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Autore: CHAOSevangeline    12/03/2018    1 recensioni
{ Lietpol }
I suoi occhi verdi, vispi, pieni di vita lo fissavano.
Dio, ti ringrazio.
Aveva pregato Toris, mentre fissava il vuoto. Aveva pregato per giorni, per mesi, forse anni e se non era passato tutto questo tempo così gli era ugualmente parso, che il cielo gli restituisse Feliks. Non solo perché lui non poteva vivere, ma perché Feliks meritava la vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Lituania/Toris Lorinaitis, Polonia/Feliks Łukasiewicz
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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labile [là-bi-le] aggDestinato a rapida scomparsa o a imminente dissolvimento; fugace, effimero, caduco.







Labili confini di smeraldo

 


 
 
C’era una casa nel bel mezzo della verdeggiante campagna polacca che era tanto di Feliks quanto di Toris.
Persino quella campagna era tanto di uno quanto dell’altro; il confine tra i possedimenti di Feliks e di Toris, tra ciò che rappresentava uno e ciò che rappresentava l’altro non era labile, ma inesistente.
L’avevano tracciato sulla sabbia e cancellato con il piede, uno partendo da un’estremità e l’altro dalla sua gemella, per poi incontrarsi a metà strada.
C’era Toris e c’era Feliks. Le loro dita intrecciate perché dove finiva uno cominciava l’altro e così il primo sconfinava fino alla punta delle dita della mano altrui.
I loro sovrani erano stati sposati per tutta la vita, loro sarebbero rimasti sposati per sempre. Il matrimonio di re Ladislao e della regina Edvige era di convenienza. Quello di Feliks e Toris era un matrimonio tra due anime: andava oltre la vita, la morte, le sparizioni e le separazioni.
In quella casa nel bel mezzo della verdeggiante campagna polacca, le dita intrecciate sotto le lenzuola, sul materasso, sapevano entrambi quanto fosse vero.
L’avevano scoperta insieme quella casetta, aprendo la porta cigolante senza grazia, perché Feliks non aveva pazienza nemmeno dopo i timorosi « è una catapecchia, potrebbe crollare con un soffio, Feliks » di Toris.
Feliks.
Era davvero preoccupato per chiamarlo così. Preoccupato o arrabbiato. La seconda scelta era da escludere.
Era troppo pavido, Toris, e Feliks credeva di dover dare l’esempio. O forse erano solo un’anima prudente e una sconsiderata che avevano scelto non solo di convivere, ma anche di unirsi.
Quella casa l’avevano scoperta piena di polvere, forse dimora di qualche topo prima che loro.
« Sarebbe tipo fantastico se la ristrutturassimo, Liet. »
Ristrutturassimo: plurale. Io e te, Liet. Ma sai che sarai tu solo a farlo. Avanti, inizia a lavorare.
E come ogni volta Toris, perché era del tutto succube non di Feliks, ma del bisogno morboso di renderlo felice, aveva accettato. Di improvvisarsi carpentiere, nel 1387, anno in cui Edvige di Polonia si preoccupava come una madre non vedendoli rientrare fino a tardi, e quando accadeva Toris era esausto e gli occhi verdi di Feliks sprizzavano felicità.
Feliks non conosceva il silenzio: era più strano non scoprire qualcosa dal suo irrefrenabile bisogno di chiacchierare, di dare voce a qualsiasi pensiero, gioia o dolore che fosse, che non sentirlo aprire bocca. Di quel rifugio però Feliks non aveva mai parlato.
« Perché è mio e tuo, Liet », aveva detto. « Cioè, perché dovrei farlo sapere agli altri? »
Toris aveva dovuto aggiustare la porta pungolato dagli spifferi, poi assicurare le zampe del letto di legno provato su cui non sapevano chi avesse dormito prima di loro. Ordinare quella casa era diventato il momento preferito delle giornate di Toris.
Perché su quel letto, poi, ci si rintanava con Feliks. Si avvolgevano nella coperta, fissavano il vuoto e commentavano il duro lavoro della giornata, Feliks che si illudeva che essere di supporto – « Quanto ci vuole con quel tavolo, Liet? Ho fame » non era di supporto nemmeno se il pranzo era già pronto – eguagliasse il lavoro di Toris.
