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Autore: YellowSherlock    04/04/2018    2 recensioni
Sherlock e John sono ospiti a cena nella casa di un famoso Professore londinese.
La cena verrà interrotta dalla rivelazione di un falso presente tra i quadri della collezione, con annessa riflessione sulla ricerca del vero attraverso Buoninsegna e Bach.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ciao ragazzi! Una breve FF sulle riflesioni del vero attraverso due artisti a tutto tondo: Duccio di Buoninsegna e Johann Sebastian Bach, traditi dall'arte del falso attraverso Icilio Federico Joni.
Sherlock suona questo brano qui sul cembalo: https://www.youtube.com/watch?v=IqX2IAt6bQc
Il Trittico è allegato. 
A presto.




“Sherlock! Sbrigati!!”
Apostrofò John guardando il detective imbambolato dinnanzi ad una meravigliosa copia del Trittico di Duccio di Buoninsegna.

“Non male, per essere un falso.”
“Da quando te ne intendi d’arte?”
“Da quando non me ne intendo di qualcosa, John?” rispose, riprendendo il cammino in quel corridoio sontuoso.
Il dottore rivolse gli occhi al cielo accennando un lieve sorriso, Sherlock lo esasperava ma in situazioni come quelle provava una fitta di piacere nel vederlo così acuto su ogni cosa lo circondasse.
I due coinquilini erano ospiti nella decoratissima villa di uno dei più grandi musicologi londinesi; una serata di gala a cui prendevano parte tutte le menti più brillanti della società inglese, una sorta di circolo di Mecenate.

“Vogliate seguirmi, Signori” disse il maggiordomo ai due uomini, e mentre John si mostrò cordiale, Sherlock continuò a seguire con gli occhi tutto lo sfarzo che lo circondava: stucchi dorati, quadri d’inestimabile valore e falsi ancora più preziosi.
Mobili barocchi, specchi alti fin sotto al soffitto e tappeti di velluto che odoravano di miele e camelie in contrasto con l’odore  delle cere che servivano a lucidare tutto l’argento presente in ogni centimetro che percorreva, da candelabri a gingilli.
Le finestre che davano alla sua sinistra erano drappeggiate da lunghissime tende blu avio, le quali raccolte in trecce dorate sui lati, davano agio di poter guardare gli immensi giardini che circondavano la struttura.
Era una sera di primavera, era una notte stellata.

Il Cicerone dei due amici li condusse dinnanzi al padrone di casa, il quale era intento a intrattenere gli ospiti arrivati in orario.

“John Watson.” Disse l’uomo girandosi.
“Herbet Kaplan, che piacere rivederla!” disse il Dottore allungando una mano
“Il piacere è tutto mio!” ricambiò lo studioso.
Noncurante di Sherlock, si rivolse verso gli ospiti e disse:

“Signori, vi presento il più grande medico che abbia mai conosciuto, l’uomo che mi ha salvato la vita: John Watson.”
Il gruppo di persone lì presenti, scrosciò un lieve applauso, poiché tutti erano a conoscenza del grave incidente che aveva colpito l’uomo qualche mese prima.
John gli aveva salvato la vita in una freddissima notte invernale, quando l’uomo arrivò nel pronto soccorso con una prognosi disastrosa.

Dopo aver superato l’imbarazzo di sentirsi al centro dell’attenzione, John si rivolse alla sua destra nel tentativo di trovare Sherlock per poterlo presentare, ma il detective era già approdato nelle grazie delle signore che erano all’angolo cocktail.
Sapeva di essere bello, sapeva di essere affascinante e geniale, sapeva che questo avrebbe mandato fuori di testa John.

John si congedò per un attimo da tutti quegli occhi ammiranti e con una mano toccò la schiena di Sherlock, porse le sue scuse alle donne lì presenti e lo portò più vicino a sé sussurrandogli nell’orecchio:

“Cosa diamine stai facendo! Stavo per presentarti!”
“Davvero? Pensavo fosse la festa per il tuo compleanno.”

John si morse le labbra per evitare di fare figuracce

“Ah ecco. Se non si parla di te allora non vale la pena ascoltare!”

“Dah, sciocchezze!” riprese Sherlock

“Non capirai mai! Magari è uno dei pochi traguardi che ho raggiunto nella vita, una delle poche soddisfazioni! Sai sempre come distruggere tutto, ti ringrazio per avermi fatto fare una pessima figura!  Presentarsi con una persona che si sottrae alle presentazioni! Maledetto io e che ti ho invitato qui!”

Sherlock lo guardò con il dubbio negli occhi, aveva capito di aver commesso un errore ma non era capace di focalizzarlo, si sentì improvvisamente esposto, sentì di dover rimediare e con poche falcate, scavalcò John e si diresse verso il professor Herbert.

“Salve Professore, mi scusi per averla scavalcata, avevo notato con grande interesse un meraviglioso Monet sul lato est della sala e avendone un debole, mi si è offuscata la vista.”

Il professore guardò Sherlock con ammirazione

“Sherlock Holmes.” Tese la sua mano verso la sua la quale venne ricambiata con una potente stretta.

