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Autore: Diana LaFenice    20/02/2018    0 recensioni
Axel è un ragazzo come molti altri all'ultimo anno del liceo.
Un giorno, durante un terremoto, cade in una voragine e finisce nel regno di Amritsar, in India, ai tempi di Alessandro Magno. Lì viene soccorso da Elissa, una serva di Palazzo che si prende cura di lui.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Storico
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Infinity 21: Un amore oltre la Storia

I
o dell'amore non so granché, a parte quello che sento nelle canzoni. Potrei dirti che è una dama che gioca con un unicorno. O un baldo giovane a cavallo del suo destriero che salva fanciulle tutti i dì. So soltanto che è un viaggio. Un viaggio che per me è cominciato molto tempo fa, quando mi stavo recando all'appuntamento con una delle mie tante fiamme del momento. Allora ero giovane e stupido e non m'importava di ferire qualcuno col mio comportamento. E probabilmente qualcuno Lassù si adirò con me perché una delle mie ex, quando ci lasciammo, mi urlò contro che mi capitassero le peggio cose nemmeno fossi stato Don Rodrigo che trema di fronte alla minaccia di Fra Cristoforo. Eppure io di paura ci tremai davvero e questa paura non mi abbandonò per giorni. Lei, Beatrix, l'avevo conosciuta a scuola. Non era tutto questo granché, aveva i capelli ricci e sembrava quasi una bambina. Indossava gli occhiali, ma a parte questo non era niente di speciale. Mi avevano sfidato a chiederle di uscire alcune mie amiche, che la prendevano spesso in giro. Non so bene per cosa, ma immagino che fosse perché era una secchiona. Pensavo che fiutasse a un chilometro di distanza la trappola e invece no, accettò subito di uscire con me. «Certo che ci esco con te, Axel!» Esclamò entusiasta, neanche le avessi proposto di andare a un ballo. In realtà mi chiamo Axel Void, ma tutti mi chiamavano Vox.
Perciò ci demmo appuntamento quel pomeriggio alla gelateria del centro commerciale. Indossai una camicia e dei jeans che mi stavano da Dio e mi avviai. Quando la vidi indossava un vestito bianco con una giacca di pelle scarlatta. Si guardava attorno, preoccupata. Sorrisi e la raggiunsi. Lei volse il capo verso di me e mi sorrise. A trenta metri da lei la terra però cominciò a tremare violentemente, così tanto che i palazzi cominciarono a oscillare e altri crollarono. Si scatenò il pandemonio generale mentre pezzi di tutto piovevano per ogni dove costringendoci alla fuga. Come se non bastasse una voragine si aprì sotto ai miei piedi e, nel parapiglia generale, ci caddi dentro. L'ultima cosa che udii prima di battere la testa, fu la voce di Beatrix che urlò il mio nome.

Fui svegliato dal nitrito di un cavallo e la prima cosa che vidi furono la polvere sollevata dagli zoccoli. Poi delle grida in una lingua che non conoscevo e la luce che mi accecò. Un cavaliere indiano, cominciò a prendermi a calci, urlando frasi e insulti nella sua lingua. Cercai di opporre resistenza, ma a causa delle ferite riportate non potei fare altro che urlare di dolore e supplicarlo di smetterla, con gli occhi pieni di lacrime. Poi una voce femminile lo fermò e qualcuno si aggrappò al suo braccio, impedendogli di darmi il colpo di grazia. L'unica parola che compresi fu: «Elissa!»
Qualcuno, una ragazza, a giudicare dagli abiti, si inginocchiò accanto a me e mi domandò qualcosa tastandomi le spalle e i capelli, laddove ero stato ferito. Proprio allora persi i sensi. Mi svegliai nel letto di un palazzo che immaginavo potesse appartenere a un sultano. Al mio fianco c'era una ragazza di sedici anni dal viso intrigante e lunghi capelli rossi vestita di bianco che mi vegliava.
Disse qualcosa nella sua lingua che potei interpretare, con gran fatica come un: "sei sveglio, meno male." Almeno credo. E poi lei cominciò a passarmi un panno bagnato sulla fronte e scoprii di essere bendato e steccato dalla testa ai piedi. Poi lei rise, sentendomi parlare e io la guardai stranito. Non capivo niente di quello che diceva. Lei si prese cura di me un altro po', poi se ne andò salutandomi.
