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Autore: Atlantislux    09/04/2018    1 recensioni
Le avevano insegnato solo a combattere. Ad essere una brava ragazza e ad ammazzare i nemici della Terra.
Per questo Jun il Cigno non aveva saputo che fare, quando era andata in pezzi.
~
Io ho deciso di credergli. Perché altrimenti vorrebbe dire che dovrei sparire da questo mondo, ma non voglio più. Non ora che ho una prospettiva futura che non consiste solo di infinite battaglie contro innumerevoli orde di Galactor.
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Post mortem



Il Paradiso profumava di salsedine, ed era allietato dagli strilli dei gabbiani. Faceva anche caldo, e il bel tepore le aveva asciugato i vestiti e i capelli, che ora sentiva rigidi dal sale.
Jun si strofinò il viso con una mano. Il Paradiso doveva essere un’isola dal clima mite, e c’era evidentemente arrivata con gli abiti che aveva addosso quando Ken l’aveva uccisa.

Con riluttanza aprì gli occhi. Il cielo sopra la sua testa aveva l’intrigante colore blu cobalto tipico di un tardo pomeriggio estivo. Fosse stata in vacanza, l’avrebbe apprezzato. Si guardò attorno, non stupendosi del panorama scabro e della sabbia basaltica, nera. Aveva visto delle immagini di quel posto qualche anno prima, quando voleva convincere Ken a portarcela. Le correnti dovevano averla trascinata fino alle Azzorre, le isole più prossime alla nave Galactor.
Le venne da sospirare. Tutto il suo magnifico piano vanificato dal buon cuore di Ken, e dal momento di pazzia di Erlik. Se da un lato non voleva credere alla sua sfortuna, dall'altro non riusciva a non provare un certo piacere nell'essere ancora viva.
Si volse di nuovo alla sua destra. Erlik, inginocchiato accanto a lei, la stava fissando senza dire una parola. Imperturbabile, come se stesse aspettando un suo cenno per muoversi.
Chissà per che ragione indossava la divisa dei Galactor, la parte superiore slacciata ed arrotolata per le maniche attorno alla vita. Jun non riusciva a spiegarsi la sua presenza con Ken e gli altri sul mecha. Non più di quanto riuscisse a capire come avessero fatto entrambi a sopravvivere.  
Combattendo una leggera vertigine si mise seduta. La spiaggia, deserta, si estendeva attorno a loro. Se era fuori dall'acqua, era solo perché Erlik doveva avercela trascinata.
“Queste... sono le Azzorre?” gli chiese, sentendo la gola secca e la pelle del viso arrossata dal sole.
La risposta fu laconica. “Probabilmente. Le correnti devono averci portato fin qui.” Erlik indicò con un cenno della testa il mare. “Eravamo già a riva quando mi sono ripreso. La tua spada... cioè, quella di Ken, non c'era più.”
Jun annuì, fissandosi il polso. Anche il suo braccialetto era sparito, ma la ferita si era già richiusa. Provava solo un lieve fastidio nella parte sinistra del torace, assolutamente sopportabile. La maglietta in quel punto era strappata, ed era l’unico segno rimasto della lesione che avrebbe ucciso qualunque altro essere umano.
“Volevo morire, sai?” confessò, senza smettere di guardarsi il polso. “Quello che Sosai mi ha rivelato su di noi è inconcepibile. Io... noi, siamo troppo pericolosi per questo mondo. Volevo che mi uccidessero. Ma sia Ken che Berg Katze non ne sono stati capaci.”
Erlik fece un risolino, che attirò la sua attenzione su di lui. “Che piano assurdo. Se volevi morire potevi farlo da sola no?”
“E come? Un po' difficile riuscire a tagliarsi la testa.”
Le labbra pallide del giovane si stirarono in un sorrisetto di scherno. “Nemmeno troppo, considerato che eri a bordo di un mecha pieno dei tuoi nemici. Non c'erano altri candidati? Katze è malevolo ma non stupido, sapeva che sarebbe morto se avesse fatto una cosa del genere. E poi, affidarsi a Ken... che crudeltà.”
Jun si sentì arrossire dalla vergogna. Erlik stava rivelando il solito atteggiamento insopportabile, ma l'irritazione la stava almeno aiutando a combattere il torpore del risveglio.
“Era l'unico che poteva farlo... che ne avrebbe avuto il coraggio, e la forza...”
“E che ne avrebbe portato il peso sulla coscienza per l'eternità” Erlik terminò per lei, scuotendo le spalle. “Contenta tu. Non pensavo che lo odiassi così tanto.”
La ragazza abbassò la testa, affondando le dita nella sabbia. Che inconsciamente avesse voluto in quel modo punire Ken, per averla rifiutata per troppo tempo? Non ci voleva pensare. In ogni caso, la sua storia con i Gatchaman era definitivamente chiusa.

Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, mentre l'entità di quello che aveva fatto si faceva strada dentro di lei. Non poteva più tornare all'unico posto che aveva chiamato casa, all'unica famiglia che avesse mai avuto. Anche se loro l'avrebbe sicuramente riaccolta; e Ken l'avrebbe di certo capita. Ma come avrebbe potuto, dopo tutto quello che Sosai le aveva rivelato? Ora che aveva la certezza di essere diversa, e pericolosa, non poteva fare finta che nulla fosse cambiato.
“Adesso che farai, vuoi ancora morire? E forse uccidere anche me?”
Jun riportò la sua attenzione su Elik, perplessa dalla noncuranza con la quale era stata pronunciata quella domanda. La questione in sé non era invece assurda, Jun se ne rendeva perfettamente conto.
Lui la stava guardando, aspettandosi una risposta. Il suo aspetto non poteva non ricordarle gli esseri dei suoi incubi, ma non poteva nemmeno negare la sconcertante sensazione di affinità che provava per lui. Che fosse scatenata dalla mutazione a Jun non importava, ed era comunque stanca di far finta che non esistesse.     
Adesso che farai? Non sapeva come replicare, ma sicuramente mai avrebbe potuto fargli del male. E ora non voleva più nemmeno morire.
“Non lo so cosa mi succederà” rispose sinceramente. “Non posso tornare all'ISO. Quello che vorrei, è solo scomparire.”
Delicatamente, quasi con soggezione, fece scivolare la sua mano destra in quella di Erlik, senza che da parte di lui ci fosse alcun cenno per stringergliela.    
Lo sguardo del giovane si posò prima sulle loro mani, e poi su di lei.
I secondi passarono senza che succedesse nulla. E Jun cominciò a temere che, nonostante quello che aveva detto di lei quando era all’ISO, alla fine anche Erlik la volesse rifiutare. Gli era rimasto solo lui. Non poteva dirle di no. Non l’avrebbe sopportato.

Finalmente, Erlik chiuse le sue dita attorno alla mano di Jun. Aveva una bella stretta, ma lo sguardo negli occhi chiari mostrava una curiosa esitazione. Strano, le era sembrato sempre piuttosto sicuro di sé.
“Se vuoi scomparire,” le disse “farò in modo che succeda.”
“E come? Ci cercheranno, Nambu non crederà che siamo morti, e forse neppure Sosai. E noi siamo molto riconoscibili, bloccati su quest’isola e senza soldi. Ho un conto, ma penso che a questo punto lo abbiano bloccato o sia sotto controllo.”
Jun era preoccupata. Non avevano neppure documenti. Se solo fossero almeno finiti sul continente, qualcosa si sarebbero potuti inventare. Lì, invece... scappare da quell'isola senza chiedere l'aiuto dell'ISO era un'idea ridicola.
Erlik, però, la sorprese. “Il denaro non è un problema.”
Il giovane si levò in piedi, facendo alzare anche lei poi, senza preavviso e come se fosse la cosa più normale del mondo, si sporse verso di lei e la baciò.
Jun era talmente stupefatta che non oppose nessuna resistenza. Si limitò ad assaporare quelle labbra che sapevano di sale, scoprendosi sempre più avida mano a mano che i secondi passavano.
Quando si staccarono, lei era senza fiato, ma Erlik sembrava quasi allarmato. Le indicò un gruppo di case a circa un chilometro dal punto dove si trovavano. 
“Vieni. Devo fare una telefonata.” 
Il tono del giovane, notò Jun, non era esattamente felice. Nonostante quello che era appena successo, e che lei aveva trovato estremamente gratificante, era come se in volto gli fosse calata un'ombra.

