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Autore: Moony16    26/02/2018    0 recensioni
Berlino non era ancora una città sporca di sangue quando Caroline vi arrivò contro la sua volontà in quell'estate del 1940, quando nessuno avrebbe potuto immaginare la piega che avrebbe preso la storia. Con sè, solo una nuova identità, un nuovo nome, la stella di Davide finalmente strappata via dai vestiti e una vita intera lasciata alle spalle.
L'accompagna Joseph, un giovane ufficiale delle SS, il perfetto ariano, uno di quei uomini che potrebbe benissimo stare tra le figurine che la ragazze si passano tra i banchi di scuola, in una rivista del partito nazionalsocialista o in un volantino che incita alla guerra, per riprendersi il "Lebensraum", lo spazio vitale tedesco.
Cosa li lega? Nulla in realtà, se non un'infanzia passata insieme e un debito che pende sulla testa del giovane come una condanna.
***
LA STORIA E' INCOMPLETA QUI, MA LA STO REVISIONANDO E RIPUBBLICANDO SU WATTPAD NELL'ACCOUNT Moony_97, DOVE LA COMPLETERO'
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Storico
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Non fu facile quel giorno per Caroline svolgere i compiti che le erano stati affidati. Joseph era sparito subito dopo averle detto velocemente dove avrebbe potuto trovare le cose che le servivano, mentre lei non gli aveva prestato molta attenzione. Lavò le lenzuola, più per necessità che perché glielo aveva chiesto lui, stessa cosa per il piccolo bagno di servizio e la cucina. Non aveva spolverato la camera di Joseph, ma aveva semplicemente aperto le imposte per far girare l’aria, sentendosi persino magnanima. Non aveva mangiato nulla tutto il giorno e aveva passato il tempo che le era rimasto, parecchio effettivamente, per frugare in casa. Aveva trovato foto di Joseph durante un paio di compleanni, una del suo diploma, un paio con coppe di pugilato e una in uniforme, il giorno del suo giuramento. Ce n’era anche una con lei, sopra un plico di fogli che scoprì essere le sue lettere di quando era bambina. Inutile dire che le rilesse tutte, versando lacrime amare per un periodo della sua vita ormai così lontano.
Non prese sul serio le parole dure di Joseph, che inizialmente l’avevano fatta infuriare tanto. Non lo credeva cattivo, chissà perché pensava fosse diverso dagli altri soldati. Un uomo che conservava per tanti anni le sue lettere non poteva essere capace di farle del male solo perché non aveva ubbidito a degli orditi ringhiati come ad una serva. Aveva deciso che lo avrebbe aiutato in casa, le spettava, perché in fondo aveva ragione quando diceva che non poteva assumere una cameriera per colpa sua. Aveva persino acconsentito a stabilirsi nella stanzetta grigia destinata alla servitù, capendo che doveva rispettare i suoi spazi. Ma non avrebbe sopportato di essere trattata come feccia. Non si sentiva questo e pensava che quell’uomo, che l’aveva portata con lui rischiando la vita, procurato documenti, sistemata in casa propria e amata tanto teneramente quando erano solo bambini non poteva disprezzarla sul serio. Non poteva punto e basta, era impensabile, impossibile, incredibile. La tosse non accennava a diminuire, ma anzi si sentiva sempre peggio. Alla fine della giornata era stremata.
Joseph tornò a casa alle sei e mezza quella sera, portando dei panini e salsicce per la cena di entrambi e accompagnato da un signore alto e dall’aria intellettuale.  Lei osservò l’ospite con aria interrogativa quindi Joseph si affrettò a presentarlo.
«Lui è il dottor Wagner. È venuto qui per dare un’occhiata alla mia ferita e per cercare di capire a cosa è dovuta la tua tosse, che mi preoccupa un po’ a dire il vero» Elly annuì, sprizzando sollievo da tutti i pori.
Il dottore si occupò prima della ferita di Joseph, poi la chiamò nella camera dell’ufficiale, dove si dovette distendere nel letto. Le prese il battito, le fece qualche domando e poi ascoltò il suo respiro. Alla fine sospirò, sollevato.
