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Autore: _Frame_    04/03/2018    4 recensioni
[Primo spin-off di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[DenNor Human!AU]
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Dopo quello che è successo a Mathias, Lukas crede che la sua vita si sia definitivamente staccata dai Siberian Cubs e dall’ambiente a cui appartengono. Un incontro inaspettato gli farà capire che il suo ruolo in quel mondo da cui Mathias aveva sempre voluto proteggerlo non è ancora finito, e che la possibilità di salvare gli altri ragazzi potrebbe dipendere solo da lui.
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Estratto da “Siberian Cub”:
Mi rendo davvero conto del legame in cui sto incatenando Alfred, mi rendo davvero conto di cosa significhi vederlo stretto fra le braccia bucate di un tossico che vorrebbe solo proteggerlo ma che non è nemmeno in grado di proteggere se stesso. E lo capisco. Forse ora davvero comprendo e riconosco la paura che ha spinto Mathias a togliersi di mezzo piuttosto che finire per imprigionare Lukas a quelle braccia ferite che non gli avrebbero causato altro che dolori. D’un tratto, Mathias mi sembra un po’ meno stupido di come l’ho sempre guardato.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Danimarca, Finlandia/ Tino Väinämöinen, Islanda, Norvegia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
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Danish Cub

 

 

 

 

 

Adesso metto fine alla mia vita perché un bucomane porta arrabbiature, preoccupazioni, amarezze e disperazione a tutti i parenti e agli amici. Egli non distrugge solo se stesso, ma anche gli altri. Grazie ai miei amati genitori e alla mia nonnina. Fisicamente sono uno zero. Essere bucomani vuol dire essere l’ultima merda. Ma chi spinge all’infelicità quanti arrivano al mondo giovani, pieni di voglia di vivere? Questa vuole essere una lettera di ammonimento per tutti quelli che si trovano di fronte a questa decisone: che faccio, ci provo? Stupidi: guardate me. Adesso non ho più nessun problema.”

 

(Lettera di Andreas “Atze” Wiczoezk,

estratto da Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, di Christiane F.)

 

 

1. L’angoscia del cucciolo

 

 

novembre 1975,

Londra

 

Ho freddo alle punte dei piedi. Li muovo sfregandone le punte contro il materasso, raccolgo le ginocchia al ventre, e la coperta striscia sul tessuto dei pantaloni che pizzicano la pelle delle gambe. I muscoli pesano come se fossero sacchi di sabbia, il senso di stanchezza mi tiene avvolto in un manto di nuvole che mi ovattano la testa, stordendo i sensi come una fitta inalata di fumo. Ho ancora sonno. Un singolo raggio di luce grigia e fredda attraversa la camera, batte sui miei occhi chiusi, e solletica la punta del naso che prude, fredda anche quella. Il riscaldamento dev’essere rimasto spento, così ha gelato tutta la notte.

Che gran bell’inizio di giornata.

Mugugno una smorfia, strizzo forte le palpebre per non farle schiudere sotto il tocco del raggio di sole, e mi rigiro nel letto rotolandomi dalla parte opposta. Spremo la guancia sulla parte fredda del cuscino, gelida, ma il raggio dell’alba grigia è sempre lì a torturarmi come il volo di una mosca che ronza attorno alle orecchie senza accennare ad andarsene. I primi rumori del traffico cominciano a propagarsi fra le pareti della camera da letto, il ronzio del frigorifero si fa sentire dalla cucina, le lancette della sveglia ticchettano sul comodino, e un ritmico plic-plic scandisce il gocciolio del rubinetto che l’idraulico non è ancora venuto a riparare, anche se l’ho chiamato ben due settimane fa.

Un fascio di nervi comincia a tendersi attraverso il mio corpo ancora intorpidito dal sonno, e la sua pressione pulsa attraverso la fronte. Emetto un sospiro grave e profondo contro il cuscino intiepidito dal calore della mia guancia, stropiccio le palpebre e increspo le sopracciglia in una smorfia d’irritazione. Mi rassegno ad alzarmi anche se la sveglia non è suonata.

Schiudo le ciglia, mi abituo al colore smorto e cinereo del sole annuvolato che passa attraverso il vetro e le tende, arrivando a solleticarmi la punta del naso. La sagoma tonda della sveglia somiglia a un largo faccione che mi dà il buongiorno, la lancetta dei secondi avanza lenta e regolare, passa oltre le braccia fosforescenti più spesse che indicano le sette e ventiquattro.

Frange di lana mi pizzicano il collo, prudono e solleticano la nuca all’attaccatura dei capelli. Distendo il corpo per stiracchiare le gambe, e le punte dei piedi escono dalla coperta. Sono fredde lo stesso, nonostante indossi ancora i calzini.

Un primo dubbio mi fa storcere un sopracciglio, mi scuote come se mi avessero rovesciato un bicchiere d’acqua fredda in faccia.

Ho dormito con i calzini?

Sollevo la guancia dal cuscino, abbandono la chiazza di caldo che si era formata fra la stoffa e la mia pelle, e mi guardo le gambe. Sbatto le palpebre per sciogliere la patina di sonno che mi appanna la vista, e riconosco la coperta di lana a quadri gialli e arancio che tengo nell’armadio. È quella che ho comprato appena mi sono trasferito a Londra, quella che tiro fuori dall’armadio solo in pieno inverno, e che di solito lascio sul divano del soggiorno, e non sul letto. I miei piedi sbucano dall’orlo di frange gialle e sfiorano il fondo del letto. Spingo il peso sul gomito, sollevo le spalle con uno sforzo, la coperta scivola sul fianco e si raccoglie ai miei fianchi, rivelando il maglione che indossavo ieri.

Mi strofino la testa, gratto i capelli dietro l’orecchio strofinando via il prurito trasmesso dalla coperta di lana, e ne ribalto un angolo. Faccio scivolare una gamba fuori dalla lana, agito le dita dei piedi dentro i calzini, e le punte formicolano, riacquistando sensibilità. Sotto la coperta a quadri, il letto è fatto e stirato, solo stropicciato sotto il mio peso, ma senza un lenzuolo fuori posto.

Ieri mi sono addormentato vestito, avvolto in una coperta che non dovrebbe nemmeno essere qui, e senza nemmeno infilarmi sotto le lenzuola. Ma che diavolo è successo?   

Allungo un braccio nella parte destra del letto, verso l’altro cuscino, e apro la mano per tastare il materasso, incontrare il suo viso o la sua spalla, e scuoterlo in cerca di spiegazioni. «Mathias?» La mano preme sul cuscino freddo, sprofonda senza afferrare nulla, se non l’imbottitura.

Mi giro di scatto, e la coperta di lana fruscia sulle mie ginocchia per il movimento improvviso.

Il letto è vuoto. Il lenzuolo tirato, le pieghe del cuscino increspate solo dalla mia manata, e lo attraversa solo il raggio di luce grigia che taglia l’aria come una lama rigonfia della nebbiolina di polvere che sciama dentro.

Sollevo un sopracciglio. Non c’è?

Avrei dovuto immaginarmelo quando mi sono svegliato senza le sue braccia aggrappate ai miei fianchi, senza la sua testa appoggiata sulla mia spalla e senza il tepore del suo respiro lento e insonnolito a soffiarmi dietro l’orecchio. Avrei dovuto immaginarmelo quando mi sono svegliato avvolto solo da una sgradevole sensazione di freddo e di vuoto.

Sfrego le nocche su un occhio ancora intorpidito dalla dormita, stropiccio le palpebre, sbatacchio le ciglia, e scandaglio la camera da letto. Vuota. Fuori dall’appartamento i rumori del traffico si fanno più insistenti, un clacson squilla, la lancetta della sveglia batte i secondi, il lavandino gocciola, il frigorifero ronza, i primi passi degli inquilini di sopra attraversano il soffitto, e il bambino della porta accanto ha già attaccato a schiamazzare. Eppure, la casa mi sembra lo stesso fin troppo silenziosa.

Mi sfilo la coperta di dosso, come se stessi sfogliando la pagina di un libro via dalle mie gambe, e mi sporgo dal letto per sbirciare il corridoio verso la cucina.

«Mathias, sei in cucina?»

Niente. Rispondono le voci ovattate degli inquilini dell’appartamento affianco che hanno già cominciato a litigare di mattina presto.

Sospiro, mi passo una mano attorno al collo, friziono un massaggio sulle vertebre, e qualche giuntura schiocca sotto le dita che premono anche sulle spalle. Chiudo gli occhi, mi isolo dai rumori dell’appartamento, e torno a ieri sera, a quello che è successo prima di andare a dormire.