Confusa lo seguì, mano nella mano come due fidanzatini in vacanza. Non fosse stato per la divisa di lui e per la maglietta strappata di lei avrebbero anche potuto esserlo, notò Jun. Sicuramente, un po' si sentiva tale.  
Sperò che quelle case non fossero abitate da qualcuno di troppo curioso, altrimenti ci sarebbero state domande alle quali nessuno dei due avrebbe potuto rispondere.
“Hai qualcuno da chiamare?” gli chiese.
Non pensava che Erlik volesse ritornare dai Galactor, dopo essersi buttato da una delle loro navi, ma non si poteva mai sapere. Il comportamento che il giovane stava avendo era decisamente bizzarro.
“La mia famiglia.”
Tirandolo leggermente per la mano, Jun lo costrinse a fermarsi e a girarsi verso di lei.
“Ci possono aiutare? Ma non fanno parte del Sindacato, vero?”
Erlik scosse la testa. “Non c'entrano nulla con i Galactor. Non so quanto mio padre sarà contento di sentirmi, ma ci aiuterà. Sono il suo unico figlio, dopotutto.”
Malgrado quello che le stava dicendo, non sembrava per niente felice di quella decisione. Lei non ci stava capendo nulla.
“Tuo padre...” scandì. “Non era quello che dopo la morte di tua madre ti picchiava tutti i giorni per costringerti a rubare?”
“Questo è quello che ho raccontato a Nambu.”
Erlik era arrossito. Per la prima volta da quando lo conosceva, Jun lo vide genuinamente in difficoltà. Non che lei avesse davvero creduto alla sua storiella degli abusi famigliari, era fin troppo tipica per un Galactor, ma nemmeno aveva mai pensato che dovesse discostarsi troppo dalla realtà.
“E invece?” gli chiese.
Erlik le lasciò la mano, e i suoi occhi vagarono verso le case poco distanti. “I miei genitori mi hanno sempre dato il meglio, e mia madre non è affatto morta. Sempre se si può chiamare viva una persona più interessata alla moda e ai gioielli che alla sua famiglia.”
Se l’avesse saputo in un altro momento, Jun era certa che si sarebbe arrabbiata. Ma dopo tutto quello che nelle ultime settimane aveva vissuto, non ne aveva più la forza. La rivelazione le sembrò solo estremamente folle. Si premette i palmi delle mani contro le palpebre, cercando di non ridacchiare per il nervosismo. Non era facile.
“Io sono cresciuta in un orfanotrofio, e ho dovuto combattere ogni giorno per un pasto. E tu mi stai dicendo che eri un privilegiato, e che hai buttato via la tua vita per unirti a dei criminali?”
La risposta ebbe un tono vagamente sprezzante. “Quella non era la mia vita. Era tutto ciò che gli altri si aspettavano da me: le scuole giuste, il lavoro giusto, gli amici e la fidanzata adeguata.  Non potevo più sopportalo e quell’ambiente mi faceva orrore. Volevo sparire e basta.”
Jun riaprì gli occhi, sopprimendo l’impulso di prenderlo a schiaffi, tanto quel discorso le sembrava degno di un principino viziato. “Va bene, questo posso anche arrivare a capirlo, ma perché i Galactor?”
“Perché quando ti arruoli nessuno fa domande su chi sei o da dove vieni. E perché tra di loro la mia famiglia non mi avrebbe mai trovato. Nonostante non manchino di mezzi, indagare tra i Galactor è fuori dalla loro portata.” Sovrappensiero, il giovane si accarezzò distrattamente la mandibola. “Non credere che torni volentieri. Ne farei veramente a meno, ma è l’unica chance per andarcene da qui. E se l’alternativa deve essere rivolgerci all’ISO… beh, gabbia per gabbia, preferisco casa mia. Almeno lì nessuno mi avvelenerà.”
Jun lo guardò, incerta su cosa pensare di Erlik. Lo capiva dal suo sguardo, e dalla distinta tensione che il giovane irradiava, che tornarsene a casa era veramente l’ultima cosa che avrebbe voluto fare. Per lei che aveva desiderato una famiglia per tutta la vita, quell’atteggiamento era incomprensibile, però le vennero in mente i mesi trascorsi da Erlik all’ISO e dovette riconoscere che, almeno, era una persona decisamente salda nelle sue convinzioni. Doveva dargliene atto.    
“Ti abbiamo trattato come un criminale… come una cavia… e tu avresti potuto andartene quando volevi.”
“Avrei potuto, ma nemmeno per una volta ci ho pensato. Avevo deciso di essere nessuno, e non ho mai cambiato idea, nonostante quello che mi è successo.”
“Ma ora vuoi riavere la tua vecchia vita. Perché?” Jun mormorò con difficoltà, il respiro mozzato dalla tensione.   
Le mani di Erlik sfiorarono le sue per un attimo, poi salirono ad accarezzarle il viso. Nonostante il calore della giornata, Jun soppresse un brivido. Aveva quasi paura delle sue reazioni. Erlik era sicuramente un po' particolare, e la faceva impazzire non riuscire mai ad anticipare cosa avesse in testa. D’altra parte, quella continua altalena di emozioni la stuzzicava, lei che era stata sempre così controllata, attenta a non mostrare mai troppo, a non provare mai la cosa che tutti reputavano sbagliata.
Il sorrisetto sulle labbra di Erlik le fece mancare un battito. “Perché ora ci sei tu. E tu meriti tutto.”
Il giovane si abbassò per baciarla di nuovo, e Jun si abbandonò, assaporando ogni istante. Era stanca di quelli che la manipolavano per i loro obiettivi poco chiari. Il fine di Erlik le sembrava invece quanto mai limpido. E condivisibile. Che la manipolasse pure come voleva.
 


