Candore
I
fiocchi
cadevano sui capelli di Violet come minuscole perle, quasi
intangibili, che sciogliendosi al tocco scomparivano silenziosi
così
com’erano discesi. Nonostante il freddo li teneva ugualmente
raccolti, considerò Gilbert, buttato sul terriccio acquoso a
pochi
passi da lei.
La
regina delle nevi, ecco chi gli ricordava. Con il suo volto stoico e
inespressivo e il corpo teso verso il prossimo assalto.
Gilbert
osservò la condensa del proprio respiro svolazzargli davanti
agli
occhi con simpatetica indifferenza, uno sbuffo che poteva appartenere
tanto a un soldato quanto a un bambino, e pensò che quella
quiete
surreale non sarebbe durata a lungo. Nevicava ormai da ore e ogni
suono si era grazie al cielo smorzato, giungendo ora ovattato, ora
distante, ma non si trattava di spari o urla: erano i respiri a
tormentarlo, quell’esalare roco di gole riarse dal freddo e
ormai
incapaci di produrre suoni. I sospiri flebili dei moribondi, il ritmo
feroce dei feriti che caparbiamente ancora si aggrappavano al gelo
—
che ben presto avrebbe avuto l’ultima parola, con le sue
migliaia
di lame affilate a trafiggere ogni centimetro di pelle slabbrata e
scoperta.
In
lontananza qualcuno borbottò e ben presto altre voci si
aggiunsero
alla prima in un coro baritonale di mormorii rasserenati che ben
stonava con l’esasperazione scarlatta che li circondava.
Gilbert
alzò lo sguardo verso il cielo pallido delle luci
dell’alba,
assorto, e un commilitone dal viso rigato di sporcizia gli
posò una
mano sulla spalla, distraendolo dalla sua silenziosa contemplazione.
Intimidito, gli sorrise.
«Buon
Natale, maggiore.»
Ah,
giusto.
Gilbert
annuì, stropicciando un piccolo sorriso sul viso stanco.
Ricambiò
l’augurio, cercando Violet con lo sguardo. Seguì
una pila di fango
e terra umida di neve e lì la vide, dov’era sempre
stata. La presa
intorno al calcio del fucile non s’era allentata, le nocche
immobili e indifferenti al fioccare dicembrino che li trascendeva e
gli occhi vigili, ancora puntati verso il nemico. Gilbert si
alzò,
stancamente, barcollando sulle gambe intirizzite, e le si
avvicinò.
Come un mastino che fiuta la presenza del padrone, Violet si
voltò
nella sua direzione con nuova dedizione a illuminarle fiocamente il
volto. Si stupiva sempre, Gilbert, del potere che esercitava su
quella bambina.
Il
sole superò l’orizzonte, gettando raggi pallidi
sull’immensa
terra di nessuno che separava i due schieramenti e un invito a uscire
da quelle polle di sangue e morte ch’erano le trincee. Poco a
poco,
i soldati accettarono e chi poteva uscì allo scoperto,
accorgendosi
che il nemico pareva anch'esso aver accolto le preghiere di pace del
sole. Violet continuò a osservarlo.
All’improvviso,
Gilbert non seppe più cosa dire. Era tutto così
paradossale, così
insensato, che scambiarsi gli auguri di Natale non aveva neanche
senso. In quelle condizioni, poi, non c’era nulla da
festeggiare.
L’idea
gli arrivò osservando per caso due ragazzini, che oltre le
spalle di
Violet avevano cominciato a tirarsi minuscole palle di neve per
sfuggire al freddo e recuperare il sorriso almeno per un giorno. Era
un’idea assurda, ma quella visione non gli dispiacque.
Gilbert
si chinò dinanzi a Violet, gli angoli della bocca appena
incurvati
all’insù. Lei seguì i suoi movimenti,
pendendo dalle sue labbra
come sempre soleva. Un bagliore in fondo al tunnel.
«Ti
va di fare un pupazzo di neve?»
Nulla
mutò nello sguardo di Violet, non un’ombra parve
attraversarlo.
Batté le palpebre, semplicemente. Poi parlò.
«Un
cosa, signore?»
Gilbert
rimase interdetto, gli occhi appena sgranati da
quell’innocente
quesito, e istintivamente la mano gli si arricciò in un
pugno,
fremendo al significato di quella domanda porta nella più
allarmante
sincerità. Lo sapeva, sapeva dell’infanzia
strappata a Violet. Suo
fratello non aveva mancato di fargli un dettagliato resoconto sui
trascorsi di quella bambina che si ostinava a chiamare mostro,
ma che agli occhi di Gilbert appariva come un fiore piegato dalla
sfortuna; eppure la consapevolezza di quell’innocenza perduta
lo
trafisse con più violenza di qualsiasi proiettile.
«Vuol
dire che tu non hai mai...» Gilbert si riscosse, corrugando
le
sopracciglia in un cipiglio che volle mutare in tenerezza, sorridendo
piano verso Violet. Perché porre un quesito per il quale
aveva già
ottenuto risposta?
«Va
bene, non importa» asserì a quel punto, poggiando
le mani sulle
ginocchia e facendovi di colpo leva, «Vieni. Ti faccio
vedere.»
«Sì,
signore.»