Col tempo mi rimisi, non solo per i medici del palazzo, ma anche grazie alle sue amorevoli cure. Passarono due mesi prima che potessi essere in grado di camminare, e nel frattempo, avevo stretto amicizia con quella ragazza dai capelli rossi. Pensavo fosse una serva, una serva che, diligentemente, mi stava insegnando la sua lingua. Non avrei mai pensato di finire in India, e per di più, ai tempi di Alessandro Magno. Era, infatti, il 325 a.C. e ci trovavamo nel palazzo reale di Amritsar. Non avevo mai amato particolarmente l'India e l'Asia in generale, ma devo dire che grazie a lei fu molto piacevole. Persino i piccoli inconvenienti dovuti alla mia spaesatezza. Una volta, per sbaglio cercai addirittura una TV perché avevo voglia di vedere I Cavalieri dello Zodiaco. Salvo poi ricordarmi dove mi trovavo e in che tempo e lasciai perdere. Oppure qualche piccolo problema coi servizi igienici e la mancanza di piccole ovvietà cui ero abituato nel mio tempo. Cosa che, puntualmente, mi fece passare per malato e che convinse i medici che avevo riportato chissà quale trauma per cui fosse necessario ricoverarmi. Che per loro ricoverare era sinonimo di restare a letto quasi tutto il giorno. Se non restai segregato fu grazie alla mia salvatrice, la quale, notando la mia spossatezza e la mia frustrazione, cominciò a farmi sgattaiolare via di nascosto attraverso i passaggi segreti nascosti all'interno del Palazzo. Ovviamente ci riuscivo grazie all'aiuto dell'energumeno formato armadio a due ante che mi portava sulla schiena come una scimmietta. Mi portava nei giardini privati della famiglia reale e lì respiravo un po'd'aria fresca. Intanto che lei mi narrava le storie del suo paese e le favole con cui era cresciuta. O almeno presumo che lo fossero. Per quel che ne so, avrebbe potuto anche raccontarmi la sua ceretta e non me ne sarei accorto. Perché tanto non la capivo. Fatto sta che lei mi guardava come se potessi capirla davvero e risolvere i suoi problemi. E io, sentii che di quello sguardo non mi sarei mai stancato.
Alla fine non resistetti più e le chiesi di insegnarmi a parlare la sua lingua. Lei acconsentì e le barriere comunicative tra noi cominciarono a crollare.
Non immaginavo che avrei finito per innamorarmi del suo paese, delle sue leggende, dei suoi paesaggi, e di apprendere molto di più di quanto pensassi. Io che non avevo mai mostrato il minimo interesse per la Storia e l'Oriente. Ma lei riusciva a rendere tutto magico e avvolto da una nuova luce. Io, che del suo paese non avevo mai studiato niente, mi ritrovavo a vivere con lei danze, feste e a vestire gli abiti locali e a imparare nomi di pietanze più speziate di quanto immaginassi. Io, il massimo che sapevo dell'India derivava dalle commedie Bollywoodiane e dei videoclip di MTV. Non pensavo davvero che questa terra fosse ricca di magia, arte e colori. Alla fine, per capirci meglio, ripiegammo sul greco antico, e lo conoscevo perché, non ve l'ho detto, ma io frequentavo il classico. E i piccoli problemi di incomprensione furono accantonati. Scoprii anche il suo nome: Elissa e potei ringraziarla. Dal canto suo, lei dimostrava una pazienza a dir poco infinita, anche se a volte sapeva essere seccante. C'erano, infatti, giorni, in cui era lei ad essere in ansia per me o a riversare su di me tutti i suoi crucci quando invece volevo soltanto dormire. E se da una parte avrei tanto voluto spegnerla come il mio telefono - disperso chissà dove - dall'altro mi piaceva comunque ascoltarla e averla vicino.
Lei addirittura, una volta, durante la convalescenza, si offrì di danzare per me e fu lo spettacolo più bello del mondo, non solo per la storia che riuscì a trasmettermi, ma anche alle emozioni che suscitò in me. Per la prima volta la vidi come un fiore, con tutta la sua grazia e la sua bellezza, la sua forza e la sua delicatezza. Io, che finora l'unica emozione che avevo provato di fronte a una ragazza che ballava era l'eccitazione. Poi, per finire, si avvicinò a me e fui inondato dal suo profumo, che mi lasciò piacevolmente inebetito per la sua dolcezza. Ovviamente, quando fui in grado di camminare, mi fece fare il tour del palazzo e mi innamorai immediatamente dello splendido e rigoglioso giardino. Anche lei amava stare lì, soprattutto in primavera e in estate. Per essere una serva aveva molte libertà. Per esempio, per festeggiare il mio compleanno, organizzò per me un pic nic in giardino con tanto di arpista e cantore che intonò per noi una ballata. Mi spiegò essere imparentata con il sovrano e che quindi tutti la trattavano con rispetto e le concedevano molte cose. Poi mi regalò un monile che porto ancora adesso che vi sto narrando questa storia.
