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Autore: _Frame_    15/04/2018    3 recensioni
[Primo spin-off di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[DenNor Human!AU]
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Dopo quello che è successo a Mathias, Lukas crede che la sua vita si sia definitivamente staccata dai Siberian Cubs e dall’ambiente a cui appartengono. Un incontro inaspettato gli farà capire che il suo ruolo in quel mondo da cui Mathias aveva sempre voluto proteggerlo non è ancora finito, e che la possibilità di salvare gli altri ragazzi potrebbe dipendere solo da lui.
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Estratto da “Siberian Cub”:
Mi rendo davvero conto del legame in cui sto incatenando Alfred, mi rendo davvero conto di cosa significhi vederlo stretto fra le braccia bucate di un tossico che vorrebbe solo proteggerlo ma che non è nemmeno in grado di proteggere se stesso. E lo capisco. Forse ora davvero comprendo e riconosco la paura che ha spinto Mathias a togliersi di mezzo piuttosto che finire per imprigionare Lukas a quelle braccia ferite che non gli avrebbero causato altro che dolori. D’un tratto, Mathias mi sembra un po’ meno stupido di come l’ho sempre guardato.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Danimarca, Finlandia/ Tino Väinämöinen, Islanda, Norvegia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
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N.d.A.

Avviso super-velocissimo prima di lasciarvi al capitolo.

Per chi non lo sapesse già, la saga dei London Cubs passa da una pubblicazione mensile a una pubblicazione settimanale alternata ai capitoli del Miele, e sarà così anche per gli altri spin-off. Quindi, dato che questo è il penultimo capitolo di Danish Cub, Siberian Cub non riprenderà più il primo di luglio, ma il tredici di maggio.

Buona lettura e buon proseguimento a tutti! (^-^)

 


 

3. Il pianto del cucciolo

 

 

Mi chiudo la porta di casa alle spalle. Gli schiamazzi dei bambini della porta accanto restano fuori dalle pareti, a echeggiare lungo la tromba delle scale assieme allo scalpiccio dei loro piedi che fanno avanti e indietro attraverso le stanze del loro appartamento, rincorsi dalla voce della loro madre. Premo le spalle alla porta, poggio la testa e sento la sporgenza dello spioncino battermi sulla nuca. Rilasso i muscoli con un lungo sospiro. Le chiavi ciondolano dalle dita, sbattono contro il ciondolo a forma di bandiera danese appeso al mazzo, ed emettono un leggero trillo. Piomba il silenzio. D’ora in poi immagino che dovrò abituarmi all’idea di tornare a vivere perennemente nel silenzio.

Fa freddo e sta calando il buio, prima sono uscito di casa senza aver acceso il riscaldamento. Se aprissi il frigorifero uscirebbe aria più calda di quella che sto respirando adesso.

Chiudo gli occhi, stringo le mani contro la superficie della porta, e uno spuntone del mazzo di chiavi preme fra le dita, trasmette una scossa di dolore e tensione che mi attraversa il corpo. Le gambe si appesantiscono, le ginocchia traballano per la stanchezza, tutta la tensione accumulata sui muscoli brucia all’altezza delle spalle e del collo, un lieve senso di nausea aggroviglia la pancia e stringe un anello di vertigini attorno alla testa.

Non posso rilassarmi, non c’è tempo per farlo. Questa dannata giornata non è ancora finita.

Faccio strusciare la nuca contro la porta e sollevo gli occhi al soffitto. Li sento pesanti e gonfi, le palpebre bruciano come dopo un’intera nottata passata a studiare nel buio, solo con la lucetta della scrivania e almeno tre tazze di caffè vuote accanto ai libri.

Appunto mentalmente una lista delle cose che devo ancora fare. Le scritte compaiono davanti al mio sguardo come se le stessi scribacchiando su un blocco di fogli a righe. Prima di tutto dovrò andare in agenzia viaggi a prenotare il volo di andata e ritorno per Copenaghen, dovrò anche farmi riservare una camera in un ostello dell’aeroporto per la notte che passerò là, poi devo ricontrollare l’agenda e segnarmi quante lezioni perderò nei due giorni che starò via. Probabilmente non molte, e non sarà una gran perdita, anche perché non ne ho mai saltata una. E devo fare una telefonata.