Era piacevole.
Era loro.
Intrecciavano le gambe e d’estate Toris si godeva la pelle di Feliks lasciata scoperta dalle gonne che il polacco poteva indossare solo lì, nella loro casetta dispersa nel bucolico paesaggio polacco.
« Mi hanno già detto che sono strano per essermi vestito così in passato », si era lamentato una volta Feliks, il tono quanto mai cupo. « Manterrai il segreto, Toris? »
Era arrabbiato o solo molto serio.
La prima scelta era da cancellare.
Aveva parlato con gli occhi cupi Feliks, le dita che si torturavano a vicenda. Si intrecciavano, stringevano, strizzavano. Sbiancavano in quella presa autolesionista.
Non gli avevano solo detto che era strano, di questo Toris era sicuro. Gli avevano lasciato intendere che fosse malato, sbagliato. Che non solo quel gesto lo fosse, ma che anche lui lo era.
Che Feliks, il suo Feliks era malato, sbagliato, solo perché aveva osato con l’innocenza di un bambino far vedere ciò che di più intimo custodiva: se stesso.
Toris aveva immaginato la crudeltà, cosa potevano avergli detto, forse fatto. Immaginò le caviglie scoperte da quell’abito rubato dall’armadio di qualcuno di troppo piccolo per lui coperte di lividi, una guancia gonfia perché avere quei segni era da uomo, non come indossare quegli abiti.
La mano di Toris si era appoggiata sulla sua. Ferma, convinta come mai era se si trattava di sé, ma come diventava quando pensava a Feliks.
« Non lo dirò a nessuno, Feliks. » Ed era serio, per questo lo aveva chiamato per nome. « Puoi farlo tutte le volte che vuoi. »
Quel sorriso, quegli occhi luminosi spiegarono a Toris perché dipendesse tanto dal volerlo rendere felice.
E capì anche perché fosse disposto ad accettarlo in ogni forma Feliks desiderasse essere accettato.
 
Quella casa a Toris era piaciuta ancor di più quando aveva iniziato ad entrarci camminando all’indietro, le braccia esili di Feliks intorno al collo mentre lo baciava senza dargli un istante per respirare. Gli rubava l’aria e gli piaceva, perché era solo delle sue labbra che aveva bisogno.
E quando rovinavano sul letto, la porta aperta perché “tanto chi vuoi che ci veda, a chi vuoi che importi” perché a loro non importava, Feliks su di lui e i loro occhi incatenati, ecco, allora Toris si sentiva vivo.
Si sentiva vivo in quegli occhi verdi, in quegli specchi non solo dell’anima di Feliks, ma anche della propria.
Si chiedeva, Toris, se mai avrebbe potuto vivere senza. Sarebbe stata un’esistenza a metà, ecco cosa pensava. Viveva a metà senza vedersi nei suoi occhi così come Feliks viveva a metà se non si vedeva riflesso nelle iridi di Toris.
« Cioè, credo che il modo in cui mi preferisco sia l’immagine che mi dai di me, Toris. »
Contorto.
Si pentiva, Toris, di aver creduto che quando Feliks aveva pronunciato quelle parole, un po’ biascicate, di punto in bianco, la guancia premuta sul petto e scossa dalle vibrazioni del suo cuore, stesse dicendo qualcosa che non avrebbe mai capito.
Così glielo aveva chiesto.
« Che cosa? »
« Nah, non importa. »
Era il 1388 e gli era servito qualche altro anno per comprendere quanto i suoi occhi verdi fossero belli.
Quanto fosse bello preferirsi per l’immagine che Feliks gli dava di lui.
Erano uguali, molto più simili di quanto sembrasse e solo questo contava. Perché Toris poteva essere pacato e Feliks espansivo, Toris poteva volere la quiete e Feliks la baraonda, ma si amavano nello stesso modo dolce e bruciante, in quella casetta sperduta nella campagna polacca e questo era l’importante.
Avevano costruito quella casa come il loro rapporto.
« Potremmo aggiungere una cassapanca lì, Polska. »
Proprio come avevano aggiunto qualche battuta e domanda all’inizio.
“Come stai? Mi interessa davvero”, “Io bene, anche io voglio davvero sapere come stai.”