Ieri sono rientrato in casa alle sette, c’era già buio ma sia le luci del soggiorno che della cucina erano spente. Ho buttato la borsa sulla sedia in corridoio, ho appeso la giacca nell’armadio sentendo già un formicolio di nervosismo corrermi sulla pelle perché la porta non era chiusa a chiave e avrò detto mille volte a Mathias di sigillarla di almeno due giri di chiave quando esce, e ho attraversato il corridoio per cercarlo. Mathias era in soggiorno, seduto davanti alla finestra, le braccia incrociate sul davanzale, il viso affondato fra gli incavi dei gomiti intrecciati, gli occhi scuri immersi nella penombra e rivolti all’oscurità del cielo che permeava attraverso il vetro, e solo una parte del tatuaggio a emergere dal colletto della maglia. Era rosso, se l’era grattato. Era almeno un paio di settimane che gli trovavo il collo sfregiato, gonfio per i segni delle unghiate che si era scavato sulla pelle.

Mathias aveva lo sguardo distrutto, peggio di quando torna a casa dopo tre giorni di vagabondaggio, o dopo una lite, o come le volte in cui lo trovo accasciato sul pavimento del bagno, a rantolare per i dolori al fegato o ad ansimare per un ennesimo attacco circolatorio. Ieri il colore della sera era già pesto, come fosse notte, bagnato solo dalle luci dei lampioni, dei fari delle macchine e delle insegne dei pub affacciati alla strada. Quel buio così denso e lucido si rifletteva nei suoi occhi distanti scavati nel viso smagrito. Occhi che ieri apparivano ancora più grandi e tristi. Mi ricordo solo che l’ho guardato di profilo e tutta la voglia di arrabbiarmi mi è scivolata via dalla pelle. Mi sono avvicinato a lui stando in silenzio, ho teso una mano per raggiungere un suo braccio, e –

Driiing!

Sussulto, il cuore mi rimbalza in gola e mi fa ingollare in ansimo.

La sveglia suona e mi strappa via dal ricordo di ieri sera, le lancette fosforescenti segnano le sette e mezza in punto, quella dei secondi è già avanzata oltre il dodici e sta passando il numero tre.

La spengo sbattendoci una manata sopra, e l’ultimo suo singhiozzo di vita muore in un debole ronzio. La sveglia tace e cade sul fianco, battendo sulla base della lampada spenta.

La mia testa si riempie solo del ronzio dei pensieri che frullano fra le pareti del cranio, e il distante suono del traffico mi riporta a quello che ho udito anche ieri sera. Rievoco ancora una volta il profilo di Mathias affacciato alla finestra, la guancia premuta sulle braccia incrociate, gli occhi tristi, lucidi e sciupati, e il suo viso impallidito colorato dalla luce blu che incavava profonde ombre nere attorno alle palpebre gonfie come se avesse pianto.

Di nuovo torna a scuotermi quel pizzico di paura che punge come il prurito della coperta di lana alla base del collo. Infilo le unghie sotto il bavero del maglione, e mi strofino come se il prurito fosse ancora lì, allontanandomi dai ricordi di ieri sera.

Forse è solo uscito.

Mi alzo dal letto, le molle cigolano, e il pavimento mi scarica una scossa di freddo attraverso i piedi, nonostante i calzini. Non mi preoccupo nemmeno di ripiegare la coperta a quadri e di rimetterla in fondo all’armadio. Imbocco il corridoio, supero il soggiorno, passo davanti alla porta della cucina, dove il ronzio del frigo e il gocciolio del rubinetto rotto si intensificano facendomi formicolare la mano dalla voglia di andare là e far fare a tutti e due la fine della sveglia, e raggiungo il mobile davanti alla porta d’ingresso.

Tuffo la mano nella ciotola di legno, rimesto il contenuto sollevando il fruscio metallico dei mazzi di chiavi che si agitano, simile a quello di un servizio di posate che viene scosso dentro a una scatola di ferro, ed estraggo il primo portachiavi a forma rettangolare che mi passa fra le dita. Il portachiavi a forma di bandiera danese emerge portandosi dietro l’anello a cui sono agganciate le chiavi del cancello e quelle dell’appartamento. Le mie ci sono. Rinfilo la mano nella ciotola, scosto il mazzo con le chiavi del contatore della luce, e pesco anche il ciondolo con la bandiera norvegese. La mano irrigidisce, una piccola scossetta attraversa le ossa, e mi scuote il battito del cuore. Ci sono anche quelle di Mathias. Allora non è uscito.

Stringo di più la presa, le unghie graffiano la superficie in rilievo che delinea la croce blu all’interno dello spazio rosso, il braccio si impietrisce, e di nuovo quel briciolo di timore e sospetto mi ronza nella testa facendomi provare un viscido brivido di disagio lungo la schiena.

Se non è in casa e non è nemmeno uscito, allora dove può essere...

L’occhio mi cade su un pacchetto di sigarette lasciato accanto alla ciotola di legno, vicino alla penna nera privata del cappuccio abbandonata accanto al telefono. Mollo le chiavi, raccolgo il pacchetto bianco e arancio già scartato dall’involucro di plastica e lo porto sotto la luce annebbiata che penetra dalle finestre del soggiorno e attraversa il corridoio rischiarendo l’ambiente. Il marchio delle HB è racchiuso nel triangolo rosso, fra la coroncina dorata e l’insegna “House of Bergmann”, ed è sovrastato dall’immagine di una coroncina.

Mathias non fuma le HB. E comunque, anche se le fumasse, non avrebbe lasciato il pacchetto a casa.

Infilo il pollice sotto il coperchio dell’astuccio e lo apro. Le sigarette ci sono tutte, disposte in due file, più un qualcosa...

Immergo l’indice fra le sigarette, gratto con l’unghia la parete di cartoncino, ed estraggo un foglietto più sottile e ruvido di un colore rosato piegato in due. Lo apro. È una banconota da dieci sterline.

Giro il pacchetto delle HB. La calligrafia di Mathias ha calcato una scritta con la penna nera nella parte bianca dell’astuccio. Solo un nome. “Gilbert”.

Aggrotto la fronte, lo stomaco si torce in un nodo, e la cosa mi piace sempre di meno.

Torno a guardare la banconota, il pacchetto di sigarette marchiato con il nome di Gilbert, e le chiavi di Mathias abbandonate nella ciotola. Tamburello le unghie sull’astuccio di HB. Il formicolio di freddo e disagio con cui mi sono svegliato torna a pizzicarmi la pelle, a scorrere assieme al sangue, e fa pulsare una vena di irritazione.

In che razza di macello è andato a cacciarsi questa volta?

Arrotolo le dieci sterline, torno a infilarle nell’astuccio, in mezzo alle due file di sigarette, e do due colpetti per pareggiarle.

Non è la prima volta che mi sveglio e che trovo il letto vuoto, senza Mathias, e non è nemmeno la prima volta che sparisce senza dirmi niente per poi risbucare in casa tre giorno più tardi, appiccicandosi a me dicendo “Scusa, scusa, scusa”, fino a che non crolla addormentato e dorme per almeno due giorni di fila.

Chiudo l’astuccio delle sigarette, lo rimetto dove l’ho trovato, affianco alla ciotola delle chiavi.

Mathias sarà uscito durante la notte, e si sarà semplicemente dimenticato le chiavi, e si ripresenterà a casa o questa sera o domani, quando avrà fame, o freddo, o sonno, e dovrà aspettare che io rientri per aprirgli il cancello e la porta.

Serro un pugno contro il mobiletto, stropiccio l’angolo del centrino sotto il telefono. Il grumo di nervosismo ristagna fra le dita e il palmo.

Ma io lo lascerò giù per almeno tre ore, fino a che non avrà nemmeno la forza e la voce di chiedermi scusa e di implorarmi in ginocchio. Così vediamo se la prossima volta si dimenticherà ancora le chiavi.

Torno a grattarmi dietro il collo, poi la spalla, lungo il braccio. Infilo le unghie sotto il maglione e sfrego anche in mezzo alle scapole, dove prude di più.

Dovrei farmi una doccia. È da ieri che non mi tolgo questi dannati vestiti di dosso e ci ho pure dormito tutta la notte.

Ripercorro il corridoio, e arrivo alla porta del bagno. Tasto la parete in cerca dell’interruttore, accendo la luce, e per un attimo mi illudo ancora di trovarlo qui, magari accasciato sul pavimento, mezzo svenuto, o aggrappato al water, scosso dai conati di vomito che a volte lo tengono sveglio anche per tutta la notte. Ma niente. Il bagno è vuoto.