Con un sospiro di fatica riesco a staccare le spalle dalla porta e a reggermi da solo sulle gambe molli come gomma. Mi sembra di avere un grosso sacco di sabbia appeso alla schiena a tirarmi verso il basso, a schiacciarmi le ossa, e a intorpidirmi i muscoli.

Trascino due passi verso il mobiletto del telefono e lancio le chiavi verso la ciotola di legno. Cleng! Le chiavi rimbalzano sull’orlo, mancano la ciotola, sbattono contro il pacchetto delle HB, lo fanno cadere, e atterrano sul centrino del telefono, giacendo immobili. Le lascio lì.

Estraggo il cassetto dal mobile. Scosto due matite consumate, un elastico di gomma verde, tre graffette incatenate fra loro, una moneta da cinquanta pence e due da dieci, e raccolgo l’agendina telefonica. Scorro le lettere con l’indice e arrivo alla E. Apro. C’è un solo numero segnato in cima. “Emil”.

Infilo il polpastrello nella prima cifra all’interno della rotellina del telefono e compongo il numero. Il gracchiare del meccanismo che va avanti e indietro è l’unico suono che interrompe il silenzio dell’appartamento che si sta facendo sempre più buio e freddo.

Arrivo all’ultima cifra, la compongo con l’indice che trema, che formicola come il pesante senso di disagio che mi grava sul petto, e stacco il dito dal telefono.

La linea non squilla nemmeno, una voce mi avvisa che il numero non esiste.

Serro il pugno contro il mobiletto, stropiccio l’orlo del centrino, e le dita aggrappate alla cornetta fanno stridere le unghie sulla plastica.

Il prefisso. Non ho messo il prefisso.

Inspiro, espiro. La gola vibra.

Calmati, Lukas, calmati. Fai le cose con calma e smetti di far tremare quella mano.

Ricomincio da capo inserendo per primo il prefisso dell’Islanda. Il telefono squilla. Traggo un sospiro e ricomincio a respirare, la mano chiusa attorno alla cornetta rilassa la tensione delle dita.

Dall’altro capo rispondono dopo tre squilli. «Háskólinn á Bifröst.»

Mi pizzico il labbro inferiore, abbasso le palpebre, e scavo nel cervello assestando le rotelle sull’islandese. Saranno almeno tre anni che non lo parlo. «Salve, mi chiamo Lukas Bondevik, chiamo da Londra, dovrei mettermi in contatto con uno studente.»

«Come?» La voce della donna dall’altro capo della cornetta si incrina in un punto interrogativo. «Da Londra, ha detto?»

«Sì, chiamo da Londra.» Lenta. Oggi sono circondato solo da persone lente e incompetenti che non sanno fare il loro lavoro. Mi strofino il braccio – non mi sono nemmeno tolto la giacca – e placo i brividi di freddo che si sono arrampicati fino alla spalla. «Ora, sarebbe così gentile da passarmi Emil Steilsson, per cortesia?»

«Solo un attimo.» La voce della donna si allontana, dal sottofondo giungono altri mormorii, due telefoni che squillano, qualcosa di cartaceo che viene sfogliato, e il cigolio di una sedia girevole. «Emil Steilsson, ha detto?»

Annuisco. «Sì.»

«Chi lo desidera, scusi?»

Strofino l’avambraccio e mi massaggio il collo sotto il bavero della giacca. È tutto indurito, i nervi sono un fascio di cavi d’acciaio. «Gli dica di Lukas.» Forse ho fatto male a darle il mio cognome, prima. Ora inizierà a farsi domande sul perché li abbiamo diversi. «Sono il fratello.»

«Attenda.»

Non fa storie. Meglio così.

Premo un fianco al mobiletto per non appesantire le gambe indolenzite, incastro la cornetta fra l’orecchio e la spalla, e aspetto.

Le ombre grigie e blu che riempiono il corridoio si allungano verso la cucina, verso il soggiorno, si infilano nella porta socchiusa, e spariscono dentro la camera da letto. Anche l’ombra di Mathias sfila come un fantasma fra le pareti. La sua presenza è rimasta incollata in ogni angolo della casa, in ogni granello di polvere, in ogni rientranza delle coperte che non ho nemmeno ripiegato sul letto, nel pentolino incrostato di latte che è ancora abbandonato nel lavello a riempirsi sotto il rubinetto gocciolante, nella scodella dello zucchero che da ora in poi non userò quasi più, nei suoi vestiti che sono rimasti appesi nell’armadio, nel suo profumo che rimarrà a impregnare il cuscino per chissà quanto.

