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Autore: Oniro    19/02/2018    0 recensioni
Senza emettere un suono, un’ombra si avvicina al corpo riverso.
Lo guarda con occhi luminosi.
Pregni di un dolore quasi umano, che come quel cielo, piangono le lacrime di chi ha perduto tutto.
Si avvicina, la piccola fiera, al corpo impregnato di rosso, sporcandosi essa stessa di quel colore così intenso.
Nel suo ultimo addio a quell’uomo gli si accoccola al cuore e quell’istante.
Infrange il mondo con l’abbraccio che sarebbe durato un tempo eterno.
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Violenza
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Il rosso.

Muto colore che nel silenzio si mescola e scivola in uno scrosciare di gocce infinite rompendo il silenzio col proprio rombo.

Tra le ombre delle nebbie, qualcosa è riverso a terra e tutto muta in un’atmosfera quasi immaginaria che nessuno vedrà.

Scorre l’acqua tra le membra, inzuppando vesti sudice, tinte del colore del tramonto, ma che del tramonto non ricordano nulla.

Scorre come un fiume attraverso le pieghe di un volto senza voce che guarda in alto verso il cielo plumbeo, il quale sembra piangere e urlare al posto di quelle fauci mute e spalancate che mai saranno udite.

 Urla il cielo e nessuno ascolta.

 Piange senza che nessuno veda.

Il rosso scorre.

Continua a scorrere.

 Si mescola e si slava.

 Brilla nella flebile luce per poi tornare a essere scuro come le ombre di un vicolo sconosciuto dove il mondo si è fermato, almeno per un secondo. Come un orologio rotto, il tempo si è bloccato per colui che guarda il cielo con occhi vitrei, piangendo lacrime che il cielo ha versato in quella notte nebbiosa.

Torna indietro oh tempo. Torna indietro.

Narra di un tale evento, tu unico a rimembrarlo poiché l’acqua ha  lavato la terra.

I ricordi sono spariti verso un orizzonte di oblio, ma tu rimembri. Favella vecchio ticchettio affinché il mondo non dimentichi.

Tra le rovine di una città distrutta, dove i cadaveri non si contano. Perché mai uno solo dovrebbe essere diverso? Poiché quel singolo evento era la fine e l’inizio del peggio.

Tra le macerie, appare un documento.

Strappato.

Bruciacchiato.

Contorto e stirato.

Un documento importante, il quale sembrò, all’epoca, qualcosa di veramente grandioso.

Una bolla papale fu emessa nell’anno domini 1338 da Papa Gregorio IX, la quale esortava a eseguire lo sterminio di gatti, specialmente neri, in nome di un dio folle. Divenne obbligo morale, dunque, scorticare. Bastonare.

Bruciare vivi.

Crocifiggere.

 Buttare giù dai campanili una sequela infinita di creature ritenute malvagie. Un usanza idilliaca per chiunque volesse sfogare la propria inutile ferocia contro creature così diverse che in un’epoca lontana erano state effige di una Dea potente e amata. 

In un scenario tanto mortifero, il quale avrebbe dato conseguenze ben peggiori di ciò che chiunque si aspettasse, un uomo che non aveva nulla, incontrò un piccolo gatto, spelacchiato.

Furente.

 Spaventato.

 Addolorato.

 Ferito.

Aveva il mondo racchiuso negli occhi.

Sotto al cielo, unico testimone di quell’incontro, due anime si fissavano, entrambe lontane eppure così vicine. Nessuno dei due osava fare una mossa. Un passo verso l’altro, eppure, come trascinati da una forza invisibile che li sospingeva entrambi allo stesso tempo, erano attratti da chi fissava l’altro. Quel momento, così disperato, divenne quasi un gioco. Un gioco di sguardi tra gli occhi spenti di uno e luminosi dell’altro, gli uni incastrati negli altri e nessuno avrebbe mirato altrove per paura di perdere più che per un motivo peggiore.