Nel
frattempo il fazzoletto di terra che separava i trinceramenti
s’era
via via popolato di soldati che spiccavano come formiche su
quell’immenso manto bianco, che copriva ogni cosa e ogni cosa
rendeva indistinguibile allo sguardo. Tra gli altri Gilbert intravide
il nemico aggirarsi cauto tra i suoi commilitoni, sorprendendolo
quando l’oggetto di conversazione sembravano essere
sciocchezze da
salotto e non tattiche di guerra. Il tutto era così surreale
da
trovarsi in uno strano sogno che presto sarebbe destinato a
dissolversi nel gelo di un nuovo giorno. I passettini di Violet
dietro di sé, però, lo distrassero
dall’eventualità.
Qualcuno
offrì loro un tozzo di pane, la colazione, e sfregandosi le
mani sul
tessuto sdrucito dei pantaloni Gilbert si preparò ad
appallottolare
un po’ di neve tra le dita. Era morbida al tatto, gelida e
ingrata,
ma al suo fianco ora Violet l’osservava attenta, memorizzando
ogni
movenza, ogni passaggio che con razionale consequenzialità
l’avrebbe
condotta al conseguimento del suo obiettivo.
Gilbert
decise di ignorare un tarlo in fondo al cuore, concentrandosi sulla
sfera candida che reggeva in mano. «Questa»,
spiegò, «dev’essere
rivestita da molti strati di altra neve. Ci servirà a fare
la base
del pupazzo, quindi è importante che sia grande
abbastanza.»
Violet
annuì, concentrata. «Ricevuto.»
Lui
gliela porse. «Bene, cominciamo.»
Il
risultato non fu poi così disastroso. Pendendo vigorosamente
verso
destra, l’omino di neve rischiò di decapitarsi
inconsciamente più
d’una volta, ma con il respiro corto Violet fu veloce a
reggerne il
capo, sistemandolo sulla sommità del busto dopo che Gilbert
l’ebbe
con cura livellata. Sistemato l’insieme ora non mancavano che
qualche sassolino o minuscoli bossoli da recuperare nel candore del
campo, compito che Gilbert, ignorando la fitta alla colonna
vertebrale, decise li avrebbe coinvolti entrambi. Poco dopo un paio
d’occhi e un sorriso sbieco animavano il viso pallido del
pupazzo,
donandogli un po’ dell’umanità che tutti
loro avevano ormai
perduto.
«Come
si chiama?» domandò Violet.
Gilbert
si sfregò le mani, ponendole a coppa contro le labbra e
soffiando
sui palmi per scongiurare eventuali geloni. «Tu che nome gli
daresti?»
Lei
sembrò pensarci su, lanciandogli un’occhiata
fugace.
«Springfield.»
«È
un nome abbastanza...» Gilbert esitò, «particolare,
per un
pupazzo di neve.»
«Non
va bene?»
«No»
acconsentì stancamente lui, contemplando lo strano omino
baluginare
nella miseria che si disperdeva a vista d’occhio intorno a
loro. «È
perfetto.»
A
pochi passi di distanza, si avvide Gilbert guardandosi intorno,
qualcun altro aveva ben pensato di non perdersi in troppe domande.
C’era chi seppelliva degnamente i caduti, chi rincorreva una
palla
di stracce a fianco del nemico, chi scambiava tabacco e vettovaglie.
Violet
gli si avvicinò, seguendo il suo sguardo. Così
minuta, così
pacata, assomigliava davvero a un piccolo fiore. C’era
solennità
nella sua voce quando parlò, un distaccato rispetto che in
quel
degrado non era che una perla al vento. «Possiamo costruirne
un
altro, signore?»
Questionare
un nome o l’altro era una perdita di tempo, specialmente in
un
simile frangente. Gilbert annuì, chinandosi a compattare
l’ennesima
sfera. Per un istante fu tentato di lanciarla nella direzione di lei,
ma alla fine sembrò ripensarci. Un brandello di pace poteva
salvare
un esercito intero, dopotutto, e Gilbert sperò di essere
fortunato
abbastanza da vedere i fiocchi di neve posarsi sui capelli di Violet
ancora una volta, il prossimo inverno.
→ Angolo
delle Violette.
Era
da un sacco che non mi capitava di scrivere così tanto per
quella
che inizialmente voleva essere una flashfic ma che ora, dopo ben
dodici ore di riflessioni non-stop,
è una bella oneshot di milleduecento parole. Quasi quasi mi
complimento da sola.
Questo
brano è comunque ispirato da fatti realmente accaduti, come
probabilmente qualcuno di voi si sarà accorto, ovvero la
famosa
tregua
di Natale del
1914. Vi invito a dare una letta alla pagina di Wikipedia che vi ho
qui linkato, perché tra le piccole meraviglie che si perdono
negli
orrori della guerra questa è una di quelle che sempre mi fa
commuovere e pensare. Trovo che sotto questo punto di vista
l’anime
di Violet Evergarden stia trattando un po’ superficialmente
questo
tema al momento, ma essendo solo a metà degli episodi niente
è
certo riguardo i suoi sviluppi; comunque, penso sia in generale molto
valido e struggente.
Fun
fact non molto fun: il nome scelto da Violet per il pupazzo
non
proviene da un mio attacco di follia bensì da un noto fucile
usato
proprio durante la WW I, e ciò dovrebbe ben spiegare la
reazione di
Gilbert. Detto ciò, ci si becca in giro! (finger
guns)
❀ daniverse