Socchiudo le palpebre, mi abituo al buio dopo la tempesta di luci al neon che mi ha abbagliato durante il ritorno a casa, e il mio sguardo scivola verso il divano del soggiorno. Mi torna di nuovo in mente la sera della scorsa estate, l’aroma di birra che mi scivolava in gola mentre ci baciavamo, la luce rossa che scintillava sui capelli di Mathias mentre ci passavo le dita attraverso. I raggi del sole basso e morente brillavano sulla sua pelle imperlata di sudore, le goccioline piccole e trasparenti disegnavano sottili rivoli lungo le spalle, la schiena, raccogliendosi poi attorno al bacino, dove lo stringevo con le braccia. L’odore della pelle del divano e quello delle bottiglie di birra era soffocante, unito al caldo della camera e a quello del suo corpo sudato intrecciato al mio. È tutto un ricordo soffocante che odora di birra e di sudore, che prude come la pelle del divano incollata alla mia schiena nuda, eppure è il più bello di noi due assieme. Un ricordo dove ci siamo io e lui soltanto, assieme al nostro silenzio, ai nostri respiri, al calore dei nostri corpi intrecciati, a una pace e a una serenità che sapevamo entrambi sarebbero state impossibili da raggiungere e mantenere per sempre. Un ricordo che non svanirà mai da questa casa, che vi rimarrà fossilizzato come lo è già il fantasma di Mathias.

Una fitta di nostalgia mi stringe il petto, il cuore si ferma e torna a bloccarmi il fiato.

Ripenso anche a tutte le volte in cui tornavo a casa tardi senza sapere se Mathias sarebbe ancora stato lì ad aspettarmi, o se fosse sparito come al suo solito senza dirmi nulla, o se stesse bene, se si fosse cacciato in qualche guaio. Una delle ultime volte, lui era sparito per due notti di fila, io ero rientrato la sera e lo avevo trovato steso sul divano, crollato nel sonno, con ancora le scarpe e la giacca addosso, le chiavi di casa strette nella mano raccolta accanto al viso, e il ciondolo a forma di bandiera norvegese accostato alla guancia che diventava più scarna e pallida ogni giorno che passava. Di primo impulso avrei voluto arrabbiarmi, scuoterlo, chiedergli dov’era stato e perché non mi aveva nemmeno fatto una telefonata. Ma mi trattenni. Aveva una faccia da far pena anche ai sassi. Mi inginocchiai vicino a lui e gli scostai dalla fronte i capelli che erano pregni dell’odore di strada, di fumo, e di pub. Quando mi addormentavo di fianco a lui, quando Mathias riusciva a trascorrere anche una giornata intera in casa, mi ricordo che aveva sempre un profumo dolce che a volte somigliava addirittura a quello di biscotti.

Il lavandino che gocciola mi riporta con la mente in cucina. Un giorno di settembre, prima che cominciassero i primi freddi, Mathias si era messo in testa che i biscotti li sapeva fare per davvero. Quelli danesi, diceva, con la cannella e la crema di burro, come quelli che sua nonna gli preparava quando era piccolo. Ha bruciato tutto, il forno è andato in tilt facendo saltare anche il gas dei fornelli, la cucina era pregna di fumo, e abbiamo dovuto mangiare solo tonno in scatola, e pane e formaggio per una settimana. A lui piaceva l’idea. Diceva che gli sembrava di essere al campeggio. Poi però alla terza forchettata di tonno doveva sempre correre in bagno a vomitare. Ultimamente non riusciva a mangiare quasi nulla senza dover rigettare.

Se tornavo a casa e lui non era ad aspettarmi addormentato sul divano, allora andavo subito a controllare in bagno. Se ripenso a tutte le volte che l’ho trovato chino nella vasca, o steso per terra, con la faccia grigia e le labbra cianotiche... Ogni volta dovevo schizzargli l’acqua in faccia per svegliarlo e poi lo trascinavo nel letto.

Nel letto. Come l’ultima volta in cui l’ho avuto vicino a me.