Utoland, International Science Organization, 3 settembre


Il debriefing durò ore.
Interminabili le parole spiraleggiarono intorno ai miserabili dettagli della loro missione fallita, come se il fiume di parole potesse lavare via il dolore, invece di renderlo ancora più intollerabile.
Infine Ken si alzò, ma fu bloccato della raggelante voce di Nambu.
“Comandante, due parole in privato con te.”
 
Ken guardò gli altri uscire, in silenziosa quanto mesta processione, fino a trovarsi solo con il Direttore dell’ISO, nella sala semibuia come una cappella funebre.
Si fissò le braccia muscolose, allungate e abbandonate sul tavolo davanti a sé, come se fossero strane appendici di un corpo che non gli apparteneva più. Tutta la sua preparazione, anni di allenamenti… non era servito a nulla. Non sapeva cosa Nambu gli volesse dire, ma intanto aveva lui una domanda per il Direttore. Una questione che gli stava parecchio a cuore e alla quale nessuno aveva accennato durante il debriefing.
“State pianificando delle squadre di soccorso?”
“Come da prassi.”
“Voglio unirmi a loro.”
Nambu scosse la testa. Che fosse stato anche lui colpito da quella débâcle era chiaro in ogni suo gesto stanco, e nelle profonde occhiaie che gli decoravano il volto. “Apprezzo l’entusiasmo ma sono già fuori. Mandate nel momento stesso in cui abbiamo ricevuto la vostra comunicazione. Ma tu sei a riposo, quindi non pensarci neanche, senza contare che non ti potrebbe piacerebbe quello che eventualmente dovessero trovare.”
“Avete almeno ristretto l’area delle ricerche?”
“Sì, abbiamo circoscritto il perimetro, ma l’area comprende un arcipelago densamente abitato.”
Ken si fissò le mani. “Vi prego di chiamarmi non appena trovate qualcosa. Qualunque cosa sia. Noi non abbiamo nemmeno una tomba sulla quale portare i fiori.”
Nambu, che fino a quel momento era rimasto in piedi, si accomodò davanti a lui, dall’altra parte del tavolo, e appoggiò il mento sulle mani intrecciate. Sembrava che lo stesse soppesando. Ken, dal canto suo, non vedeva l’ora di andarse a sfogarsi da qualche parte. Forse, per la prima volta in vita sua, si sarebbe anche ubriacato.
“C’è una cosa che ti devo rivelare” il Direttore cominciò, con una voce quasi incerta, che Ken era certo di non avergli mai sentito. “C’è la concreta possibilità che Jun sia ancora viva. Anzi, che siano vivi tutti e due.”
“E come? Ci ha detto che i Galactor non li hanno recuperati, come si capisce dalle comunicazioni che abbiamo intercettato, ed erano troppo lontani dalla terraferma per arrivarci a nuoto.” Il comandante dei Gatchaman strinse le mani a pugno. “Questo senza contare il fatto che i loro corpi sono stati espulsi sottacqua. È impossibile che siano sopravvissuti.”
“Ken, non stai considerando il fatto che, loro due, non sono più esattamente esseri umani.”
Solo a sentir parlare di quella cosa, a Ken veniva il voltastomaco. Ancora prima del debriefing Nambu l’aveva messo a parte dei risultati della ricerca, e nulla di quello che aveva letto in quei file gli era piaciuto. Avevano fatto acquistare un devastante senso alle cose dette da Jun durante il loro duello.
“Ne parla come se ne avesse la certezza” commentò al suo mentore, sicuro che il direttore dell’ISO gli stesse ancora nascondendo qualche altra informazione.
“Quasi la certezza, diciamo. E ha a che fare con l’identità di Erlik.”
Ken fissò Nambu senza capire. “Che significa?”
“Che poco prima che partiste per la missione l’abbiamo identificato, grazie ad una ricerca di Pandora.”
“E non mi avete informato?” A Ken continuava a sembrare una notizia senza importanza, ma evidentemente doveva esserlo, a giudicare dell’espressione di lugubre amarezza che Nambu esibiva.
“Non volevamo distrarti. Ma, a pensarci ora… ho commesso un errore a non dirti nulla, e uno ancora più grosso a mandarlo con voi.”