« Non hai tipo buon gusto. So quale mobile vuoi metterci e… ew, Liet, scordatelo. »
Dopo secoli di discussioni sul mobilio Toris si sorprendeva ancora di quanto Feliks potesse esprimere ogni volta il proprio sdegno per i suoi gusti in modo diverso e sempre nuovo, senza mai annoiarlo. Lo convinceva quasi che non avrebbe dovuto parlare, che i suoi gusti fossero davvero terribili. Non per sminuirlo, Feliks non lo avrebbe mai fatto; era solo troppo trasparente per lui e in questo Toris vedeva un primato di cui essere geloso: se anche Feliks se si fosse trattenuto, se anche avesse soffocato con le labbra serrate le acide parole di disprezzo per alcune sue scelte, Toris avrebbe assistito alla comparsa di vaporosi pensieri all’altezza della sua fronte.
“Non glielo dire, Feliks. Anche se è palese che odi quello che ha appena dett—come può averlo fatto? Solo il mio Liet ha un così pessimo gusto.”
Il mio Liet. Ecco cosa salvava tutto: quell’aggettivo possessivo.
« Il mio Liet non capisce nulla. »
Una volta Feliks lo aveva detto e poi aveva dissimulato con la psicologia al contrario, senza negare.
« Come mi hai chiamato? »
« Il mio Liet, perché? »
Aveva riflesso l’imbarazzo su Toris con gli stessi occhi in cui il lituano si specchiava. Toris aveva affondato il volto nella sciarpa che ancora non si era tolto dopo essere arrivati nella casupola; il camino impiegava un po’ di tempo a riscaldarla.
Così aveva vinto Feliks.
E Toris amava che vincesse. Avrebbe sopportato ogni critica, ogni battibecco sui mobili che tentava di affrontare con un debole broncio che poi Feliks riproponeva più duraturo del suo, vincendo ancora, pur di non visitare quella casa da solo.
Perché sì, lo aveva fatto.
Tre volte, in tre interminabili quanto miserabili periodi della sua vita.
Ecco, Toris aveva sempre creduto di non poter vivere bene senza gli occhi di Feliks.
C’era una clausola ben peggiore, mai considerata: sarebbe morto vedendoli spenti. E gli era accaduto di vedere quelle iridi verdi prive di ogni luce, mentre le labbra erano curve in un sorriso falso e stanco come la schiena di Feliks dopo le battaglie, la pelle lacerata dalle cicatrici.
Se ne andava un barlume di luce, di splendore dagli occhi di Feliks e un pezzo del cuore di Toris li seguiva.
In quella casa Toris ripensava a tutto.
Ripensava a Feliks seduto al tavolo di legno che guardava fuori dalla finestra del tutto innamorato del suo, del loro paese e stava quieto, senza parlare. Toris poteva lasciargli un bacio tra i capelli d’oro sapendo che Feliks avrebbe reagito sempre allo stesso modo: alzava le spalle, arricciava le dita e sospirava appena. Poi se era fortunato ricambiava quel bacio carico d’amore nell’arco della giornata.
Ripensava ai momenti seduti a terra davanti al camino, Feliks con la schiena contro il suo petto perché « fa comunque troppo freddo per stare lontani, cioè! ».
Ripensava alla gioia che provava lui, al cuore che sentiva di possedere perché non ancora un contenitore cavo pieno di sabbia in tempesta, che ne corrodeva le pareti e ripensava a quegli occhi luminosi quando si baciavano, sul letto dove nemmeno osava sedersi.
Si sacrificava sulla sedia e immaginava quelle iridi così tanto intensamente da togliersi il fiato, da sentire la testa dolere e il cervello spaccarsi. Si aggrappava all’unica immagine che lo spingeva ad andare avanti e lo faceva: andava avanti. Per inerzia, per amore.
Per vedere quegli occhi una volta ancora, almeno nella propria testa.
O per vederli davvero?
Feliks era una fenice.
Era ricomparso in quella casa quando meno se lo aspettava.
Aveva aperto la porta, Toris troppo scosso per accorgersene. Non viveva, vegetava: guardava il vuoto e pensava, o forse nemmeno questo faceva. Guardava il vuoto e moriva lentamente, piano piano. Si lasciava andare, scivolava.