Vi era tanta morte oltre quel vicolo, ma in quell’esatto momento, il mondo, la bolla, la morte, la follia, le urla e il resto di quella oscura epoca, non esistevano. C’erano solo loro due, un uomo stroppo stanco, dalle vesti stracciate e la miseria nel cuore e un piccolo gatto spelacchiato troppo vivo, con la morte nel cuore, ma che tuttavia aveva tutto da offrire.

 Ciò fu l’intreccio che generò quell’incredibile momento in cui una mano callosa si protese aperta ed esitante verso la fiera ferita che si ritrasse fissando lo sconosciuto con sgomento. Quello sconosciuto, tuttavia, aveva qualcosa che lui conosceva, era come possedere un ricordo antico che nessuno rimembrava. Lo guadavano ancora quegli occhi pieni del mondo, così luminosi, come il mare che si perde verso un orizzonte infinito, prima di avvicinarsi e strofinare il fragile corpicino su quella mano quasi gentile che aveva dimenticato la follia del mondo.

Mentre la mattanza aumentava, conducendo tutto al suo epitaffio ultimo. Le grida riecheggiavano da parte a parte. Urla non più solo delle fiere seviziate. Un miserabile uomo con un tozzo nero di pane mirava i ratti putridi e marcescenti che già iniziavano ad aggirarsi liberi come piaghe deambulanti.

Quelle scene, così disgustose, lo riconducevano a un sorriso, a quei due giorni precedenti in cui quella piccola dolce gattina, mossa da moti incomprensibili, gli portava quegli stessi ratti poiché sentiva il suo stomaco borbottare solenne. L’uomo, dal canto suo, mirando quei corpi grigi, striati da pelo assente dove bolle nere crescevano come tumori inarrestabili, non poteva che avere un conato di vomito represso a stento, tuttavia, apprezzava, quasi lodava a volte, quella cura che l’animale dagli occhi luminosi gli riservava.

 Porgendogli una mano, colpì giocosamente quel nasino così rosa, troppo per il pelo nero della piccola fiera, per poi grattarle il dietro dell’orecchio, ciò produceva l’effetto di far chiudere alla gattina gli occhi in maniera buffa, quasi rotolandoli dal piacere di quel contatto così distante dal dolore.

Bast.

Era stato quello il nome che l’uomo che le aveva donato.

Un dono curioso, derivato da qualcosa di misterioso.

 La seconda notte, dopo essersi conosciuti nel silenzio di un gioco antico, tirava un vento gelido, quasi la terra e il cielo, adirati con gli umani, avessero deciso di congelarli. Fermare tutto in uno spaccato di tempo infinito.

Nel vicolo sconosciuto, il gelo entrava forando ossa e pelli. Uomo e gatto tremavano. Qualcosa spinse la gattina ad accoccolarsi nel petto della creatura congelata che le stava dinnanzi.

Quella notte l’uomo sognò.

Nel buio oblio del nulla assoluto. Nel silenzio tiranno di un luogo mai esistito, una donna dagli occhi di gatto, dalla sublime bellezza e dalla meravigliosa voluttà, ornata di gioielli di un epoca dimentica. Regina investita di un’aura dorata, apparve. La donna non si espresse mai. Mirava quell’uomo che non poteva fare a meno di bearsi di quella visione così celestiale.

Così sconosciuta.

 Così familiare.

Il sentore era di una madre che torna dal figlio dopo lungo tempo. Un ritorno pregno di nostalgia e di un calore beato. Lo stesso calore che la piccola gattina che ora seguiva la donna, gli aveva trasmesso quando si era avvicinata. Lo sentiva avvampare nel petto. 

Sentiva il pelo premuto.

Il sottile soffio della vita che animava quella creatura ferita.

 La sentiva la piccola fiera, e la amava senza conoscerne il reale motivo. Un amore strano.

Vero.

Così familiare.

Così distante nel tempo.

Così come amava quella donna che senza proferir parola gli sorrise. Un sorriso così dolce.

 Malinconico.

 Così addolorato da essere la più sublime e meravigliosa delle visioni. L’ultimo ricordò un incontro distante. Erano gli occhi della donna a muovere la mente, gli stessi della gatta.

