Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: calmali    24/02/2018    3 recensioni
I suoi occhi erano pennellate curve di un pittore malinconico. Azzurri come il cielo nei giorni di metà Aprile che urla respiri di primavera. Che profuma di fiori.
Il suo naso era la vetta più aggraziata e armonica che avessi mai visto; vetta sulla quale erano nevicate lentiggini. Attecchite come i primi fiocchi di inizio Dicembre sulle strade scoscese delle Alpi.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 
Correvo.
Ero certa che la funzione delle gambe non fosse quella di muoversi ritmicamente per inseguire un treno, eppure correvo all’inseguimento di un fischio scorbutico.
Scorbutico non per me, sia chiaro.
Scorbutico per natura. Scorbutico per contesto. Scorbutico per arroganza e un po’ per vanità.
Ai treni non piace aspettare ed è strano, perché ti fanno aspettare per manciate di minuti che si susseguono a gruppi di cinque fino a diventare mucchi di tempo informe e apparentemente eterno.
 
Correvo ancora, anche se era troppo tardi per rientrare nel livello di decenza consentito ai ritardatari.
Lo sapevo io e lo sapevano le mie scarpe da ginnastica ormai troppo stanche di consumarsi per treni persi.
Diminuii il passo fino a che non si tramutò in una camminata poco stabile e carica di delusione.
Sbuffai costruendo vapore come una ciminiera ancora in funzione.
 
Sulla mia sinistra la linea gialla, sbiadita, nominata durante il corso della giornata, dalla voce robotica, più del mio nome dalla voce di mia madre.
Sulla destra il menu del Mcdonald, uno dei tanti fast food incastonati tra le mura della stazione.
 
E proprio la stazione di Santa Maria Novella stava alle mie spalle. Mi guardava beffarda. Sentivo chiaramente il suo sguardo fisso sulla schiena. Non fosse stata tanto gentile con me, avrebbe iniziato a ridere di gusto. Non avrei potuto incolparla in ogni caso.
Ormai ferma mi voltai. Tornai sui miei passi che subito si andarono a confondere con quelli di altri viaggiatori.
 
Pioveva a dirotto e faceva freddo. Era quel tipo di freddo che ti consuma le cellule cutanee del volto. Inizia tutto dal naso e poi si espande incontrollabilmente fino al punto di farti perdere la consapevolezza di averlo per davvero un volto, ormai inibito da tutto quel dannatissimo freddo.
Sentivo il bisogno di tornare a casa e sotterrarmi sotto alle coperte pesanti. Coprirmi per intero senza lasciare neanche un centimetro di pelle esposta.
Sentivo il bisogno di scaldare un pentolino d’acqua, scartare una bustina di tè, metterla in infusione e attendere che il profumo della vaniglia cominciasse a riempirmi la mente.
Che se anche poi non l’avessi bevuto mi sarei comunque immersa nella dolcezza della vaniglia. Bastava sempre per farmi sentire meglio. 
 
Il prossimo treno diretto sarebbe partito dopo un’ora. Sessanta minuti d’angoscia.
 
Attraversai la grande sala. Al centro un abete era stato allestito per richiamare lo spirito natalizio. La metà delle persone che passavano di lì si fermavano ad osservarlo per qualche istante. Alcuni lasciavano letterine a Babbo Natale, altri leggevano quelle già presenti.
 
Amavo il Natale. Era una scusa per essere felici e infantili in una quantità che strabordava rispetto a quella consentita al mondo degli adulti.
 
Infilai le mani nelle tasche alla ricerca di un po’ di calore.
L’unico posto riscaldato a Santa Maria Novella era la parte sotterranea dove c’erano i negozi.
Scelsi il freddo alle spallate dei ricercatori di regali. Sempre troppo distratti; distratti più di me.
La voce meccanica in sottofondo continuava ad annunciare treni in partenza ma io ormai potevo abbracciare la mia rassegnazione.
Entrai nella sala d’attesa affiancando il tabaccaio e la fila che aveva creato.
Sperare di trovare un posto a sedere era sintomo della mia grande immaginazione. Neanche a terra, vicino alle pareti, c’era più spazio libero.
Sentii il mio fondoschiena ringraziare il caso che l’aveva salvato da un ibernazione assicurata.
 
