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Autore: FedyOoO    11/03/2018    0 recensioni
Halley Wright è una ragazza canadese priva di sentimenti. L'unica cosa che riesce a fare è commentare in modo cinico e sarcastico tutti gli avvenimenti intorno a lei ed è troppo impegnata a stare sola con sé stessa per occuparsi delle esigenze altrui.
A sedici anni compirà un viaggio che le cambierà la vita e modificherà il suo modo di vedere il mondo: imparerà cosa sono la paura, la compassione, il coraggio, la tolleranza e, se all'inizio erano le divinità del pantheon nordico a volerle impartire una lezione, a quel punto sarà proprio Halley che insegnerà loro qualcosa di ancora più grande.
Pillole di un progetto che prevederà più capitoli: la pubblicazione di questa versione ridotta ha il fine di verificare il gradimento dei lettori.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Verðmæti nìu heima: Il valore dei nove mondi-versione breve
Il luogo in cui mi risvegliai non era certo casa mia. Mi guardai attorno e realizzai di essere in una radura: la vegetazione intorno era fitta come non l’avevo mai vista, si respirava un’aria umida che aveva un forte odore di rugiada, e in lontananza potevo ammirare una sorgente d’acqua limpida, la quale scorreva da chissà dove. Sembrava quasi un mondo extraterrestre e, come mi resi conto in seguito, in effetti lo era. Dopo aver riordinato un po’ le idee mi alzai e cominciai a mettere i primi passi perlustrando, per quanto mi concedesse il buonsenso, quello strano e sconosciuto territorio. A un certo punto credetti di essermi addentrata troppo nella vegetazione, giacché la sorgente era completamente sparita dalla mia vista e intorno a me non riuscivo a vedere altro che alberi altissimi dai tronchi ricoperti di muschio ed erba ovunque. Realizzai dopo un po’ di essermi persa, e fu in quel momento che vidi le foglie muoversi. Mi mossi istintivamente verso il fruscio proveniente da poco lontano e da un cespuglio spuntò fuori uno scoiattolo. Fin lì tutto sarebbe stato normale, se non ché il suddetto iniziò a parlare.
«Si identifichi, signorina. È strano trovare gente da queste parti, quindi è necessario che lei lo faccia».
Rimasi allibita al punto che le mie facoltà cognitive si ridussero pressappoco a quelle di un procione in fin di vita: ci misi parecchi secondi per rispondere a quella domanda con un’altra.
«Come, scusa?»
«Ha capito benissimo: si presenti. Deve dirmi il suo nome, la stirpe da cui proviene, razza...»
Il bizzarro animale non finì la frase perché io lo interruppi.
«Ma che...stirpe? Razza? Di che cosa stai parlando?!»
Ero decisamente confusa: davvero non riuscivo a capire che cosa intendesse. Ad ogni modo non ebbi mai modo di presentarmi come lo scoiattolo voleva, giacché una ragazza vestita con un’armatura e che aveva grandi ali da corvo ci si parò davanti e parlò.
«Sempre così diffidente, Ratatoskr. Non c’è nulla da temere: questa ragazza è la Prescelta di cui ci aveva parlato Mìmir», e ciò detto si voltò verso di me. «Halley Wright, giusto?»
Sempre più basita e interdetta annuii con un cenno del capo e lasciai che la “creatura” appena giunta continuasse il suo discorso.
«Povera ragazza, non devi capirci niente di quello che sta succedendo. Il luogo in cui ti trovi è la Radura di Hvergelmir, dove scorre l’omonima sorgente che contribuisce a mantenere in vita Yggdrasil, il grande frassino che sorregge i nove mondi. Questo scoiattolo è Ratatoskr, che vive tra le fronde di Yggdrasil, mentre il mio nome è Hildr e sono una valchiria. Normalmente il mio compito è quello di vigilare sui campi di battaglia e condurre i guerrieri morti con onore nella Valhalla, la dimora degli spiriti valorosi, per conto del sommo padre degli dei Æsir, Odino, o a Fólkvangr, dalla dea Freyja; tuttavia in questo caso sarò la tua guida durante la visita dei mondi più ostili dell’universo. A prendere il mio posto in seguito sarà il grande e saggio Mìmir, che ti farà strada attraverso le località più pacifiche e meglio di me saprà spiegarti cosa vogliamo che tu apprenda.»
Quando finì scoppiai in una fragorosa risata. Quella strana tipa stava dicendo così tante assurdità che non sapevo neanche io cosa pensare, ma ero sicura che tutta quella situazione fosse terribilmente grottesca.
«Che cos’è, uno scherzo? Una candid camera? Andiamo, finiamo questa pagliacciata e riportatemi a casa mia!»
«Non è possibile, giovane umana» intervenne lo scoiattolo, che era rimasto zitto. «Il suo ritorno a casa non è consentito fino al compimento della profezia»
Ancora con quella storia: prescelta, profezia...anche se fosse stato, chi mi avrebbe assicurato che stessero dicendo il vero? In ogni caso pensai che se fossi stata al gioco mi avrebbero lasciata andare prima o poi, così mi tranquillizzai e diedi loro corda.
