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Autore: Melisanna    12/03/2018    7 recensioni
La storia è un sequel della one-shot 'Aka, Toro!' che pubblicai diversi anni fa, sempre su questo sito. Questa storia si può leggere anche sola, ma consiglio di leggere prima l'altra, per non perdere molte sfumature. Ci sono alcune divergenze dal Canon, ma non sufficienti da giustificare la definizione di AU o What-if.
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Jun se ne andava sempre per primo. A volte si alzava e spariva mentre Kojiro stava ancora dormendo, lasciandolo a svegliarsi solo nel letto sfatto, con la testa pesante per il sonno pomeridiano, il sesso soddisfatto e il petto greve. A volte sgusciava via appena avevano finito, si rivestiva nella penombra mentre lui lo fissava da sotto le palpebre, osservando il suo corpo snello coprirsi di quegli abiti che lo allontanavano da lui, non più Jun e di nuovo Misugi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jun Misugi/Julian Ross, Kojiro Hyuga/Mark
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Grazie ancora a Melanto per essere stata una beta impeccabile: senza di lei non sarei mai arrivata alla fine. Questo capitolo è dedicato a Jun. Per il prossimo che sarà anche l'ultimo torneremo da Kojiro

I due segugi di Weimar gli si fecero incontro mentre apriva il cancello, vibrando eccitati sotto i manti grigi per la felicità di rivederlo. Lo accompagnarono lungo il vialetto, trottandogli intorno alle gambe e scoccandogli sguardi devoti con gli occhi ambrati.
Jun li salutò con una carezza sul capo, l’unica finestra illuminata della villa era quella della cucina. C’era solo la cuoca in casa. Yayoi doveva aver fatto tardi a lavoro e forse la tata aveva portato Midori al parco. Lottò brevemente con i due cani per impedir loro di seguirlo dentro casa e si infilò nel portone.
Si sfilò le scarpe e a piedi nudi percorse il lungo corridoio che portava nel suo studio. Solo quando si fu chiuso la porta della stanza alle spalle, si concesse di sospirare e di lasciare che la stanchezza gli piombasse addosso. Era stata una lunga giornata. Pescò dal frigo-bar un paio di bottiglie e il ghiaccio e si preparò un Martini cocktail – compiere quei gesti precisi e meccanici lo aiutava a rilassarsi – con molto gin e poco vermouth.
Con il bicchiere dallo stelo sottile in mano, si sedette alla scrivania, davanti al mcbook spento e lo fissò aggrottando la fronte liscia.
Kojiro – no, Hyuga, non Kojiro – si sbagliava: a lui importava di sua moglie. Le donne gli piacevano, non era come Hyuga che una volta, durante il sesso, gli aveva confessato che quando si scopava le sue soubrette doveva pensare tutto il tempo a lui, per farselo venire duro, perché in quei corpi molli non trovava attrattiva erotica. L’aveva detto mentre gli mordeva una spalla e gli ansimava in un orecchio e gli affondava le dita nei fianchi, annegando nel desiderio, con gli occhi come pozze nere. Ma Jun non era come lui, le donne gli piacevano. Quando aveva sposato Yayoi era stato sinceramente innamorato di lei e ancora provava piacere quando facevano all’amore. Gli piacevano i suoi piccoli seni, appena un po’ meno sodi dopo la gravidanza, gli piacevano la sua vita sottile e la sua pelle liscia e gli piaceva il modo con cui lo scrutava, con sguardi devoti come quelli dei due grandi segugi di Weimer che lo avevano accolto al cancello, vibrando di eccitazione.
Bevve un lungo sorso del liquido trasparente e mentre il calore dell’alcool gli si diffondeva nelle vene, sentì quell’insopportabile sobrietà, che lo affliggeva la maggior parte del tempo, allontanarsi.
Su questo Hyuga aveva ragione: anche dopo anni di matrimonio, Yayoi continuava a vederlo come un principe perfetto, a volte persino lo prendeva in giro con garbo, per il suo essere troppo cortese e generoso con tutti. Eppure non era né stupida né ingenua, si era laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti e già dal terzo anno aveva cominciato a lavorare come assistente di  un avvocato civile. Sul lavoro non si risparmiava mai, era precisa, feroce, testarda come un mastino e dotata di ottime intuizioni. Aveva imparato a giudicare i rapporti interpersonali con acume e una vena di sarcasmo, ma non rinunciava a perseguire con tenacia il suo personale ideale di giustizia. Tornava a casa la sera, nei suoi tailleur pastello di ottimo gusto e, mentre si sfilava le decolté di vernice, raccontava la sua giornata a Jun, ridendo di quelle mogli e di quei mariti che cercavano di nascondere le loro scappatelle persino davanti alla signora Harada, il suo capo, che sapeva perfettamente che stavano mentendo, così come perfettamente lo sapeva Yayoi.