Però i cardini della porta cigolavano ancora. Poteva oliarli quanto voleva: non serviva. Quel sibilo lo aveva riportato alla realtà.
Era pronto ad urlare, a sbraitare.
Perché mantenersi composto, pacato, normale se Feliks non c’era? Perché non lasciare che il dolore scorresse come un fiume in piena?
Forse aveva senso proprio perché glielo aveva consigliato lui.
Sì, sapeva cosa fare: avrebbe travolto chiunque avesse intorno, non gli importava. Non era una persona buona, lui. Non c’era nulla di buono senza Feliks e se anche ci fosse stato senza di lui non avrebbe potuto vederlo.
Ed erano nazioni, non era giusto pensarla così. Ma lui non era nemmeno giusto.
« Sii tipo un po’ meno Liet e un po’ più Polska, ogni tanto. Credo, cioè, che ti risolveresti molti problemi », gli aveva detto.
Lo avrebbe tributato scacciando con furia chiunque stesse violando il loro luogo sacro o si sarebbe ricordato di lui in modo troppo diverso da com’era abituato, torturandosi con un veleno a cui non era ancora assuefatto?
« Però se non fossi Liet non mi piaceresti così tanto, uhm. »
Toris spense ogni pensiero come l’acqua con le fiamme.
« … Che stavi per fare? » aveva chiesto una voce familiare.
La voce. Quella di Feliks.
Lo fissava, il sopracciglio biondo alzato sul volto etereo e le braccia conserte.
Come faceva? Come poteva ricomparire così, come se nulla fosse?
Era perfetto come sempre, i capelli come il grano a circondare il viso. Lisci, curati, perfetti. Le labbra non sorridevano, ma solo perché doveva capire che non era il momento di farlo. Erano lentiggini quelle comparse sui suoi zigomi? C’erano sempre d’estate, ma Toris giurò di averle viste anche allora. Uno spruzzo, nulla di troppo.
L’equilibrio che nel carattere di Feliks non c’era.
I suoi occhi verdi, vispi, pieni di vita lo fissavano.
Dio, ti ringrazio.
Aveva pregato Toris, mentre fissava il vuoto. Aveva pregato per giorni, per mesi, forse anni e se non era passato tutto questo tempo così gli era ugualmente parso, che il cielo gli restituisse Feliks. Non solo perché lui non poteva vivere, ma perché Feliks meritava la vita.
« Mi stavi per aggredire. »
Feliks voleva solo riempire il silenzio, Toris con un piede ancora a mezz’aria per concludere la falcata che l’avrebbe portato a strangolare l’intruso. E forse un po’ lo avrebbe fatto lo stesso, anche se era Feliks, perché dove diamine era stato? Come si permetteva di comparire come se nulla fosse insozzando il suo dolore? Si sentì in colpa.
Lo strinse.
Con tutta la forza che aveva in corpo, affondando il volto nella sua spalla. Singhiozzando come un bambino.
Solo lacrime e singulti, gemiti strozzati e scuse sconnesse.
« Ma di cosa ti scusi, scemo? » gli aveva chiesto Feliks. « Sono qui adesso, è passato. »
Aveva la voce rotta anche lui, per l’emozione, per la gioia di averlo ritrovato. Gli baciava i capelli e lo stringeva come se da questo dipendesse la sua vita e così era, senza eufemismi o metafore: la sua vita dipendeva da Toris, da quel momento.
Feliks non era sempre confortante. Lo era a tratti, quando ci riusciva, quando sapere di cosa aveva bisogno Toris andava a braccetto con il suo carattere imprevedibile.
Ecco cos’era: imprevedibile, volubile, incomprensibile forse.
Era successo altre due volte nella sua vita, prima che la Lituania tornasse ad essere di Toris e che la Polonia rimanesse solo a lui, Feliks. Era successo altre due volte che Feliks sparisse, perché era una fenice e tornava sempre, ma era anche fiero, capriccioso come quell’animale.
Il suo manto era splendido da osservare nel pieno della sua vita, mortalmente doloroso da guardare quando deperiva, si spegneva.
Era un ciclo naturale, qualcosa che sarebbe dovuto succedere.