«D’accordo, ho capito. Dunque, quale sarà la nostra prima tappa?» chiesi rivolgendomi alla “valchiria”.
«Helheim, il regno dell’oltretomba governato da Hel, figlia di Loki l’ingannatore».
«Iniziamo con qualcosa di allegro, allora!» commentai sarcasticamente, ricevendo un’occhiataccia da parte di Ratatoskr e un sospiro rassegnato di Hildr.
«Se hai finito possiamo anche andare: sali in groppa al mio cavallo» mi intimò, e feci come mi aveva detto; dopodiché ci alzammo entrambe in volo: lei con le proprie ali e io in groppa al cavallo alato.
Realizzai che il volo che avevamo compiuto era stato in realtà una discesa verso il basso. Ci ritrovammo in un luogo decisamente tetro e spoglio, che io e Hildr percorremmo a piedi; arrivammo quindi presso un fiume, il quale si attraversava per mezzo di un ponte dorato, l’unica cosa che risplendesse in tutto quel buio. Davanti ad esso vi era una donna, che stava probabilmente di guardia. Hildr, che era stata in silenzio per tutto il tragitto, parlò a quella figura quando le ci avvicinammo.
«Salute, Móðguðr».
«Salute a te, Hildr. Quali circostanze ti portano qui ad attraversare l’oscuro fiume Giöll?»
«Ho necessità di condurre la Prescelta da Hel. Potresti lasciarci passare, per cortesia?»
«Naturalmente. Prego»
Dopo quel breve dialogo, nel quale nonostante certi convenevoli si percepiva per via del loro tono di voce una chiara ostilità tra le due, la sentinella si scostò per lasciarci passare. Dopo un’ora e mezza circa di cammino raggiungemmo una specie di fortezza, che Hildr mi disse chiamarsi Éliúðnir, ovverosia “Bagnata dalla pioggia”. Davvero rassicurante, pensai in quel momento, ovviamente con sarcasmo.
Appena fummo giunte davanti ai cancelli, quelli si aprirono e noi entrammo; ci facemmo strada all’interno della residenza finché non arrivammo all’ingresso di un’enorme stanza. Hildr aprì la porta e potei vedere quella che rassomigliava a una sala reale, solo decisamente più macabra. All’interno due figure sedevano ciascuna su un trono: una era una figura maschile, l’altra una figura femminile. La mia guida mi fece cenno di avvicinarmi e, anche se in modo alquanto circospetto, io le obbedii. In quel modo potei scrutare i due più chiaramente: lui era niente male nell’aspetto fisico, lei, che doveva sicuramente essere Hel, era invece alquanto particolare. Un lato del suo corpo era quello di una normale ragazza di circa la mia età, ma l’altro lato sembrava appartenere a un cadavere in avanzato stato di putrefazione. Fu lei a iniziare il discorso; in quel momento scossi la testa per liberarmi dai pensieri inutili e la alzai per incontrare il suo sguardo.
«Così, Voi siete la Prescelta. Siete un po’ anonima, senza offesa...ma non è mio compito giudicare, ci sarà sicuramente un motivo se il saggio Mìmir ha veduto nella fonte il Vostro giovane viso».
«Dunque...che cosa dovrei fare?» chiesi quando ebbe finito di commentare il mio essere anonima. In effetti, non capivo ancora la ragione per cui fossi stata mandata lì.
«In realtà, nessuna impresa Voi dovrete compiere: dovete solo sederVi e ascoltare i nostri racconti. Come avrete potuto notare, il Vostro mondo, Miðgarðr, è diventato terribilmente ipocrita e corrotto. La ragione per cui avete necessità di affrontare questo viaggio è che dovete apprendere e ricordare agli altri esseri umani quali sono le loro origini, il loro scopo e come avranno fine tutte le ere. E adesso, possiamo cominciare. Baldr, vieni avanti!».
Quindi il ragazzo che era seduto lì accanto si schiarì la voce e cominciò a spiegarmi molte cose: mi raccontò delle origini dell’universo e di come esso si era strutturato nel corso dei millenni; mi rese inoltre erudita di molte vicende accadute tra gli dei e, in particolare, mi rivelò le circostanze della sua morte.
