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Autore: Alicat_Barbix    31/03/2018    1 recensioni
Nel 2130 il mondo non è più contaminato dalle diversità. Diversità che hanno portato a lotte e guerre sanguinose nel corso dei tempi. La nuova società si impegna ad eliminare tutti gli Incompleti. Il diverso deve essere schiacciato. Ma come in ogni organizzazione, anche in questa c'è una falla.
Sherlock Holmes e John Watson si incontreranno quando meno se l'aspettano, ma saranno dalla stessa parte? Ma se così non fosse, cosa comporterebbe la nascita di qualcosa di forte, qualcosa di pericoloso?
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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 CUORE SUL GRILLETTO
Capitolo 23

 
Il cigolio dei cardini lo fece balzare in piedi, il cuore a mille e lo sguardo che vagava nella luce abbagliante in cerca di quegli occhi, di quei ricci, ma l’unica figura che s’infilò nella stanza fu quella di una donna in lacrime.
“John!”
Gli gettò le braccia al collo e il suo naso affondò tra i suoi capelli biondi, aspirando un odore che sapeva di lontano e di irraggiungibile. John rimase sbigottito di fronte a quello slancio e si ritrovò pietrificato tra quelle braccia così stranamente calde e confortanti. Non pensava che un semplice abbraccio potesse provocare in lui un simile effetto: il cuore aveva ripreso improvvisamente a battere, la mente ad elaborare, la testa a far male. Ogni ora sospesa in attesa del ritorno di Sherlock gli precipitò addosso senza preavviso, colpendolo dritto al petto. Quanto aveva aspettato? Perché lui non era ancora arrivato? Si ritrovò a stringere quel corpo vero, come ultimo appiglio a cui aggrapparsi prima di precipitare inesorabilmente in una voragine famelica senza fine e senza inizio.
“John…” mormorò di nuovo la donna abbracciandolo con ancora più forza. “John, alzati. Avanti… Dobbiamo andare.”
Andare? Andare dove? Andare con chi? Sherlock era sparito. O magari… magari lo stava aspettando da qualche parte fuori da quella prigione, con il suo solito sorriso sprezzante, e se ne sarebbe uscito con uno dei suoi Sei ritardo di tre minuti e trentaquattro secondi.
“Sherlock… Dov’è Sherlock?” chiese, aspettandosi stupidamente una risposta che non sapeva sarebbe potuta arrivare o meno, ma quella domanda gl’infiammava la bocca, la lingua, premeva per fuoriuscire, e per questo si diede dello stupido: in fondo, lei non sapeva nemmeno chi fosse Sherlock.
“Non è il momento di pensare a lui adesso. Forza, alzati…”
“No!” la interruppe scattando in piedi e appoggiandosi al vetro che divideva la stanza in due. “Dov’è!?”
La donna sospirò e scosse piano la testa. “Sherlock è… Cristo… penso sia meglio che tu non lo sappia. Se non ce ne andiamo ora non potremo andarcene mai più, John. Svelto!”
“Io non me ne vado senza di lui.”
“Per l’amor del cielo, muoviti e dimenticati di lui per una buona volta! Non è la persona che pensi che sia, lo vuoi capire? Per lui non sei niente, John, niente!”
Gli occhi di John si ridussero a due fessure e prese ad avanzare verso Mary con sguardo quasi minaccioso. “Non ti azzardare a parlare di lui in questo modo. Lui mi ama e io amo lui, e per questo siamo qui dentro.”
Siete? Scusa, caro, ma non credo di vedere nessun altro oltre a me e a te.”
“Lo hanno portato via…”
“Portato via, eh? No, no, John, non l’hanno portato via. E’ tutto parte di un piano. Dio mio, ma perché non vuoi semplicemente schiodarti di lì e seguirmi per il tuo bene!? Sono riuscita ad ottenere questi pochi minuti, fuori la strada è libera… Per favore, non posso lasciarti morire.”
“No.” rispose fermamente, indietreggiando e volgendole le spalle. Mary corse verso di lui e gli circondò le spalle con un secondo abbraccio. “John…” sussurrò, il tono incrinato dalle lacrime. “… io ti amo, capisci? Non posso vederti morto, non posso permettere che tu muoia per lui.”
“Vattene, Mary. Sei intelligente e bella e divertente, non avrai difficoltà ad incontrare qualcuno che sia in grado di amarti come io non ho saputo fare.”
Lei scosse la testa freneticamente. “Io non voglio nessun altro che te, John. Sei stato tutto il mio mondo, non posso dimenticarmi di te…”
John si voltò, gli occhi alla stessa altezza della donna. Si trovò a sorridere interiormente, abituato com’era alla statura di Sherlock, a quel doversi sporgere in punta di piedi per afferrargli il bavero del cappotto e tirarlo a sé. Le circondò il viso con le mani e asciugò due lacrime con i pollici. “E allora ricordami. Portami nel tuo cuore come l’uomo che è morto per la persona che amava.”
“Sherlock ti ha solo usato. Non è l’uomo che pensi, John, lui non ti ama…”
“Basta.” sentenziò distogliendo lo sguardo e lasciandola andare. “E’ tempo che te ne vada.”
“John…”
Ma le parole di Mary vennero interrotte da un trapestio concitato fuori dalla cella. Sul rettangolo della porta comparvero le figure di due guardie.
“Tempo scaduto.”
“No, aspettate…” biascicò la donna mentre uno dei due uomini le afferrava con delicatezza e quasi deferenza il polso e la trascinava gentilmente fuori. “John, ripensaci! Non fare il mio stesso sbaglio! Non ostinarti ad amare qualcuno che non lo fa! John, ti prego!”
Ma le sue grida si dissolsero lentamente, lasciando solo una eco disperata e piangente. John si passò una mano sul volto e, tra le dita che gli velavano il viso, scorse la guardia restante fissarlo con quasi disgusto.
“Dov’è mio marito?” domandò mantenendo il mento alto e lo sguardo fiero.
L’uomo ridacchiò appena, scuotendo il capo, e masticando un che schifo, ma poi si ricompose, senza però lavarsi dal muso quel suo ghigno. “Di certo, in un posto migliore di quello in cui andrai tu.” Il medico corrugò la fronte e nel frattempo la guardia gli si avvicinò, le manette che gli scintillavano in mano. “Sta’ buono e non peggiorare la tua condizione, frocetto. Vedrai che tra un’ora o poco più sarà tutto finito e… buona notte, Vienna.”
John lasciò che le manette gli circondassero i polsi e gli ferissero la carne da quant’erano strette, ma sul suo volto non lasciò trasparire alcun tipo di sentimento. Sherlock, la notte in cui si erano sposati, aveva parlato di dignità, e anche se lo aveva fatto con leggerezza e ironia, aveva ragione: sarebbero morti, se ne sarebbero andati tra le urla sdegnate e i fischi della gente, al cospetto di un mondo ingiusto, che faceva schifo, ma l’avrebbero fatto con onore.