Ricordò un nome.

Bast.

 Quando la fiera lo udì sembrò capire, e per un momento, solo uno, l’uomo sembrò scorgere, all’interno di quegli occhi così vivi, una vena di comprensione umana, non intesa non come simile a lui o ad altri, bensì come uomini passati.

Dimenticati.

Obliati dalla memoria dei propri simili.

Bast attendeva, recava sempre il solito topo che l’uomo avrebbe rifiutato.  Quel giorno, tuttavia, con sguardo allegro, il miserabile estrasse dalla casacca un tozzo di pane nero concessogli dalle cucine di un uomo troppo grasso per sentirsi in colpa per la miseria altrui. La gattina mirò quello strano oggetto che lui teneva in mano quasi con curiosità, lo avvicinò al muso e annusò. Compreso di cosa si trattasse rivolse gli occhi al volto che tendeva la mano e fu come se sorridesse. Un sorriso muto che malcelava una felicità che nessuno dei due presenti notò pur accorgendosene. Dopodiché, per la prima volta da due giorni, entrambi festeggiarono qualcosa che i due non avrebbe saputo descrivere. Forse era l’incontro, magari era il nome, o semplicemente era solo un povero pasto gioioso mentre il mondo, lento, moriva.

Non passò molto tempo prima che qualcuno prendesse a notare quest’uomo che si aggirava circospetto per le strade mantenendo sempre una mano dentro un logoro mantello dal quale sbucava un orecchio nero.

 La decisione che avrebbe decretato l’approssimarsi di un evento orribile era stata presa dal miserabile quando era stata intensificata l’insensata ricerca delle fiere.

Ormai decimate.

 Nascoste nei posti più improbabili.

Preoccupato che potessero trovare la piccola Bast, aveva preso a portarla con sé. Scoprendo come fosse confortante, in quel mondo di tenebra dove ormai i  morti tra fiere e umani purulenti non si contavano. Dove i ratti proliferavano alla luce del giorno seminando il panico e, sempre più spesso aggredendo ignari passanti. Dove una malattia sconosciuta prendeva piede dissanguando dall’interno i corpi e figuri dalla maschera di corvi iniziavano a comparire con sempre maggior frequenza insinuando la paura, il calore del piccolo corpicino premuto contro di lui.

 La prima volta che l’aveva portata con sé, la piccola fiera era curiosa di vedere quel mondo sempre mirato attraverso uno spiraglio di suoni ovattati e immagini confuse. Più per paura che vedesse quell’orrore che per altro, l’uomo le spinse dentro la piccola testa con delicatezza, carezzandola piano. Aveva preso così, l’abitudine di mantenere sempre una mano dentro il mantello, volta sia a fermare la gattina che a consolarla qualora ci fosse stato qualcosa che la turbava.

 Bast dal canto suo, sembrò comprendere l’intento del gesto che la forzava dentro quelle vesti logore e non emise mai un verso. Non si lamentò mai di quella condizione, anzi, sembrava apprezzare quella cura e quella vicinanza che l’uomo le riservava.

 Erano solo loro.

 Due entità divise.

Vicine tanto da sentire l’uno il debole ronzio delle fusa e l’altra l’impeto fobico di un cuore che temeva la vita di chi stringeva.

Mentre il mondo cadeva in un baratro attorno a loro e la terra sembrava spaccarsi come i cuori di coloro che perdevano tutto, quei cuori, troppo vicini emettevano una sola melodia. Estranea a ciò che vi era attorno. Brillava e si alternava in un gioco troppo frivolo per quella mondo che invidioso, ordiva la propria, muta, vendetta.

 Il giorno della rivincita di una realtà marcia che divora senza sosta ciò che vi è al suo interno, giunse quasi in attesa in un  dì plumbeo e gonfio cielo di pioggia.

L’uomo con una mano infilata nel mantello logoro tornava infreddolito eppure felice del piccolo bottino che recava nel cesto bucato di vimini. Bottino raro da trovare, regalato per un fiore rosso come il sangue e dorato come il sole. Gli era stato donato da un’anziana che aveva tanto insistito perché lo prendesse.