Credo che fu allora che mi accorsi di provare qualcosa per lei e che desiderai di vederla sorridere per sempre. Ripeto, io non so cosa sia l'amore, ma penso di cominciare a capirci qualcosa. E a capire almeno un po', una delle canzoni che piacevano tanto a mia mamma: cioè 21 modi per dirti ti amo di Antonello Venditti. << Per il significato. >> Diceva sempre quando chiedevo spiegazioni. Unica canzone che mi sia mai rimasta davvero in testa. E che un giorno, ispirato, le cantai nella mia lingua madre. E poi gliela tradussi in greco, anche se per alcuni termini come aeroplano, luna park o fucile, dovetti sostituirle con dei sinonimi che ebbero la stessa funzione delle ali di Icaro. Ovvero, dato che esagerai, storpiarono la canzone a tal punto che precipitai in un mare di imbarazzo che mi fece sperare di morire, mentre lei rideva. E mi prese in giro dicendomi che ero come una rosa: bello, ma pieno di spine. Strappandomi un verso sarcastico. Alla fine mi scoccò un bacio sulla guancia che mi fece avvampare. Non avevo mai provato niente del genere.
Ovviamente a volte facevo ancora la figura dello stupido con la sua gente, quelle volte che uscivamo da palazzo in incognito, ma lei mi difese sempre. Salvo una volta, parecchi mesi dopo, che, invece, dovemmo proprio scappare via. Stavamo recandoci al mercato quando le persone cominciarono a urlare: «I Macedoni! Arrivano i Macedoni!» E questo significava una cosa sola: assedio. Fu Elissa a farmelo capire. Immediatamente mi afferrò per il braccio e mi supplicò di tornare subito a palazzo. Io, senza neanche capire il perché di tutta quella paura acconsentii e tornammo immediatamente indietro. La mia amica ebbe un attacco di panico tale che mi spaventai anch'io. Chiamai aiuto e alcuni servitori la portarono via. Non la rividi per tre giorni interi e quei tre giorni, li vissi nella preoccupazione più totale, arrivai addirittura a minacciare qualche domestico e delle guardie per avere almeno uno straccio di notizia. Se non potevo vederla, almeno questo. Ma niente. Al termine di questi tre giorni non resistetti più e la cercai con più insistenza degli altri. Fu lei, non appena aprii la porta della mia stanza, a tuffarsi tra le mie braccia. Mi chiese scusa per avermi fatto stare in pena. Ricambiai l'abbraccio e le dissi che era tutto passato e che andava tutto bene.
Ma i Macedoni erano ancora fuori delle mura.
Stavamo tutti pensando al peggio quando giunsero a palazzo degli ambasciatori. Insistetti con Elissa per poter assistere mentre lei era stata chiamata a servire nella sala dove si teneva l'ambasce. Ma non mi fu concesso. Quando tornò mi raccontò che stavano ancora negoziando.
C'erano delle volte in cui sentivo la mancanza di casa, di mia madre, della mia famiglia. Mi domandavo spesso se fossero riusciti a sopravvivere al terremoto. Mi preoccupavo persino per Beatrix, che pure non conoscevo ma che non avevo neanche provato a salvare. E questo mi causava incubi ricorrenti. A salvarmi da questo tormento fu proprio Elissa, che una sera sgattaiolò nelle mie stanze e mi portò a vedere la luna sulla torre più alta del palazzo.
Lì, una volta calmatomi, mi chiese di parlarle della mia terra. Finora avevo sempre cercato di evitare il discorso, perché il mio tempo, non solo era più complesso del suo, ma anche più grigio, sporco e ingiusto. Temevo che tutto ciò potesse contaminarla, che mutasse l'opinione che aveva di me. E che ci allontanasse ancor di più di quanto già non fossimo. Però l'accontentai lo stesso. Le parole mi uscirono come un fiume in piena e le raccontai tutto. Dalla più piccola stupidata, al mio tempo, a me stesso. E mi vergognai di me al punto che piansi verso la fine. Mi sembrava di avere il cuore stretto in una morsa mentre la mia coscienza diceva, maligna, Ecco, adesso lo sa. Lei restò in silenzio così a lungo che credetti fosse scappata via finché non mormorò in tono sconvolto e dispiaciuto: «Esistono davvero dei regni del genere?» La guardai e trovai solo dispiacere. «Mi dispiace tanto.» Le dissi, come se questo avesse potuto mettere una pezza. Ma Elissa disse: «Sono contenta che tu sia scappato da quel posto.» La guardai stupito, mentre lei continuava, convinta: «Nessuno dovrebbe vivere in un luogo del genere».
«Quindi, vuoi dire che non mi odii?» Le chiesi, incredulo. Le avevo detto che non ero uno stinco di santo e lei mi perdonava? Anzi no, per lei non cambiava niente? «Perché dovrei odiarti per così poco? Solo perché nel tuo regno sei cresciuto così e ti hanno educato a questo modo? Con me non ti sei mai comportato così e io con te io sto bene, con te io mi sento libera, felice, mi sento bene, mi sento amata, e non..» S'interruppe. «Non una serva» Completò poi, con un'espressione e una voce strane. Le chiesi se stesse bene e lei disse di sì, ricomponendosi subito.