“Se pensi sia troppo stretto, puoi anche attaccarti al cazzo. Tra l’altro, immagino che non ti dispiaccia.”
Strinse i denti e tenne gli occhi alti e saldi. Dentro di sé stava bruciando di rabbia, di odio, forse anche di umiliazione, ma non avrebbe permesso a nessuno di avere il potere di leggergli dentro. Solo una persona lo aveva fatto e per quella persona oggi moriva.
“Eccomi, Ted.”
“Larry, vieni. Stavo giusto accompagnando il frocetto alla forca. E’ uno spettacolo che non puoi perderti.”
“No, direi di no.” Il nuovo arrivato si avvicinò a John, gli occhi che brillavano di malizia e le labbra aperte in un sorrise beffeggiatore. “Che faccino adorabile, Ted. Fa quasi voglia di diventare froci solo a guardarlo.”
John assottigliò lo sguardo. “Tempo perso, sono impegnato. Per altro siete entrambi decisamente troppo stupidi e troppo poco stronzi per i miei standard.”
Il volto di Larry venne deformato da una smorfia di rabbia e le sue labbra si aprirono per lasciar fluire uno sputo che arrivò dritto sugli occhi del medico. Ted, invece, gli assestò un calcio nel basso ventre, costringendolo in ginocchio, dolorante, ma la sua bocca rimase sigillata e non permise che alcun gemito ne fosse liberato.
“Oh, ma guarda! Cosa sono queste cose che hai infilate negli anulari?”
“Cazzo, Larry, ma sono due anelli.”
“Non provate a toccarli…” ringhiò John quanto più forte il dolore gli permetteva, ma una ginocchiata tra le scapole lo ammutolì. Si ritrovò con la faccia schiacciata a terra. Puntando i palmi delle mani a terra, cercò di risollevarsi, ma le braccia erano così deboli che tremavano sotto il suo peso. “Ho detto… non provate a toccarli.”
Entrambe le guardie scoppiarono a ridere a quella visione così patetica e una di loro si chinò su di lui, afferrandolo per i capelli. “Altrimenti che fai, eh? Ti arrabbi? Ce la fai pagare? Vediamo.”
Con orrore, John avvertì il metallo della fede nuziale scivolare via dal suo dito. Provò a dimenarsi, ma un calcio lo bloccò sul pavimento freddo. I suoi occhi bruciavano di rabbia, di dolore, di vergogna per la sua infinita debolezza. Le risate dei due lo schiaffeggiavano, colpendolo con ancora più violenza delle percosse.
Sherlock.” lesse ad alta voce uno degli uomini. “Minchia, ti sei fatto il figlio in persona di Siger Holmes. Punti in alto, eh?”
“Ai piani ai alti per un periodo non si è parlato altro che di una sua missione. Che sia questa? Pensa cos’è stato costretto a fare, quel poveretto, per lo Stato! Si è dovuto fottere un altro uomo…”
John serrò i pugni, le dita che stridettero contro il pavimento liscio e marmoreo. Non vedeva l’ora che quello strazio finisse. Non vedeva l’ora che le pallottole dei fucilieri lo ammazzassero. Non vedeva l’ora di scorgere Sherlock, magari in salvo da qualche parte, bloccato da un inquisitore qualunque o magari da suo fratello, vivo.
Sherlock.
Pensò al suo volto spigoloso, alla sua pelle diafana, ai suoi occhi color del ghiaccio, ai suoi ricci spumosi, al suo cappotto scuro, alle sue labbra morbide, al suo cuore che gli apparteneva. Negli occhi, nella mente, nel cuore, quell’immagine idilliaca, proibita, dannata. Sherlock sapeva di salvezza nonostante la disperazione, di amore nonostante la lontananza, di libertà nonostante la prigionia, di vita nonostante la morte.
“Alzati, frocio del cazzo.”
Pensò a lui mentre lo trascinavano fuori, mentre lo schernivano, mentre lo percuotevano con calci o schiaffi o pugni, mentre lo spingevano in una stanza qualunque di Buckingham Palace. Si ritrovò nuovamente in ginocchio, schiacciato a terra dal peso di uno dei due che si era seduto sopra la sua schiena incurvata.
“Ehi, tu! Sei nuova, vero?”
John riuscì a malapena ad alzare lo sguardo e ad incontrare la figura di una ragazza dai capelli rossi e gli occhi verdi che lo fissavano con qualcosa che sembrava pietà ma che era più dolce. Quello sguardo lenì il suo dolore come un balsamo rigeneratore.
“Oggi ti dovrai occupare di questo frocio, ma non temere se pensi che la tua giornata faccia schifo: stasera sono libero, ti va di uscire a bere qualcosa?”
“Ehi, amico! Sei un idiota bastardo! Era il mio turno!”
La ragazza accorse verso di John e con uno spintone scacciò la guardia che sedeva su di lui. “Fuori.”
“Ehi, bella, sta’ calma, voglio solo bere qualcosa per rompere il ghiaccio.”
Lei alzò lo sguardo sui due, una maschera di ribrezzo in viso. “Bravo, è un ottima idea. Ho sentito che al polo Nord, in questo periodo, i ghiacci si stanno sciogliendo con più frequenza. Magari se ci cammini sopra va a finire che cadi in acqua e affoghi, sarebbe l’appuntamento migliore del mondo. E adesso, liberatelo dalle manette e poi fuori.”
John sorrise appena e avvertì la voglia di complimentarsi con quella ragazza per la sua meravigliosa acidità. I due, stranamente, non fiatarono ulteriormente ed eseguirono gli ordini senza obbiettare. Una volta usciti, lei tornò con gli occhi apprensivi fissi su di lui.
“Mio Dio, ma come ti hanno ridotto…”
Il medico si lasciò condurre con gentilezza fino a raggiungere una comoda poltrona. Non appena il suo corpo toccò i soffici cuscini, le sue labbra emisero un sospiro sollevato e le palpebre ricaddero stanche sui suoi occhi. Dopo un po’, il suo viso venne cosparso di qualcosa di fresco e rigenerante.
“E’ una pomata miracolosa. Ti aiuterà col dolore e con questi brutti lividi.”
Non rispose e si abbandonò completamente alle dita capaci di quella sconosciuta così premurosa con lui quando non avrebbe dovuto esserlo.
“Ecco fatto.”
“Che ci faccio qui?”
Lei sospirò. “Ti do una sistemata prima che tu venga presentato in pubblico.”
“Sul Justice Podium?”
Lei non rispose e afferrò un cofanetto ricco di trucchi di ogni gradazione e tipologia. Immerse due dita in una crema marrone e prese a spalmargliela sulle guance e intorno agli occhi.
“Che cos’è?”
“Fondotinta, per nascondere i lividi e ridarti un po’ di colore. Sei pallido come un cencio.”
