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Autore: daniverse    03/03/2018    2 recensioni
⤿ { pre-canon, gilbert!centric ❀ ispirato da fatti realmente accaduti }
La regina delle nevi, ecco chi gli ricordava. Con il suo volto stoico e inespressivo e il corpo teso verso il prossimo assalto.
Gilbert osservò la condensa del proprio respiro svolazzargli davanti agli occhi con simpatetica indifferenza, uno sbuffo che poteva appartenere tanto a un soldato quanto a un bambino, e pensò che quella quiete surreale non sarebbe durata a lungo.

→ Storia partecipante alla « 500 prompt per una challenge » indetta da Saru_Misa sul forum di EFP.
Genere: Guerra, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Gilbert Bougainvillea, Violet Evergarden
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Candore

I fiocchi cadevano sui capelli di Violet come minuscole perle, quasi intangibili, che sciogliendosi al tocco scomparivano silenziosi così com’erano discesi. Nonostante il freddo li teneva ugualmente raccolti, considerò Gilbert, buttato sul terriccio acquoso a pochi passi da lei.
La regina delle nevi, ecco chi gli ricordava. Con il suo volto stoico e inespressivo e il corpo teso verso il prossimo assalto.
Gilbert osservò la condensa del proprio respiro svolazzargli davanti agli occhi con simpatetica indifferenza, uno sbuffo che poteva appartenere tanto a un soldato quanto a un bambino, e pensò che quella quiete surreale non sarebbe durata a lungo. Nevicava ormai da ore e ogni suono si era grazie al cielo smorzato, giungendo ora ovattato, ora distante, ma non si trattava di spari o urla: erano i respiri a tormentarlo, quell’esalare roco di gole riarse dal freddo e ormai incapaci di produrre suoni. I sospiri flebili dei moribondi, il ritmo feroce dei feriti che caparbiamente ancora si aggrappavano al gelo — che ben presto avrebbe avuto l’ultima parola, con le sue migliaia di lame affilate a trafiggere ogni centimetro di pelle slabbrata e scoperta.
In lontananza qualcuno borbottò e ben presto altre voci si aggiunsero alla prima in un coro baritonale di mormorii rasserenati che ben stonava con l’esasperazione scarlatta che li circondava. Gilbert alzò lo sguardo verso il cielo pallido delle luci dell’alba, assorto, e un commilitone dal viso rigato di sporcizia gli posò una mano sulla spalla, distraendolo dalla sua silenziosa contemplazione. Intimidito, gli sorrise.
«Buon Natale, maggiore.»
Ah, giusto.
Gilbert annuì, stropicciando un piccolo sorriso sul viso stanco. Ricambiò l’augurio, cercando Violet con lo sguardo. Seguì una pila di fango e terra umida di neve e lì la vide, dov’era sempre stata. La presa intorno al calcio del fucile non s’era allentata, le nocche immobili e indifferenti al fioccare dicembrino che li trascendeva e gli occhi vigili, ancora puntati verso il nemico. Gilbert si alzò, stancamente, barcollando sulle gambe intirizzite, e le si avvicinò. Come un mastino che fiuta la presenza del padrone, Violet si voltò nella sua direzione con nuova dedizione a illuminarle fiocamente il volto. Si stupiva sempre, Gilbert, del potere che esercitava su quella bambina.
Il sole superò l’orizzonte, gettando raggi pallidi sull’immensa terra di nessuno che separava i due schieramenti e un invito a uscire da quelle polle di sangue e morte ch’erano le trincee. Poco a poco, i soldati accettarono e chi poteva uscì allo scoperto, accorgendosi che il nemico pareva anch'esso aver accolto le preghiere di pace del sole. Violet continuò a osservarlo.
All’improvviso, Gilbert non seppe più cosa dire. Era tutto così paradossale, così insensato, che scambiarsi gli auguri di Natale non aveva neanche senso. In quelle condizioni, poi, non c’era nulla da festeggiare.
L’idea gli arrivò osservando per caso due ragazzini, che oltre le spalle di Violet avevano cominciato a tirarsi minuscole palle di neve per sfuggire al freddo e recuperare il sorriso almeno per un giorno. Era un’idea assurda, ma quella visione non gli dispiacque.
Gilbert si chinò dinanzi a Violet, gli angoli della bocca appena incurvati all’insù. Lei seguì i suoi movimenti, pendendo dalle sue labbra come sempre soleva. Un bagliore in fondo al tunnel.
«Ti va di fare un pupazzo di neve?»
Nulla mutò nello sguardo di Violet, non un’ombra parve attraversarlo. Batté le palpebre, semplicemente. Poi parlò.
«Un cosa, signore?»
Gilbert rimase interdetto, gli occhi appena sgranati da quell’innocente quesito, e istintivamente la mano gli si arricciò in un pugno, fremendo al significato di quella domanda porta nella più allarmante sincerità. Lo sapeva, sapeva dell’infanzia strappata a Violet. Suo fratello non aveva mancato di fargli un dettagliato resoconto sui trascorsi di quella bambina che si ostinava a chiamare mostro, ma che agli occhi di Gilbert appariva come un fiore piegato dalla sfortuna; eppure la consapevolezza di quell’innocenza perduta lo trafisse con più violenza di qualsiasi proiettile.
«Vuol dire che tu non hai mai...» Gilbert si riscosse, corrugando le sopracciglia in un cipiglio che volle mutare in tenerezza, sorridendo piano verso Violet. Perché porre un quesito per il quale aveva già ottenuto risposta?