Mi sfilo il maglione, lo getto nella cesta dei vestiti sporchi, brividi di freddo si arrampicano lungo la schiena facendomi accapponare la pelle. Finisco di spogliarmi intanto che l’acqua della doccia si scalda, aspetto di vedere le pareti di vetro appannarsi prima di riaprire le ante.

Può darsi che quando io esca lui sia già tornato, distrutto come ieri sera, magari anche con la guancia gonfia dopo aver ricevuto uno schiaffo come quello dell’altro giorno, o anche peggio. Ma non ho motivo di credere che gli sia successo qualcosa di più grave del solito.

Infilo il piede nella doccia, mi tuffo sotto il getto che mi annaffia il viso, i capelli, scende lungo le spalle e riga la schiena, gocciolando fino a raccogliersi in mezzo ai piedi. È bollente. Mi strofino le braccia bagnate, ma i brividi viscidi e freddi non se ne vanno, continuano a strisciarmi lungo le vene e a suscitare un lieve senso di nausea nonostante il tepore dell’acqua calda.

Ma allora cos’è questa maledetta sensazione che non mi dà pace?

 

.

 

Verso il caffè nella tazza, una fumata dal buon aroma di chicchi macinati mi pizzica la faccia appena asciugata dopo la doccia, e torna ad avvolgermi con un tepore simile a quello del soffio d’acqua che mi scivolava lungo le guance. Mi giro a posare la caffettiera sulla panca, accanto alle presine e al barattolo dello zucchero che non ho nemmeno aperto – è solo Mathias a mettere lo zucchero nel caffè o nel tè – e avvolgo la tazza con entrambe le mani, godendomi il calore della ceramica contro i palmi.

L’asciugamano asciutto che ho acciambellato attorno al collo per raccogliere le ultime gocce d’acqua che piovono dai capelli umidi mi dà fastidio alla nuca scoperta, deve farmi sembrare un pugile nell’angolo del ring.

Scrollo il capo, prendo una prima sorsata di caffè bollente, e le labbra restano a toccare l’orlo della tazza. Lascio che il vapore del caffè mi carezzi la fronte e la punta del naso, che le mani strette attorno alla ceramica si scaldino fino a bruciare.

Il rubinetto perde alle mie spalle, la cascata di piccole gocce – plic, plic, plic – affonda nel padellino incrostato di fondi del latte, riempito d’acqua fino all’orlo. Dalla finestra della cucina il traffico si sente di meno, in compenso lo sgocciolio del lavandino picchia lento e costante, e si unisce al pestare dei passi degli inquilini di sopra che si sono fatti più frenetici, alle corse per le scale che rimbombano lungo tutto il condominio, a una porta che sbatte, al brusio di voci che si propaga da dietro le pareti, e alla lancetta dell’orologio sopra il frigorifero che ticchetta i secondi come la sveglia in camera.

Soffio piano sulla superficie di caffè, faccio inclinare il velo di vapore, e riesco a sentire il sottilissimo suono del mio sospiro.

Non mi ero mai accorto di quanto fosse silenziosa la casa senza la presenza di Mathias.

Abbasso la tazza, il velo di fumo appanna la vista, annebbia la cucina e il tavolo vuoto con sole due sedie davanti a me.

L’ombra di Mathias compare come un fantasma. Seduto al tavolo di fronte a me, la sua tazza stretta dentro il palmo, il gomito piegato sull’orlo, le nocche del pugno premute contro la guancia già rossa per il sorriso, il capo leggermente inclinato di lato, e gli occhi che mi guardano attraverso la nebbiolina di vapore.

Discosto lo sguardo, appoggio la tazza di caffè tiepido sul ripiano – all’improvviso mi si è chiuso lo stomaco – e mi do una strofinata alla nuca con l’asciugamano che ciondola dalle spalle.

Lancio un’occhiata all’orologio sopra il frigorifero. Le otto meno dieci.

Mi scollo dalla cassapanca e torno verso il bagno per rimettere a posto l’asciugamano prima di uscire. Scuoto di nuovo la testa, faccio correre le dita fra i capelli ancora tiepidi e umidi, e trattengo una sorsata di fiato che mi fa diventare il viso duro e freddo.

Se dovessi sempre correre dietro alle sue cretinate, a quest’ora sarei ridotto peggio di lui.

 

.

 

Abbottono la giacca fin sotto la gola, la rimbocco sopra le spalle, liscio il tessuto sul busto fino ai fianchi. Agguanto la sciarpa, me la butto attorno al collo facendola ciondolare senza allacciarla, e afferro la tracolla che è sulla sedia del corridoio da ieri, caricandomela sulla spalla. Stanotte non ho toccato libro. È la prima volta in tutto l’anno.

Mi massaggio la fronte e allevio la pressione martellante che pulsa all’altezza delle tempie. I ricordi di stanotte si mescolano, ancora annebbiati, e vengono sostituiti dal risveglio improvviso, dall’incazzatura mattutina, e dal caffè che invece di darmi una scrollata mi ha solo annodato lo stomaco, aumentando l’amarezza che mi ristagna in bocca.

Spengo la luce del corridoio, passo vicino all’armadietto del telefono e pesco le mie chiavi dalla ciotola di legno agguantandole per la bandiera danese.

Le sigarette con il nome di Gilbert sono ancora lì, a giacere accanto al telefono.

Mi fermo davanti alla porta, fossilizzo la mano già posata sul pomello, e getto un’ultima occhiata al mobiletto.

Ora gli unici colori che spiccano nella ciotola di legno sono il bianco, rosso e blu della bandiera norvegese. Le chiavi di Mathias restano immerse nell’argento, il pacchetto di HB è messo in piedi come un soldato che sembra fare la guardia al mazzo.

Serro la mano sul pomello, le unghie graffiano l’ottone, un brivido mi scuote il braccio.

Potrei anche portarle giù e lasciarle nella cassetta della posta. Se Mathias rientrasse potrebbe essere abbastanza furbo da guardarci dentro, trovarle, ed essere in grado di salire in casa prima che io torni. Anche se lo lasciassi giù come mi sono prefissato di fare non imparerebbe niente. Io mi arrabbierei e basta, senza nemmeno parlargli o guardarlo in faccia, lui mi abbraccerebbe restandomi incollato addosso, sfregherebbe la guancia contro la mia, farebbe i versetti da bambino pentito, standomi appeso come se fossi la gonna della mamma, inizierebbe a sbaciucchiarmi dietro l’orecchio, poi più giù, lungo la curva del collo, e finiremmo a letto.

Stringo forte il pugno e resisto all’impulso.

No. Oggi non la passerà liscia.

Apro la porta, lascio entrare un sottile fascio di luce fra l’anta e lo stipite, e mi affaccio al corridoio dove rimbombano le voci di quelli del piano di sotto e i passi degli inquilini che stanno uscendo dagli altri appartamenti.

Di nuovo la viscida sensazione di disagio si accumula alla base della spina dorsale, scava nelle ossa, si insinua in mezzo alle vertebre e risale la schiena, fredda e collosa, arrivando fino al collo e pizzicando l’attaccatura dei capelli.

Stringo le spalle e sopprimo un brivido.

Datti una controllata, Lukas.

Sposto lo sguardo all’indietro, senza muovermi.

Le chiavi e le sigarette sono immobili sul ripiano del telefono. Il fioco raggio di luce proveniente dall’apertura della porta cade sulla rotella forata dell’apparecchio, si concentra nel numero cinque ed emana una scintilla, come stesse strizzando l’occhiolino.

Sospiro. Compio un passo all’indietro e richiudo la porta.

No. Mi rifiuto di rendermi ridicolo a preoccuparmi così tanto per un’idiozia simile.

 

.

 

«Distretto di Scotland Yard.»

Premo la cornetta del telefono contro l’orecchio, la cinghia della tracolla scivola dalla spalla e mi cade sul gomito. Devo darle una spintarella con la scapola perché non finisca a terra. Guadagno un sospiro, rispondo alla voce filtrata dall’apparecchio. «Salve, dovrei...» Sono ridicolo. Completamente ridicolo. Oltre a perdere tempo per star dietro ai disastri in cui si è cacciato Mathias arriverò pure in ritardo a lezione. Mi schiarisco la voce ma suona comunque un po’ rauca. Colpa del risveglio di merda e del fatto che ho saltato la colazione. «Dovrei denunciare la scomparsa di una persona.»