–  Dovresti vedere come la guardano, quando gli dice che, se vogliono che li rappresenti, a lei devono dire la verità! – era la sua battuta preferita – Come cuccioli sorpresi a fare la pipì sul tappeto.
Cenavano insieme, inginocchiati uno di fronte all’altra sui tatami della sala da pranzo e Yayoi parlava animatamente tutto il tempo, arricciando il naso grazioso, mentre agitava le bacchette per sottolineare le parole e la luce si rifletteva sui grandi orecchini d’oro a forma di conchiglia, con un piccolo diamante all’apice, che Jun le aveva regalato per il primo anniversario di matrimonio.
– Quel grassone di Nakata, lo odio! Continua a guardarmi le gambe durante le udienze e devi sentire con che voce viscida mi propone di andare a cena insieme “perché ci sarebbero grandi opportunità” dice “nel mio studio, per una in gamba come te”. Ma chi ha bisogno delle sue opportunità, dico io? So io che tipo di opportunità ha in mente, quel maiale. Ma oggi gliel’abbiamo fatta pagare. La signora Harada ha pelato il suo cliente fino al midollo, risarcimenti morali e materiali, l’appartamento a Roppongi e la villa ad Asakusa, il 30% delle azioni dell’azienda, con possibilità di convertirle in denaro, gli alimenti e l’affidamento dei figli, ovviamente.  E ho trovato quasi tutti i documenti e le prove io! Non hai idea di quanto tempo ho passato a frugare in archivio e a pedinarlo. Pensa che avevano cercato di nascondermi la casa al mare… Che imbecilli, li ho beccati e ci siamo prese la percentuale anche su quella. Se l’è meritato quel bastardo,  sai che aveva due amanti? E con una ci aveva fatto anche un figlio! E tutte e tre credevano di essere la sua donna ufficiale. Come faceva a credere di potersela cavare?
Yayoi parlava animatamente, agitando le bacchette per sottolineare le sue parole e a Jun piaceva guardarla mentre lo faceva e pensare al sesso che avrebbero fatto dopo.
Eppure delle menzogne di Jun non si accorgeva mai, o forse non voleva accorgersene e preferiva vedere solo ciò che le piaceva e immaginarsi che fosse ancora il ragazzo di tanti anni prima, quel ragazzo così forte e così fragile. Yayoi aveva sempre cercato di difenderlo, prima da sé stesso e dal suo desiderio di giocare a calcio nonostante il cuore malato, poi dai suoi avversari e quindi dalla vita. Non aveva esitato nemmeno a giocare sporco, perché, anche da ragazzina, nonostante l’aria graziosa, Yayoi era già testarda come un mastino e dotata di ottime intuizioni, che adesso le stavano spianando la strada come avvocato. Aveva cercato di fargli vincere il campionato con meno sforzo possibile, rivelando a Tsubasa della sua malattia e Jun si era sempre chiesto quanta ingenuità e quanto calcolo ci fossero, dietro a quella rivelazione.
Yayoi gli rivolgeva sguardi adoranti come quelli dei due Weimar, ma al tempo stesso lo trattava come una veste di seta, da tenere chiusa in un cassetto perché sarebbe bastata una goccia d’acqua a rovinarla, da spolverare con delicatezza e avvolgere nella carta velina. Ogni volta che Jun aveva aperto gli occhi in ospedale, Yayoi era stata lì, pronta a qualsiasi sua richiesta. Aveva imparato a conoscere i ticchettii e i ronzii delle macchine a cui Jun era attaccato. Sapeva quando era tempo di cambiare la flebo e quando aveva bisogno del pappagallo. Aveva visto le cicatrici sul suo petto quando erano ancora lunghi squarci rossi, aveva aiutato a lavarlo, a vestirlo, persino ad accompagnarlo in bagno. Ogni settimana gli preparava le medicine dividendole a seconda dei giorni della settimana e a seconda degli orari a cui doveva assumerle e ogni sera controllava che non le avesse scordate.
Avevano abbastanza argomenti in comune da non venirsi mai a noia e si conoscevano da talmente tanto da capirsi senza parlare. Avevano i loro scherzi e ridicoli modi di dire di cui si sarebbero vergognati in pubblico, abitudini consolidate, calde e accoglienti come un batuffolo di lana,  e sciocchi litigi che si ripetevano sempre uguali sugli stessi argomenti e che terminavano con Yayoi che rideva in quel suo modo un po’ sguaiato, con la bocca aperta e i denti grandi che balenavano bianchi. Avevano il ricordo di Yayoi seduta accanto al letto di Jun ogni volta che lui apriva gli occhi in ospedale.