«non è TBC, grazie a Dio. Hai liquido nei polmoni, ovvero polmonite. Non è ancora tanto grave, anche se credo che se non sarà curata bene peggiorerà molto velocemente. Non è infettiva, perché è dovuta alla scarsa qualità dell’aria. Ha lavorato in ambienti malsani ha detto, quindi è comprensibile. Basterà prendere degli antibiotici, ora glieli lascio, riposo, e non prendere freddo. Quando la tosse passerà, continuerà a prendere gli antibiotici, e le consiglio passeggiate nel parco qui vicino: l’aria buona aiuta molto»
Data la diagnosi, il dottore li lasciò, ricordandosi però di dargli quanto necessitava per la cura di entrambi. A quel punto però Caroline, digiuna dalla mattina, era di nuovo affamata.
«hai portato la cena? Dio, sto morendo di fame! Potevi evitare di lasciarmi qui a marcire tutto il giorno senza niente da mangiare» lui non commentò l’allegria di lei assolutamente ingiustificata, limitandosi a dirle di apparecchiare, mentre si guardava intorno accigliato.
«non ti avevo detto di pulire la cucina, o sbaglio?»
«no, non sbagli. Ma secondo me era meglio darle una sistemata» lui la osservò, mentre lei noncurante disponeva a tavola le posate e il pasto semplice che il ragazzo aveva portato. 
«e hai trovato il tempo di fare anche questo?» chiese lui stupito. Non capiva perché lei dovesse essere così allegra, dopo il modo con cui l’aveva trattata e aver lavorato come un mulo per tutto il giorno. Insomma, secondo i suoi conti avrebbe dovuto passare la mattina a lavare tovaglie e lenzuola, per poi pulire tutto quello che aveva detto di fare. E stava anche male.
«certo. Non sono mica la tua cameriera, io, mi sembrava di essere stata chiara. Non ti ho spolverato la camera, così come non mi sono messa a fare la bella lavandaia. Se hai bisogno di qualcosa a casa, capisco che dovrò occuparmene io, però tu non puoi darmi ordini. Non sono una serva, e poi so che per te conto qualcosa, non mi butteresti mai per strada» disse, ostentando sicurezza, mentre mangiava. Joseph si limitò a fissarla, senza battere ciglio, dandole l’impressione di averla avuta vinta. L’uomo finì silenziosamente di mangiare poi, mentre lei era ancora intenta finire la cena, si alzò dal tavolo e si lavò le mani, disinvolto e senza far trasparire le reali intenzioni sul viso, le andò dietro, poggiandole le mani sulle spalle. Lei si immobilizzò, stranita da quel gesto.
«Caroline mettiamo le cose in chiaro. Tu non conti niente per me dal momento in cui ho saputo cosa sei veramente» disse. La ragazza provò a divincolarsi, ma la presa era di ferro e fu costretta a restare in quella posizione.
«in questa casa, comando io. Se io ti dico di fare qualcosa, tu la fai. Non esistono piagnistei, lamenti o discussioni: io ordino, tu esegui. Ci arrivi a questo concetto?» chiese con cattiveria, mentre la presa diventava sempre più forte e la ragazza più terrorizzata.
«infine, hai davvero capito male. Tu qui non sei un’ospite. Non sei una cameriera, retribuita e che può essere licenziata. Sei una serva. Non posso sostituirti, quindi sai che faccio? Se non fai come ti viene ordinato, tu ne subisci le conseguenze, finché non comprendi che devi obbedirmi» 
«ci sono regole in questa casa, Caroline. Tu non parli se non ti si viene chiesto. Tu obbedisci agli ordini. Tu non tocchi nulla che non ti riguarda. In cambio mangi, dormi sotto un tetto, sei al sicuro da questa guerra a cui forse riuscirai a sopravvivere. Ora, se tu non rispetti queste regole, io non ho motivo di darti alcuna ricompensa» Caroline adesso tremava, ma non si arrese.
«allora perché mi hai portata con te? E perché, di grazia, ti interessa tanto della mia vita?»