L’agente all’altro capo della cornetta accenna un mugugno di assenso, sfoglia qualcosa, si sente la carta frusciare sopra il brusio di sottofondo sparso da altre voci che occupano la stanza della centrale di polizia. «Da quanto tempo è scomparsa?»

«Da...» Bella domanda. Percorro le pareti del corridoio come sperassi di trovare la risposta sul muro, accanto alla cornetta del ricevitore del cancello e al calendario fermo sulla pagina di novembre. «Da questa mattina.» Credo. «È il mio coinquilino, non ho modo di rintracciarlo e ho bisogno che sia ritrovato immediatamente.»

«Signore, purtroppo le denunce in caso di scomparsa di una persona possono essere attivate solo dopo ventiquattrore dall’ultimo avvistamento.»

Faccio roteare lo sguardo. Serro le dita attorno alla cornetta facendo stridere le unghie sulla plastica. Sono circondato da incompetenti che non sanno nemmeno fare il loro lavoro come si deve, troppo pigri per alzarsi dalla sedia e andare a ripescare un idiota disperso nelle fogne di Londra. «No, non posso aspettare così tanto, lui potrebbe...» Mi mordo il labbro e mi rimangio le parole. Tamburello le unghie sul ripiano di legno, senza toccare il centrino di pizzo disteso sotto il telefono, e il pacchetto delle HB vibra, torna a pizzicarmi con la sua presenza elettrica. Devo dirglielo. Forse potrebbe dargli un incentivo a sbrigarsi.

Inspiro. La voce rimane fredda e piatta come una lastra di ghiaccio. «Il mio coinquilino è un tossico con precedenti, temo che potrebbe causare danni alla quiete pubblica se non lo ritrovate immediatamente.» Il che non è del tutto falso.

La voce dell’incompetente dall’altro capo della cornetta si anima. «Con precedenti, ha detto?» Riconosco una fine punta di allarme nel tono e il cigolio della sua sedia, come se si fosse spostato. «Quindi è schedato?»

«Sì, esattamente.»

Rumore di strascinamento su una superficie di linoleum – forse ha spostato le rotelle della poltrona girevole –, e altri fogli di carta che vengono sfregati fra loro. Il lieve brusio di voci continua a borbottare in sottofondo, l’eco di un telefono squilla in lontananza e una porta sbatte.

«Mi fornisca il nome, prego.»

Torno a schiarirmi la voce. Mi preparo già a causargli problemi con lo spelling. «Mathias Køhler. La acca fra l’aptang e la elle.»

La voce dell’agente si incrina in un tono di dubbio. «La acca fra cosa, prego?»

Alzo gli occhi al soffitto, stringo le labbra per non sospirare direttamente nei pori della cornetta, e mi premo la mano contro la fronte. Stropiccio l’espressione sconfortata massaggiando la radice del naso con i polpastrelli. «La o.» Incompetente e ignorante. «Ci faccia un taglio sopra.»

L’agente sfoglia ancora qualcosa, la sua voce borbotta parole strascinate e poi torna limpida attraverso la linea del telefono. «Mathias Køhler, ha detto?»

Annuisco. «Sì.» Faccio di nuovo tamburellare le dita sul ripiano, e questa volta le unghie lasciano sottilissimi segni bianchi a forma di mezzaluna sulla vernice del legno.

Possiamo darci una mossa?

L’incompetente mormora qualcos’altro, poi la sua voce riacquista un timbro decente e dignitoso. «Sì, effettivamente abbiamo i suoi dati in archivio.» Lo dice con l’aria di un insegnante che sta esibendo la pagella dell’alunno peggiore davanti a tutta la classe, sventolandola sopra la testa come un trofeo. «Mathias Køhler, nato a Copenaghen il cinque giugno del Cinquantuno e schedato qua a Londra a settembre del Settanta. L’ultimo suo arresto risale al tre ottobre di quest’anno per...»

«Sì, conosco i suoi precedenti» lo blocco. Le unghie stridono sul legno, solcano sottili righe bianche, le dita si chiudono a pugno e il braccio vibra leggermente. La mia voce esce bassa e cavernosa, ma calma. «Vi sto solo dicendo che è scomparso e che deve essere ritrovato.»

«Signore» insiste lui, «come le ho già spiegato non è possibile far scattare una denuncia prima di ventiquattrore, chiunque sia il soggetto scomparso.»

«Ma...»

«Però possiamo tenere un appunto.» Il tono dell’incompetente si rilassa, suona quasi apprensivo nei miei confronti. Disgustosamente accomodante. «Se il signor Køhler dovesse essere detenuto in una delle nostre centrali, allora la ricontatteremo noi. In caso contrario, la invito a richiamare fra ventiquattrore per sporgere denuncia.»

Socchiudo le labbra che però si congelano in un mormorio. «Io...» Tengo stretto il pugno e premo le nocche sul legno, dove ho lasciato i segni delle unghie. Guardo di nuovo il pacchetto di sigarette, le chiavi di Mathias con la bandiera norvegese. Lancio un’occhiata al soggiorno in penombra, alla porta socchiusa della camera da letto, e torna ad assalirmi quel senso di disagio che si aggroviglia nel ventre come un gomitolo di ghiaccio. Tutto è così immobile, in ordine, e silenzioso. Sospiro col naso, socchiudo le palpebre. Il pugno stretto sul mobiletto e la mano aggrappata alla cornetta del telefono si rilassa. «D’accordo.» Cedo. Più di così non potrò mai smuoverli.

«Può fornirmi il suo nome, signore?» mi chiede l’agente. «In caso dovessimo ricontattarla.»

Sposto il peso da un piede all’altro – le gambe si stanno intorpidendo –, raccolgo la cinghia della borsa che è tornata a scivolare sul gomito e me la carico di nuovo sulla spalla. «Lukas Bondevik. Entrambi con la kappa.»

L’agente resta qualche attimo zitto per appuntare la nota, e il suo silenzio fa sorgere il brusio di sottofondo, un secondo telefono che squilla, un cassetto scorrevole che viene aperto, una voce di donna che si fa sentire più delle altre, e il cigolio di una porta che viene aperta. L’agente conferma il mio nome. «Bondevik.» Sfoglia qualcos’altro e la sua voce perde la sfumatura di incertezza. «La ringrazio. Ci rimetteremo in contatto con lei nel caso ci fossero aggiornamenti. In caso contrario, chiami domani, d’accordo?»

Faccio roteare lo sguardo. «D’accordo.»

«Buona giornata, signore.» Riaggancia. Il suono della linea interrotta mi pulsa nell’orecchio come una risata di scherno – tuu, tuu, tuu – e resto come uno scemo a guadare il muro davanti a me, con la cornetta ancora incollata alla guancia.

Ottimo. Quindi non muoveranno un dito fino a domani per ritrovare Mathias.

Riaggancio anch’io, sistemo il cavo di gomma nera attorno alla cornetta e raddrizzo il centrino che si è stropicciato sotto il corpo del telefono.

La bocca dello stomaco formicola, i brividi discendono il ventre, punzecchiano le gambe, e mi fanno arricciare le punte delle dita dentro le scarpe. Scuoto il capo, torno a massaggiarmi le tempie e la fronte che pulsa di stanchezza e nervosismo, e già un primo senso di vertigine sale ad appannarmi la vista. Forse farò meglio a prendere un caffè per strada prima di entrare in università. E forse sto diventando peggio di Mathias nel crearmi tutte queste paranoie. Forse hanno ragione quelli della polizia e non c’è motivo di andare a cercarlo, dato che salterà fuori da solo come ha sempre fatto.

Lascio le dita scivolare dalla fronte, le tuffo dentro la ciotola di legno e pesco la bandiera danese con attaccate le mie chiavi di casa.

Esco, chiudo la porta ma non do i giri alla serratura.

Lascio l’appartamento aperto.

 

.

 

La gente per strada muore di freddo. Le persone camminano ammassate sui marciapiedi, si stringono nelle giacche di pelo, si stringono le sciarpe alla gola, immergono i visi dentro i colletti dei cappotti tenendo scoperti solo gli occhi, abbassano gli orli dei berretti di lana fino alle sopracciglia, e sfregano fra loro i palmi protetti dai guanti. Una leggera foschia di smog risale il ciglio della strada trafficata e si disperde galleggiando fra le gambe della folla.