E avevano in comune Midori. A Jun si chiudeva la gola, solo all’idea di poter perdere Midori. L’aveva adorata fin dal primo momento in cui l’aveva vista e sapeva benissimo di essere succube di lei, ma non riusciva a fare a meno di viziarla. Rimaneva senza fiato ogni volta che la guardava, non riusciva a capacitarsi di aver potuto dar vita a qualcosa di così bello, a quelle mani così piccole, ma così perfette, che si aggrappavano ai suoi pantaloni o alla coda di uno dei Weimar, quando Midori cercava sostegno; a quegli occhi grandi e specchianti e a quella risata cristallina di pura gioia che le sgorgava dalla gola palpitante. A volte le appoggiava una mano sul capo, solo per il gusto di studiare con le dita quel cranio rotondo, coperto dai soffici capelli corvini, di tastarlo con la delicatezza che si ha per un vaso di ceramica, rimanendo ogni volta sorpreso dalla sua perfezione.
Chiuse gli occhi, colto da un dolore improvviso, all’idea di poter un giorno, per qualsiasi ragione, non poter più toccare Midori in quel modo e finì il Martini con un rapido sorso, che allontanò la realtà di un altro passo.
Gli piaceva stringere dolcemente fra le dita le orecchie di Midori e arricciarle come un fiore che si chiude, affascinato e stupito dalla loro consistenza gommosa e dalla superficie setosa, mentre lei si divincolava lanciando gridolini eccitati, infastidita da quelle attenzioni e al tempo stesso divertita. Quanto a Midori, manifestava nei suoi confronti l’amore appassionato di una bambina estroversa di tre anni per il proprio padre giovane, bello e cordiale. E a Jun sembrava che non sarebbe mai stato sazio dei suoi baci e dei suoi abbracci.
Avrebbe avuto bisogno di altro gin, ma la bottiglia era vuota e Yayoi sarebbe rientrata a breve e non voleva che lo sentisse puzzare d’alcool.  Non voleva che lo sentisse puzzare d’alcool e potesse scorgere un’incrinatura nella sua apparenza di principe perfetto e iniziasse a guardarlo con sospetto, con il cinismo e il sarcasmo con cui guardava a quei mariti e quelle mogli che cercavano di nascondere le loro scappatelle persino alla signora Harada e a lei, che avrebbero dovuto rappresentarli in tribunale e che avrebbero fatto loro ottenere risarcimenti morali e materiali, case e azioni e gli alimenti e l’affidamento dei figli.
Voleva continuare a cenare con lei e a passare le serate ad ascoltarla chiacchierare, mentre agitava le bacchette in aria per sottolineare le sue parole, voleva guardarla mentre contava una a una le sue pillole dividendole in mucchietti multicolori. E voleva poter baciare Midori ogni giorno prima di uscire e prima di metterla a letto.
Ma quella era stata una giornata lunga e difficile.
A lui piacevano le donne, piaceva Yayoi, era stato sinceramente innamorato di lei quando l’aveva sposata, eppure Hyuga era qualcosa di diverso. Kojiro – no, Hyuga, non Kojiro – aveva ragione anche su questo. Aveva ragione quando diceva che non era mai così vivo come durante quei loro incontri rubati. Jun aveva la sensazione che vedesse tutti i suoi lati peggiori, quelli sporchi e disgustosi, davanti ai quali chiunque altro si sarebbe voltato inorridito, ma non solo non si voltava, ne era affascinato. E così ogni volta Jun spingeva l’asticella del loro rapporto un po’ più in là, un po’ più in alto, solo per vedere quanto lontano sarebbe potuto arrivare, prima che il desiderio di Hyuga si spezzasse, sopraffatto dal giudizio e dall’orrore. Non riusciva a fare a meno di continuare a mettere alla prova sé stesso e l’altro e rimaneva ogni volta sconvolto, preso da una vertigine incredula, davanti alla passione che scatenava.
Aveva morso la carne bruna di Hyuga fino a farla sanguinare, lasciando segni dolenti disseminati sul suo corpo e aveva goduto leccando le gocce di sangue dolciastro, gli aveva affondato le unghie nella schiena e nel collo, scavando lunghe scie arrossate; si divertiva a domare la sua eccitazione, a impedirgli di sfogarla, fino a lasciarlo implorante e senza forze e ogni volta si inventava nuovi giochi in cui guidarlo. E Hyuga non si sottraeva mai, anzi, la sua dipendenza da Jun sembrava aumentare di volta in volta.