«perché, Caroline, sono una persona che non ama avere debiti con nessuno: una vita, vale una vita. Ecco perché tu sei qui, adesso» 
Dopo questa risposta secca lui la prese per i capelli con una mano, costringendola ad alzarsi. Tirava forte e nonostante lei si divincolasse Joseph la trascinò senza alcuno sforzo vicino alla cassettiera. Frugò nel secondo cassetto con la mano sinistra, mentre Caroline si dibatteva furiosamente, finché non ne estrasse un paio di forbici. Lei, che non vedeva nulla di ciò che Joseph stava facendo, ad un certo punto sentì che lui l’aveva lasciata, avvertendo però una strana sensazione. Si girò con gli occhi sbarrati, senza capire poi molto di cosa era successo. E poi vide nella mano sinistra di Joseph un paio di forbici da cucina e in quella destra una massa di capelli rossi. D’improvviso capì che cosa c’era di strano: i suoi capelli non le erano ricaduti sulla schiena, ma erano rimasti nella mano dell’uomo che adesso la guardava con un ghigno sadico. L’unica cosa bella che le era rimasta, lui gliela aveva strappata via. I suo capelli, lunghi e di un caldo rosso, gli stessi che lui adorava quando era piccolo, gli stessi che lei non tagliava da quando aveva dieci anni, adesso erano nella mano di colui che aveva giurato di proteggerla. Gli occhi le si riempirono di lacrime, mentre il ghigno di lui si allargò.
«la prossima volta, cara Caroline, passo alle maniere forti» la minacciò. Davvero però Caroline avrebbe voluto sapere cosa c’era peggio di quello. Dopo un ultimo sguardo compiaciuto all’espressione disperata di Caroline lui se ne andò, lasciando cadere i capelli per terra e ringhiando di pulire tutto, mentre lei restava lì, in ginocchio a piangere. 
Lui sapeva cosa significavano per lei, eppure era proprio a quello che aveva puntato, era come se avesse voluto colpire dove sapeva che avrebbe fatto più male. 
A quel punto Caroline non fu più tanto sicura della sua bontà. Dopotutto pensò amaramente tra un singhiozzo e l’altro ha ricevuto lo stesso addestramento di tutti gli altri. 
Quella fu la prima volta che lo pensò uguale agli altri soldati, e che credé davvero che lui potesse farle del male. 
E lui di certo non si risparmiò. La settimana che seguì fu uno strazio per lei. Lui non faceva che disprezzarla e umiliarla. Ogni volta che lei rispondeva ai suoi ordini con qualcosa di acido, cioè praticamente sempre, lui le tirava un ceffone sul viso abbastanza forte da farle girare la testa. Ma nessuno dei due, dopo quella sera, si spingeva oltre un limite tracciato silenziosamente dall’odio. Odio di lui verso l’origine di lei, odio di lei verso l’uniforme di lui. Se si odiassero davvero però non lo sapevano neppure loro, e neanche se lo chiedevano. Odiavano tutto ciò che l’altro rappresentava e l’affetto che c’era stato una volta sembrava solo una bella favola. Lei continuava a restare in quella casa per soddisfare l’orgoglio di lui e i propri bisogni, tutto qui. Sapeva che appena non ci fosse stato più pericolo si sarebbe ritrovata fuori di casa con i soldi contati per lasciare l’Europa. A cosa le sarebbe accaduto dopo, era meglio non pensarci.
La polmonite andava regredendo. La lieve febbre, che ogni tanto compariva quando era stanca, era sparita, il dolore al petto diminuito, così come la tosse e si sentiva meno affaticata.
Ogni tanto Caroline, in cerca di conforto, rileggeva le lettere che aveva scritto tanti anni prima a Joseph. La scrittura era infantile e le lettere ingiallite dal tempo, però emanavano calore e soprattutto amore. Sentiva il vuoto dentro, in assenza anche solo del minimo calore umano, di un gesto gentile o di una parola di conforto. Conosceva le lettere ricevute da  Joseph a memoria, per quante volte le aveva lette, quindi rievocare un periodo in cui il loro atteggiamento era tanto diverso la faceva stare un po’ meglio. Temeva il giorno in cui lui le avrebbe buttate via, ricordando che il mittente di quelle lettere era la stessa ragazza che aveva in casa e che trattava come feccia, facendole perdere così anche l’ultimo suo contatto con il passato. 
Quel lunedì però Joseph, chissà perché rientrò prima di quanto lei non avesse previsto. Assorta nella lettura, non si accorse del rumore della serratura, né dei passi che si dirigevano verso la camera di Joseph. Quando la porta si spalancò, lei era seduta a terra davanti al comò, un bel po’ di lettere sparse intorno a lei. Caroline sussultò e alzò lo sguardo su di lui solo per un momento, per vederlo di sfuggita congelato sull’uscio della camera, per poi tornare a osservare il foglio che teneva in mano.
«perché non le hai buttate?» chiese allora lei amaramente, dando voce al suo più grande interrogativo.
«doveva essere la prima cosa che avresti dovuto fare una volta qui» lui non le rispose, ma le strappò dalle mani la carta ingiallita, con dita tremanti.