«Quando vivevo in mezzo alla mia gente, avevo la fortuna d’esser amato molto. Di tutti loro godevo del rispetto, e in particolare della mia cara madre, la dolce Frigg che il destino d’ogni persona conosce, anche se non dice. Ella fu che, quando iniziai ad avvertire i presagi dalla mia imminente morte, attraversò tutti i nove mondi e con tutti gli enti della natura fece un patto: essi in alcun modo mi avrebbero potuto ferire. Non lama, non malattie avrebbero potuto nuocermi. Solo un ramoscello di vischio non fece questo patto; esso era troppo giovane, ma del mio popolo nessuno lo sapeva. Per celebrare la mia nuova invulnerabilità, diedero gli Æsir una gran festa, e durante questa festa, per testare il patto siglato da mia madre, fui condotto al centro della sala e tutti iniziarono a lanciarmi contro degli oggetti, e furono meravigliati del fatto che, qualsiasi cosa mi colpisse, non mi procurava ferita alcuna. Tuttavia, il malvagio Loki, che sempre è stato invidioso del mio buon nome e della mia posizione di figlio prediletto di Odino, con l’inganno del seiðr da Frigg si presentò con aspetto di donna, e da lei apprese quale fosse l’unica cosa che avrebbe potuto uccidermi. Così quel folle ritornò dove stavamo festeggiando e approcciò mio fratello Hoðr, purtroppo nato cieco. Gli diede un dardo fabbricato con del vischio e lo aiutò a mirare: la freccia mi colpì trafiggendo il mio petto, e io caddi a terra morto. E quando Hel disse a Hermóðr, un altro mio fratello, che mi avrebbe lasciato tornare se tutto l’universo avesse pianto la mia dipartita, Loki, travestito da gigantessa, non versò una lacrima, e mi condannò a restare qui fino alla fine dei tempi».
Quando Baldr finì il suo racconto, Hel controbatté.
«Stolto, tu e gli altri Æsir non avete mai capito le intenzioni del mio rispettabile padre. Quello ch’ei fece non fu per invidia, emozione più conosciuta a voialtri piuttosto che a lui: egli ti uccise perché la tua esistenza minava gli equilibri del nostro Universo, di tutti i nove mondi. Abominio è colui che incarna la somma perfezione, abominio che l’Universo tutto rigetta! E quando il Ragnarọk verrà e tu risorgerai, ancora una volta soccomberai per mano di mio padre e i suoi alleati, giacché tu e alcun mondo sarete compatibili mai!»
Quando tra i due la discussione cominciò a farsi più accesa. Hildr, mi si avvicinò e congedò entrambe, dopodiché uscimmo dalla dimora di Hel e tornammo al ponte.
«Cosa intendeva Hel quando ha detto che l’Universo rigetta la somma perfezione? Non corrisponde forse a ciò che sulla mia Terra chiamiamo “Dio”?» chiesi curiosa alla valchiria. Anche se ero ancora abbastanza scettica riguardo a tutta la situazione nel suo complesso, non potevo negare di esserne intrigata: a casa mia le mie giornate erano un ciclo infinito in cui si ripetevano sempre gli stessi eventi; tutte quelle novità per me erano una ventata di aria fresca, e avevo capito che dovevo cogliere questa opportunità. Se quello era tutto un sogno, sapevo che non era ancora momento di svegliarmi.
Dopo aver attraversato la gelida desolazione di Niflheim stavo praticamente per morire di ipotermia: canotta e pantaloncini non vanno decisamente bene per andarsene a spasso in mezzo a una landa ghiacciata e, anche se il Canada è un territorio non proprio caldissimo, quello era troppo persino per me. Ma, ehi, non è mia la colpa! Prima di trovarmi in questa bizzarra situazione stavo dormendo nel mio letto, nella mia camera, a casa mia: di certo non potevo aspettarmi di essere trasportata senza preavviso in un altro luogo! Magari saremmo potute andare a Mùspellheim dopo Niflheim, e non prima: almeno in questo modo mi sarei scaldata dopo tutto quel gelo. Inoltre, il ricordo di quegli inquietanti elfi oscuri nella terra di Svartàlfaheim non mi metteva certo dell’umore adatto per proseguire. Si leggeva chiaramente nei loro occhi che mi volevano morta, e se non fosse stato per la rassicurante presenza di Hildr probabilmente sarei già scappata a gambe levate. Non mi era mai capitato di avere tanta paura, ero abituata a quegli sguardi. Allora perché mi mettevano così tanto a disagio? Sarà un effetto particolare che hanno su di me questi strani posti che sto visitando?
Mentre ero assorta in questi pensieri, la mia compagna di viaggio mi chiamò e mi indicò la meta successiva: Jötunheim, la terra dei giganti di brina. Questa notizia bastò per causarmi un tic nervoso all’occhio e a farmi urlare infastidita contro la valchiria.
«Cosa?! Ma ti rendi conto che, vestita come sono, rischio la vita per il freddo? Procurami un cappotto, almeno!»
«Oh andiamo, cosa vuoi che sia un po’ di neve?»
«Disse quella coperta da capo a piedi con un’armatura di ferro», le rinfacciai.
Hildr sospirò, e fu un sospiro di quelli lunghissimi e colmi di rassegnazione che ormai mi ero abituata a sentire quando me ne uscivo con uno dei miei commenti. Devo ammettere che doveva avere una grande pazienza se ancora non mi aveva abbandonata al mio destino.