Rimbocco la giacca per non assorbire il gas rigettato dalle auto e mi accontento di tenere le mani in tasca, senza indossare i guanti. Il mio fiato si condensa in una nuvoletta che si squaglia nell’aria davanti al viso. Le folate di vento scompigliano i capelli ancora tiepidi dopo la doccia, bruciano le guance e mi seccano le labbra, ma non mi danno fastidio. Sono abituato a inverni ben più rigidi.

Un uomo vestito in impermeabile nero mi passa di fianco, sguscia in mezzo a una signora con una borsa a fiori e a un ragazzo vestito di pelle, supera un anziano che cammina aiutandosi con un ombrello chiuso, e accelera il passo immergendosi nel flusso di folla che marcia verso la stazione di Tottenham. Le vetrine dei negozi illuminano la stradina sotto i portici, splendono sui volti grigi e ancora mezzi addormentati della gente che procede in fila, accalcata per non finire sotto le auto che formano la doppia carovana sull’asfalto. I gas di scarico addensano una nebbiolina grigia che si infila nei tombini, scivola sul marciapiede e sguscia sotto i nostri piedi. Le auto rombano, un taxi accelera e passa sopra una pozzanghera di acqua nera che schizza ai bordi del marciapiede. La fila di auto e taxi si ferma al semaforo che brilla di rosso. La coltre di smog si inspessisce, risale l’aria e brucia le narici con il suo odore ruvido e aspro.

Agguanto la sciarpa e la tiro anche io fin sopra il naso. Respiro il profumo di casa, del guardaroba dove si mescolano gli odori della naftalina e quelli dei detersivi, e anche quello più dolce del bar dove mi sono fermato prima a prendere il caffè che mi è servito solo a torcermi lo stomaco più di quanto non lo fosse già.

Che giornata di merda.

La folla si divide all’angolo, davanti all’entrata della metro in due flussi: uno che prosegue lungo il marciapiede e l’altro che si immerge nei sotterranei. Due poliziotti di pattuglia avvolti dagli impermeabili neri, in piedi davanti alla colonna portante, guardano la gente sfilare davanti ai loro occhi, si scambiano qualche parola, uno di loro annuisce tenendo le braccia strette dietro la schiena, e l’altro si sistema l’orlo del copricapo davanti alla fronte. Le persone salgono e scendono, si incrociano, si urtano le spalle, e zampettano con le borse e le ventiquattrore strette in mano, affrettandosi a raggiungere le scale che si rovesciano nei budelli della città.

Stringo la cinghia della borsa sopra la spalla, alzo gli occhi seguendo la scritta sulla cornice della stazione “Tottenham Court Road Station”, e una gettata di vento che odora di pioggia mi schiaffeggia la guancia. Mi fa fermare in mezzo alla folla che mi passa vicino come se non esistessi.

I miei occhi indugiano sulle lettere cubitali dell’insegna della stazione, tutto il tanfo trasudato dalla strada torna a pizzicare le narici e a far salire un conato di nausea che ribalta lo stomaco pieno solo di caffè. Lascio scivolare una mano sulla giacca e stringo la stoffa all’altezza della pancia, creo una leggera pressione con le nocche, ma il bruciore non se ne va, sciama nella carne come se avessi bevuto una tazza di mosche ronzanti al posto del caffè. Stringo le labbra, le mordo con gli incisivi per trasferire il bruciore nella bocca, ma non riesco lo stesso a togliere gli occhi dalla scritta.

Le nuvole si infittiscono. Il cielo diventa più buio, reso più scuro dalla nebbia nera dei gas di scarico che si eleva al di sopra degli edifici. Il vento torna a soffiare, mi agita i capelli dietro le orecchie, fa sventolare un lembo della sciarpa, scuote il bavero della giacca e mi ghiaccia la pelle del viso facendo sbiancare le guance. Ho un brivido. Ora sento freddo anch’io.

Il casino del traffico e quello della folla sul marciapiede si affievolisce, i suoni si isolano, il vento che mi sbuffa nelle orecchie mi fa sentire solo il basso gorgoglio delle nubi che trattengono tutta la pioggia da strizzare sopra Londra. Il buio circonda anche l’insegna della stazione. Le parole “Tottenham Court Road Station” si allargano, mi riempiono la vista con il loro bianco, arrestano i battiti del cuore, mi bloccano il respiro facendo svanire la condensa davanti alle labbra, scaricano un brivido costante che mi rosicchia la base del collo e scende lungo la schiena.

La mano stretta alla borsa suda, il palmo brucia, il brusio della strada diventa un fischio ovattato, il formicolio allo stomaco e ai piedi mi sta dicendo di seguire la folla e di scendere le scale della metro anche se devo proseguire dritto.

Qualcuno mi urta la spalla. L’uomo mi supera, si abbassa il cappello lanciandomi un’occhiata da sopra la spalla. «Scusi.» E prosegue. Sguscia in mezzo ad altre due persone, passa davanti ai poliziotti in impermeabile, e si immerge sotto il portico.

Quel lieve colpo alla spalla mi ridesta come se l’uomo avesse spaccato la barriera di vetro cristallizzata attorno a me dai miei pensieri.

Il fracasso del traffico torna a rombare, un clacson suona dietro di me, un’auto sgasa lasciandosi dietro una nube grigia che sommerge il muso di un taxi, e la carovana sull’asfalto procede come quella delle persone sul cemento del marciapiede. Il cielo nuvoloso è tornato grigio, non più nero, il fischio del vento si è abbassato facendo sorgere l’intenso odore di pioggia stagnante, di pozzanghere sporche, di asfalto bagnato, e le lettere sull’insegna della Tottenham si sono rimpicciolite, sono tornate alla misura normale.

Scrollo il capo, abbasso lo sguardo e rimbocco la sciarpa sotto la gola.

Riprendo a camminare, supero l’angolo della stazione lasciando che un ultimo brivido mi scivoli giù dalla schiena, come un cubetto di ghiaccio infilato nel colletto che si scioglie lungo il tepore della pelle, e proseguo a sguardo basso, il capo chino, le spalle strette.

Non giro lo sguardo. Se lo facessi, probabilmente finirei per dar retta al formicolio allo stomaco e scenderei davvero nella metro, senza nemmeno capirne il motivo.

La vista appannata del fiato condensato mi annebbia la mente, offusca i pensieri come questa mattina, quando ero ancora mezzo addormentato e mi sono ritrovato l’improvviso raggio di sole sparato dritto in faccia. Sbatacchio le ciglia, tengo le palpebre socchiuse, e mi lascio guidare dalle gambe delle persone, senza guardare davanti a me e senza pensare a dove metto i piedi.

Ritorna il buio del soggiorno di ieri sera. Il fascio di riverbero blu che entrava dalla finestra, il freddo della stanza lasciata senza riscaldamento tutto il giorno, lo sguardo di Mathias che si voltava verso di me e mi guardava con quell’espressione triste e spenta.

Gli sono andato vicino, senza nemmeno accendere la luce, e lui ha teso il braccio, ha raccolto la mia mano dal fianco e si è aggrappato al mio calore. Aveva la mano freddissima, la pelle ruvida, ma non ho sentito alcun brivido. Mi ha cinto il fianco, abbracciandomi, e mi ha raccolto in grembo, tenendo la fronte rintanata contro il mio petto. Le sue mani mi carezzavano piano la schiena, il viso non si faceva vedere, e il respiro soffiava lento accanto al mio collo, leggermente tremante. Anche quando gli ho chiesto cosa c’era non mi ha detto niente, ha solo scosso la testa e ha stretto di più le braccia.

Ho poggiato il capo sulla sua spalla, e ho sentito il suo respiro intiepidirmi la guancia. Le sue labbra si sono mosse piano, vicino all’orecchio, e ora la sua voce mi sembra l’eco di un sogno che sbiadisce. “Se io non mi fossi mai avvicinato a te...” La mano era salita a carezzarmi la nuca. Carezze tremanti e insicure, quasi avesse paura a toccarmi. Non era mai successo prima. “Se io e te non ci fossimo mai incontrati e se non...” L’abbraccio si era chiuso. Il suo petto vibrante contro il mio, il respiro caldo sulla pelle, la voce rauca, come rotta da un pianto, e le sue mani aggrappate attorno alle mie spalle. “Se non avessimo iniziato a stare insieme... sarebbe stato meglio, vero?” Un brivido aveva scosso anche me, facendomi rimanere immobile fra le sue braccia.

La condensa si disperde e svanisce assieme alle immagini del ricordo, torna l’ammasso di gambe che procede lungo la stradina umida dell’acquazzone di ieri notte. Pioverà anche oggi, di sicuro.