Una volta, nella foga dell’amplesso gli aveva stretto le mani intorno al collo, schiacciandogli la carotide, lasciandolo senza fiato, la bocca spalancata in una ricerca d’aria inutile e disperata e negli occhi di Hyuga la morte per alcuni brevi istanti si era fusa con il piacere e il suo orgasmo era salito ancora più violento del solito, mentre gli affondava le mani nei capelli, tirandoglieli quasi dolorosamente e inarcandosi sopra di lui, i muscoli potenti che si tendevano sotto la pelle scura in un parossismo di piacere, mentre Jun continuava a stringere, finché non l’aveva sentito fremere ed era crollato su di lui. Da allora Jun incedeva nel piacere di soffocarlo con violenza mentre lo portava all’orgasmo, anche se si era informato e sapeva, come Hyuga probabilmente non sapeva, che stringergli le mani intorno al collo, schiacciandogli la carotide, lasciandolo senza fiato, era pericoloso, ma la tentazione di vedere nei suoi occhi fondersi la morte con il piacere era troppo forte per resistere.
Non si era mai reso conto di quella vena di sottile sadismo che aleggiava in lui, ma Hyuga l’aveva tirata allo scoperto e si incastrava alla perfezione con il bisogno dell’altro di infliggersi dolore, per riuscire a provare piacere. Hyuga era incapace di godere di qualcosa che non aveva ottenuto attraverso la sofferenza; solo se lottava con le unghie e con i denti fino all’ultimo, solo se si sentiva dolorante in tutto il corpo, solo se non riceveva aiuto, attenzione, comprensione  da nessuno, sembrava accettare di essersi meritato qualcosa.
E Jun gli dava quello che voleva e nel darglielo provava un piacere che lo faceva vibrare fin nel profondo del suo essere, ma a farlo vibrare davvero non era tanto il lasciarsi andare a pratiche crudeli, non erano il sadismo e la violenza in sé, a farlo vibrare davvero era il fatto che Hyuga non si arrendesse mai, lottasse sempre fino all’ultimo, senza riguardo per la sua salute fragile, per la sua vita attaccata a un filo, per la sua bellezza eterea. Hyuga lottava come un toro nell’arena, ogni volta, fino all’ultimo e ogni volta, all’ultimo perdeva, si chinava, crollava davanti a Jun e godeva di quella sconfitta quanto Jun della vittoria. Per tutta la vita si era sentito addosso sguardi di ammirazione e di pietà; i suoi genitori, i compagni di squadra, l’allenatore e Yayoi, soprattutto Yayoi, lo trattavano come una veste di seta fragile e preziosa da tenere chiusa in un cassetto, avvolta nella carta velina, perché la polvere non la rovinasse.
Ma Hyuga no, Hyuga mai. Hyuga era un toro feroce e testardo e domarlo era il piacere più estremo a cui Jun riuscisse a pensare.
Squillò il campanello, subito prima che Jun decidesse che, tutto sommato, almeno un vermouth poteva concederselo. Alla porta lo aspettava la signorina Tadako con Midori, che sprizzava energia ed eccitazione, avvolta nel suo cappottino rosso fragola.
– Siamo stati allo zoo – esordì – Ho visto i lefanti! Sono grandi e grigi e hanno le orecchie grandi e il naso luuuungo, lungo. E ho visto i tigri.
Jun fu colto da un subitaneo singulto di affetto e di terrore e si inginocchiò per stringere Midori fra le braccia, con tutta la forza che aveva. La bambina continuò a cicalare allegramente
– I tigri hanno le trisce nere e arancioni. Mi piacciono i tigri. Anche i lioni mi piacciono, ma i lefanti mi piacciono più di tutto. Papà, mi fai male – si agitò un poco nell’abbraccio, mentre Jun le affondava il viso nell’angolo soffice e caldo tra la spalla e il collo. – Papà... – la voce si fece un poco interrogativa – Daiii, lasciami.
Jun si alzò lentamente, sorridendo, paziente e gentile come ci si aspettava da lui e incrociò uno sguardo sorpreso da parte della signorina Iwasaki.
– Signorina Iwasaki, grazie, come sempre lei è perfetta con Midori. La bambina si è molto divertita vedo e sicuramente è stato molto istruttivo per lei. Quanto le devo per  i biglietti?
Il viso rotondo della signorina Iwasaki si arrossò sulle guance. – Non importa, signor Misugi. È stato un piacere davvero, mi pagate già più che a sufficienza.
– Mi permetta allora, almeno di offrirle un tè. Chiamo la governante.
– La ringrazio, ma devo tornare a casa. Mi scusi, mi aspettano – la signorina Iwasaki si esibì in un inchino quasi a novanta gradi, la schiena perfettamente dritta, mentre il caschetto nero le nascondeva il viso.
– Ma certo, mi scusi per averla trattenuta. Buona serata.
– Buona serata, signor Misugi – alitò la signorina Iwasaki, gli occhi adoranti come quelli dei Weimar e Jun si lasciò quasi sfuggire un sospiro innervosito.