«Attendi qui, e guai a te se muovi un passo» mi disse soltanto, e io obbedii.
Dopo circa mezz’ora tornò con una mantella di pelliccia bianca, che a vedersi doveva essere molto calda; poi me la porse e mi intimò di indossarla, e così feci. Da dove ci eravamo fermate a riposare ripartimmo dunque in volo verso Jötunheim; ci mettemmo circa un giorno e mezzo, soste comprese. Contrariamente alle aspettative, non faceva così tanto freddo. Certo, non c’erano temperature da spiaggia tropicale, ma si sopravviveva. Inoltre, non nevicava neanche.
«Ma...non dovevamo andare a congelare ancora?» chiesi perplessa a Hildr.
«I giganti di brina non si chiamano in questo modo perché abitano un posto molto freddo; vengono definiti tali perché il loro primo antenato, Ymir, ebbe i suoi natali tra i ghiacci di Niflheim».
«Ymir? Vuoi dire quel colosso dal cui cadavere è stato creato il mondo? Quello di cui mi ha parlato Baldr mentre mi raccontava delle origini del mondo quando eravamo in Helheim?»
«Precisamente».
«Ma quindi...se qui il clima è più sostenibile, perché mi hai comunque dato questa pelle di...capra, hai detto?»
«Sì, era capra. E te l’ho procurata perché sapevo che altrimenti non ti saresti schiodata da dov’eri neanche sotto tortura», mi rispose Hildr tirando un altro dei suoi sospironi.
«Ah, capisco...» feci quindi io, leggermente piccata dal fatto che mi avesse trattata come una bambina. Senza accorgermene avevo smesso di camminare, per cui la mia guida mi richiamò.
«Hai intenzione di fare le ragnatele in quel punto o vuoi muoverti?»
«Hai ragione, arrivo! ≫ mi scusai, raggiungendola nel frattempo.
«La nostra precisa destinazione è Utgarðr, la cittadella dei giganti. Lì vi è la fortezza di Utgarða-Loki, un tipo a cui piace preparare inganni di tutti i generi per i propri ospiti usando le proprie arti illusorie», si mise a spiegare mentre camminavamo.
«Certo che brulica di gente strana qui, senza offesa», commentai senza riflettere troppo.
«Strano è per te che vieni dalla Terra di Mezzo. In realtà puoi ben vedere che è su quelle che tu definisci stranezze che si regge l’intero Universo, ed è a causa di queste che un giorno esso perirà».
«Allora che cosa mi dici della scienza? Quello che ho studiato a scuola fino ad adesso è tutto falso?»
«Assolutamente no. Tuttavia, devi capire che le regole della Natura di cui tu sei a conoscenza valgono solo nel momento in cui tu sei a Miðgarðr: una volta uscita da esso, le leggi della fisica, della genetica, la struttura biologica degli organismi, cessano di esistere, o meglio, sono rimpiazzate da leggi differenti. È così che dunque le divinità possono generare figli dall’aspetto mostruoso con i giganti, che Bifröst sorregge le cavalcature nonostante sia solo un fascio di luce, è così che i morti torneranno a deambulare durante il Ragnarọk».
«Se torno indietro e racconto questa roba in giro, mi chiudono immediatamente in manicomio...», dissi portandomi una mano davanti agli occhi in segno di disappunto. Tuttavia, Hildr non rispose a quel commento e neanche sospirò.
«Siamo arrivate», annunciò soltanto, e avanzò fino a un enorme cancello. Questo era sigillato, ma le sbarre erano così larghe che due figure esili come noi ci sarebbero tranquillamente passate l’una al fianco dell’altra con uno stacco di circa un metro tra una di noi e il ferro, dunque attraversammo quello spazio. Entrate nella fortezza raggiungemmo una sala piuttosto affollata; ci demmo ai convenevoli con la sentinella di turno e questi ci condusse dal fantomatico Utgarða-Loki nominato in precedenza da Hildr. Egli era ancora più alto e grosso degli altri, e decisamente più minaccioso: la sua faccia mi faceva venire voglia di nascondermi sotto il tavolo, ma resistetti e cercai di sostenere il suo sguardo. Non poteva essere peggio del mio professore di matematica, in fondo. Nulla è peggio di quello.
«È tardi per domandare notizie quando lungo è il cammino», esordì quel terribile figuro. «Ma mi sbaglio se penso che codesta umana che ho davanti sia la Prescelta di cui Mìmir aveva profetizzato la venuta?»
«Non sbagliate affatto, signore», rispose Hildr al mio posto, adottando un registro completamente diverso da quello che usava con me.
«E ditemi», fece il gigante rivolgendosi a me. «In quale disciplina Voi pensate di essere più preparata? Non può rimanere qui fra noi chi non possegga…». Mentre parlava, la mia guida lo interruppe; la fermezza della sua voce era impressionante.