Di nuovo il vento mi soffia fra le orecchie, investe le guance e mi fa raddrizzare le spalle. Sollevo la fronte, passo una mano fra i capelli togliendomeli dagli occhi, e poso lo sguardo davanti all’entrata del Dominion Theatre. La gente è ammucchiata alla fermata pedonale, quattro taxi sono fermi nel parcheggio, e la biglietteria è ancora chiusa.

Ignoro. Ignoro tutto. Ignoro i ricordi di ieri sera, le parole di Mathias, i brividi di freddo con cui mi sono svegliato e che continuano a percorrermi la schiena, la brutta sensazione che mi tiene lo stomaco aggrovigliato, e il formicolio alle gambe che mi dice di tornare indietro alla stazione di Tottenham e scendere le scale.

Mi ficco le mani nelle tasche e vado avanti per la mia strada. 

 

.

 

Alla fine mi sono rinchiuso in biblioteca. Già dopo la prima ora ho capito che oggi non combinerò niente, almeno fino a che non me ne tornerò a casa con la speranza di trovare Mathias già rientrato. Oppure riproverò a chiamare la polizia, o mi presenterò di persona in centrale, insistendo fino a che non si decideranno a darsi una mossa e a cercarlo seriamente.

Piego il gomito sul tavolo, spingo le nocche contro la guancia tenendo il capo leggermente inclinato e gli occhi bassi sul libro aperto. Il riverbero soffuso delle lampade spande una luce scura che assopisce, come il sole al tramonto. Il brusio che regna in biblioteca è sottilissimo, soffice come un sospiro, e non aiuta a restare svegli. Pochi passi camminano lungo il pavimento di marmo, le copertine dei libri che vengono sfilati dai ripiani frusciano fra loro, dita estranee sfogliano le pagine, e la penna del tizio seduto a due sedie da me è da almeno mezz’ora che gratta scritte sulla carta.

Tamburello la punta della matita sull’orlo della pagina, mi concentro sulle ombre delle lampade arancio che si infossano nello spacco tra un’ala e l’altra del volume. Sospiro, ragionando sul fatto che forse non combinerò nulla nemmeno qui. Ho già rinunciato a tornare in aula. L’unica cosa che sono riuscito a scrivere sugli appunti è stata la data, poi mi sono perso e ho passato l’ora a ripensare a ieri e a stamattina.

Abbasso gli occhi e aggrotto la fronte. La matita continua a tamburellare sulla pagina del libro, e il fatto che stia ripassando le lezioni su Kierkegaard che ho già sottolineato e imbrattato di appunti non aiuta. Non riesco a fare altro che guardare il dannato aptang di Søren – “La acca fra l’aptang e la elle”, “La acca fra cosa, prego?”, “La o. Ci faccia un taglio sopra” – ed è da almeno venti minuti che sono fermo sulla stessa frase.

Il tizio vicino a me intanto gira una pagina degli appunti, lancia un’occhiata al libro steso davanti al blocco di fogli, percorre due righe con la punta dell’indice, e continua a scrivere come una macchinetta. Una ragazza che cammina lungo il corridoio stringe due volumi al petto e passa dietro di me, prosegue verso un altro tavolo. Uno dei custodi procede spingendo il carrellino stracolmo di libri, si ferma in uno scomparto, ne raccoglie uno, esamina la copertina e lo infila in mezzo agli altri. Va avanti e il cigolio delle rotelle d’acciaio struscia sul pavimento di marmo, si unisce al suono di una sedia che viene spostata.

Poggio la matita, raccolgo la fronte dentro la mano e tengo il capo chino, quasi stessi per addormentarmi da seduto.

Ieri Mathias stava male. Più male del solito.

Forse è stato il suo silenzio a spaventarmi più di tutto. Il modo in cui mi ha solo tenuto abbracciato, le mani sue fredde, le braccia tremanti, il viso bianco, gli occhi scavati in neri segni di stanchezza. Sembrava un fantasma.

Non mi ricordo nemmeno se abbiamo cenato. Forse siamo andati direttamente a letto, ma non abbiamo fatto niente, ecco perché mi sono svegliato ancora con i vestiti addosso. Le tende erano rimaste aperte, la notte si era infittita, e un raggio di luna bianca come latte sporco era scivolato sul letto insieme a noi, sopra le lenzuola che non abbiamo nemmeno disfatto. Le dita di Mathias hanno continuato a carezzarmi i capelli anche dopo che ci eravamo distesi. Dalla tempia, dietro le orecchie, a disegnare il profilo della nuca, con quei gesti inaspettatamente delicati. Ricordo solo questo, assieme alla sensazione del suo respiro accanto alla guancia e delle sue labbra tremanti che mi sfioravano il collo.

Distolgo lo sguardo dal ricordo, dai suoi occhi ancora più tristi e lucidi sotto il raggio di luna macchiata delle nubi, e lo getto sul tavolo della biblioteca.

Un altro ragazzo si è seduto sul lato opposto del tavolo. Sta già leggendo, una mano sulla pagina e l’altra che stringe la matita, e ha lasciato il suo mazzo di chiavi vicino al portapenne. Ha un portachiavi a forma di palla da discoteca che emana uno sciame di luccichii color argento.

Aggrotto la fronte, la tensione dei muscoli si irrigidisce, e mi torna in mente il portachiavi della bandiera norvegese lasciato a casa assieme al pacchetto delle HB con il nome di Gilbert. E le dieci sterline arrotolate infilate fra le sigarette.

Dieci sterline.

Giro lo sguardo dall’altra parte, resto con la guancia premuta sulle nocche.

Anche quella volta erano dieci sterline.

Abbasso gli occhi, rileggo le prime righe del paragrafo, dove il movimento tamburellante della matita ha spanto una sottile polvere di grafite accanto al muro di testo in cui è incastonata la fotografia del filosofo.

E anche quella volta stavo leggendo Kierkegaard.

Socchiudo le palpebre, mi allontano dalla luce calda delle lampade che riempiono l’ambiente, dal brusio delle pagine che girano fra le dita, dai passi che attraversano il pavimento di marmo, dal cigolio del dannato carrello, e mi sembra davvero di tornare a quel giorno.

 

* * *

 

Quel giorno stavo leggendo Kierkegaard, una delle raccolte delle lettere, anche se al corso non lo avevamo ancora iniziato. Volevo portarmi avanti e avevo ripescato uno dei vecchi libri che mi ero portato dietro durante il trasloco. Era rovinato, le pagine ingiallite e le orecchie della copertina sciupate. Lo avevo già letto quando andavo ancora a scuola, a casa, e c’erano dei vecchi appunti scritti da non so nemmeno chi a bordo pagina.

Camminavo per Chardon Street, di ritorno a Soho, e stava imbrunendo. Aveva piovuto per due giorni di fila, e l’aria era pregna di forte odore di terra bagnata, di germogli, di fiori appena schiusi e di erba fresca. Gli alberi stavano sfiorendo. Le chiome brillanti di un verde acceso, appena nate, creavano un contrasto nitido con il cielo color rosa pompelmo, azzurrino sopra i tetti, e di un arancio acceso dove i raggi del sole ancora brillavano.

Io però non guardavo il cielo. Guardavo il libro. La scia di sole che si stendeva sul marciapiede mi guidava e non avevo bisogno di sollevare gli occhi.

Girai un angolo e voltai pagina con il pollice.

Dei passi mi seguivano, lo avevo già notato da almeno dieci minuti. Non vedevo ombre, il sole era davanti ai miei occhi e le proiettava all’indietro, ma mi accorsi subito che ce n’era più di uno.

La prima delle loro voci che sentii fu quella di Gilbert. «Io butto cinque.» Lo disse sghignazzando, ma il tono era serio, come quello di un amministratore d’aste. Riconobbi subito il ruvido accento tedesco che mi rimase addosso sulla pelle come la ferita di un’unghiata.

«Ma quali cinque!» La voce di Francis era più scandalizzata che ironica. «Uno così ne vale almeno quindici!»

«Fate dieci e non se ne parla più.» Il tono di Arthur sembrava infilato lì senza motivo. Un po’ cinico e scocciato, per nulla divertito, come l’ho sempre sentito anche in quelle volte in cui Mathias mi portava a cena con loro, al pub sulla Carnaby Street. Arthur comunque è quello che mi è sempre piaciuto di più fra i tre. Mi aveva anche prestato un libro, dopo l’uscita al pub, che raccoglieva tutti gli articoli e le testimonianze del Caso delle Fate di Cottingley. Ne avevamo parlato durante la serata.