A ricordo di Ken non era mai successo che Nambu avesse ammesso una sua mancanza. Forse perché, anche quando ce ne erano state, i risultati positivi delle missioni le avevano eclissate. Quella volta non era andata così. E l’errore, oltretutto, doveva essere particolarmente grave.
“Mi dica…” replicò con un filo di voce.   
“Il suo cognome è Kahn. Erlik è nato a Zurigo, in Svizzera, ventisette anni fa. È l'unico figlio di Dominique Kahn, uno dei soci della Kahn-Kobashi, una delle multinazionali che si spartiscono il mercato mondiale dei prodotti farmaceutici.”  
Per attimo, Ken pensò di aver capito male. “Una multinazionale?”
Nambu annuì, il volto simile ad una maschera di pietra. “La sua famiglia detiene il pacchetto di maggioranza della holding che controlla la farmaceutica, e hanno partecipazioni in una manciata di altre aziende alimentari e chimiche. Il padre è un pezzo grosso, siede nel consiglio di amministrazione. È per questo che non siamo mai riusciti a scoprire nulla su Erlik. Viaggia probabilmente con un passaporto diplomatico, e il suo è un profilo riservato, che non compare tra i pazienti di nessun ospedale, nelle liste di imbarco di nessun aereo, e tra i dati schedati dalle agenzie di controllo frontaliere. Se qualche anno fa non fosse stato beccato dalla polizia svedese a correre troppo, non avremmo mai scoperto chi era.”
“Ma è assurdo” Ken sbottò. “Che ci faceva tra i Galactor?”
“Non ho risposte a questo…”
“Può essere che questa holding abbia legami con loro?”
Nambu scosse la testa. “No, sono puliti. E di lui possiamo solo supporre quello che ci ha detto, cioè che si era allontanato dalla sua famiglia e che non voleva avere nulla a che fare con loro.”
“Ed è credibile?”
“Ken, le due divisioni più importarti di una farmaceutica sono la ricerca e sviluppo e l’ufficio legale. Ad Erlik sarebbe bastata una telefonata per uscire di qui, e per farci recapitare una denuncia per sequestro di persona. Quindi sì... in effetti è credibile.”
Ken si prese la testa tra le mani. Quello che Nambu gli stava dicendo era inconcepibile. “Non può essere vero…”
“Lo è. I dati biometrici della persona schedata dalla polizia stradale svedese collimano con quelli di Erlik. E, quando gli ho chiesto spiegazioni, a malincuore lui ha confermato.”
“Quello è pazzo” sbottò Ken. Nulla di quello che aveva pensato del Galactor l’aveva preparato a quella rivelazione. E nemmeno nulla di quello che Erlik aveva lasciato trapelare di sé. Molto poco, in effetti. La cosa che veramente gli stava a cuore, però, non era l'identità di quell'idiota. “Cosa le fa pensare che possa essere ancora viva?” chiese, forzando la voce a rimanere ferma.
“Stavamo tenendo sotto controllo lo spazio aereo della zona, e la notte scorsa un jet privato, intestato ad una delle società del gruppo Khan-Kobashi, è atterrato all’aeroporto di Lajes Field alla Terceira, una delle isole dell’arcipelago delle Azzorre. L’aereo è poi ripartito alla volta degli Emirati Arabi. Non so chi sia salito a bordo, ma di certo è ben strana come coincidenza.”