“Non penso che da morto possa fare molto contro il pallore.” ridacchiò lui con amarezza. La ragazza interruppe il suo lavoro e si perse a contemplare l’espressione rassegnata di quell’ometto così piccolo e solo. Sospirò tristemente e poggiò il cofanetto su un tavolino basso, accanto alla poltrona. “Vi odio.”
“Noi Incompleti?”
“Sì.”
“Non sei l’unica.”
“No, non vi odio perché siete diversi, vi odio perché morite.” replicò con un sorriso triste. “Sai, qui la gente arriva, mi racconta la propria storia, le proprie colpe, poi se ne va e non torna più. Sono l’ultima persona con cui ogni prigioniero può parlare. Mi chiedo sempre che diritto ho, io, di poter parlare con voi prima che vi espongano in pubblico e vi spediscano o in un altro paese o in un laboratorio o nella tomba. E ovviamente, mi rispondo sempre che è il mio stupido lavoro, che è così che funziona e che non si parla di diritti, di sentimenti, di umanità. Questo sistema non è altro che una macchina. Una gigantesca macchina e niente più.”
John ridacchiò e arrossì lievemente quando si accorse che la ragazza lo stava fissando con il broncio, come se la stesse prendendo in giro. “No, scusa, è che una volta ci ho chiamato una persona, così. Ero arrabbiato e deluso e me la sono presa con questa persona che proprio non se lo meritava. Oddio, da un lato si era comportato da vero stronzo, ma la sua era una semplice maschera.”
“Dev’essere un uomo molto fortunato.” osservò lei con un sorriso. John alzò lo sguardo su di lei in cerca di risposte. “L’uomo che ami. E’ di lui che stai parlando, vero? Ti brillano gli occhi e hai ripreso a sorridere.”
Il medico sospirò e affondò la nuca nello schienale della poltrona, immaginandosi per un attimo a Baker Street, di fronte ad uno Sherlock intento a suonare una dolce melodia da lui composta. “Sono così intuibile? Però! Non so davvero come sia riuscito a non farmi beccare dall’Inquisizione per tutto questo tempo.”
“Hai voglia di raccontarmi la vostra storia?” domandò lei.
Era strano, ma la sua voce non lasciava intuire curiosità o invadenza. Era una semplice richiesta che sapeva mirata a farlo distrarre dall’apocalisse che presto si sarebbe scatenata fuori da quella stanza. E un’altra cosa strana, era che John Watson non si fidava di nessuno veramente, eppure qualcosa in quella ragazza lo spingeva ad aprirsi con lei, a confidarsi. Per qualche ragione senza senso gli ricordava sua sorella.
“Da dove cominciare?” ridacchiò facendo appello ai suoi cassetti della memoria, anche se non c’era davvero qualcosa da tirar fuori da sotto pile di ricordi inutili: ogni istante vissuto con Sherlock era scolpito nella sua mente, nitido e terso come il cielo in una limpida mattinata d’estate. “Per fartela breve, lui mi ha avvicinato con un secondo fine e siamo andati a vivere insieme, come semplici coinquilini, ovviamente. Col passare del tempo ci siamo resi conto di questa… attrazione, chiamiamola così, e proprio quando stavamo per renderci conto che il nostro rapporto andava molto oltre l’amicizia, ho scoperto che faceva il doppio gioco alle mie spalle. Così me ne sono andato e ho provato ad andare avanti. Dopo due anni senza avere sue notizie, avevo chiesto alla mia fidanzata di sposarmi e lei aveva accettato. Sembrava andare tutto alla perfezione, ma poi lui è ripiombato nella mia vita e ho capito di non averlo mai dimenticato e di non aver mai smesso di provare quello che provavo. Il giorno del mio matrimonio ho lasciato la sposa sull’altare e sono corso da lui, mi sono dichiarato ed è iniziata la nostra storia travagliata e sofferta. Dopo tante difficoltà e crisi, abbiamo deciso di andarcene di qui e siamo partiti per Cuba dove ci siamo fatti a vicenda la proposta e dove alla fine ci siamo sposati senza invitati, testimoni o addirittura celebranti. Solo noi due.” Il sorriso che gli increspava le labbra svanì a poco a poco, schiacciato dai ricordi più dolorosi e più vicini. “Al check-in per Cuba, l’Inquisizione ci ha trovati, non so come e non so neanche come sia possibile perdere tutto a così poco dalla libertà… E poi, bè, il resto più o meno lo sai.”
Lei abbassò gli occhi sulle sue giunte in grembo. “Che storia…”
“Già, storia che però è destinata alla rovina perché siamo diversi.”
“Non ho mai sentito una storia d’amore del genere, mai. O quasi.”
John sospirò e i suoi occhi si riempirono di sofferenza liquida e amara. Cercò di respirare profondamente, ma un nodo alla gola glielo impedì. “Adesso io sono qui… e non ho la più pallida idea di dove sia lui, se stia bene, se sia vivo o morto…” Si passò una mano sugli occhi per scacciare un paio di lacrimoni che minacciavano di fuoriuscire. “So solo che mi ha detto che mi amava, che me l’hanno portato via da sotto agli occhi e che ora la gente dice che niente era vero, che lui mi ha… mentito, ma io non ci credo. Non potrei mai crederci.” Puntò il suo sguardo in quello della ragazza. “Non ho paura di morire. L’unica cosa che voglio ora è che lui viva.”
Lei sospirò mestamente. “Credi davvero che sia quello che vuole anche lui?”
“Che intendi?”
Scrollò timidamente le spalle. “Niente, solo che certe volte è più difficile vivere che morire. E ancora più difficile, per un morto, è vedere i propri cari vivere senza farlo realmente. Se tu avessi la possibilità di vivere senza di lui o di seguirlo anche nella morte, che cosa sceglieresti?”
John ponderò attentamente quelle parole. “Ovviamente di morire.”
“E se invece fossi tu quello a morire e in un ipotetico mondo ultraterreno osservassi la vita dell’uomo che ami scorrere come una maledizione, non penseresti che sia meglio fosse morto con te?”
“Forse hai ragione, però… io non potrei sopportare l’idea di vederlo morire. Sono egoista, non è vero?”
“No, affetto. Sei solo innamorato.” rispose con un sorriso la ragazza. Calò qualche istante di silenzio carico di tensione e forse anche di imbarazzo. John doveva ammettere che l’aver parlato con quella ragazza l’aveva aiutato ad accarezzare i suoi ricordi più belli di Sherlock, a riviverli – quasi –, a riassaporare emozioni e sentimenti che credeva sepolti dalla paura e dall’umiliazione.