“Se io non mi fossi mai avvicinato a te, se io e te non ci fossimo mai incontrati e se non... se non avessimo iniziato a stare insieme, sarebbe stato meglio, vero?”

Stringo un pugno sul mobiletto del telefono, le nocche urtano le chiavi che non ho rimesso apposto e che giacciono accanto al pacchetto di sigarette caduto sul fianco.

“Perdonami se ti sto rovinando la vita.”

È uscito di notte per non farsi fermare da me, è andato in uno dei bagni della stazione perché lo trovassero né troppo presto né troppo tardi, e soprattutto perché non fossi io stesso a vederlo morto.

“Perdonami se non sono in grado di proteggerti.”

Le dita scivolano, afferrano il pacchetto delle HB, le unghie deformano il cartoncino, si infilano nei solchi graffiati dalla penna che compongono il nome di Gilbert.

Mathias non è morto per sbaglio. È andato a uccidersi.

Stringo i denti sul labbro inferiore, assorbo il sapore della carne screpolata dal freddo, dell’amarezza che mi riempie le guance, e la bocca chiusa fra gli incisivi ha un fremito. Il nodo alla gola si scioglie, un flusso di calore risale il viso, infiamma le guance e brucia in mezzo alle palpebre, appannandomi la vista.

È andato a uccidersi solo per colpa...

«Lukas?»

La cornetta del telefono vibra contro l’orecchio, la voce di Emil mi fa sobbalzare, strappandomi ai ricordi.

«E...» Riagguanto il ricevitore scivolato spalla e lo spingo sulla guancia. Mi schiarisco la gola e la voce torna ferma, il viso freddo e le palpebre non bruciano più. «Emil.»

«Lukas, sei tu?» Emil passa al norvegese. Già la terza lingua in una giornata. Entro la fine della serata mi toccherà parlare anche in babilonese antico. «Mi hanno chiamato e sono corso subito.» Il tono è un po’ affaticato, forse ha corso davvero, e scosso da un pizzico di allarme. «Che è successo?»

Scrollo le spalle, schiudo la mano irrigidita attorno al pacchetto di cartoncino, e le sigarette tornano a cadere sul mobile. «Niente.» Appoggio la schiena all’orlo del mobile. «Non posso chiamare mio fratello solo per sapere come sta?»

«Ecco...» Emil tentenna. «Sì, immagino, è solo che...» Esita, come se si stesse strofinando la nuca, guardandosi in giro nello stanzino della segreteria per controllare che nessuno lo stia vedendo. «È insolito.»

Sospiro. «Stavi studiando?»

«No, ero in dormitorio a riordinare gli appunti. Fra un’ora ho laboratorio, quindi...» Non finisce la frase. Forse ha fretta, forse gli sto facendo solo perdere tempo, forse ho fatto un’idiozia a chiamarlo se nemmeno io ho coraggio di chiedergli quello che ho bisogno di chiedergli.

Chino lo sguardo, sospiro un’altra volta e riprendo in mano il pacchetto di HB. Lo rigiro fra le dita, gli spigoli di cartoncino grattano la pelle grigia e infreddolita dal maltempo. «Senti», un brivido attraversa la mano che impugna la cornetta del telefono, «vai a casa per Natale?» La voce rimane fredda come la neve.

«Ehm, sì.» La voce di Emil si fa più chiara attraverso il ricevitore. «Torno a casa il ventuno, viene papà a prendermi in aeroporto.»

Annuisco. «Ho capito.» Il pacchetto di sigarette continua a fare le capriole dentro la mia mano.

«Perché me lo chiedi?» Nella voce di Emil torna la punta di dubbio, un minuscolo briciolo di sorpresa.

«Niente.» Sollevo le sigarette, le rigiro sotto uno dei raggi di luce più chiara, e le scritte scintillano. «Speravo solo che saresti tornato a casa un po’ prima, per non trovarmi da solo davanti a mamma e papà.»

«Da sol...» Emil si blocca, come se si fosse strozzato, le parole incastonate in gola. «Cosa?» esclama, ma la voce torna subito bassa, un mormorio incredulo. «Torni a casa a Natale?» Lo sussurra, quasi avesse paura a pronunciare quella frase.