“Sono meravigliato – disse il Professore- non mi aspettavo una tale passione…e mi dica, lavora nell’ambito dell’arte?”

A quelle parole, Sherlock si impietrì, non avrebbe mai immaginato che il suo nome non fosse arrivato alle porte di quel posto.

“No, sono un consulente investigativo.”

“Oh ottimo! – sorrise il Professore- la ingaggerò presto per sapere se mia moglie mi tradisce! “ gli sussurrò ridendo, quasi prendendosi gioco di lui.

Sherlock non batté ciglio, ma capì che dietro quella battuta era nascosta la poca considerazione della sua professione.

“E’ certo. Lo vede quell’uomo con il papillon bianco? Ah si, scusi, il cameriere, è lui.”

Il Professore indietreggiò con il suo flute di Champagne in una mano, e lo guardò accigliato.

“Beh – continuò- non si aspettava che dopo otto mesi di degenza ospedaliera sua moglie restasse inerme alle bellezze che circondano questo “castello” ?

Gli occhi del Professore iniziano a divenire accigliati e lucidi, e Sherlock continuò

“Oh andiamo! Sto scherzando!!”  sfoggiando un sorriso, che per chi lo conosceva, non era nient’altro che una finzione.

“Dio! Lei mi ha fatto prendere un colpo!” sospirò l’intellettuale portando alla gola tutto il resto del liquido alcolico.

Egli era un uomo dotato di grande sarcasmo, e Sherlock lo aveva intuito sin dal primo sguardo, ragion per cui lo scherzo, vero o falso che fosse, fece acquistare al detective dei punti.

“Prenda posto, signor Holmes, e dica a Watson di rilassarsi, lo vedo un po’ teso!” sorrise crogiolandosi nel suo affettuoso pancione.
Sherlock sorrise e si diresse verso Watson.

“Missione compiuta, mi ama.”

“Non voglio assolutamente sapere di cosa diamine avete discusso.”

Un cameriere tirò la sedia a Watson, lui annuì e prese posto allontanandosi da Sherlock.
Ogni ospite si ritrovò con il suo “più uno” seduto di fronte, e se Watson aveva tutta l’intenzione di evitare Sherlock, se lo ritrovò dinnanzi, con i suoi bei occhi smeraldo che riflettevano gli ori delle posate.
Cercò di evitare il suo sguardo, e ogni volta che lo incrociava, Holmes gli sorrideva per mantenere un aspetto cordiale che non doveva trapelare quel poco di amaro che c’era tra loro.
Un po’ come se Watson volesse prendere le distanze da quel personaggio che lo aveva messo già fin troppo in imbarazzo.

Tra una portata e l’altra, Sherlock riuscì a captare l’argomento di discussione che aveva monopolizzato la compagnia: il Trittico che aveva tanto ammirato per essere appunto, un falso.

La particolarità che attirò l’attenzione del detective fu proprio la questione che tutti, compreso il proprietario, erano convinti che il Trittico fosse un originale di Duccio di Buoninsegna;
la persona che decantava proprio le qualità di quell’opera e l’acutezza con cui fosse stata accalappiata, era proprio la moglie del Professore, che probabilmente non aveva la benché minima idea di cosa stesse discutendo.

Watson capò l’accigliamento del compagno e gli lanciò un occhiata per avvisarlo che quella era la sua ultima chance di poter essere perdonato.
Sherlock chiaramente non colse il messaggio e si alzò, portando un calice dinnanzi a sé.

“Permettetemi…” disse , osservando le bollicine che salivano in quel cristallo morbido

“Prego!” disse il Professore.
“ Vorrei fare un brindisi ai meravigliosi padroni di casa! I quali con la loro immensa cultura hanno costruito questo posto d’incanto, che non ha nulla da invidiare ai migliori musei di questa nazione.
Un brindisi a coloro che per amore dell’arte hanno sacrificato la vita nella continua ricerca del bello e dell’unico; ma vogliate perdonarmi se delle vostre affermazioni ne faccio un antitesi: ho grande stima per ognuno di voi, ma il Trittico di Buoninsegna è un palese falso.”

La folla presente a quel tavolo intonò un “oh” generale, qualcuno si chiese chi fosse quell’individuo così schietto, altri intonarono parole poco cordiali; Watson lanciò con dissenso il tovagliolo sul tavolo, aveva perso ogni speranza.

Il padrone di casa si alzò e si ritrovò a guardare il detective con fare irritato.

“Le ho permesso battute simpatiche, ho sorvolato sulla sua maleducazione, ho accettato di buon cuore la sua presenza qui per riconoscenza a colui che mi ha salvato la vita, ma adesso la pregherei di lasciare questo posto, poiché nulla mi è più caro delle mie collezioni e il suo affronto è fin troppo grande per essere tollerato!”
Watson divenne livido di rabbia ma nel contempo impallidì per l’ennesima figura.
Odiava quella situazione, ma nel suo cuore sapeva che Sherlock aveva dei motivi per poter esporsi in questo modo.