“John.” Il suono del suo nome pronunciato dalle labbra di lei lo fece sussultare. Non le sembrava di averle detto il proprio nome, ma probabilmente lo conosceva per sentito dire, magari l’aveva ascoltato dalla bocca di qualche guardia o letto in qualche scartoffia di lavoro. “Qualsiasi cosa accada là fuori, ricordati quello che mi hai raccontato, aggrappati a quei ricordi con tutto se stesso e non lasciarli andare, mai. Capito?”
John annuì e contemporaneamente si diffusero dei sonori battiti alla porta.
“E’ ora.” grugnì una voce maschile, che non sembrava appartenere a una delle guardie di prima, dall’altro lato della parete.
Il medico si voltò di scatto verso la ragazza, quasi in cerca di una rassicurazione da parte di una madre o di una sorella maggiore.
“Un minuto!” rispose lei alzando la voce, ma affrettandosi, subito dopo, a riavvicinarsi a lui. “Finirà presto, John, te lo prometto.”
“Non voglio andare.” mormorò il medico con voce quasi infantile.
La ragazza si chinò di fronte a lui e poggiò entrambe le mani sulle sue ginocchia. “Lo so, lo so, e credimi, non te lo chiederei se non fosse necessario, ma devi andare. Ti prometto che non sarai solo, ci sarò io con te.”
John sorrise tristemente. “Promesso?” chiese ingenuamente porgendole un mignolo che lei si affrettò ad incatenare col suo.
“Promesso.”
Lui le prese entrambe le spalle e gliele strinse con affetto. “Io lo so che ci conosciamo da appena dieci minuti, ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me. Quando… quando sarò morto, promettimi che troverai Sherlock e che ti prenderai cura di lui.” Che richiesta stupida. Ne faceva tante ultimamente, ma forse la morte rende solo tutto più banale e insensato. Sapeva che per lei sarebbe stato impossibile eseguire tale preghiera, ma nonostante questo aveva bisogno di sentirsi dire che, almeno Sherlock, sarebbe stato bene e al sicuro.
“Promesso.” rispose di nuovo la ragazza sorridendo, poi avvicinò le labbra alla sua fronte e gli depositò un bacio caldo e vivo, poi fece scivolare sul suo dito un qualcosa di freddo. Trattenne il fiato nello scorgere la fede, di nuovo luccicante e splendida sul suo anulare. Rimase a contemplarla per istanti infiniti e si chiese come potesse averla recuperata, ma la sua voce interruppe il filo dei suoi pensieri. “Non dubitare, John.”
“Di che cosa?”
“Dell’uomo che ami, della mia promessa, del fatto che io sarò lì con te.”
“Non lo farò anche se credo sarà un po’ difficile per te starmi accanto.”
Ma il sorriso non abbandonò le labbra della ragazza. “Oh, John, ho superato barriere ben peggiori pur di starti sempre accanto.”
John sgranò appena gli occhi e aprì le labbra per parlare, ma la porta venne spalancata da un uomo in nero la cui mano si serrò attorno al braccio del medico e lo trascinò con insistenza verso la porta. “Aspetta un secondo, un secondo solo… Qual è il tuo nome?”
La ragazza sorrise, le gote rigate due lacrime di cristallo. “Harriet.” E detto questo, scomparve.
 
***
 
Era lei. Prima una semplice ragazza coi capelli rossi e poi una giovane donna dagli occhi vivi e piangenti. Era lei. Rise, John, mentre gli energumeni lo trascinavano attraverso un condotto sotterraneo. Da sopra la sua testa provenivano suoni di vita quotidiana – fischi di freni, clacson, passi frettolosi, grida di cittadini. Da dove si trovavano loro, ogni minimo rumore era perfettamente percepibile, nonostante il cemento e il metallo del tunnel. Sapeva dov’erano diretti. Sapeva perché si trovavano in quel cunicolo angusto e gocciolante d’umidità. Sapeva quale fosse il suo destino. Ma quello che non sapeva era in realtà ciò che gli importava di più sapere. Sherlock. Un’incognita costante che durante un intera equazione si è costretti a trascinarsi dietro. Dov’era Sherlock? Stava bene Sherlock? Lo amava Sherlock? Scacciò dalla mente l’ultima domanda, vergognandosi di essere anche solo lontanamente capace di pensare una cosa del genere.
Camminava. Macinava velocemente quel pavimento su cui gocciolava acqua ristagnante. Andava incontro all’inevitabile. Istintivamente prese a giocherellare con la fede, accarezzandosela col pollice della mano destra. I minuti passavano e lui camminava affiancato da inquisitori dall’aria truce ma che se non altro non lo sfottevano come quelle due guardie. Trascorsero una ventina di minuti prima che nell’oscurità si affacciasse una colonna di luce davanti alla quale degli altri inquisitori aspettavano. Cercò voracemente tra quelle figure, ma lui non c’era. “Dove sei?”
Vedendoli arrivare, uno degli uomini dinnanzi a loro si portò una mano all’orecchio e borbottò nitidamente un sono arrivati. Fu questione di pochi minuti prima che una voce generosamente amplificata echeggiasse per tutto il corridoio sotterraneo. John alzò lo sguardo per individuare la fonte della luce e della voce: una botola, e in quei pressi doveva esserci, con tutta probabilità, il Justice Podium. Quella voce che a mano a mano salutava il Paese, non apparteneva al fratello di Sherlock. L’aveva sentito molte volte alla tv e avrebbe giurato che non era lui.
“Popolo della Gran Bretagna – voi che siete qui riuniti e voi che assistete da casa –, ti porgo i miei omaggi! Non sapete quanto mi colmi di gioia vedervi tutti qui riuniti! La feccia e le lordure si stanno diffondendo tempestivamente, ma con gli attacchi a Cuba ci sono buone probabilità di stanare definitivamente ogni Incompleto rimasto in ogni parte del mondo!”
Lo sproloquio di quel folle qualunque tra tanti altri folli continuò imperterrito per altri dieci minuti, concedendo a John il tempo necessario per chiudere gli occhi e cercare accanto a sé sua sorella. Non seppe se l’aveva trovata, se era lei, ma dopo poco venne attraversato da una scia tiepida e rassicurante che sapeva di casa. Sapeva di Sherlock, di Harriet, di Clara, di Gary e Billy, del vecchio covo di Incompleti, della signora Hudson, del 221B, di quella felicità preclusa. Sorrise. Andava bene. Andava tutto bene. Se l’era ripetuto durante l’infinito cammino attraverso l’America e se lo sarebbe ripetuto anche ora che il suo viaggio, quello vero, stava terminando. Il treno si era appena fermato per lui. L’altoparlante, invece che la stazione, chiamava il suo nome. E John… John aveva un bagaglio tanto carico quanto leggero: non aveva rimpianti o rimorsi, non aveva parole taciute o desideri inespressi. Si guardò un attimo indietro e si fece la fatidica domanda: ne è valsa la pena di vivere? E l’odore assente eppure impresso nei suoi ricordi di quell’acqua di colonia, di quella schiuma da barba, risposero che no, non ne era solo valsa la pena, ma era stata la vita più bella che avesse potuto vivere.