« Le cose vanno tipo così, non ti opporre », aveva detto Feliks prima che i loro simili, le altre nazioni che forse a Toris sembravano più bestie, dilaniassero il suo corpo come degli sciacalli.
Erano stati tutti atroci almeno una volta nella vita, tutti carnefici di vittime più deboli. Forse anche Feliks, ma non lo meritava. Non meritava questo, non meritava alcun dolore.
E se anche Feliks fosse stato il suo di carnefice, lui lo avrebbe accettato perché almeno sarebbe stato lì.
Doveva pagare l’impossibilità di salvarlo, la sua inutilità. Se Feliks lo avesse sentito si sarebbe arrabbiato abbastanza da chiamarlo per nome. Da usare anche il suo cognome, addirittura.
Toris viveva con il terrore di vederlo appassire, spegnersi, sgretolarsi. Di non avere la forza di tenerlo unito, perché gli spazi tra le dita erano fessure troppo grandi per impedirgli di crollare.
Moriva e ritornava più fiero.
Periva, lo faceva soffrire e si riuniva a lui perché « ti giuro Toris, non so dove sono stato, dove fossi, ma ho sofferto ogni giorno la tua assenza. »
Toris. Non perché era arrabbiato o serio; perché era addolorato, perché lo amava.
Adesso le dita non erano più sempre strette.
Ad unirli c’erano gli aerei, gli aereoporti e non più i castelli di cui tanto Feliks amava fingersi la principessa. Toris era sempre stato il suo principe, ma preferiva che lo capisse da solo piuttosto che dirglielo: dalle sue labbra era sempre uscita la proposta che interpretasse il ciambellano.
Però erano lì, dopo secoli, dopo sparizioni e riconciliazioni, dopo voli presi per Varsavia e scambi lungo le ferrovie per arrivare a Vilnius spendendo qualche soldo in meno. Tutti soldi per il prossimo viaggio, cioè, diceva Feliks.
Toris era sdraiato sotto di lui e Feliks era seduto sul suo ventre, perché metterlo in posizioni scomode, letteralmente, era sempre piacevole.
Il lenzuolo lasciava scoperta la sua schiena nuda, le scapole che parevano ali in procinto di spiegarsi sotto la pelle candida e sottile, e il petto di Toris. La porta era sigillata perché la campagna polacca si era fatta abitata e anche se a loro non importava una denuncia per atti osceni intravisti dai vicini sarebbe stata scomoda.
Erano due rappresentanti, due nazioni. Dovevano almeno fingersi persone serie.
Si stavano guardando senza dire niente, le dita di Toris sulle sue labbra e le mani di Feliks a bloccare un solo braccio.
Giocò con i suoi capelli biondi e li arricciò mentre Feliks osservava fieramente una macchia violacea sulla gola di Toris.
Sbuffò appena, tronfio.
« Domani la camicia fino all’ultimo bottone non te la faccio chiudere! » aveva scherzato.
Perché si era allontanato tanto dalle sue labbra in quel momento? Forse voleva fargli un dispetto. Non ricordava quale fosse l’ultima cosa che Toris aveva detto e nemmeno se lui avesse risposto.
« Ti ho preso un regalo prima di venire qui. »
Gli occhi verdi di Feliks si illuminarono.
« Un regalo? »
« È nella mia valigia. »
Erano corsi lì subito dopo il suo arrivo a Varsavia.
Toris voleva che schizzasse giù dal letto e la raggiungesse, che estraesse il pacchetto in cima a tutto il resto delle sue cose e lo aprisse. Poteva anche distruggere la valigia nel mentre: bastava lo scartasse subito.
Avrebbe sentito la mancanza del suo corpo in pochi istanti, ma sapeva sarebbe tornato presto.
Feliks raggiunse la valigia con ampie falcate e la aprì, dando il tempo a Toris di sistemarsi a pancia in giù, il lenzuolo tirato fino a i fianchi.
Il codino era sfatto sul suo collo.
Pochi attimi e Feliks aveva dilaniato il pacchetto morbido di ampia superficie.
Un vestito.
Feliks lo prese per le spalle, la carta da pacchi a terra e le cuciture dell’abito tra l’indice e il pollice di entrambe le mani.
Un abito lungo, rosa con dei fiori bianchi ricamati sopra.  La vita stretta, le maniche aderenti e la gonna a ruota. Era così bello.