Feci una radiografia della sala intera.
Bastò un istante e una figura per fermare il tempo e ritardare, anche solo per finta, i miei sessanta minuti d’attesa.
 
Era bella.
Non avevo mai visto un essere umano più bello.
Era tanto bella che mi era consentito di dubitare della sua provenienza terrestre.
E il punto è che non sarei stata in grado di identificare cosa la rendesse così bella, perché ogni particolare di Lei, smontato come pezzo di puzzle, sarebbe stato insignificante.
Ma lei era bella. Dio se era bella.
I suoi occhi erano pennellate curve di un pittore malinconico. Azzurri come il cielo nei giorni di metà Aprile che urla respiri di primavera. Che profuma di fiori.
Il suo naso era la vetta più aggraziata e armonica che avessi mai visto; vetta sulla quale erano nevicate lentiggini. Attecchite come i primi fiocchi di inizio Dicembre sulle strade scoscese delle Alpi.
Le avrei chiesto di poterle contare ogni sera, al posto delle pecore, prima di addormentarmi, se non fosse stato fuori luogo.
Il suo viso allungato era il quadro perfetto per la cornice che aveva scelto: capelli scuri, corti ma lunghi più dei miei, che sognavano di toccare le sue spalle ma non lo facevano ancora, che si arricciavano su se stessi solo alle estremità.  
 
Era minuta. Piccola solo per finta.
Grande, tanto grande da riuscire a tenere tra le mani tutta la mia attenzione.
Stava in piedi, nella sala d’attesa, tra il caos informe di turisti esaltati, rumorosi, persi, confusi, lamentosi, impazienti, ottusi.


Lei non lo era.
Non faceva parte di tutto quel grigio. Lei era gialla anche se vestita di scuro. Era gialla come il sole. Come i gessetti che avevo sciolto nell’acqua per colorare le pareti della mia camera in un impeto di vuoto e nostalgia inspiegata.
Lei era gialla come l’orecchino di legno che avevo colorato con lo smalto, come la simpatia e come il mio maglione preferito.
 
Una valigia rossa stava ritta al suo fianco, le faceva compagnia ed ero certa che fosse una compagna paziente.
Aveva lo sguardo perso verso l’alto, in traiettoria della schermata enorme che segnava gli addii e i sorrisi. Le apnee e i respiri.
E il solo modo che aveva di dondolarsi sul posto mi faceva venir voglia di prenderle il viso tra le mani e baciarla. L’avrei fatto se anche questo non fosse stato fuori luogo.
 
La guardavo. I tempi verbali non li uso a caso. Io la guardavo all’imperfetto, perché era qualcosa di continuo, di prolungato in un tempo che non sapevo quantificare.
E continuai a guardarla anche quando il suo sguardo cambiò traiettoria e come una freccetta al tiro a segno, colpì le mie pupille. 10 punti.
Sussultò lei e sussultai io. Come chi si sveglia nel mezzo della notte all’improvviso.
Avrei dovuto abbassare lo sguardo ma non lo feci.
Ai due poli della sala i nostri sguardi si chiamavano. Ci guardavamo in modo tanto attento ed intimo che per un attimo mi chiesi se anche quello non fosse fuori luogo.
 
Il mio stomaco divenne un nodo, tanto stretto e fatto bene che avrei potuto attribuire l’opera al più bravo dei marinai.
 
Passarono secondi che non contai per mancanza di coraggio.
Sembrò scartare diversi pensieri, ad ogni aggrottarsi delle sopracciglia un’opzione d’azione veniva cestinata con rapidità.
Poi, dopo una nuvoletta di freddo scappata alle sue labbra per colpa di un sospiro, iniziò a muoversi.
Io, dal canto mio, abbassai immediatamente lo sguardo sulla sua valigia, come una bambina immersa nella vergogna di essere stata beccata con le mani nella nutella.
Quella scatola rossa con le ruote era sempre più vicina.
Dovevo solo far finta di niente per i successivi trenta secondi, il tempo che mi superasse per andare ai binari.
A un passo da me, contro ogni mia aspettativa, il cammino della valigia rossa venne arrestato nettamente.
Arricciai il naso in una smorfia. I miei occhi erano ancora rivolti in basso, saltavano dai miei piedi alla valigia con costanza.
 