Ti amo.
Quelle parole lo colsero impreparato. Quasi sussurrate sul suo orecchio. Quasi urlate nel suo cuore. Si guardò intorno, alla ricerca di quegli occhi, ma intorno a lui solo buio e nemici. Forse era solo la sua mente che cominciava a perdere lucidità o forse i troppi ricordi, però… però si strinse al cuore quelle parole, si accoccolò tra loro e chiuse gli occhi, attenendo che il buio e l’oblio giungessero.
“…Ma tra tutti i peccati… l’omosessualità! Che abominio! Che aborto della natura! Se dovessi associare alla parola impurità un sinonimo, sceglierei di certo questa. Due esseri dello stesso sesso che affermano di amarsi… semplice follia! Questo amore non è vero, non è sano! Dobbiamo estirpare questo peccato, amici! Eppure, ci sono persone che pur non essendo Incompleti si ostinano a credere il contrario. Per tutti coloro che sostengono questo, volete davvero vedere che cos’è questo amore impuro? Portate avanti il condannato!”
Gli inquisitori spinsero in malo modo John ad arrampicarsi sulla scaletta che conduceva fuori, dove si erano affacciati i volti di altri rappresentanti del Governo in attesa del loro agnello sacrificale. Prima ancora che si fosse issato fuori, questi ultimi lo presero e lo tirarono violentemente per le braccia, strattonandolo verso il Justice Podium che s’innalzava con maestosità vibrante sotto alcuni timidi raggi di sole. John osservò il palco che aveva più volte scorso facendo zapping alla tv; anni prima avrebbe pensato di finire lassù, sì, ma non per il suo amore verso un uomo. Sorrise a quel pensiero mentre lo spintonavano sul palco e un’ondata di grida di disgusto e disprezzo accoglieva la sua misera entrata. Sul Justice Podium s’innalzava un palo in metallo, somigliante ad un gigante che tendeva il suo unico braccio verso il cielo. E verso quel gigante lo condussero, costringendolo a terra e legandogli le mani ad esso con un nodo così stretto che credette che la circolazione avrebbe potuto fermarglisi. Intanto, le grida e gli insulti crescevano sempre più, sempre più, sempre più… erano così potenti e logoranti da potergli quasi sfondare i timpani.
Distolse lo sguardo da terra per puntarlo sull’orda di belve che inneggiavano all’Inquisizione e alla sua morte. Eccoli là, i suoi carnefici. Tutti riuniti di fronte a quel palco di vittoria e sconfitta, al cospetto di un uomo qualunque dai capelli castani tirati indietro, vestito elegantemente, e con i suoi occhi nocciola fissi sdegnosamente su di lui. Gli scherni erano intermezzati da un nome che sembrava in grado di distruggere Londra al sol pronunciarlo. Moran. Intuì che si trattasse di quell’individuo che lo osservava come la peggior feccia del pianeta. Quello alzò un braccio e le urla si placarono in un istante. Il silenzio piombò desolante come gli effetti di una granata.
“Costui” sputò acidamente Moran avvicinandosi a John. “è accusato del peggior crimine di cui un individuo possa essere accusato.”
Il medico si concesse un mezzo sorriso. “Non mi pare di aver mai ucciso nessuno. Per quello siete più che sufficienti tutti voi.”
Trafalgar Square intera proruppe in ingiurie e improperi, tanto che anche l’uomo sul palco faticò a riportare la calma. John mantenne lo sguardo fiero e dentro di sé da un lato sperò che Sherlock potesse vederlo, in quel momento. Orgoglioso. Intrepido. Sprezzante. John Watson. Si sentiva se stesso, ora più che mai. Con Sherlock non aveva bisogno di essere qualcuno. Con Sherlock era semplicemente un idiota innamorato e folle. Senza Sherlock sarebbe stato nessuno, ma lui non poteva permetterselo. Perciò lì, dinnanzi all’intera Gran Bretagna, sorrideva e fissava impassibile quei volti inviperiti che aprivano e chiudevano la bocca in fischi e strepiti di disapprovazione.
“Hai coraggio.” osservò con tono quasi ammirato l’inquisitore. “Ma se pensi che questo ti salverà, allora sbagli di grosso.”
“No, io non penso niente, davvero.” replicò semplicemente lui. “Sto soltanto cercando di far capire a tutti i signori qui presenti che sono consapevole del perché mi trovo inchiodato a questo palo ma di certo non mi dichiarerò colpevole di un qualche crimine.”
“Silenzio!” ruggì Moran abbassandosi su di lui e menandogli uno schiaffo in pieno volto. “Sei un impudente… o forse un povero illuso?”
John si morse il labbro inferiore e si rivolse nuovamente alla folla. “L’amore non è mai un crimine! Pensate come sarebbe se foste voi ad essere perseguitati, scovati, uccisi solo per la persone che amate.” Di nuovo, il colpo dell’inquisitore troncò le sue parole, ma John non si arrese. “Come può l’amore essere qualcosa di impuro? Come possono due persone che si amano essere dalla parte del torto talmente tanto da essere uccisi per questo?”
Un paludoso silenzio abbracciava le file scomposte della folla. La gente ascoltava. La gente elaborava. La gente capiva. O avrebbe potuto capire. Quel pensiero gli illuminò il volto e gli diede la forza necessaria per sopportare i colpi di Moran che ormai sembravano mirati con l’unico intento di assaporare la sua sofferenza. Che cosa sarebbe successo se il mondo avesse capito che quelli che si trovavano al potere erano dei folli? Ci sarebbero state rivoluzioni, battaglie, bandiere per la libertà sventolate in alto. Quelle immagini gli sfilarono davanti agli occhi luminose e traboccanti di speranza. Comunque, lui non sarebbe vissuto abbastanza per scoprire se un qualcosa del genere avesse mai potuto verificarsi.
“Sei davvero sicuro che l’amore che ti legava col tuo compagno fosse reale?” domandò improvvisamente Moran, ricomponendosi e cercando di contenere un ulteriore schiaffo mentre gli occhi di John lo sfidavano.
“Non esiste niente di più reale.”
“Bene! Avete sentito tutti, no? Perfetto. Adesso, dimmi, prigioniero, qual è il tuo nome?”
“John Watson.”
“D’accordo, John. Guardati intorno. Stai per morire, eppure c’è qualcosa che stona, non trovi? Che cosa?”
John studiò il palco attentamente. Forse era l’influenza di Sherlock, ma c’erano così tante cose che stonavano! L’assenza di un secondo palo, quella dei fucilieri, quella di Sherlock – anche se per quest’ultima non poteva che rallegrarsi.
“Cos’è, hai paura di aver intuito?”