Feliks già lo amava e amava ancor di più Toris per averglielo comprato. Per averlo pensato, per averlo visto su di lui quando a indossarlo era un manichino di Vilnius.
Se avesse avuto dei vestiti indosso li avrebbe calciati via, ma la sua pelle era scoperta e cominciò a indossare subito l’abito nuovo.
Non c’era vergogna in Feliks nel mostrarsi nudo di fronte a lui, non ce n’era motivo. Dopo tutti quei secoli conosceva il suo corpo tanto bene quanto poteva conoscere la strada per casa sua, dove trovare le posate nella sua cucina.
Toris lo osservò. Guardò le ciglia colpite dalla luce del sole, la stoffa che scivolava sulla pelle di cui ricordava a memoria il profumo, le clavicole sporgenti ora coperte dal colletto chiuso dai bottoni di perla. Le dita sotto le ciocche bionde che Feliks liberò dalla presa erronea della stoffa.
Gli occhi verdi e socchiusi in controluce sembravano quasi degli smeraldi trasparenti. Le ciglia brillanti calate su di essi come un sipario sul più splendido dei palcoscenici.
I piedi nudi di Feliks picchiarono sul pavimento mentre con una giravolta lasciava che la gonna si aprisse intorno al suo corpo, che volteggiasse a mezz’aria.
Si sentiva libero.
Si fermò e incrociò le gambe, due steli esili come giunchi, e sollevò appena la gonna per fare una riverenza.
Toris vide i polpacci magri e le ginocchia tonde.
Feliks aspettava una valutazione.
« Sapevo che ti sarebbe stato bene. »
Feliks si sedette sul letto, sporgendosi e rubando un bacio a Toris.
« Era ovvio che mi sarebbe stato bene! »
Forse, ma non era ovvio che lo pensasse.
Toris non lo disse, non aveva senso sminuirlo.
Strano si fosse accontentato, piuttosto.
« Mi ricordo la prima volta che hai indossato un vestito di fronte a me. »
Non un vestito da donna, solo un vestito. Era per questo che glielo aveva comprato.
La sorpresa e la curiosità erano scritte nitidamente sul volto di Feliks.
« Ti avrò fatto paura », asserì mentre raggiungeva il letto e si sdraiava, la mano sul petto scoperto di Toris.
Fare l’amore era così naturale da renderli innocenti e immacolati dopo l’atto.
Toris scosse la testa.
« Allora cos’hai hai pensato? »
Frustrazione. Feliks voleva sapere tutto. Pendeva dalle sue labbra perché era sbagliato pensare che solo Toris pendesse dalle sue, che non si guardassero a vicenda, che quel rapporto fosse unilaterale.
Toris sorrise, il viso stanco per il viaggio voltato verso quello di Feliks.
« Che eri bellissimo e che ti amavo », rispose. « Come ogni giorno della tua vita e della mia. »
Gli occhi di Feliks non si erano allontanati un istante da quelli di Toris. Commozione, lacrime.
Era una fenice, era fiero, ma era anche dolce e innamorato.
Toris vedeva i suoi occhi e sapeva che grazie a loro anche lui sarebbe stato umano. Si vedeva fiero, dolce e innamorato.
Feliks voleva chiamarlo, rispondergli, ma lo avrebbe interrotto.
« Anche oggi sei bellissimo, Feliks », rispose. « E anche oggi ti amo. »



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Era da qualche settimana a questa parte che mi dicevo "Ragazzi, ho voglia di Lietpol" e quando ho realizzato di non aver mai tributato questa coppia, l'ultima OTP a cui mi sono affezionata per quanto riguarda Hetalia, ho pensato di dovermi dare da fare.
Così ecco un'introspettiva di quelle che tanto mi piacciono ultimamente, un flusso di pensieri di Toris.
Non pubblicavo nella sezione ormai da tre anni ed è un po' come se avessi azzerato tutto quanto ormai.
Che cosa dire? Spero veramente che la fanfiction vi sia piaciuta e vi ringrazio tanto per essere arrivati fino a qui! Spero vi vada di dirmi cosa ve ne pare e di tornare presto a scrivere da queste parti, magari anche su altre coppie.
Alla prossima! ~
   
 
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