– Allora, Midori – disse sfilandole il cappotto – andiamo a vedere cos’ha preparato la signora Kato per cena?
– Mmmh, non ho fame. Voglio giocare, facciamo che sei un lefante, papà.
Jun sorrise – E tu cosa saresti? Una scimmietta?
– Ma no! Sono un Malà.
La guardò perplesso. Questa era nuova. – Cos’è un Malà?
– I Malà sono i re degli indiani, mettono delle stoffe in testa e hanno una spada e cavalcano i lefanti. Me l’ha detto la signorina Iwasaki – concluse soddisfatta.
– Ah, un Maragià, sei ambiziosa – Jun rise, amava la spavalderia di Midori e il suo lato battagliero e afferrandola per la vita se la mise a cavalcioni sulle spalle – Allora signor Maragià, dove andiamo? A invadere la cucina? Scommetto che potremmo trovare dei polipi di wurstel e magari un okonomiyaki appena pronto. E delle noccioline per un povero elefante.
– Fai il lefante, papà – lo rimproverò Midori severa – I lefanti hanno il naso lungo e non parlano.
Jun mimò una proboscide con il braccio sinistro mentre la sorreggeva con il destro e le fece il solletico sotto il mento.
Midori rise – Andiamo in cucina, lefante – ordinò.
Poco dopo Midori aveva deciso che, in effetti, aveva un po’ fame, ed era seduta davanti al tavolinetto della cucina mangiando pietanze graziosamente disposte in piccoli piatti. Aveva voluto sedere a gambe incrociate, perché la signorina Iwasaki le aveva detto che i Maragià siedono così e ogni tanto si agitava quando i piedi le si intorpidivano, ma non cambiava posizione nonostante le vive proteste della signora Kato.  Jun cercò, senza molta convinzione, di convincerla a sedersi in ginocchio, ma tutta la sceneggiata lo divertiva e cancellava poco a poco la giornata che era stata lunga e difficile.
Cancellava il tono appassionato della voce di Hyuga, il muscolo che guizzava sulla sua guancia, lo sguardo dolente con cui l’aveva seguito fuori dalla porta – con cui lo seguiva sempre, anche se fingeva di dormire, ma Jun sapeva che era sveglio e lo guardava.
Midori si agitava, mentre i piedi le si intorpidivano e spilluzzicava la cena, continuando a parlare di elefanti e Maragià, di tigri e di leoni e il ricordo di Hyuga svaniva lentamente, insieme al peso nel petto che si era portato dietro da quando era uscita dall’albergo.
Yayoi rientrò proprio mentre lui prendeva Midori in braccio per portala a dormire. Jun sentì la chiave girare nella serratura e la voce squillante della moglie che avvertiva di essere rientrata, lo scalpiccio davanti alla porta mentre si sfilava le sue decolté di Prada e poco dopo Yayoi era davanti a lui, stanca, ma sorridente.
– Ciao tesoro – mormorò, baciando Jun sulla guancia sinistra – E il mio topolino come sta?
– Non sono un topolio, mamma – protestò Midori, assonnata – Sono un Malà e questo è il mio lefante.
Midori guardò interrogativa Jun che si strinse nelle spalle – È stata allo zoo. Ora è un Maragià.
– Un Malà dell’India – si affrettò a specificare Midori.
– Ok, che fine hanno fatto i pirati? – chiese, accompagnandoli verso la camera della bambina.
– Quelli c’erano la settimana scorsa, non hai fatto attenzione – Jun mise Midori a sedere sul letto. – Allora Maragià, ora di dormire?
– Mh – Midori si contorse un po’ mentre le sfilava la maglietta – Non ho sonno – sbadigliò.
– Non era uno sbadiglio quello? – Yayoi ridacchiò e passò a Jun il pigiama di Midori – Credo proprio che per il Maragià sia arrivato il momento di andare a letto.
Dopo pochi minuti, i capelli neri della bambina erano sparsi sul cuscino, gli occhi chiusi e il respiro lieve e regolare. Yayoi e Jun sgattaiolarono fuori dalla camera.
– Allora, amore? Com’è andata la giornata? – chiese Yayoi, sfilandosi lo spillone che tratteneva i capelli castani in uno chignon.
– Bene, allenamento personale la mattina e nel pomeriggio ho sbrigato un po’ di burocrazia, niente di particolare. Tu, piuttosto? Come sta procedendo con la causa?
Yayoi fece una smorfia di disappunto – Mh, non so se riusciremo a uscirne bene questa volta, la signora Fujimoto è stata troppo imprudente. Ho le prove che il marito la tradiva regolarmente e con più donne, ma anche lei si è fatta le sue belle scappatelle e si è fatta beccare. Dovremo patteggiare.
– Te la caverai, come sempre.