Intuito? Che cosa c’era da intuire? John corrugò la fronte, gli occhi che saettavano da una parte all’altra del Justice Podium. Se ci fosse stato Sherlock, al posto suo, avrebbe di certo capito tutto, ma lui… lui non era Sherlock, perché Sherlock sarebbe vissuto e lui sarebbe morto. Doveva essere così. Era pur sempre il figlio di Siger Holmes.
“Pensa, John Watson, pensa!”
Avvertiva il corpo teso, i muscoli attenti, il cuore impazzito. La sua mente pedalava furiosamente alla ricerca della risposta. Cosa stonava? Cos’era intuibile? Perché mancava un palo? Perché mancavano gli esecutori? Perché… cosa… perché…
Moran scoppiò a ridere e batté le mani in un applauso di scherno. “Bravo, John Watson, il tuo intuito è spettacolare. Non ci arrivi, eh? O magari non ci vuoi arrivare.” Si portò una mano all’orecchio e John ebbe l’impressione che avesse premuto qualcosa. “Fatelo venire avanti.”
L’istante seguente, sul podio echeggiarono dei passi sicuri che risalivano le scale che conducevano alla sua sommità. John seguì lo sguardo gongolante dell’inquisitore, aspettandosi di veder comparire un qualche soldato con in braccio un fucile carico di colpi con cui lo avrebbe trivellato.
E invece no. Non un soldato. Non un inquisitore. Non un carnefice. Un uomo alto. Slanciato. Bellissimo.
Sherlock Holmes.
John contemplò la sua figura magnetica stagliarsi splendidamente verso il cielo, il corpo magro rivestito da un elegante completo nero, uno di quelli che soleva indossare quando abitavano ancora al 221B. In quella magnificenza quasi divina, vi era, però, un qualcosa che stonava, come una nota errata in una composizione armonica: il suo volto era infatti una maschera imperscrutabile, le labbra strette, la fronte distesa. Ma furono gli occhi, più di quel quadro generale, a infondere in lui un’emozione oscura, quasi sinistra: erano gelidi e… vuoti. Non erano gli occhi di Sherlock, con le loro pupille dolcemente dilatate, le loro iridi costellate di pagliuzze dorate, il loro incontenibile amore.
Seguì la sua avanzata in direzione di Moran, trattenendo il fiato e studiando con confusione quella figura rigidamente impettita in una posa quasi da soldato obbediente. L’inquisitore lo accolse spalancando le braccia e depositandogli pacche amichevoli sulle gracili spalle, un sorriso falsamente esteso sulle sue labbra.
“Sherlock Holmes!” lo presentò come se la Nazione intera non lo conoscesse già come uno dei simboli portanti del sistema dell’Inquisizione. Un applauso tempestato da urla di esaltazione e di giubilo scosse interamente lo stuolo astante. “Il nostro ospite speciale!” L’applauso continuò per quelli che sembrarono eterni minuti di agonizzante smarrimento che tormentava il cuore di John. I suoi occhi, ora di un blu profondo come la sua inquietudine, studiavano apprensivamente suo marito che, dalla sua entrata, non l’aveva degnato di uno sguardo. Quando finalmente la calma ritornò signora di Trafalgar Square, Moran continuò, senza allontanare la mano dalle spalle di Sherlock. “Ovviamente lo conosciamo tutti, il figlio minore del grande Siger Holmes, pace all’anima sua.” Vi furono mormorii d’assenso. “Ma quello che probabilmente, o forse dovrei dire sicuramente, non sapete… è che anche lui, come un comune essere umano, è stato affetto dalla malattia da cui, più di tutte, dobbiamo guardarci: l’omosessualità.”
Un boato di incredulità squassò la piazza intera: la gente cominciò a volgersi a destra e a sinistra scompostamente per scambiare parole inviperite o sconcertate riguardo alla gigantesca notizia appena data loro. Era stata sganciata una bomba dagli effetti desolanti: per la piazza si scatenò un tumulto, con persone che alzavano in alto i pugni e strepitavano bestemmie e insulti nei confronti di Sherlock – il cui volto non accennava a mostrare alcun’emozione – altre, invece, cercavano di acquietarle inutilmente, finendo spintonati in direzioni diverse. “Silenzio!”
L’urlo di Moran echeggiò in ogni dove, facendo tremare dalle viscere il capannello di spettatori raccolto di fronte al Justice Podium. Quando una nuova quiete calò su tutti loro come pioggia dal cielo, l’inquisitore riprese a parlare come se niente fosse successo. “Con questo, vogliamo dimostrarvi che noi tutti siamo a rischio. Il nostro rango non ci protegge. Dobbiamo prendere misure di sicurezza più estreme: dobbiamo eliminare questa minacce dalle radici. Eliminiamo i sovversivi e ricreiamo uno stato di pace e omogeneità. Ma per farlo definitivamente, tutti voi dovete capire, vedere coi vostri stessi occhi che questo… legame – non oso spingermi a chiamarlo sentimento – non è puro, anzi, è la matrice dell’impurezza.” Moran si volse nuovamente verso Sherlock e strinse ancor di più la presa sulle sue spalle. “Ora mi rivolgo a te, Sherlock: spiega a tutti gli onesti cittadini britannici il perché tu sei qui, accanto a me, e non prostrato ai miei piedi.”
John attese, il cuore che sembrava aver smesso di battere: si aspettava che l’altro si aggiustasse il vestito, che si lisciasse la giacca, che prendesse a strofinare il pollice contro l’indice come faceva quando era nervoso, ma quello non si smosse neanche per fare un passo avanti.
“Come ho già detto di fronte alla più alta autorità del Paese, io mi dichiaro colpevole.” Nella folla si diffuse un sommesso borbottio che presto venne, però, spezzato dalla voce del detective. “Mi dichiaro colpevole e sono pronto a prostrarmi a terra e redimermi per le mie azioni sconsiderate.” John strinse gli occhi, riducendoli a due mere fessure a malapena necessarie per osservare la scena. “A causa di questa mia… spiacevole condizione ho rischiato di commettere il più grande sbaglio della mia vita, di piegarmi di fronte al peccato, ma grazie all’efficienza dell’Inquisizione ora so di aver sbagliato. La nebbia che prima sembrava offuscarmi la vista è ora completamente scomparsa ed io sono rinsavito. Questo sentimento, come voi lo chiamate, non è amore, certo che non lo è. E’ un qualcosa di infido che ti s’insinua dentro e ti spinge alla pazzia.” Finalmente, con estrema e addirittura solenne lentezza, si voltò, gli occhi artici su di John. “E’ l’incrinatura in una lente, un mero difetto chimico, niente più.”