“E cosa c’entrano gli Emirati?”
“Non hanno un trattato di estradizione con il nostro paese.”
Ken non sapeva cosa pensare, ma Nambu sembrò leggergli nella mente.
“Non voglio darti false speranze, ma Erlik non aveva preso bene la notizia che avevamo scoperto la sua identità, e non penso che l’avesse detto a Jun prima della vostra missione. Per cui posso solo pensare che quell’aereo fosse lì per recuperare lui, e l’unica ragione per cui Erlik potrebbe aver voluto riallacciare i rapporti con la sua famiglia, si chiama Jun.”
Se qualcuno avesse chiesto a Ken come si sentiva in quel momento, non avrebbe avuto una risposta coerente. Il sollievo di sapere che probabilmente la sua compagna di squadra era ancora viva, si accompagnava all’inquietudine di saperla insieme alla persona con cui meno avrebbe voluto vederla. Si passò una mano tra i capelli, consapevole che Nambu lo stava fissando.
“Jun... come potrebbe stare? L'ho ferita gravemente...”
“Da come me l'hai descritta, quella ferita non potrebbe ucciderla. E, per quanto detesti dirlo, è decisamente in buone mani.”
Era vero, Ken ammise con se stesso, anche se la cosa gli dava poca soddisfazione.
“Cosa faremo ora?” chiese al suo mentore.
“Tra qualche giorno contatterò la Kahn-Kobashi e cercherò di indagare. Nel caso Jun fosse sopravvissuta, potremmo essere molto fortunati oppure...”
Nambu non finì la frase e, incredibilmente, Ken fu certo di aver colto una passeggera inquietudine sul volto del Direttore dell'ISO. Colse immediatamente l'incognita che affliggeva l'uomo.
“Non poteva esserci comparto peggiore, vero?” esalò con un filo di voce.
“No. Avessero prodotto lavatrici sarebbe stato decisamente meglio” Nambu gli confermò, per poi alzarsi in piedi. “Basta così, è tempo che tu vada a riposarti. Non dire nulla agli altri, fino a quando non saremo sicuri che Jun è davvero ancora tra noi.”
Con un cenno del capo, Ken annuì, per poi alzarsi a sua volta ed uscire dalla stanza con tutta la calma del mondo.

I suoi passi lo portarono nel garage. Accanto alla sua auto, era ancora parcheggiata la moto di Jun. Guardò il mezzo sovrappensiero, nemmeno ricordando più l'ultima volta che la ragazza l'aveva usata.
Si sentiva scollegato. Dov'era adesso Jun? In un lontano paese straniero tra amici, oppure tra persone che l'avrebbero solo sfruttata? Ed era da sola oppure... Ken bloccò i suoi pensieri prima che potessero diventare molesti, quindi salì in macchina affondando nel sedile. Afferrò il volante come se fosse una ciambella di salvataggio.
Sicuramente si sarebbe ubriacato. Era l'unico modo per superare sano di mente quella notte.    
  
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