– Oh, bè in qualche modo sì, immagino, ma non so ancora come… La signora Harada troverà qualcosa. Trova sempre qualcosa.
Si diressero verso la sala da pranzo, dove la signora Kato aveva apparecchiato sul tavolo più grande e aspettava solo il loro arrivo per servire.
Si sedettero l’uno di fronte all’altro e Jun guardò, come ogni sera, Yayoi che parlava animatamente, agitando le bacchette. Guardò le sue orecchie delicate, con gli orecchini d’oro a forma di conchiglia, che gli aveva regalato lui. Guardò il suo naso grazioso che si arricciava, ma non pensò al sesso che avrebbero fatto dopo, perché non aveva mai voglia di fare sesso con Yayoi dopo aver scopato con Hyuga. Forse perché si sentiva sporco, o forse perché si sentiva soddisfatto.
Yayoi era stanca e irritata dalla causa, che non stava andando come avevano sperato, la signora Fujimoto aveva mentito spesso e male e Yayoi disprezzava le persone che mentivano spesso e male, non era contenta di difenderla, ma non era comunque disposta a perdere la causa. Perciò probabilmente non avrebbe avuto voglia di fare sesso neanche lei e Jun ne era sollevato.
Quando andarono a letto scivolarono entrambi rapidamente in un sonno profondo. L’ultimo pensiero lucido di Jun fu che le sue menzogne non gli avevano mai impedito di dormire bene, forse perché era così marcio, fino in fondo all’anima, da non provare nemmeno senso di colpa, né verso Yayoi che dormiva nel suo letto e che era stata accanto a lui, quando giaceva in ospedale e in ogni momento della sua vita, né verso Hyuga che lo faceva sentire vero e vivo e che arrivava sempre in ritardo agli appuntamenti per non arrivare per primo e restava disteso fingendo di dormire, mentre lo seguiva con lo sguardo fuori dalla porta.
Nelle settimane seguenti Hyuga non si fece vivo e Jun non lo chiamò, perché sapeva che, dopo la discussione che avevano avuto, dopo che Hyuga l’aveva quasi implorato, per come può implorare uno come Hyuga, non poteva semplicemente alzare il telefono e chiamare.
Qualcosa era cambiato e nessuno dei due poteva far finta di niente. Hyuga non avrebbe abbassato la testa un’altra volta. In qualche modo Jun era riuscito a trovare il limite oltre il quale non poteva spingersi senza che l’altro l’allontanasse, sopraffatto dal giudizio e dall’orrore e non l’aveva trovato mordendolo fino a farlo sanguinare, affondandogli le unghie nella schiena, frustrando la sua passione, mentre la faceva montare. Non l’aveva trovato schiacciandogli la carotide, lasciandolo senza fiato. L’aveva trovato quando Hyuga aveva messo da parte il proprio orgoglio taurino e aveva dato sfogo ai propri sentimenti e Jun l’aveva umiliato. Consapevolmente e convinto di star facendo la cosa migliore per entrambi, ma questo non cambiava la realtà. L’aveva umiliato e si era quasi divertito a farlo e Hyuga questo non l’avrebbe mai perdonato. Non avrebbe mai potuto fingere che non fosse successo niente.
Non sarebbero mai potuti tornare a quelle camere d’albergo, con i lenzuoli bianchi dai profumi anonimi, alle attese di Jun che leggeva pregustando il momento in cui Hyuga sarebbe entrato dalla porta, non sarebbero tornati a quel gioco sottile e crudele che Jun giocava mentre si rivestiva sotto lo sguardo di Hyuga che fingeva di dormire, ma che seguiva i suoi movimenti da sotto le ciglia.
Era finita e Jun poteva venirci a patti, anche se il desiderio di mordere quella carne bruna, di sentire le sue mani fra di capelli, di vedere i suoi occhi diventare nere pozze di desiderio era come un frustrante sottofondo alla sua vita quotidiana.
In campo, Hyuga lo ignorò con una freddezza che Jun giudicò quasi imprudente, perché troppo palese e spudorata, ma Hyuga era sempre talmente cupo e taciturno che nessuno fece caso alla differenza.
Poche settimane dopo, arrivò l’annuncio ufficiale dell’acquisto di Hyuga da parte della Juventus. Jun lo sapeva già, il manager gliene aveva parlato appena gli accordi tra le due squadre si erano conclusi, e aveva dovuto ammettere che Nakamura aveva fatto un ottimo lavoro, se era riuscito a piazzare Hyuga così bene. Il contratto era a dir poco favoloso per un bomber giapponese venuto su dal nulla. Nakamura era bravo e doveva aver lavorato sodo per Hyuga. Jun l’aveva incontrato spesso, ma gli era bastata la prima volta per capire; non faceva niente per nascondere la propria omosessualità, ma l’attrazione per Hyuga, quella, invece, cercava di celarla. Jun si era chiesto se Nakamura avesse capito, ma ne dubitava. La maschera di Hyuga funzionava bene. Quasi con tutti.