E a John parve quasi d’essere catapultato nuovamente ai giorni in cui Victor Trevor era entrato nelle loro vite, ai giorni in cui Sherlock srotolava la sua trama di piani per tenerlo al sicuro, ai giorni in cui aveva irrimediabilmente dubitato di lui e del loro amore. La sua testa gli diceva che stavolta era diverso, che c’era qualcosa che – come aveva detto Moran – stonava, ma lui rifiutò categoricamente quel pensiero, rinchiudendolo in un meandro buio della sua coscienza. Sherlock era… era il suo eroe. Lo aveva sempre tirato fuori da ogni situazione, gli era sempre stato accanto, gli aveva sempre offerto quella forza e quella tenacia per stringere i denti ed andare avanti, e lo aveva sempre fatto nelle maniere più disparate.
Per questo, mantenne quello sguardo, doloroso solo a scorgerlo, tentando in ogni modo possibile di comunicare con lui, di entrare nei suoi pensieri e sviscerare i suoi reali intenti. Ma quegli occhi erano porte sprangate, inaccessibili.
“Perciò” riprese il detective “ora mi rimetto a voi: giudicatemi secondo le vostre convinzioni, sapendo che il mio pentimento e la mia ripugnanza verso i miei errori sono sinceri.”
La folla si rianimò improvvisamente, tuonando parole sconnesse e a tratti indecifrabili, ma alla fine fu chiaro: sporadici colpevole in mezzo ad una tormenta incontenibile di innocente. Un sorrisetto compiaciuto sfilò sulle labbra di Moran, mentre invece il viso di Sherlock rimaneva di uno stoicismo insovvertibile.
“Bene, amici!” esclamò dunque l’inquisitore battendo le mani in direzione del detective, imitato dalla grande massa di astanti. “Ora che il verdetto è stato pronunciato, c’è un’ultima cosa che dobbiamo chiedere al nostro amato Sherlock affinché ci provi, senza più ombra di dubbio, il suo pentimento.”
Un secondo inquisitore comparve sul palco e si affrettò con passi concitati verso Moran, in mano un involto di un telo rosso come il sangue. Quello accettò gongolante il regalo dell’altro, e non appena l’oggetto misterioso, velato dal drappo, fu depositato nei palmi delle sue mani, con un gesto teatrale svelò il contenuto dell’involucro. Ai tiepidi raggi del sole, luccicò diabolicamente la sagoma di una pistola nera come le interiora più profonde dell’Inferno. L’intero coacervo trattenne il fiato di fronte a quella visione e per qualche istante ogni cosa, ogni singola cosa restò sospesa in aria, come immobilizzata.
Moran assaporò l’effetto del suo gesto, del suo potere. Con estrema calma e gravità, si voltò in direzione di Sherlock, le mani, unite a coppa per ospitare meglio l’arma, protese verso di lui. “Uccidi la persona per cui hai rischiato di sprofondare nella perdizione.”
Un qualcosa all’altezza del cuore di John si smosse. Non seppe neanche lui dire che cosa fosse stato, ma sapeva che c’era stato. Per quanto quelle parole accesero una fiammata rovente in lui, non permise ad alcuna emozione di sfilare sul suo viso. Fuori, calma; dentro, caos. Un intero marasma di sentimenti e pensieri a cui faticava star dietro. Si sentiva soffocare, aveva bisogno che le manette attorno ai suoi polsi venissero allentate, che la stretta contro il palo venisse allentata, che il groviglio nel suo petto venisse allentato, ma era impotente. Un agnello perduto in mezzo ad un branco di lupi famelici, e Sherlock… Sherlock era il secondo agnello, anche lui solo e perso, nonostante il suo aspetto esterno non lasciasse dedurre alcunché. O forse… o forse era anche lui un lupo.
“Tu sai la verità, John.” echeggiò una voce nella sua testa. “Aggrappati ad essa e stringila forte, non staccartene.”
John sapeva la verità. E a quella verità si sarebbe aggrappato. Sapeva che le parole pronunciate da Sherlock non erano vere, che non l’avrebbe mai tradito, che lo amava più di ogni altra cosa al mondo. Sapeva a cosa credere.
Sherlock prese la pistola meccanicamente, rivolgendole appena uno sguardo di sufficienza, e subito le sue dita corsero alla rimozione della sicura. John cercò la verità nei suoi occhi, ma questi erano ancora serrati, distanti, irraggiungibili. Irraggiungibili come sembrava essere il suo cuore. Rimase immobile ad osservare il volto perlaceo di Sherlock rivolto sprezzantemente verso di lui, la pistola impugnata con la stessa mano che un tempo stringeva un archetto, il cuore imprigionato nello stesso petto che un tempo si era aperto, rivelando il suo tesoro nascosto. Dov’era il cuore di Sherlock?
Con le labbra articolò il suo nome, opprimendo la caterva di sensazioni che lo volevano affogare nelle loro malefiche spire. Ancora una volta, porte sprangate.
Moran si avvicinò a lui sogghignando, le mani strofinate l’una contro l’altra in un moto soddisfatto. “Ebbene, dottor Watson, siamo giunti al capolinea. Ma per il coraggio da te dimostrato, vogliamo concederti di pronunciare le tue ultime parole.”
John non spostò neanche per un istante lo sguardo da quello di Sherlock. Avvertiva come se dentro di lui non vi fossero altro che ghiacciai perenni e buio. Un vuoto così immenso da inghiottire il tutto lo colse impreparato e capì d’aver paura. Paura perché Sherlock, il suo Sherlock, avrebbe premuto il grilletto. Lo capiva dai suoi occhi. Quello non era il suo Sherlock. Non sapeva come c’erano riusciti, ma glielo avevano portato via. E per questo li maledisse, perché mai, mai avrebbe pensato di dover subire un tale supplizio, di dover guardare negli occhi l’ombra del suo antico amato che sembrava scomparso per sempre. Sherlock sarebbe diventato un assassino. Il suo assassino. E lui una vittima. La vittima di Sherlock. Tutto quello che c’era stato prima, tutti i trascorsi, le difficoltà, le avventure, le lacrime, le liti, l’amore… Dove sarebbe andato a finire tutto quello? Non poteva semplicemente ridursi a quel momento, a quel palco, a quel grilletto che da un momento all’altro sarebbe stato premuto. Venne assalito dal panico e si ritrovò a sezionare la sua piccola mente alla ricerca di un’ultima preghiera, di un ultimo miracolo…
“Ricorda, John. Ricorda chi eravate. Ricorda cosa condividevate. Ricorda e aggrappati ad esso.”
Harriet, ora, lo stava avvolgendo con le sue braccia fatte di nulla, e anche se John non poteva vederla, sapeva che era lì, con lui, alla fine.
“Ho paura.” mormorò dentro di sé.
Ricorda. Ricordami.