«Vada per dieci?» La voce di Mathias fu l’unica che mi spinse a buttare la coda dell’occhio alle mie spalle. L’unica voce che mi fece sussultare come un soffice pizzicotto dietro l’orecchio.

Fu velocissimo. Inarcai un sopracciglio, sollevai lo sguardo dal libro, senza smettere di camminare, e lo gettai all’indietro verso le loro sagome rintanate nella penombra.

«Dieci fatta!» esclamò Gilbert, e sentii la sua mano che batteva su quella di qualcun altro e della carta che si stropicciava fra i palmi.

«Ha la sua scommessa, monsieur.»  

«Io non lo farei.» La voce pacata di Arthur placò gli sghignazzi degli altri due. «Per me quello ti sgozza, ha l’aria di uno che gira con il pepe spray o un teaser elettrico.»

«Vorrà dire che lo scoprirò.» I passi di Mathias si fecero più rapidi e vicini, la voce più gonfia e arrogante. «State a guardare un professionista all’opera, pivelli.»

Feci roteare lo sguardo, già un brivido di stizza a pizzicarmi il collo, e continuai a camminare come se non avessi sentito niente. Riabbassai gli occhi sul libro, ma non feci nemmeno in tempo a leggere la prima riga del paragrafo che i passi di Mathias accelerarono, lui si schiarì la voce, e mi corse incontro.

«Mi scuuusiii

Girai solo la coda dell’occhio.

Mathias sventolava il braccio sopra la testa, come una contadinella che corre su una collina fiorita, e aveva un largo sorriso luminoso stampato sulla faccia. Portò la mano libera attorno alla bocca, per indirizzare meglio la voce. «Mi scusi, bel signorino biooondooo

Gilbert e Francis risero. Gilbert dovette poggiarsi al muro con il braccio e nascondere il viso nell’incavo del gomito per non fare troppo rumore. Arthur schiaffò una mano sulla fronte e sospirò nascondendo l’espressione esasperata di chi vuole trovarsi in tutt’altro luogo e in tutt’altra situazione, mentre Francis gli stava appeso alla spalla e sghignazzava anche lui dietro il palmo aperto.

Mi fermai. A questo punto era inutile far finta di non aver sentito, meglio liquidarlo subito.

Senza chiudere il libro, girai lo sguardo, tenni l’espressione piatta, e gli lanciai un’occhiata di ghiaccio, di quelle che fanno allontanare tutti quando non ho voglia di avere gente fra i piedi. Cioè sempre.

«Cosa vuoi?»

Mathias si fermò dopo la breve corsa, ignorò il mio sguardo gelido, piegò un braccio davanti al busto e si inchinò a fondo come un cameriere. Quel sorriso da imbecille sempre lì. «Buonasera, bel signorino. Io e lei non ci conosciamo, ma le offro l’opportunità di partecipare a un importante esperimento sociale di calibro internazionale.»

Gilbert scoppiò a ridere. Si tenne lo stomaco e si piegò in due contro il muro, dando due pugni alla parete. «Pfft!» Ci indicò entrambi. «Non ci credo che lo sta facendo sul serio!»

Francis gli andò vicino e gli tappò la bocca con una mano. «Zitto» gli disse all’orecchio. «Non rovinare tutto!» Guardò anche lui verso di noi e la luce nei suoi occhi cambiò, si animò di una sorta di speranza, e il suo sorrisetto sembrò davvero il più sincero dei tre. Solo mesi dopo mi disse che in quel momento aveva già iniziato a sperare che le cose fra noi due andassero oltre la scommessa.

Io tornai a guardare Mathias. Inarcai un sopracciglio, «Prego?», e tenni la voce fredda e ostile, distaccata come faccio sempre con gli estranei.

Mathias sciolse l’inchino e raddrizzò le spalle. Indicò gli altri tre con un’alzata di pollice da sopra la spalla. Il sole gli batteva proprio in viso e quel giorno aveva un bel colorito sulle guance, luminoso. «Vedi, io e i miei amici laggiù non abbiamo potuto fare a meno di considerare che hai...» Gesticolò con i palmi al cielo, guardò in basso, verso le mie gambe, e tornò sul mio viso, mostrandomi un sorriso sbilenco, da furbo. Le guance arrossirono. «Sì, insomma, proprio un gran bel didietro e...»

La mia fronte si incrinò, fece una crepa nell’espressione di ghiaccio e pensai davvero di poter trapassare Mathias con le schegge che si erano spezzate. Dovetti stringere le dita contro le pagine del libro, stropicciandole, per resistere alla bruciante tentazione di tirargli un pugno sul naso.

Mathias giunse le mani davanti al petto, mimò uno sguardo più dolce, e simulò una preghiera. «Ed ecco, mi chiedevo se vorresti aiutarmi a vincere dieci sterline lasciandomelo toccare per un secondino.»

Gilbert rise di nuovo, si girò contro la spalla di Francis tappandosi la bocca con la mano e sbiascicò qualcosa in tedesco.

Arthur diede le spalle a entrambi levando gli occhi al cielo, si allontanò di un passo e fece sventolare una mano. «Io mi dissocio da questa dannata ridicolaggine.»

Francis lo trattenne per il colletto della giacca. Lui ci guardava con occhi attenti e luminosi, come se fossimo stati due attori sul palco dell’opera.

Ignorai gli altri tre, sollevai un sopracciglio e guardai Mathias negli occhi. Mi tenni freddo. «Vorresti toccarmi il sedere per dieci sterline?»

Lui annuì due volte, allargò il sorriso da guancia a guancia e gli zigomi si imporporarono. «Sarebbe grandioso.» Tenne le mani unite, le accostò alla guancia per nascondere i movimenti della bocca, e chinò le spalle, accostando il viso al mio orecchio. Sussurrò per non farsi sentire dagli altri, e il suo respiro mi trasmise un piacevole solletico accanto all’orecchio. «Ma se hai tempo potremmo fare a cambio e io potrei lasciarti toccare anche un po’ della mia mercanzia, sai», ammiccò, «non so se intendi.»

Ebbi un tic all’occhio. Guardai gli altri tre che mi fissavano trattenendo il fiato, aspettandosi almeno un mio cambio di espressione o un insulto, e poi ruotai gli occhi su Mathias che aveva ancora la guancia a uno sfioro dalla mia. Sospirai a fondo, con calma. «Sicuro.»

Lui strabuzzò gli occhi e sbatacchiò due volte le palpebre, allibito. «Davvero?» Nemmeno lui riusciva a crederci.

Annuii. «Certo.» Chiusi il libro tenendo l’indice fra le pagine e piegai un’orecchia di carta. «Lascia solo che metta il segnalibro.»

Mathias raddrizzò le spalle e si prese le guance fra i palmi. Divenne tutto rosso, gli occhi scintillarono e mi accorsi per la prima volta che erano azzurri. «Non ci posso credere, ha funzionato davvero!» Strinse il pugno e piegò un gomito contro il fianco in un segno di vittoria. Si girò verso gli altri, aprì di nuovo la mano accanto alla bocca, e alzò la voce stendendo un gonfio sorriso di soddisfazione. «Alla faccia vostra, brutti –»

La prima librata gliela tirai sulla guancia, non gli feci troppo male, e la copertina rigida sulla guancia produsse il suono di una sberla secca. Lo feci strisciare di un passo all’indietro e vidi la sua testa ribaltarsi.

Un primo corale gemito di dolore si levò dagli altri tre.

Mathias tornò in equilibrio – la guancia già rossa e gli occhi che non sapevano dove guardare – e io lo agguantai per il bavero della maglia. Misi il libro in orizzontale e gli affondai un colpo con il fianco della copertina contro lo stomaco. Questa volta annaspò. «Ghua!» E sbarrò le palpebre, allacciandosi con le braccia alla pancia.

Gli diedi uno strattone al colletto, gli tirai il viso verso il basso e sbattei la fronte contro la sua. Affilai gli occhi tanto da trapassargli il cervello, mormorai piano da dietro l’ombra che si era creata fra i nostri volti accostati. «Avvicinati di nuovo a me e giuro che ti strappo la mercanzia a mani nude.» Strinsi le dita sulla sua maglia, lo tirai più vicino a me. Volevo che sentisse tutto il ghiaccio della mia voce e del mio sguardo scavargli nelle ossa, fino a paralizzarlo. «Sono stato chiaro?»

Non gli vedevo gli occhi – erano troppo in ombra – ma le labbra di Mathias si inarcarono verso l’alto, nonostante il dolore. Stese un sorriso diverso da quelli che aveva esibito prima, più mellifluo, come la sua voce. «Potrebbe inaspettatamente piacermi, lo sai?»