Con lui non aveva funzionato.
Non aveva capito subito. La maschera di Hyuga funzionava bene. A volte aveva incrociato il suo sguardo, a volte un contatto era durato forse più del necessario, ma Hyuga aveva sempre mantenuto il suo volto chiuso e impassibile e non aveva mai manifestato più interesse nei suoi confronti che in quelli di qualsiasi avversario o compagno di squadra.
Anzi, Jun, quasi ridacchiò al pensiero, talvolta sembrava così ossessionato da Oozora e Wakabayashi che, se avesse dovuto immaginarlo interessato a un uomo, avrebbe nominato uno dei due. Wakabayashi probabilmente, perché Oozora non sembrava poter seriamente essere oggetto di interesse sessuale di alcuno, a parte di Nakazawa.
Eppure, a volte, il dubbio si era affacciato alla sua mente. Era stato quando l’aveva incontrato insieme a una delle sue Idol dai capelli ossigenati, che la sua maschera si era incrinata. Hyuga era molto più bravo a nascondere attrazione e interesse, che noia e fastidio e ancora meno a fingere passione. E Jun aveva cominciato a chiedersi, perché Hyuga sentisse il bisogno di sbandierare quelle relazioni che palesemente avevano poco a che fare con lui, con il suo carattere chiuso e taciturno, con la sua insicurezza di fondo, la sua testardaggine feroce e il suo profondo e sincero bisogno di pochi affetti sicuri.
All’inizio aveva pensato a una donna sposata. Una relazione che Hyuga sentiva il bisogno di proteggere con le sue Idol dai capelli ossigenati. Però questo avrebbe richiesto tempo e attenzione e coinvolgimento sentimentale, mentre Hyuga si dedicava agli allenamenti con la solita strenua ostinazione, trattenendosi come sempre in campo molto più del dovuto e passando la maggior parte del tempo libero con Sawada e Wakashimazu e continuava ad andare in giro con vecchie t-shirt e jeans sdruciti, a parte quando doveva fare qualche apparizione ufficiale e, in quei casi, era Nakamura a scegliere i suoi vestiti. Jun riconosceva il gusto e conosceva le boutique da cui arrivavano i completi antracite di Armani e le camice di popeline. Hyuga non aveva cambiato neppure dopobarba e portava solo l’orologio che gli aveva regalato il suo manager.
No, decisamente, non c’erano i segni di un’importante figura femminile nella sua vita. Il segreto da coprire doveva essere un altro. E allora gli sguardi che si incrociavano e i contatti che duravano sempre un poco più del necessario avevano cominciato ad assumere un’altra sfumatura. Nella mente di Jun si era insinuato un dubbio e Jun aveva iniziato a pensarci con sempre maggior insistenza e si era scoperto a sua volta a guardare Hyuga, durante gli allenamenti, e a pensare che era bruno e alto e bello di una bellezza selvatica che istigava il desiderio di domarla.
Era solo un dubbio, ma Jun aveva avuto fortuna. Non si era mai privato di certi piaceri, da quando aveva imparato come ottenerli senza farsi scoprire, il che spesso comprendeva il passaggio di un discreto quantitativo di denaro da una mano all’altra. Faceva parte di un club ristretto e prestigioso, dalle pareti del quale non trapelava mai niente di ciò che accadeva all’interno.
In compenso, capitava che arrivassero notizie piccanti dall’esterno, da qualcuno che non era così ricco e potente o così abituato alla ricchezza e al potere da poter accedere a quei club da cui i segreti non trapelavano mai. Una delle frequentatrici, una donna oltre i cinquanta che indossava con naturalezza vestiti di lattice su un fisico asciutto e scolpito dalla palestra e scarpe di louboutin con stiletti omicidi,  si portava appresso, tirandolo per un guinzaglio che si agganciava con un moschettone a un collare di cuoio, un ragazzo castano e snello; era capitato che, una volta, la donna dai vestiti di lattice avesse trovato altra compagnia e avesse lasciato il ragazzo libero dal suo collare, libero di farsi servire un bicchiere di Moet Chandon e di attaccare discorso con Jun, con un sorriso divertito.
– Ken Uchida. Sai – aveva esordito, sollevando un sopracciglio – sono bi.
– Lo so – aveva risposto Jun, che lo sapeva, ma non era particolarmente interessato.
– Dicono che ci somigliamo molto, io e te.
– So anche questo – aveva risposto Jun, che lo sapeva, ma che trovava che le somiglianze fossero decisamente superficiali. Tanto per cominciare, lui non si sarebbe mai fatto infilare un collare di cuoio, né tanto meno portare al guinzaglio.