Spalancò occhi che la sua mente non aveva, ma li spalancò, come investiti da un raggio di sole. Quella voce… No, non era sua, non di Harriet, no. Guardò in direzione di Sherlock, statuario nella sua spietata bellezza. Lo guardò e, sebbene non fosse cambiato niente da un istante prima, sapeva che quella voce era sua. Sherlock lo stava chiamando, Sherlock lo stava proteggendo. Il suo Sherlock. E John ricordò. Ricordò ogni cosa, dal loro primo incontro al loro primo bacio, dalla loro dichiarazione sul tetto del Barts al loro matrimonio, e dal loro matrimonio fino a quell’ultimo, disperato ti amo nella cella. Sherlock aveva detto di non voler lasciare niente in sospeso. Aveva detto che qualunque cosa sarebbe successa, lui si sarebbe dovuto ricordare che lo amava e che non c’era niente di più vero del loro amore.
Si schiarì la gola, gli occhi lucidi ma saldi nel loro orgoglio e nella loro speranza. “Non molto tempo fa, ho fatto un giuramento. Ho giurato all’uomo che amavo… e che amo ancora, che avrei sempre, sempre creduto in lui, qualsiasi cosa sarebbe successa.” Sorrise debolmente nel ricordare quell’ultima sera dove erano soltanto loro due e niente o nessun altro. “Anche quell’uomo mi ha fatto un giuramento… mi ha giurato che mi avrebbe amato per sempre e che mi sarebbe sempre stato accanto, in salute e in malattia, in vita e… in morte. E per quanto assurdo possa sembrare, io ci credo ancora in quelle promesse. Hai capito, Sherlock? Io ci credo.” Il volto di Sherlock non tradì la minima emozione. “Ci credo e nessuno, ripeto, nessuno potrà mai convincermi che quello che abbiamo condiviso, che il nostro amore non è reale. Neanche tu.”
Gli ultimi, intrepidi raggi di sole vennero completamente oscurati, lasciando nient’altro che un tappeto di nuvole nere e minacciose sospeso in cielo. Qualche goccia di pioggia prese a picchiettare su quel palco che aveva visto fin troppe esecuzioni, fin troppe morti. Qualcuno della folla imprecò, qualcun altro cercò di ripararsi come meglio poteva, qualcun altro sgattaiolò via alla ricerca di un riparo. Sul Justice Podium, invece, solo una pesante immobilità.
“E’ tutto?” domandò Moran con fare annoiato.
“No, ho un’ultima richiesta.” rispose con prontezza John. “Sherlock, avvicinati.”
Sherlock non si mosse per lunghi secondi, il suo corpo come pietrificato sotto quel lento aumentare della pioggia. Infine, fece il primo passo, poi il secondo, poi il terzo, fino ad arrivare a un soffio da John.
“Inginocchiati.” sussurrò ancora il medico così flebilmente da permettere a Sherlock e a Sherlock soltanto di udire le sue parole. “Per favore.” lo implorò poi vedendo che quello non accennava a muoversi. Lentamente, il detective si chinò su di lui, le ginocchia puntate a poca distanza dai suoi piedi. John prese a tremare leggermente, non dalla paura, ma dal dolore di essergli così vicino solo per capire d’essergli in realtà sempre più lontano. Due lacrime si confusero con le gocce di pioggia sempre più insistenti e rabbiose che tintinnavano a terra con la cadenza delle lancette di un orologio, un orologio che segnava lo scoccare della mezzanotte, della fine. “Adesso, voglio che tu mi punti quella pistola al petto, dove sta il cuore.” Sherlock alzò l’arma, la cui canna affondò inesorabilmente contro il petto di John che sussultò appena a quel contatto così vivido e reale. “Okay…” mormorò, più rivolto a se stesso che all’altro. “E ora… ora, Sherlock, ti chiedo soltanto un’ultima cosa prima di sparare: poggia la mano sinistra accanto a dove punti la pistola.” La mano del detective si mosse quasi subito, raggiungendo il punto di fianco a cui teneva la canna dell’arma. Nei suoi occhi non vi fu alcun guizzo di umanità o di consapevolezza o di amore, e John avrebbe mentito se avesse sostenuto di non averci sperato anche solo per un istante. “Lo senti, Sherlock? E’ tuo. E’ sempre stato tuo.” Ma quelle parole rimbalzarono inesorabilmente contro la barriera che quel nuovo Sherlock aveva creato. John deglutì a fatica, lo sguardo incatenato con quello dell’altro, il cuore che martellava così furiosamente da poter quasi raggiungere il grilletto, fuori dal petto. La paura fece posto alla rassegnazione e la rassegnazione fece posto alla speranza e ancora la speranza… la speranza fece posto all’amore. Sorrise. Un ultimo, dolce, amaro sorriso. Un sorriso che solo lui poteva vantare. “Addio, amore mio.”
Chiuse gli occhi e quello che venne dopo fu solo un lieve bruciore al petto. Poi, buio e gelo.
 
***
 
Sotto la pioggia scrosciante, una pistola crollò a terra, il suono della sua caduta rimbombò tra la furia dei tuoni e le urla della gente. Sotto la pioggia scrosciante, Sherlock Holmes riaprì gli occhi. Davvero. Lacrime copiose gli bagnavano le guance e il suo intero corpo era scosso da singulti strozzati e talmente forti da fargli male. Da sotto le ciglia appesantite dall’acqua piovana mescolata alle lacrime, scorse un corpo senza vita piegato inesorabilmente in avanti.
“John…” sussurrò a fatica mentre ogni cosa prendeva forma e gli si disegnava di fronte agli occhi. “John…” ripeté, stavolta con disperazione e rabbia e amore. Amore, cazzo, amore! Dov’era quell’amore mentre il siero creato dalla rete di Moriarty gli entrava in circolo annullandolo completamente? Dov’era mentre sputava quelle parole infarcite d’acidume e d’odio contro di John? Dov’era mentre, con la mano a contatto col cuore risonante di John, premeva il grilletto, uccidendo l’unica persona nella sua vita che aveva mai contato, che contava, che avrebbe mai contato.
Alle sue spalle, Moran ringhiò un non doveva essere permanente?, e caos, caos, e ancora caos. E lui era lì, in ginocchio, con gli abiti imbrattati del sangue di John. Premette le mani sporche sugli occhi e pianse mentre cercava di raggiungere la pistola che giaceva ancora carica a pochi passi da lui, ma delle braccia lo afferrarono e lo tirarono via. Lui provò a dimenarsi, a scalciare, a graffiare, ma era tutto inutile. Mentre lo trascinavano verso le scalette che conducevano alla base del palco, urlò il nome di John così tante volte e così forte da ferirsi la gola. Nessuno badò a raccogliere il corpo senza vita di suo marito. Nessuno si preoccupò di lasciare che si bagnasse, che prendesse freddo, che si ammalasse… Ma che stava dicendo? John era un cadavere. Un cadavere. Un qualcosa di freddo che ormai non era altro che un mero oggetto, un pasto per gli organismi decompositori.
Lo trascinarono via. Via da John. Via dalla sua vita. Via dal suo amore. E ogni cosa che seguì… fu un vuoto straziante e incolmabile.
   
 
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