“Come preferisce, Professor Kaplan. La mia era una semplice analisi su quanto i falsari siano abili commercianti.
Sherlock si allontanò dal suo posto e si diresse verso la porta d’uscita, il silenzio era calato come l’amaro era calato su quella compagnia.

Si fermò ad un passo dall’uscio e si girò di nuovo verso Kaplan

“Icilio Federico Joni, italiano, uno dei migliori falsari della scuola senese sui quadri antichi.
Ottima scelta, ma è chiaro che lei non sia a conoscenza della questione che quel particolare Trittico sia presente nella National Gallery di Londra, e di certo sta meglio lì che nel corridoio di casa sua.
Mi complimento per la scelta dei colori, blu ed oro, proprio come il suo atrio, è chiaro che per lei, o come sospetto, per sua moglie, l’arte sia più un decoro, un  candelabro,un orecchino da esibire, anziché moto interiore per innalzarsi al cielo. Con permesso.”

Sherlock si congedò lasciando la compagnia in delirio, Watson si alzò e guardò il professore, il quale, benché scioccato da quella rivelazione, comprese negli occhi del dottore che nulla di falso poteva nascondersi in quell’analisi così precisa, e dunque con il gesto della mano fece cenno a Watson di seguirlo, e il dottore obbedì.


Watson uscì con poche falcate, ma quando percorse il corridoio da cui era entrato con Holmes, non vide neanche l’ombra del detective.
Aumentò il passo, non poteva essere già uscito, di sicuro era lì nascosto da qualche parte.
Passò dinnanzi al Trittico e non lo trovò, tornò di tre passi indietro e lo osservò: Watson non ne capiva molto di arte e cercava di captare nelle linee dei contorni quale fosse il segreto del suo compagno.
Aveva davvero una conoscenza così approfondita anche del mondo dell’arte?

Si diede una scossa per continuare a cercarlo, quando al suo orecchio il suono lontano di un clavicembalo lo iniziò a divorare dall’interno.

Percorse pochi corridoi, il suono diveniva sempre più vicino ed era secco, melodico, pieno di sfumature, e nella sua testa risuonavano le mille domande, tra cui quella di come possa vivere in un uomo tanto gelo e bellezza nello stesso medesimo istante.

Aprì la porta di legno che affacciava su un salone da ballo, trovò Sherlock in piedi dinnanzi a un clavicembalo dipinto a mano originale del settecento.

Le lunghe dita affusolate viaggiavano su quei tasti in negativo del pianoforte: i neri erano bianchi e i bianchi erano neri.
Il suono era pizzicato non martellato; le mani bianche erano precise ad ogni cadenza, ad ogni abbellimento e quello scambiarsi di posizioni, di altezze, di tonalità.
Lentamente Sherlock, senza mai staccarsi dalla tastiera, si accomodò lentamente sul sediolino di velluto verde, e viaggiò tra le perfette concatenazioni di quel brano.
Qualunque persona avrebbe capito che si trattava di un compositore perfetto, colui che custodiva il segreto della musica.

“E’ Bach, John. Conosci Bach?”

John non rispose.

“Aria. Dalle variazioni di Bach dedicate a Johann Gottlieb Goldberg.
Lo vedi John, ci sono persone che vivono d’arte e persone che si nascondono dietro l’arte.”

la musica continuava sotto le dita

“C’è ci con qualche spicciolo si costruisce un castello, e chi come me, povero illuso, li demolisce conoscendo l’altra faccia della medaglia.
Lo senti John, lo senti come è perfetto?
E’ perfetto come un quadro vero.
E’ perfetto come una tecnica precisa.

E’ perfetto come un meraviglioso falso.

ah…i falsari! Che splendidi esseri umani.
Ci danno l’illusione di poter custodire qualcosa di unico, qualcosa di prezioso che nessun altro può avere, e poi scopriamo che magari il nostro capolavoro è stato dipinto in qualche…che so…latrina, mentre noi ci crogioliamo nel piacere di sentirci unici.
Anche io sono un falsario John, lo senti? Quest’aria la suono qui, la suono anche su di un pianoforte benché non sia nata per quello strumento.
E a te piace, agli altri piace, a me piace. Ma è tutto un falso.

Così come quando crediamo di saper suonare Mozart, o Chopin, solo perché ne abbiamo avuto la fortuna di farlo, o i soldi per comprarci le informazioni su di essi.

Dov’è nascosto il vero, John?
Io non lo so.

So soltanto che tra un brano e l’altro vivo, e ridò giustizia a chi per ego è stato preso in giro.

Mi spiace di averti messo in una posizione scomoda stasera, ma niente mi è davvero più caro della verità.

Ne ricerco l’essenza in ogni momento della mia vita, ma quando vado anche oltre i miei di limiti, capisco che poi devo fermarmi e tornare nella zona grigia.
Icaro si è bruciato le ali per la verità, ed io ho bruciato gran parte della mia vita.
Ragion per cui mi accontento a volte di questo, del falso, perché come diceva…quel film italiano, ah sempre gli italiani!

Dietro ad un falso, si nasconde sempre qualcosa di autentico.


Sol, do la si, re sol fa, Fa appoggiatura, Sol. Fine.
   
 
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