«Va bene, non importa» asserì a quel punto, poggiando le mani sulle ginocchia e facendovi di colpo leva, «Vieni. Ti faccio vedere.»
«Sì, signore.»
Nel frattempo il fazzoletto di terra che separava i trinceramenti s’era via via popolato di soldati che spiccavano come formiche su quell’immenso manto bianco, che copriva ogni cosa e ogni cosa rendeva indistinguibile allo sguardo. Tra gli altri Gilbert intravide il nemico aggirarsi cauto tra i suoi commilitoni, sorprendendolo quando l’oggetto di conversazione sembravano essere sciocchezze da salotto e non tattiche di guerra. Il tutto era così surreale da trovarsi in uno strano sogno che presto sarebbe destinato a dissolversi nel gelo di un nuovo giorno. I passettini di Violet dietro di sé, però, lo distrassero dall’eventualità.
Qualcuno offrì loro un tozzo di pane, la colazione, e sfregandosi le mani sul tessuto sdrucito dei pantaloni Gilbert si preparò ad appallottolare un po’ di neve tra le dita. Era morbida al tatto, gelida e ingrata, ma al suo fianco ora Violet l’osservava attenta, memorizzando ogni movenza, ogni passaggio che con razionale consequenzialità l’avrebbe condotta al conseguimento del suo obiettivo.
Gilbert decise di ignorare un tarlo in fondo al cuore, concentrandosi sulla sfera candida che reggeva in mano. «Questa», spiegò, «dev’essere rivestita da molti strati di altra neve. Ci servirà a fare la base del pupazzo, quindi è importante che sia grande abbastanza.»
Violet annuì, concentrata. «Ricevuto.»
Lui gliela porse. «Bene, cominciamo.»
Il risultato non fu poi così disastroso. Pendendo vigorosamente verso destra, l’omino di neve rischiò di decapitarsi inconsciamente più d’una volta, ma con il respiro corto Violet fu veloce a reggerne il capo, sistemandolo sulla sommità del busto dopo che Gilbert l’ebbe con cura livellata. Sistemato l’insieme ora non mancavano che qualche sassolino o minuscoli bossoli da recuperare nel candore del campo, compito che Gilbert, ignorando la fitta alla colonna vertebrale, decise li avrebbe coinvolti entrambi. Poco dopo un paio d’occhi e un sorriso sbieco animavano il viso pallido del pupazzo, donandogli un po’ dell’umanità che tutti loro avevano ormai perduto.
«Come si chiama?» domandò Violet.
Gilbert si sfregò le mani, ponendole a coppa contro le labbra e soffiando sui palmi per scongiurare eventuali geloni. «Tu che nome gli daresti?»
Lei sembrò pensarci su, lanciandogli un’occhiata fugace. «Springfield.»
«È un nome abbastanza...» Gilbert esitò, «particolare, per un pupazzo di neve.»
«Non va bene?»
«No» acconsentì stancamente lui, contemplando lo strano omino baluginare nella miseria che si disperdeva a vista d’occhio intorno a loro. «È perfetto.»
A pochi passi di distanza, si avvide Gilbert guardandosi intorno, qualcun altro aveva ben pensato di non perdersi in troppe domande. C’era chi seppelliva degnamente i caduti, chi rincorreva una palla di stracce a fianco del nemico, chi scambiava tabacco e vettovaglie.
Violet gli si avvicinò, seguendo il suo sguardo. Così minuta, così pacata, assomigliava davvero a un piccolo fiore. C’era solennità nella sua voce quando parlò, un distaccato rispetto che in quel degrado non era che una perla al vento. «Possiamo costruirne un altro, signore?»
Questionare un nome o l’altro era una perdita di tempo, specialmente in un simile frangente. Gilbert annuì, chinandosi a compattare l’ennesima sfera. Per un istante fu tentato di lanciarla nella direzione di lei, ma alla fine sembrò ripensarci. Un brandello di pace poteva salvare un esercito intero, dopotutto, e Gilbert sperò di essere fortunato abbastanza da vedere i fiocchi di neve posarsi sui capelli di Violet ancora una volta, il prossimo inverno.

Angolo delle Violette.
Era da un sacco che non mi capitava di scrivere così tanto per quella che inizialmente voleva essere una flashfic ma che ora, dopo ben dodici ore di riflessioni non-stop, è una bella oneshot di milleduecento parole. Quasi quasi mi complimento da sola.

Questo brano è comunque ispirato da fatti realmente accaduti, come probabilmente qualcuno di voi si sarà accorto, ovvero la famosa tregua di Natale del 1914. Vi invito a dare una letta alla pagina di Wikipedia che vi ho qui linkato, perché tra le piccole meraviglie che si perdono negli orrori della guerra questa è una di quelle che sempre mi fa commuovere e pensare. Trovo che sotto questo punto di vista l’anime di Violet Evergarden stia trattando un po’ superficialmente questo tema al momento, ma essendo solo a metà degli episodi niente è certo riguardo i suoi sviluppi; comunque, penso sia in generale molto valido e struggente.
Fun fact non molto fun: il nome scelto da Violet per il pupazzo non proviene da un mio attacco di follia bensì da un noto fucile usato proprio durante la WW I, e ciò dovrebbe ben spiegare la reazione di Gilbert. Detto ciò, ci si becca in giro! (finger guns)

daniverse

   
 
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