«Con tutto il rispetto, mio signore, ma credo che non dovremmo dilungarci troppo nei Vostri soliti svaghi. Voi sapete chi sono io e chi è la ragazza che è con me, e conoscete il motivo per cui siamo giunte fin qui. Vi pregheremmo pertanto di sedersi comodamente e di raccontare a costei la Vostra storia».
«E sia», rispose Utgarða-Loki, sedendosi sul pavimento e invitandoci a fare lo stesso. Poteva almeno farci portare una sedia, pensai: dopotutto ne bastava una; io e Hildr ci saremmo state entrambe e sarebbero rimasti almeno trenta metri quadri di spazio vuoto. Una volta che ci fummo accomodate, il gigante cominciò a raccontare.
«Prima di Voi, molti viandanti sono giunti alla mia fortezza a domandar ristoro o udienza. Uno di questi fu quel dio della stirpe degli Æsir che ha nome Thor. Costui certo non spicca per intelligenza e astuzia, ma senza ombra di dubbio egli possiede una forza che non ha pari in nessuno dei nove mondi del nostro Universo; tuttavia, quando giunse qui, lo vidi fisicamente poco prestante rispetto a quanto immaginassi, per cui decisi di metterlo alla prova per verificare se le molteplici voci che giravano sul suo conto fossero veritiere. Fu così che chiesi ai suoi compagni e a lui di mostrare a me e alla mia gente in che cosa loro fossero più talentuosi, e così fece. Quel suo parente che ha nome Loki, che però da parte di padre è associato alla nostra stirpe, asserì che suo talento fosse riuscire a mangiare il proprio cibo il più velocemente possibile; e io lo feci competere con un mio compagno che ha nome Logi, in una sfida in cui avrebbe vinto colui che per primo fosse riuscito a divorare l’intero contenuto del proprio piatto. Essi mangiarono entrambi avidamente, ma il compagno di Thor perse la gara. Chiesi poi al servitore che era con loro, che ha nome Þialfi, quale suo talento egli volesse mettere in mostra, e questi scelse la corsa. Chiamai allora uno dei miei giovani apprendisti che ha nome Hugi e gli chiesi che gareggiasse con Þialfi nella corsa. Essi erano entrambi molto lesti di piede, ma il servitore di Thor perse la gara. Chiesi infine a Thor in che disciplina egli volesse misurarsi, e mi rispose che una cosa che amava fare era competere con i propri compagni durante i banchetti per vedere chi riuscisse a bere di più. Feci dunque portare a Thor un corno ricolmo di bevanda e gli intimai di bere da esso, affermando che sicuramente un uomo come lui lo avrebbe svuotato in un solo sorso, che alcuni riuscivano a svuotarlo in due, ma che nessuno era così scarso da non finire il contenuto in tre sorsi. Thor tuttavia, dopo tre sorsi, non ebbe svuotato il corno, e mi chiese pertanto di potersi misurare in un’altra gara. Vedendolo in difficoltà gli assegnai un compito semplice: doveva egli sollevare il mio gatto. Ma anche questa prova non andò a buon fine, giacché Thor riuscì a sollevare solo una zampa dell’animale. Egli dunque si infuriò e chiese di combattere contro uno di noi. E vedendolo ancora in difficoltà, chiesi alla mia balia Elli di lottare contro Thor. Lo scontro fu durissimo ed estenuante, prima che Thor cadesse sconfitto su un ginocchio. Tuttavia, feci accomodare i tre viaggiatori nella mia dimora, giacché io conoscevo la verità sull’esito di quelle sfide. La mattina seguente infatti, spiegai a Thor, il quale era deluso e provava vergogna, che in realtà lui era molto più temibile di quanto le voci raccontassero, poiché le prove a cui avevo sottoposto lui e i suoi compagni erano tutte frutto di illusioni ottiche: il gigante con cui Loki fece a gara nel mangiare era in realtà il fuoco violento, che bruciò carne, ossi e vassoio; il ragazzo con cui Þialfi si confrontò era in realtà il mio pensiero, e nessuno può essere più veloce di esso; infine, il corno da cui Thor bevve aveva il proprio fondo a largo dell’oceano, che egli svuotò quasi interamente; inoltre il gatto era in realtà la coda di Miðgarðrsormr, il quale avvolge tutti i nove mondi tra le sue spire, e la vecchia con cui combatté era l’incarnazione della vecchiaia, e fu prodigioso che Thor cadesse solo su un ginocchio contro di lei, anziché soccombere. Dopo tali rivelazioni, il dio se ne andò soddisfatto con il proprio seguito e in quel momento io, con un’illusione, nascosi agli occhi suoi e dei suoi compagni questa fortezza, perché avevo paura di loro».
Terminata la storia, Utgarða-Loki e Hildr mi chiesero cosa ne pensassi e quale lezione avessi tratto da quella vicenda.