«tu non devi toccare le mie cose. Non devi entrare nella mia camera. E soprattutto non devi frugare nei miei cassetti» disse con voce rotta dalla rabbia. Lei lo fissò negli occhi.
«perché hai paura che scopra che anche tu sei umano?» 
«io sono umano. Sei tu che sei uno schifo di ebrea» disse senza nascondere il suo astio anche solo nei confronti della parola.
«ah si? E allora prendi quelle lettere e bruciale!» le urlò lei, ancora seduta tra le sue vecchie lettere. 
«tu non mi odi anche se  vorresti farlo, perché io sono l’unica persona che ti abbia mai capito veramente! Tua madre non l’hai neanche conosciuta, tuo padre era troppo impegnato a cercare – tra l’altro con scarsi risultati- di darti da mangiare per poter prestare attenzione a te, e per i tuoi zii … Dio eri solo una palla al piede! Quanto devono essere stati felici quando te ne sei andato! L’unica famiglia che tu abbia mai avuto sono io, ed è per questo che adesso sono qui, non per il tuo dannatissimo “senso dell’onore”. Perché sai una cosa? Se tu avessi anche solo un briciolo di senso dell’onore non mi tratteresti così» lui la guardava infuriato colpito da quelle parole che la sua mente continuava a registrare come false, ma che gli bruciavano tremendamente dentro. L’unica risposta che le diede, l’unica che potesse provare a lei, ma soprattutto a lui, quanto in realtà si sbagliasse, fu un calcio che la fece cadere per terra come un sacco di patate. La testa le girava vorticosamente, ma comunque si accorse che lui si stava avvicinando a lei. Le sferrò un altro calcio nello stomaco, poi uno ancora, e ancora, mentre lui si accaniva su di lei, che si accartocciava su se stessa, cercando di proteggersi da quell’attacco.  
Alla fine lui si allontanò con il fiatone, mentre lei restava immobile, dolorante e tremante, sperando che lui non le desse un nuovo calcio. Non riusciva a muoversi, neanche per piangere. Aveva male ovunque e temeva di essersi rotta qualcosa.
«alzati … e va via» sussurrò poi lui con gli occhi spiritati e i capelli stranamente in disordine. Aveva le labbra tirate in una smorfia e l’ira nello sguardo. Sembrava un animale.
«tanto lo so che ho ragione. Puoi picchiarmi quanto vuoi» pigolò lei, riuscendo a malapena a parlare. Poi svenne, incapace di sopportare anche un solo secondo di dolore in più.
Si risvegliò che era ora di cena. Era ancora a terra, e le veniva da vomitare. Si trovava nello stesso punto in cui era svenuta e lì rimase ancora a lungo, prima che riuscisse a trovare la forza anche solo per pensare di alzarsi dal pavimento. Le lettere erano sparite, anche se a quel punto non le interessava più che fine avessero fatto. Riuscì a malapena a tirarsi su, poi, senza neanche provare a mangiare qualcosa, si lasciò cadere nel suo lettino tremando. Non pianse però, era come se non riuscisse a fare niente tranne tenere gli occhi spalancati sul soffitto.
Non riusciva a dormire né ad alzarsi. Aspettava, neanche lei sapeva cosa … forse solo che quella dannata notte finisse. E dopo? Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare. Doveva alzarsi da quel letto, si ripeteva. Nessuno l’avrebbe aiutata, doveva alzarsi e combattere. Ma in quel momento, proprio non ci riusciva. Dopo … dopo ci avrebbe pensato. Si diceva. Era distrutta, fisicamente ma soprattutto mentalmente.
Passò un’eternità, o almeno così le sembrò, quando sentì la porta d’ingresso aprirsi. Sentiva rumori strani, come risate di una ragazza. E rumore di tacchi. Rumore di tacchi? Si stupì e chissà perché si sentì ancora più ferita. A quanto ne sapeva lui, lei avrebbe potuto essere ancora svenuta lì, nel pavimento della sua camera. Ed era ovvio che stesse male, dopo tutti i calci che le aveva dato. E Joseph che faceva? Si portava a casa una sgualdrina. Aveva quasi sperato che lui al suo ritorno controllasse come stava. Che si preoccupasse anche solo minimamente di come stava dopo che l’aveva presa a calci. 