Abbasso il capo e mi strofino i capelli senza appoggiare le sigarette. La cornetta sta iniziando a prudere contro l’orecchio, così mi sfilo due ciocche di capelli rimaste incastrate sotto l’apparecchio. «Non lo so, devo ancora decidere.» Torno a spalle dritte, testa alta. Faccio ribalzare due volte il pacchetto sul palmo. «In realtà volevo arrivare un po’ prima, stare un paio di settimane a casa, e poi tornare qua.»

Emil esita. Un piccolissimo gemito, forse ha aperto la bocca senza riuscire a dire nulla e ora è raggelato davanti alla scrivania della segreteria. Lo immagino con gli occhi sgranati, le labbra socchiuse, e il telefono incollato alla guancia.

Inarco un sopracciglio. «Che c’è?»

«N-no, niente.» Il brusio di sottofondo sostituisce la sua voce. Ragazzi che schiamazzano, che corrono per i corridoi, e una porta che si chiude sbattendo. Emil si schiarisce la voce, torna a parlare con tono più fermo ma anche più scettico. «E con l’università?»

Alzo gli occhi al soffitto. «Ci sono pochissimi corsi» mento. Lancio di nuovo il pacchetto, lo riacciuffo. «Poi non ho saltato neanche una lezione in tutto l’anno. Un paio di settimane non mi rovineranno il percorso.» Questa invece non è una bugia.

«Ah.» No, non è ancora convinto. «Ma...» Qualcosa scricchiola. Forse ha chiuso una mano attorno alla cornetta, per nascondere il movimento delle labbra, e si è stretto nelle spalle. Sussurra con tono circospetto. «Fai sul serio?»

Stringo le sigarette fra le dita e sollevo anche l’altro sopracciglio. «Uhm?»

«Di tornare a casa a Natale» insiste Emil. «Davvero vuoi tornare a casa?»

Storco la punta del naso. «Perché? Non posso? Se non vuoi resto qui.»

«Lukas, dai, sai che non sono io il problema e che sarei il primo a volerti vedere di nuovo a casa.»

Sforzo un sorriso microscopico, anche se lui non può vedermi. «Che gentile.» Ma sento i tratti del viso farsi deboli, la pelle appesantirsi sotto gli occhi già gonfi di stanchezza, e gli angoli delle labbra che fanno fatica a rimanere sollevati. Penso sia normale quando non si è abituati a farlo.

«Lukas.» Emil non è più confuso, è serio. La voce bassa e grave ha perso ogni cedimento. «Sono più di tre anni che non metti piede a casa, quasi cinque che tu e papà non vi guardate nemmeno in faccia. Così, tutto d’un tratto, mi sembra...»

Alzo gli occhi al soffitto. «Be’, allora facciamo che vengo a casa solo per passare un po’ di tempo con te, d’accordo?»

Emil emette un breve sibilo e resta in silenzio, le sue dita scricchiolano contro l’apparecchio. Si sente solo il lieve fischio della connessione assieme al brusio più quieto della segreteria e dei corridoi. Per un attimo mi viene da credere che sia caduta la linea.

Emil sospira. «Lukas, è...» Un tono preoccupato scivola nella sua voce, come quando era piccolo e si intrufolava in camera mia dopo una delle litigate con papà per vedere come stavo. Rimaneva appeso alla porta, tutto tremolante di timore, con il viso in penombra, e mi chiedeva... «È successo qualcosa?»

Ho una fitta al petto, una vampata di freddo mi aggredisce la schiena, penetra nelle ossa e mi fa girare la testa. Schiaccio le dita sul pacchetto di sigarette, gli spigoli di cartoncino mi pungono la carne. Inalo un sorso d’aria. «No.» Sciolgo la presa della mano. Il sangue riprende a scorrere e a pizzicarmi le guance. Rilasso le spalle. «Cosa sarebbe dovuto succedere?»

«Non lo so» risponde Emil. «Per questo te l’ho chiesto.»

La mia bocca ha un rapido fremito. Mi morsico il labbro inferiore per costringermi a rimanere zitto, anche se la mano stretta alle sigarette ricomincia a tremare, suda, e se il peso fra le palpebre si aggrava ricevendo tutto il dolore bruciante dal petto. Perché non è necessario che Emil sappia, non è necessario che anche lui venga coinvolto in questa situazione e non sarebbe giusto tirarlo dentro. Non dopo tutto quello che lui ha già passato per colpa mia quando eravamo a casa.

