare. Concedendo tutto se stesso.
È
davvero così bella?
gli aveva chiesto, sospirando fra le lacrime, il viso premuto al suo petto.
Lo è.
Avevo
riso lui, una risata di cuore. Per me è
davvero bellissima.
E
dovrò darle il ciondolo? aveva pigolato ancora, come un uccellino che si vede
spingere fuori dal nido. Ancora troppo inesperto e impaurito per testare le
ali. Per questo me lo hai affidato?
Se
vorrai. Un giorno, sì
le aveva sussurrato, bagliore flebile che si andava confondendo con la prima
alba. Vorrei che tu la incontrassi.
Allora capiresti.
Si era dissolto così, Aioria.
Con sulle labbra il nome della donna amata,
e fra le braccia una ragazzina che dell’amore conosceva il palpitare frenetico
del cuore. Se ne era andato così, lasciandole forse la gelosia forse solo la
curiosità verso una donna che era solo un nome appena sussurrato.
Ljúfa allora non aveva capito.
M adesso. Adesso sì; adesso l’ha vista. E
ha capito.
Lo ha capito nel primo istante che, dallo
spiraglio socchiuso della porta, ha osservato Marin, ritta e fiera nella
penombra della stanza dal profumo di miele e neve. Marin ha quel portamento,
quel modo di tenere ferme le spalle di chi sa affrontare la vita. Marin irradia
quella forza, quella quieta determinazione di chi non si rassegna e sa
strappare alla vita ogni istante, ogni passo, ogni emozione.
Quando l’ha vista, ha capito perché Aioria
la trovasse bella, bellissima.
E anche lei. Anche lei l’ha trovata bella.
Molto più bella di come potrà mai essere lei. Anche senza oro né gioielli;
anche con addosso il sangue e la stanchezza delle battaglie, Marin sarebbe
sempre stata bella. Di quella bellezza primitiva, selvaggia, che Aioria
riusciva a capire, ad apprezzare.
Perché Marin è una guerriera.
Perché Marin è prima di tutto una
guerriera. E Aioria lo ha conquistato così, con la salda determinazione della
sua volontà, con la cieca fedeltà.
“Oggi ho capito perché ti amasse tanto.” la
sorprende Ljúfa, stringendo di riflesso il ciondolo che porta sul seno. “Davvero.
Sei così bella.”
Bella? vorrebbe ridere
Marin. Graziosa forse. Forse una volta lo sarebbe stata, sì. Una graziosa
piccola ragazzina, con le guance di porpora e le mani strette strette. Ma
bella. Bella proprio no. Un soldato non deve essere bello. Un soldato deve
essere solo un corpo, una volontà, una determinazione che piega anche la carne.
E Marin sa di aver piegato la sua carne e
il suo corpo a quella determinazione. E il suo è il corpo del guerriero, del
soldato che ha come gioielli le cicatrici e come belletti il sangue e il
sudore.
Aioria non ha conosciuto altro di lei: e il
corpo che ha stretto con mani ruvide, da soldato, era il corpo di un altro
soldato. E l’odore che sentiva confuso con il sandalo e la mirra era quello del
cuoio e dell’acciaio di un’armatura. E non c’erano lenzuola raffinate, dal
dolce profumo di rose, ma fieno e paglia nei capelli e il sapore forte del sale
su coperte ruvide stese ad asciugare al sole.
“Non riesci a vederlo?
“Non lo so” si schernisce Marin, un disagio
che non ha mai provato. “Un soldato non deve essere bello. Deve saper
combattere.”
“Appunto” ride appena Ljúfa, la leggerezza
di chi conosce una verità tanto semplice da essere quasi sciocca. “Ma non lo
capisci?”
No.
No. Marin non lo capisce. Non lo vuole
capire.
Come non lo capiva quando era Aioria a
dirglielo. Quando Aioria la guardava, un misto di sorpresa, meraviglia e
qualcosa. Qualcosa che era affetto, desiderio e fame. Quelle volte. Quelle
volte Aioria la guardava con una tale intensità che Marin tremava, perché
accettare quello sguardo significava anche accettare quello che Aioria non le
diceva a parole. Quello che le faceva capire nella mano che le attorcigliava ai
capelli, con la bocca che la baciava così com’era, stanca sudata e accaldata
dopo una giornata passata nell’arena.
Eppure.
Eppure anche in quel momento, anche con la
sabbia e le escoriazioni addosso, Aioria la trovava bella. Tanto bella che a
Marin faceva male il cuore, per quel modo che aveva di stringerla forte. E di
fare poi l’amore con lei. Come se ogni volta fosse la prima volta; e potesse
essere l’ultima.
“Sai” stringe le spalle Ljúfa, sorridendo
della sua stessa ingenuità. “Sono gelosa.”
“Gelosa?”
Di
me?
“Sì” mormora, le mani ad accarezzare il
grembo e la vita che vi sta crescendo. “Io posso stare accanto a Syvurr. E lo
farò. Lo voglio fare. E forse. In un’altra vita. Forse avrei potuto stare
accanto ad Aioria” continua, uno sbuffo di immaginazione. “Ma tu. Tu non starai
mai accanto ad un cavaliere. Tu non sei mai stata accanto ad Aioria. Tu gli sei
sempre stata al fianco.”