Nel frattempo le ambasce continuarono.
Continuai a pensare che la ragazza fosse una serva finché un giorno un servo si accostò a noi e le disse: «Vostro padre, il re, vi attende, è urgente.» Quel giorno scoprii che Elissa era la principessa ereditaria del regno di Amritsar e molte cose ebbero finalmente un senso. E questo generò una spaccatura tra di noi. «Tu sei la principessa?» Lei mi guardò come a dire, ti prego non odiarmi e mi incazzai: «Perché non me l'hai detto prima? Perché mi hai fatto credere di essere una serva?»
«Cosa dovevo dirti?»
«La verità! Scommetto che Elissa non è neanche il tuo vero nome».
«Ti sbagli! Io sono sempre stata sincera con te! Io non ho avuto paura quando mi hai raccontato la verità su di te, anzi, ti ho... Mi avresti amata se ti avessi detto chi ero davvero?» Le voltai le spalle e mi appoggiai al davanzale della finestra. Lei mi abbracciò da dietro e mi domandò, singhiozzando: «Ma cosa devo fare per fartelo capire?» Avrei voluto girarmi e abbracciarla, baciarla e dirle che non era niente, ma invece, tutto quello che mi uscì di bocca fu: «Lasciami».
Lei obbedì e disse soltanto: «Scusami.» Prima di seguire il servo. Spaccatura ancor più accentuata quando si sparse la notizia che la ragazza sarebbe stata promessa ad Alessandro Magno in persona, essendo stata l'unica soluzione pacifica onde evitare spargimenti di sangue.
Non mi ero sentito mai così preso in giro, inutile e impotente in tutta la mia vita. Avrei voluto avercela con lei, ma non ci riuscivo. Era ovvio che fossi stato soltanto un inutile sollazzo per lei. E ancor più inutile, se contiamo il fatto che, fino a quel momento, ero vissuto soltanto per poterla abbracciare. Io mi ero innamorato di lei, alla fine mi ero aperto con lei e cosa venivo a scoprire? Che lei per prima mi aveva mentito. Non volevo più avere niente a che fare con lei, ma ero bloccato qui, e fuori del Palazzo io non ero nessuno e non avevo niente. La mia rabbia si attenuò quando mi giunse voce che la principessa, chiese qualche giorno per soppesare la proposta. E capii di essere stato uno stronzo. Me l'ero presa ingiustamente con lei. Con me si era sentita una ragazza normale e mi ringraziava, mi amava per questo.

Alla fine lei prese una decisione cui rese partecipe tutto il regno. Quel giorno credetti di morire. Invece, fu come tornare alla vita quando lei proclamò che non avrebbe mai sposato il conquistatore Macedone. Neanche se il suo stesso padre l'avesse ripudiata. Cosa che, essendo ormai malato da mesi e con un piede nella fossa, non avrebbe mai potuto fare. «Scelgo io chi amare!» Esclamò e poi fece le sue scuse agli ambasciatori a nome suo e pregò il loro sovrano di essere clemente nonostante il suo rifiuto. Quella sera io ed Elissa ci riconciliammo e mi disse che aveva trovato il modo di farmi tornare nel mio tempo. Però fui io a rifiutare. Volevo stare con lei, non volevo più tornare a casa e non m'importava se era una principessa o una serva. Lei mi elevò al rango di principe per poter placare almeno in parte lo scandalo.
Alessandro Magno la prese malissimo e invase il regno. Anche se Elissa, ormai diventata regina alla morte del padre, che designò lei come successore, oppose una fiera resistenza. Alla fine non ci fu niente da fare. La capitale fu invasa, e mentre mettevano a ferro e fuoco il Palazzo, attuò l'incantesimo di ritorno e io mi svegliai a casa mia, nel mio tempo e nella mia terra, con ancora il suo addio nelle orecchie.

Anni dopo, mentre visitavo un sito archeologico in una zona dei territori che una volta appartennero all'impero macedone, scoprii che quelle zone erano famose per le coltivazioni di rose bianche. Rose che lì venivano chiamate le Rose di Elissa. Mi feci raccontare la storia di questo particolare nome e mi dissero che Elissa, che divenne comunque una delle concubine dell'Imperatore, nonostante la sua opposizione, non sorrise mai più. Si diceva che piangesse il suo grande amore perduto nella battaglia che conquistò la capitale. Che questo principe aveva la pelle candida come i petali delle rose bianche, il carattere a tratti pungente come le loro spine. E che soltanto nei giardini, circondate tra esse, lei ritrovasse il sorriso, come se avesse potuto raggiungerlo. E mi tornò in mente il passo che non ero mai riuscito a dirle, quello che diceva: io ti difenderò.
   
 
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