Ben presto però, poco dopo che sentì la camera di Joseph chiudersi, rimpianse parecchio le fastidiose risatine di quella. Se possibile, i suoi urletti eccitati erano anche peggio. Non sentiva l’uomo, sentiva solo lei, con la sua voce acuta e fastidiosa che scandiva il ritmo delle spinte che riceveva.
La nausea le aumentò, sentendo quei rumori, così palesemente sporchi e schifosi. Era sicura che non avrebbe mai più sentito niente di più disgustoso di una puttana che si faceva scopare da qualcuno.
Poi finì in un ultimo urlo, più acuto e prolungato degli altri. 
Lei era ancora lì a fissare il soffitto, nauseata, arrabbiata, triste, sconfitta, delusa. Avrebbe voluto urlare e piangere, avrebbe voluto avere qualcuno accanto che almeno l’abbracciasse. 
Sentì di nuovo rumore di tacchi nel corridoio, altre risatine, rumore di monete, e poi, finalmente, una porta che si chiudeva. E, dopo un po’, passi pesanti che si dirigevano in cucina. Passi strascicati e incerti. Rimase tremante nel letto, pregando che lui volesse solo un bicchiere d’acqua. Aveva paura adesso, che lui potesse ricominciare a picchiarla.
Ma la porticina si aprì e ne entrò un uomo che non sembrava affatto l’ufficiale che aveva iniziato a conoscere. Non portava l’uniforme, ma solo un paio di pantaloni civili blu scuro. Era a torso nudo, ma non fu su quello che l’attenzione di Caroline si concentrò. Aveva una benda bianca su un fianco, macchiata di sangue e pus giallo. Inspiegabilmente si chiese cosa gli fosse accaduto.
Insieme a lui entrò puzza di alcool e tabacco, mischiato ad un profumo femminile troppo dolce. 
«sei sveglia» disse strascicando le parole. Capì che era ubriaco, o quasi, dal modo in cui parlava.
«per poco ho creduto che ti avrei ammazzata» disse fissandola negli occhi, una mano sul muro per non cadere. Probabilmente si sentiva come sul ponte di una nave in tempesta.
«e quindi ti sei ubriacato e ti sei portato a casa una puttana» osservò lei con voce flebile, senza neanche sapere da dove le fosse uscita la forza per parlare.
«tu dovevi proteggermi. Lo hai giurato» disse, mentre finalmente una lacrima le solcava la guancia sinistra e comprendeva davvero quanto grande fosse la sua delusione.
«ci sto provando. Giuro, ce la sto mettendo tutta» disse lui, la voce simile a quella di un bambino.
«tu mi odi» lui la fissò negli occhi.
«si. Ma amo il tuo ricordo. Non mi perdonerei mai di uccidere Elly, così come non riesco a lasciare vivere Caroline» disse avvicinandosi a lei e guardandola negli occhi.
«io ti odio, ti odio così tanto, vorrei non vederti mai più. Ma avevi ragione: sei l’unica famiglia che io abbia mai avuto» disse con l’alito che puzzava di whiskey vicino al suo viso. Poi fece vagare lo sguardo sul suo corpo. Una scintilla nei suoi occhi, l’eco di un ricordo lontano, la fece sollevare. La guardava come se fosse una semplice ragazza coperta di lividi. Come se non le avesse appena detto che la odiava.
«credi di avere qualcosa di rotto?» chiese. E sembrava sinceramente preoccupato, come se non fosse stato lui a ridurla in quel modo. Come se fosse colpa di qualcun altro, come se dentro di lui albergassero due differenti persone, il ragazzino e il soldato. O forse, semplicemente, era lei a vederla in quel modo.
«no …» rispose suo malgrado. Era tutta intera, per fortuna, anche se le doleva ogni cosa. Lui annuì, quasi sollevato, e lasciò la stanza continuando a dondolare.
Caroline ascoltò il suo passò strascicato raggiungere la camera da letto. Poi chiuse gli occhi ed espirò forte. 
Non era un mistero che Joseph la odiasse a causa di quello che era. Ma sentirlo da lui le fece lo stesso male, il colpo più forte lo aveva dato al suo cuore. La più grande paura di quando era una ragazzina si era avverata, ma lei non poteva fare altro che continuare a guardare il soffitto. Forse, se gli avesse scritto la verità tanto tempo prima, ora non sarebbero stati a quel punto.
Ormai però non aveva importanza. Caroline si tirò le coperte sul viso, cercando di nascondere al mondo le lacrime che le rigavano le guancie. 
Quella notte di certo non avrebbe chiuso occhio.
  
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