 Posata a terra la piccola fiera, che lo prese a fissare con quegli occhi curiosi e felici, l’uomo le mostrò il contenuto parlandole. Come usava fare da un po' di tempo a questa parte quando la vedeva nervosa o le vecchie ferite le si riaprivano.

Parlò di cosa avevano raccattato quel giorno.

Per primo uscì un pezzo di formaggio puzzolente e nero come quasi il resto di quel gran tesoro che decantava. Lo mostrò alla gatta che ritrasse il muso strofinandosi il nasino tra le zampe, ciò provocò una sonora risata di chi le porgeva quel cibo. Fu uno strano momento quello in cui lui rideva e lei gli metteva il broncio mentre sorrideva in quegli occhi luminosi come stelle.

L’attimo passò in una folata di vento nefasto che il mondo aveva voluto provocare.

Tre uomini vestiti di nero osservavano la scena con disprezzo. Declamarono come quell’uomo avesse insozzato se stesso condividendo con quel servo del male il proprio cibo.

Intimarono, nella follia ne quale versavano, di lasciare che loro si occupassero dell’anima dell’uomo togliendo quella nefasta fiera da lui. Quale non fu la sorpresa dei tre nel vedere quel miserabile prendere la gattina e nasconderla stringendola a sé, riparandola da costoro che sarebbero stati ben felici di torturarla con morti orribili.

 Il mondo era penetrato nel piccolo angolo di paradiso che i due si erano creati, eppure, anche così, mai quelle mani avrebbero lasciato quella creatura ad altri.

 L’avrebbe protetta.

Così fecero.

Tentando in tutti i modi di sottrarsi a quelle mani insanguinate che cercavano.

 Fece tutto ciò che poteva perché non gli portassero via l’unica cosa che amava.

 Quella realtà meschina e priva di lume, tuttavia, aveva decretato la fine dei due come un crudele giudice e in un bagliore argenteo il sangue fu versato.

 L’uomo dal mantello logoro cadde a terra mentre l’acqua prendeva a scendere.

L’ultima cosa che vide furono quegli occhi luminosi.

Disperati come il primo giorno che l’aveva vista.

 L’ultima cosa che udì furono i miagolii che sembravano chiamarlo, poi l’oblio prese il sopravvento mentre la coscienza invocava quel nome per l’ultima volta.

Il rosso.

Muto colore che nel silenzio si mescola e scivola in uno scrosciare di gocce infinite rompendo il silenzio col proprio rombo.

Tra le ombre delle nebbie, qualcosa è riverso a terra e tutto muta in un’atmosfera quasi immaginaria che nessuno vedrà.

Scorre l’acqua tra le membra, inzuppando vesti sudice, tinte del colore del tramonto, ma che del tramonto non ricordano nulla.

Scorre come un fiume attraverso le pieghe di un volto senza voce che guarda in alto verso il cielo plumbeo, il quale sembra piangere e urlare al posto di quelle fauci mute e spalancate che mai saranno udite.

 Urla il cielo e nessuno ascolta.

 Piange senza che nessuno veda.

Il rosso scorre.

Continua a scorrere.

 Si mescola e si slava.

 Brilla nella flebile luce per poi tornare a essere scuro come le ombre di un vicolo sconosciuto dove il mondo si è fermato, almeno per un secondo. Come un orologio rotto, il tempo si è bloccato per colui che guarda il cielo con occhi vitrei, piangendo lacrime che il cielo ha versato in quella notte nebbiosa.

Senza emettere un suono, un’ombra si avvicina al corpo riverso.

Lo guarda con occhi luminosi.

Pregni di un dolore quasi umano, che come quel cielo, piangono le lacrime di chi ha perduto tutto.

 Si avvicina, la piccola fiera, al corpo impregnato di rosso, sporcandosi essa stessa di quel colore così intenso.

 Nel suo ultimo addio a quell’uomo gli si accoccola al cuore e quell’istante.

Infrange il mondo con l’abbraccio che sarebbe durato un tempo eterno.

 

 

  
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