«Sicuramente la cosa più evidente è che non bisogna giudicare qualcuno dalle apparenze. Ad esempio, una persona che sta sempre zitta e non parla mai con nessuno, non è detto che lo faccia perché ama stare da sola: forse ha solo paura di fare il primo passo. Mi pare però di capire inoltre che quelle sconfitte, seppur non vere, che Thor ha subito, erano riuscite in qualche modo a ridimensionare il suo ego, che si è gonfiato più di prima dopo esser venuto a conoscenza delle imprese che aveva in realtà compiuto. Questa è la dimostrazione di come molto spesso gli uomini cerchino la gloria e si compiacciano di essa quando la ottengono, diventando arroganti e superbi. Tale arroganza e superbia li porta anche a non saper gestire l’ira nel momento del fallimento: Thor infatti, quando perde la seconda gara, si infuria a tal punto da voler scontare in modo del tutto irragionevole con uno qualsiasi dei presenti, pur essendoci l’evidenza che in uno scontro non avrebbe avuto speranze», risposi io, sperando di averci preso almeno con una delle mie considerazioni. Hildr annuì soddisfatta e poi mi interrogò ancora.
«E della tua esperienza, cosa mi dici?»
E allora mi bloccai. C’erano state volte in cui mi ero comportata come Thor? E c’erano state volte in cui mi ero comportata come Utgarða-Loki? Era la prima volta che ci riflettevo. Quando trassi le mie conclusioni quasi impallidii: davvero ero stata così cieca per tutto questo tempo? Davvero non mi ero mai resa conto di quanto potessi risultare fastidiosa agli occhi degli altri con certi miei atteggiamenti? E davvero gli altri erano così ciechi a propria volta da non voler indagare più di tanto nell’animo di una persona preferendo molto di più sentenziare riguardo a quello che si vede in superficie?
Quando io e Hildr uscimmo dalla fortezza sentivo un nodo allo stomaco che sembrava non mi avrebbe lasciata in pace per un bel po’ di tempo. La valchiria mi guardò preoccupata, ma non disse nulla. Probabilmente sapeva già cosa mi passava per la testa. Cominciavo a capire. Cominciavo a sentire. Così tante emozioni, positive e negative, stavano quasi suonando un concerto dentro di me, e non potevo far nulla per far cessare quella musica. Cominciavo a sentire. E questo, in qualche modo, faceva male di per sé stesso.
«Siete quasi giunta alla fine del Vostro viaggio, Valið. Ultima meta è Asgarðr, la terra delle somme divinità Æsir. Avete qualche domanda da fare, prima di rimetterci in cammino?»
A parlare fu Mìmir, la guida che ha sostituito Hildr subito dopo esserci congedate da Utgarða-Loki e con cui ho attraversato i posti più belli dell’Universo: Àlfheim, terra degli elfi luminosi, e Vànaheim, dove vivono le divinità della stirpe dei Vani. Mìmir era completamente diverso dalla valchiria nei modi, e aveva l’aspetto di un vecchio barbuto un po’ evanescente. Durante il viaggio era solito chiedermi se avessi delle domande, e quando lo interrogavo aveva sempre pronta una dettagliata e soddisfacente risposta.
«Mi chiedevo che posti visiteremo di preciso e con chi avrò il piacere di parlare, Grande Saggio», gli dissi con una buona dose di curiosità nella voce.
«Nostra destinazione finale sarà la dimora di Odino, ma non è con lui che parlerete, bensì con sua moglie Frigg. Tuttavia, prima di ciò al cospetto di un’altra persona sarete condotta: Vi ricordate quel dio che molto spesso interviene nelle vicende rilevanti e che si chiama Loki?»
«Sì, è colui che viene definito Calunniatore degli Æsir. Ma perché dovrei discutere con un personaggio del genere?»
«Dopo che avete ascoltato tante dicerie diffuse da terzi sul suo conto, è giusto quantomeno che egli Vi fornisca la propria versione dei fatti. Cosa ne pensate?»
«Penso che costui potrà dire ciò che vuole, ma non sono certa che cambierò idea. Ad ogni modo, gli concederò di ascoltarlo: voglio sentire cos’ha da dire e poter conoscere le sue ragioni».
«È una saggia decisione la Vostra; Vi consiglio solo di non giudicare troppo in fretta: vagliate attentamente tutte le informazioni a Vostra disposizione, e solo in tal modo conoscerete la verità».
Terminato questo scambio di battute proseguimmo lungo la nostra strada in silenzio, finché non raggiungemmo una tetra caverna. Gocce d’acqua stillavano dal soffitto e i miei passi rimbombavano in quel luogo così sinistro. Arrivammo dopo dieci minuti presso l’ingresso di una camera della grotta, da cui stranamente proveniva della luce; lì Mìmir mise una mano sulla mia spalla e mi parlò.
«Valið, credo che Vi lascerò qui: io non posso rimanere al buio troppo a lungo e ho bisogno di uscir fuori, ma non temete, perché anche se sarete sola non Vi verrà fatto alcun male».