Come uno struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, io mi stavo autoconvincendo di poter diventare invisibile senza mantelli o superpoteri, con il solo sforzo dei neuroni che possedevo. Povera illusa!
 
“Hai cambiato capelli?”
 
Stavo sentendo la sua voce per la prima volta. Mi sforzerei di descriverla ma le mie parole sarebbero sprecate, risulterebbero insufficienti. Una voce non può mai essere descritta e in particolare non la sua.
Con certezza posso solo dire che le si addiceva.
Si stava rivolgendo a me costringendomi ad alzare lo sguardo.
Ma perché mai stava parlando dei miei capelli come se avesse visto un’altra loro versione?
 
“Scusa?”
 
Avevo il tono di chi non sa e per la curiosità si sforza di capire.
Di cosa stava parlando? Ero certa di non aver sempre avuto i capelli così ma ero altrettanto sicura di non averla mai vista con “in dosso” capelli diversi da quelli.
 
Sorrise ed io persi il controllo delle mie labbra che, al suo stesso modo, si curvarono all’insù.
 
“Dico: i tuoi capelli, li hai cambiati?”
 
Mi ripropose quella stessa domanda come se fossi in deficit io a non averla compresa. Era come se mi fossi persa una parte importante nel mezzo di un film, la parte in cui vengono introdotti nuovi personaggi. Così io tentavo con tutta me stessa di capire chi avessi davanti.
Quei buchi neri non mi erano nuovi e neanche quello sforzo che ormai, però, mi stava stancando.
 
“L’ultima volta che ti ho vista li avevi lunghi. Molto lunghi.”
 
Il mio silenzio la spinse ad aggiungere altre parole.
Per un attimo ripensai alle foto viste e riviste, ai video, ai racconti. Avevo avuto i capelli lunghi per tanto tempo ma quello lo ricordavo anche senza l’aiuto di qualcuno.
 
“E anche più chiari.”
 
Mi guardava con occhi limpidi. Mi guardava e c’era qualcosa in quello sguardo che non riuscivo a leggere.
 
“È una storia bizzarra in realtà. È che volevo averli leggermente più scuri e ho provato diverse tinte, ho tentato con dei castani più scuri ma non ha funzionato, o per lo meno, ha funzionato molto poco e allora ho scelto il nero, che però sembra decisamente troppo catrame. Innaturale e…”
 
Era divertita davvero da tutte quelle parole che stavo sputando quasi inconsapevolmente. Mi capitava quando ero nervosa. Blateravo. Stavo blaterando con una persona che non conoscevo. Stavo blaterando sui miei capelli.
Il colore del mio volto cambiò tonalità a questa consapevolezza. Divenni purpurea.
 
“E a te non importa. Perché dovrebbe?”
 
Le domande retoriche facevano parte della mia essenza. Assottigliai lo sguardo come fosse servito, in qualche modo, a concentrarmi meglio sul fulcro della questione che non era di certo la tinta che avevo fatto.
 
“No, invece mi interessa. È una storia divertente.”
 
Disse ed io replicai subito, questa volta senza pause.
 
“Ci conosciamo?”
 
Scosse la testa energicamente. Aveva un qualcosa di bambinesco in quel modo di fare. La sua risposta era evidentemente un “no” che, però, andava a cozzare con ciò ce mi aveva detto fino a qualche secondo prima.
 
“In realtà no. Ma non mi piace offrire caffè agli estranei.”
 
Era strana.
Era strana ma mi piaceva la sua voce, avrei potuto lasciarla libera di dirmi stranezze per tutto il tempo che voleva.
 
“Ma tu hai cambiato davvero capelli a quanto pare. Ho avuto fortuna. E adesso ti conosco più di prima.”
 
Teneva da qualche istante le braccia incrociate, probabilmente per soffrire meno il freddo, anche se dall’accento avrei giurato fosse del nord, doveva senza dubbio essere abituata più di me a certe temperature.
 
“Caffè?”
Propose dopo qualche istante di pausa. Ed io sorrisi con un cenno del capo.





-----------------------------------------------------------------------------
​Se hai letto fino a qui ti ringrazio. 
​Ho scritto il primo capitolo senza davvero sapere se tutto avrà un continuo.
​Vorrei sapere anche la tua opinione, sarebbe preziosa per me. 
A presto.
   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: calmali