– Ero in un club un paio di settimane fa e mi ha rimorchiato uno. Mi ha dato un nome, ma – i denti bianchi balenarono e Jun pensò che, forse, aveva sottovalutato il ragazzo castano e snello che si faceva portare a giro al guinzaglio – ho capito subito che era falso. So chi era. Ho fatto finta di niente però, non capita spesso di portarsi a letto Kojiro Hyuga.
Jun rimase per un attimo paralizzato dalla sorpresa. Ken Uchida bevve dal suo bicchiere di Moet Chandon e rise soddisfatto – Non lo sapevi questo, vero? Chi l’avrebbe detto. Ed è bravo a letto, brutale, come piace a me. Ma quello si vede, no?
– Lo dirai ad altri?
– No, perché dovrei? Sei preoccupato per la squadra? Sai che bello scandalo. Ma non ci guadagnerei niente, comunque, non ho prove, Hyuga si può permettere avvocati e pr migliori dei miei. Non ne vale la pena. E poi è stata una bella scopata. Un’ottima scopata.
Jun si trovò a pensare che, in effetti, Hyuga doveva essere un’ottima scopata.
– E perché lo dici a me, allora? Perché lo conosco?
– No – una smorfia gli deformò il viso, mentre sbuffava – Non sarebbe divertente. No, la parte divertente, quella veramente divertente è un’altra. Sai come mi ha chiamato Hyuga mentre scopavamo? Questo è divertente, davvero.
Jun lo fissò quasi ipnotizzato, l’aveva sottovalutato davvero il ragazzo castano ed elegante. Sapeva come portare qualcuno al guinzaglio, anche senza agganciargli un collare di cuoio intorno al collo.
– Jun, mi ha chiamato – bevve un sorso di Moet Chandon, mentre un sorriso gli stirava gli angoli della bocca, un sorriso aguzzo – Te l’ho già detto che io e te ci somigliamo?
E così Jun aveva avuto fortuna e aveva levato la maschera a Hyuga. Aveva fatto sesso con Ken Uchida, che si era dimostrato capace di tenere la gente al guinzaglio, come compenso per averlo sottovalutato. Ken Uchida che, a un certo punto gli aveva afferrato forte la nuca con una mano e gli aveva sibilato in un orecchio – Stai pensando a come dev’essere stato quando l’ho fatto con lui, non è vero?  E Jun aveva dovuto ammettere che sì, in effetti ci stava pensando e che, anche se questo non l’aveva detto ad alta voce, era spaventosamente eccitante.
Da quel momento in poi cogliere i segnali era stato facile. La maschera di Hyuga funzionava, ma era pur sempre un maschera. Jun aveva cominciato a vedere cosa si agitava dietro le iridi scure, dietro la mascella serrata, dietro i cipigli nervosi.
Aveva cominciato a contare le volte che incrociava il suo sguardo, aveva cominciato a trovare modi per farsi toccare e per prolungare il contatto e aveva cominciato a osservare le reazioni di Hyuga. Aveva imparato a leggere la profondità della sua ossessione nei suoi occhi inespressivi, nel suo volto duro, nel suo bisogno costante di avvicinarlo e di fuggirlo. Quasi senza volere aveva cominciato a prendere parte a quel gioco, a fare stretching dove sapeva che Hyuga non poteva fare a meno di vederlo, sfilandosi le t-shirt sudate quando passava accanto a lui, trattenendosi per farsi la doccia negli spogliatoi della palestra. E aveva scoperto che quel gioco lo coinvolgeva molto più di quanto si sarebbe aspettato. Teneva Hyuga al guinzaglio, come la frequentatrice del club teneva Ken Uchida, snello e castano, e non aveva bisogno di un collare di cuoio per farlo.
Sapeva che una relazione sarebbe stata rischiosa, che venire scoperti sarebbe stato disastroso per entrambi, per il suo matrimonio e per la loro carriera, ma non poteva fare a meno di giocare, l’ossessione di Hyuga per lui era diventata a sua volta una droga per Jun.
Così alla fine Jun aveva ceduto al desiderio, sufficientemente sicuro di sé, da pensare di poter tenere tutta la faccenda sotto silenzio.
Aveva stuzzicato Hyuga fin quasi a farlo impazzire e, quando l’altro alla fine era crollato, confuso e impaurito, gli aveva fatto scoprire che poteva avere quello che desiderava e, in effetti, molto, molto di più.
Dopo quel pomeriggio Jun aveva dovuto ammettere di trovarsi in disaccordo con Ken Uchida: Hyuga non era un’ottima scopata, era la scopata fottutamente migliore che potesse immaginare.
 

 
  
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