Io annuii non molto convinta, ma ebbi il coraggio di voltarmi verso l’uscio della camera, avanzando verso di esso e guardando dentro dopo essermi fermata. Vidi lì tre pietre e due figure: una antropomorfa e un serpente. Aguzzai meglio la vista e riuscii a scorgere un uomo bello d’aspetto nonostante avesse il viso deturpato da ustioni, dai lunghi capelli rosso fuoco che gli cadevano sulle spalle e gli occhi verdi come la vegetazione nella radura in cui mi ero svegliata solo qualche giorno prima; questi era legato alle tre pietre con...aspettate, era un pezzo di intestino quello?! Potrei giurare di aver fatto uno sforzo immane per non vomitare. La testa dell’animale era bloccata venti centimetri circa sopra il viso di lui, mentre gocce di quello che probabilmente era veleno colavano dalla bocca del serpente. L’uomo, ogni volta che il veleno gli cadeva sul volto, in prossimità degli occhi, urlava voce roca e straziata e si dimenava con violenti spasmi. Quella scena mi lasciò talmente terrificata che, dimenticando persino di presentarmi, accorsi vicino a quella persona e mi venne in mente solo una cosa da dire.
«Chi vi ha fatto questo?»
Ovviamente non ricevetti risposta: si stava contorcendo talmente tanto dal dolore che probabilmente non si era nemmeno accorto della mia presenza. Mi sforzai per restare calma e cercare un modo per liberarlo, anche se in realtà stavo andando nel panico perché non avevo la più pallida idea di che cosa fare. Dopo aver riflettuto un attimo estrassi un coltello che Hildr mi aveva in precedenza dato per autodifesa, mi avvicinai al serpente e lo afferrai con forza, dopodiché gli tagliai la testa e la gettai lontano. Infine, liberai l’uomo dalla stretta della corda di intestino che lo teneva legato alle pietre e quello, anche se parecchio malconcio, riuscì a muoversi e mettersi seduto. Io nel frattempo tremavo come una foglia e il coltello cadde dalle mie mani; se quell’animale, nel divincolarsi, mi avesse morsa, non sarei più in vita; avevo maneggiato organi di chissà quale persona o bestia per slegare il rosso. Quei pensieri non lasciavano la mia mente, come se il rischio di morire avvelenata dal serpente e l’orrore per le interiora rimosse ci fossero ancora, mentre la persona che avevo aiutato si scrollò dello sporco dalle spalle con movimenti lenti; mi sembrava affaticato. Passò qualche minuto prima che lui mi rivolgesse la parola.
«Ehi, ragazzina. Penso che tu abbia combinato un bel casino; il grande capo laggiù a Iðavöllr non sarà affatto contento di questo».
Me lo disse con un sorriso beffardo, quasi come se in qualche modo godesse del fatto che mi sarei presa una strigliata da quel grande capo (credo si riferisse a Odino) o qualcosa del genere. I suoi occhi però erano intrisi di...tristezza? Risentimento? Gli feci dunque una domanda.
«Siete Voi forse Loki di Asgarðr?»
Lui fece una risatina e poi rispose.
«Sei perspicace, bimba. Ma non usare quel tono formale con me: per prima cosa, non sono chissà quale eminente figura per farmi dare del “Voi”; secondo, mi fa venire il voltastomaco sentirti parlare così. Mi ricordi quegli infami degli altri Æsir».
«D’accordo, Loki...ascolta, ho sentito parlare molto e molto male di te: ti descrivono come un ingannatore senza scrupoli, senza morale e che non ha problemi a sporcarsi le mani. Mi hanno anche riferito di certe tue abitudini molto discutibili. Ora però sono qui davanti a te perché è da te che voglio sentirmi raccontare la tua storia. Puoi dunque dedicarmi il tuo tempo?»
«Non che abbia molto altro da fare...voglio dire, finalmente sono libero da quel supplizio dopo millenni e in teoria potrei andarmene dove voglio, ma non avrebbe senso dal momento che non ho un posto in cui tornare. L’unica cosa che mi è rimasta da quando sono stato condannato a quell’inumana punizione è mia moglie Sigyn. Lei tiene una bacinella e raccoglie lì il veleno del serpente, in modo che non mi vada in faccia; ma ogni volta che il contenitore si riempie ed esce per svuotarlo, non torna prima di tre giorni. Adesso non avrò più bisogno che lei faccia questo per me, e quando tornerà le dirò che se vorrà potrà andarsene: non posso causare altri problemi a quella povera donna che mi ha amato tanto≫.
Lo disse con un tono malinconico, tanto che ebbi pietà di lui e persino di sua moglie: Mìmir aveva ragione, devo ascoltare attentamente tutte le campane prima di giudicare. Intanto, continuai la conversazione.
«Dunque, anche il “perfido” Loki conosce l’amore e la compassione. Perché allora compi azioni malvagie e danneggi gli altri?»