“Già” soffia in un respiro. “L’ho sempre
fatto.”
E si rivede ragazzina.
Si rivede ragazzina, le gambe raccolte e
una mela in mano. Si rivede ragazzina a consolare un ragazzino come lei, un
ragazzino con la rabbia e la solitudine in fondo agli occhi. Si rivede per
quello che è sempre stata: lo sguardo, la mano, il respiro che Aioria cercava
fra la folla, cui Aioria si aggrappava senza paura.
Aioria non ha mai dovuto fingere, davanti a
lei. Con Marin, Aioria ha imparato che era altro, oltre al fratello di un
traditore. Che era altro, oltre l’oro di Leo che lo rivestiva. Con Marin Aioria
aveva imparato che era prima di tutto un ragazzo, un uomo.
Ed era quel ragazzo, quell’uomo, che Marin
aveva affiancato in battaglia, che aveva sorretto quando era solo troppo stanco
per provarci ancora. Era con quell’uomo che aveva riso e scherzato, nei
tramonti sotto gli ulivi. Ed era quello il ragazzo, l’uomo che aveva accolto
sul suo seno e nel suo ventre.
Un uomo che di sé le aveva mostrato la
forza fiera, selvaggia, e le debolezze profonde, abissi che a volte lo
risucchiavano.
Un uomo che le sussurrava, che la pregava,
nel furore della battaglia o nel calore di un amplesso, di non rifiutarlo, di
non lasciarlo. Perchè con Anissa era lei, era Marin dell’Aquila, la sola cosa
che lo facesse andare avanti, la sola cosa che lo facesse restare saldo in
piedi.
È
pericoloso, lo so,
le aveva detto una volta, accarezzandole il profilo della spalla, nella luce
fredda di un luna di febbraio. Però. Se
non ci fossi tu, a volte non so se riuscirei ad alzarmi le aveva soffiato
all’orecchio. Marin, le labbra un
respiro caldo sulla maschera, dove la
trovi ogni volta la forza di raccattare anche me?
Quella volta non gli aveva risposto. Si era
fatta baciare sulla maschera e lo aveva rovesciato nel letto, stringendogli i
fianchi e amandolo di nuovo, bella nuda e audace sopra di lui. Per farglielo
capire, da dove venisse quella forza che aveva. Quella brama di vita, di
sentirsi viva, che è tutto ciò che possiede un soldato destinato alla
battaglia.
Perché lo sapeva lei; e lo sapeva anche
lui.
Lo sapevano entrambi che per loro non
sarebbe mai esistito un per sempre.
Che il solo sempre era l’attimo che
riuscivano a strappare. E che uno dei due, prima o dopo, non sarebbe tornato.
Aioria sapeva che probabilmente sarebbe morto a vent’anni; e Marin sapeva che
sarebbe dovuta andare avanti. Raccattando se stessa, il suo dolore e i suoi
ricordi. Per tornare di nuovo, un giorno, in battaglia, senza lui al fianco.
“Mi ha lasciato questo” le mostra Ljúfa,
mettendole nelle mani a coppa il ciondolo d’argento e peltro. “Diceva. Diceva
che a te non serviva. Però. Forse. Forse sarebbe giusto che lo avessi tu.”
“No” soffia Marin, richiudendo le mani su
quelle di Ljúfa e sul ciondolo che le ha restituito. “No. Tienilo tu.”
Marin si accorge che non ha bisogno di
ciondoli, parole o consolazioni. Si accorge che ha già tutto quello di cui ha
bisogno. Che lo ha sempre avuto. È la stessa cosa che le ha permesso di
continuare ad andare avanti, in quegli ultimi due anni. Vivendo. Vivendo anche
nel dolore della perdita; anche nel disorientamento. Marin non è una
sopravvissuta; non ha mai voluto essere solo una sopravvissuta.
Marin è forza.
La forza del soldato, la forza di chi sa
accettare ogni istante dalla vita, con l’intensità che solo la vita possiede.
Una forza profonda, viscerale, una brama di vita che solo la frequentazione con
la morte conosce.
E Marin ce l’ha, quella fame di vita. L’ha
sempre avuta. Ed era quello che Aioria amava, che ha sempre amato di lei. Ed è
quello che la farà camminare ancora fiera: anche con l’armatura a pezzi e il
corpo a brandelli. Anche con la nostalgia e la malinconia dell’assenza.
Aioria le manca. Le mancherà sempre.
Ma andrà avanti. Come ha sempre fatto; come
fanno tutti i soldati.
“Aioria mi conosceva bene. Davvero bene”
sorride dietro la maschera, una lacrima a percorrerle la guancia. “Non mi
serve. Non mi è mai servito.”
“Ma” tenta ancora Ljúfa, cercando di
intuire da dove arrivi davvero quella determinazione, quella intensità che
sembra irradiare. Non è la forza del cosmo, non è il lucore delle stelle e del
cielo di Grecia. Ma è lo stesso abbagliante.
“Tu hai Syvurr di Mizar” la ferma Marin. “Tu
hai questo” le ricorda, sfiorandole il ventre in un gesto di vago rimpianto. “E
io ho questo” e si preme una mano sulla corazza, lì sul petto dove Aioria
poggiava la testa quando voleva sentire il sapore della tranquillità.
“Andrò avanti.”