La mia mano che stringeva sul suo bavero ebbe un fremito, le vene si gonfiarono e pulsarono fra le nocche sbiancate.

Sollevai il libro in verticale e glielo scaraventai sulla testa, affondando l’ultimo colpo.

Mathias cadde di faccia e rimase a terra, spiaccicato sul marciapiede. Gilbert, Arthur e Francis erano arretrati. Sbirciavano la scena da dietro l’angolo di muretto dietro il quale erano andati a nascondersi.

Compii un passo all’indietro, la mia ombra si allargò addosso a Mathias e lo seppellì nel buio. Restrinsi le palpebre. «Stai lontano da me, pezzente.»

Mathias emise un rantolio che rimase soffocato fra le sue labbra e il cemento impolverato, fece strisciare un braccio lungo la pancia e si grattò la testa, nel punto dove l’avevo colpito.

Girai i tacchi e proseguii verso casa, a passo lento, come se non fosse successo niente.

Gli altri tre sgusciarono da dietro il muro, corsero verso Mathias, e il suono dei loro passi valicò i deboli gemiti di dolore che uscivano dalle sue labbra.

«Schieße, che razza di... Domani ti farà malissimo, lo sai?»

Mathias gorgogliò un gemito, aveva ancora la faccia spiaccicata al pavimento. «E secondo te adesso non lo fa?»

«Ma chi diavolo era quello?»

«Secondo voi se lo pagassi lo rifarebbe anche a me?» chiese Francis, e una punta di malizia si insinuò nella sua voce. «Senza vestiti, però.»

«Francis!»

Riaprii il libro alla pagina dove avevo segnato l’orecchietta e buttai un ultimo sguardo all’indietro da sopra la spalla. Tanto per vedere se almeno si fosse già rialzato da terra.

Mathias si era tirato sulle ginocchia, Gilbert lo teneva per un braccio e Francis per l’altro, e aveva ancora il viso basso. Scosse la testa, Francis gli diede una strofinata in mezzo ai capelli, ridendo, sempre nel punto in cui lo avevo colpito con il libro, e Mathias sollevò lo sguardo.

Incrociammo gli occhi e Mathias mi sorrise. Fu un sorriso più ridicolo perché aveva già la guancia gonfia e rossa per il primo colpo che gli avevo sbattuto sulla faccia, ma anche più vero e spontaneo. Non mi sorrideva per accattivarmi. Mi sorrideva perché voleva farlo e basta.

I suoi occhi azzurri apparvero più luminosi di prima, anche rispetto a quando mi aveva chiesto se poteva toccarmi il sedere. Per un attimo mi piacquero. Mi piacquero sul serio, e quella sensazione mi confuse.

Mi girai e affrettai il passo, prima che anche solo uno di loro si accorgesse che la durezza della mia espressione si era un po’ sciolta. Sentii per la prima volta il tiepido calore di quel pomeriggio di primavera toccarmi davvero la pelle, il profumo dei fiori appena sbocciati divenne un sapore buono che mi addolcì la bocca, e i piedi camminarono più veloci e più leggeri.

Non riuscii più a leggere nemmeno una riga.

Arrivai a casa, e la sensazione del petto più caldo mi accompagnò fino a sera.  

 

* * *

                                    

Riapro gli occhi.

Mi è salito il mal di testa, la luce delle lampade sulla scrivania batte un colpo di dolore dritto sulle tempie che fa pulsare tutta la fronte come se avessi ricevuto una martellata sul cranio.

Sospiro e mi stropiccio le palpebre, facendo alternare i lampi bianchi ai lampi neri che scintillano contro le dita schiacciate alla pelle. Schiudo le ciglia, la nebbiolina di fumo nero si dissolve, e lo sguardo mette a fuoco il libro ancora aperto. La pagina è sempre quella, la matita posata nello spacco fra le due ali di carta, e non una sola sottolineatura in più.

Il ragazzo di prima se n’è andato. Ce ne sono solo altri due che si sono sistemati verso la fine della tavolata, il tizio seduto di fronte a me sta rimettendo il suo libro nella borsa, il bibliotecario con il carrello torna a passare alle mie spalle e tutti i volumi che trasportava sono svaniti, rimessi al loro posto sugli scaffali.

Spero di non essermi addormentato in piedi. Ieri sera devo aver proprio dormito male, se è da stamattina che non riesco a tenere gli occhi aperti.

Irrigidisco i polpastrelli contro le tempie, socchiudo le palpebre, la superficie color miele del tavolo si sfoca sotto il riflesso della lampada.

Ieri sera...

Il pesante senso di stanchezza che grava sulle ossa e attorno agli occhi mi torna a risucchiare nel ricordo di ieri, nel buio della camera da letto, steso sul materasso con i vestiti ancora addosso, e senza nemmeno aver disfatto le coperte, nonostante il gelo della camera. Però non sentivo freddo. Un braccio di Mathias mi avvolgeva i fianchi e l’altro mi scorreva sopra la spalla, la mano carezzava delicatamente i miei capelli, pettinandoli dietro l’orecchio. Ogni tanto le dita mi toccavano la pelle e le sentivo fredde e ruvide, ma non mi dava fastidio. Avevamo lasciato le tende aperte. Il raggio di luce che non capivo se fosse quello della luna o quello proveniente dai condomini vicini ci teneva avvolti in un chiaro lenzuolo bluastro e tingeva le ombre sul viso pallido di Mathias steso sul cuscino vicino a me, riempiendo i suoi occhi di una tristezza infinita.

Solo dopo mi è venuto più vicino, mi ha abbracciato più stretto, ha incrociato le braccia dietro le mie spalle, e si è arricciato contro il mio petto. Parlava piano, quasi sussurrando, e la voce tremava come il suo abbraccio. “Io pensavo che tu per me saresti stato così: solo un gioco. Per tutta la vita non ho fatto altro che prendere e buttare tutto quello che mi circondava come se fosse stato un gioco senza rischio.” Le sue mani si aggrapparono a me, come per non farmi scappare. Mathias intrecciò le gambe alle mie e tenne lo sguardo basso, la testa rannicchiata sotto il mio mento. “Non ho mai preso niente sul serio. Sono scappato per starmene lontano dalle sbarre, dalle catene che mi sono sempre sentito imporre, e alla fine mi sono ritrovato intrappolato in un rovo di filo spinato da cui non c’è uscita.”

Ebbi subito l’istinto di toccargli il tatuaggio, di far correre le dita lungo il profilo dell’orologio in rilievo. Era rosso, tutto segnato dalle graffiate che tagliavano in due il quadrante rotondo senza lancette, il groviglio di filo spinato incastrato sugli orli, e la scritta dei Siberian Cubs a riempirne lo spazio. Mathias mi trattenne la mano sul collo. Aprii le dita, gli carezzai la pelle della gola sfregiata, risalii la nuca e l’attaccatura dei capelli. Il suo cuore batteva lento, la vena pulsava sotto la mia mano e mi trasmetteva un vivo senso di calore, nonostante la pelle fredda. Chiusi gli occhi e mi concentrai solo su quel palpito, sul tu-tum che vibrava attraverso il mio tocco, sulla sensazione del suo collo che si muoveva a ogni respiro, sul fiato così flebile che mi intiepidiva il petto, sulla stretta disperata del suo braccio attorno al mio fianco.

Mathias strinse di poco la presa. La voce tornò a vibrare contro il mio petto. “Mi dispiace di averti coinvolto in tutto questo. Perché se...” Non ha mai pianto davanti a me. Quello è stato l’unico momento in cui pensai davvero che l’avrebbe fatto. “Se avessi saputo fin da subito che tu saresti diventato più di un gioco, più di una delle mie stupidaggini, se avessi saputo fin da subito che saresti diventato la prima cosa importante e per cui valeva la pena di vivere, non mi sarei nemmeno mai avvicinato a te.” Mathias slacciò da dietro la mia schiena e la posò sulla mia guancia. “Perdonami se ti sto rovinando la vita.” Mi carezzò. “Perdonami se non sono in grado di proteggerti.”

Sbatto piano le ciglia, e il ricordo mi lascia addosso un fastidioso formicolio che mi fa male al petto.

Proteggermi...

Raccolgo la matita dal libro, la infilo nella borsa senza nemmeno preoccuparmi di tirare fuori il portapenne, chiudo il volume e sposto la sedia per alzarmi e andarmene.

Eppure sento di essere io quello che non è in grado di proteggere lui.

   
 
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