La sua espressione si era fatta seria già da un po’, ma quella domanda doveva essere particolarmente scomoda, perché aggrottò le sopracciglia e spostò lo sguardo verso il basso.
«Vedi, quello che mi ha dato l’Universo al momento della mia nascita è un compito ingrato. Adesso ti faccio una domanda: conosci la differenza tra Bene e Male?»
«Beh, grosso modo sì, ma penso che in qualche modo siano concetti relativi che cambiano in base a tanti fattori».
«Sono punti di vista», commentò lui scrollandosi le spalle. «Ad ogni modo converrai con me che esistono entrambi, no?»
«Sì, questo è vero».
«Quindi immagino che tu sappia che per avere una certa stabilità l’uno e l’altro devono equilibrarsi. Ecco, il mio compito è mantenere questo equilibrio, talvolta aiutando e talvolta mettendo il bastone tra le ruote agli altri. Infatti, molto spesso quegli idioti degli Æsir si sono cacciati fuori dai guai grazie a me e il poco di cervello che mi ritrovo a differenza loro, ma si vede che preferiscono ricordarsi le mie malefatte piuttosto che le mie buone azioni: dopotutto, cosa possono aspettarsi dal figlio mezzosangue di una dea e un gigante di brina? Solo rogne, suppongo. In realtà, ammetto che alcune delle cose che ho fatto non erano necessarie, come quando ho rasato completamente quell’ochetta di Sif, ma in mia difesa vorrei dire che hanno iniziato loro discriminandomi per le mie origini. Mio padre era quel che era: e allora? Sono forse io il suo riflesso nello specchio? Certo che no! Eppure, tutti mi hanno etichettato come “figlio del gigante” e mi hanno sempre disprezzato.»
«Sigyn però ti ama. Se così non fosse, non ti avrebbe seguito fin qui prendendosi il disturbo di alleviarti la pena».
«Sigyn è speciale. Mi è devota da sempre e senza di lei probabilmente avrei scatenato il Ragnarọk con largo anticipo; non ricordo una volta che non mi sia stata accanto; lei mi ha sempre capito, supportato e difeso. Lei riesce a guardare oltre e ad amare anche un disadattato come me».
«Capisco...se devo essere sincera, all’inizio ero scettica su di te e davo ragione sul tuo conto a coloro che ho incontrato prima. Ma ora che ti ho ascoltato, tutto mi è più chiaro: non sei tu il problema. Avrai commesso pure i tuoi errori, alcuni più gravi e altri meno, ma tutti sbagliamo. Gli Æsir però ti hanno riservato una cattiveria del tutto gratuita e in più di un’occasione ti hanno ferito. Mi hanno condotta fin qui perché Miðgarðr sta diventando un luogo corrotto, ma credo che il primo regno ad esserlo in questo Universo sia proprio Asgarðr. Loki, adesso ascoltami. Aspetteremo la tua Sigyn appena fuori dalla caverna insieme a Mìmir, e poi ci presenteremo al cospetto di Frigg e Odino. Ho intenzione di riscattare il tuo nome».
Detto ciò gli porsi la mano per aiutarlo ad alzarsi, e camminammo fuori dalla grotta. Quando ci vide, a Mìmir quasi cadde la mascella, ma gli spiegai la situazione e acconsentì circa i propositi che mi ero prefissata. Dopo un giorno e mezzo Sigyn tornò, ed era la prima volta che vedevo una sorpresa tale negli suoi di qualcuno. Abbracciò il marito col volto rigato dalle lacrime e mi ringraziò fin troppe volte per averlo liberarlo da quella che scoprii in seguito essere una terribile punizione per uno dei “crimini” che Loki aveva commesso. Rivelai anche a lei quali fossero le mie intenzioni, e tutti e quattro partimmo per la sala dove dimoravano gli dei Æsir.
Tutte le strane vicende in cui ero rimasta coinvolta e tutti i racconti che avevo ascoltato mi avevano portata a interrogarmi sulla questione dell’equilibrio tra Bene e Male espressa da Loki; cominciavo sempre più a riflettere su quanto contassero i pregiudizi nell’immaginario collettivo, nella vita della gente. Avevo conosciuto divinità “benigne” completamente cieche e chiuse nella loro apparente, infinita bontà, la quale non lasciava spazio al benché minimo errore; avevo poi conosciuto divinità che invece sbagliavano di proposito e in modo cosciente pur di permettere all’Universo di sorreggersi ancora su quella fragile stabilità che da sempre manteneva con grande fatica. Iniziavo anche a chiedermi quanto effettivamente gli Æsir fossero saggi, e cosa il futuro mi riservasse. Avrebbero capito? Odino avrebbe accettato l’opinione di un’insignificante mortale su temi così complicati da trattare? Non mi restava che tentare, se non altro per mantenere una pace quantomeno provvisoria in Miðgarðr, Asgarðr, e negli altri sette mondi. Non mi restava che tentare, per evitare che il Ragnarọk si scatenasse prima del tempo.
 
   
 
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