Dalle finestre del soggiorno si spargono i rumori delle strade che hanno cominciato ad affollarsi, le auto rombano, un clacson squilla e il brusio del traffico rimbomba fra le pareti del corridoio. Dall’altra parte della cornetta si spargono dei passi, una porta si chiude e un altro telefono squilla, le voci degli studenti schiamazzano in islandese.

Socchiudo le labbra, provo a dire qualcosa, a screpolare il silenzio che si è solidificato fra me ed Emil, ma la lingua resta congelata sul palato.

Emil tossicchia, impacciato. «Ehm, senti.» Qualcosa si muove, forse si sta strofinando una mano fra i capelli o sta cercando qualcosa in tasca. «Se vuoi riesco a tornare a casa una settimana prima del previsto, ma non ne sono sicuro, dipende da come riesco a organizzare i progetti collettivi. Posso portarmi anche del lavoro a casa, ma...» Sfoglia qualcosa, forse un’agendina, e la carta scricchiola in mezzo alle sue dita. La sua voce diventa più chiara. «Non prima del quindici» conclude. «Ho ancora gli orari pieni.»

Scuoto il capo. «Non fa niente. Allora lascia stare.» Sollevo la schiena dall’orlo del mobiletto, torno a spalle dritte, rivolto verso la parete, e già mi preparo a riagganciare la cornetta. «A questo punto non mi fermerò nemmeno io. Era...» Rilasso le dita, il pacchetto di sigarette cade dalla mia mano, si adagia sul mobiletto rivelando il dorso marchiato dal nome di Gilbert, e urta il mazzo di chiavi agganciate alla bandiera danese. Raccolgo il ciondolo. La bandiera è fredda. La rigiro fra le dita ma sono fredde anche quelle. Scrollo le spalle e continuo a fare l’indifferente davanti a Emil. «Era più che altro una scusa per rimettere piede a casa, dato che starò un paio di giorni in Danimarca e pensavo di fare scalo anche a Oslo, prima di tornare a Londra.»

Emil sta zitto per un secondo, poi la sua voce sussurra. «In Danimarca?» domanda. Il tono incrinato da una curva di stupore e confusione.

Sto per rispondergli ma le parole mi rimangono incastrate in gola, come se avessi ingollato un pugno di spiccioli.

L’immagine del portachiavi a forma di bandiera danese racchiuso fra le mie dita oscilla davanti allo sguardo come il giorno in cui Mathias ha portato a casa tutti e due i ciondoli nel sacchetto di carta. Ne reggeva uno per indice, li ha fatti dondolare davanti al mio naso mentre sorrideva come se avesse appena trovato le chiavi per il tesoro di Buckingham Palace.

“Guarda che super carinissimi che sono! Li ho trovati in un negozietto di Portobello, costavano pochissimo e li ho presi tutti e due. Io ho la tua bandiera e tu hai la mia. Così ti tengo con me anche quando non ci sei.”

“Puoi scordarti che io appendo una cosa del genere alle mie chiavi.”

“Ooh, ma dai! È simbolico!”

“No. È patetico.”

“Io sarei il più felice del mondo a portarti sempre dietro come un portachiavi.”

“Ecco. Questo è ancora più patetico.”

«Cosa vai a fare in Danimarca?»

Mi gira la testa, le pareti del corridoio vorticano, le ginocchia cominciano a tremare.

Sorreggo la fronte con la mano che impugna il mazzo di chiavi ma la stanza continua comunque a roteare. Mi mordo il labbro fino a sentirlo bruciare, i battiti del cuore galoppano pulsando nelle orecchie, gonfiano il cuore che spinge sulle costole. I battiti perforano il petto.

“Lei era a conoscenza del fatto che Mathias fosse danese, giusto?”

“Cosa vai a fare in Danimarca?”

“Hanno richiesto di riportare Mathias a Copenaghen, vogliono che sia sepolto là.”

Serro il pugno ancora più forte, il bruciore delle unghie infilate nel palmo si unisce a quello che sale ad annaffiare gli occhi che bruciano agli angoli delle palpebre.

Schiudo le labbra, ma la bocca trema. «Ecco...» Lo sguardo scotta, il groviglio incastrato in gola si srotola.

“Così ti porto con me anche quando non ci sei.”

«Io, ehm...»

Qualcosa si scioglie.

Una singola lacrima si scioglie dalla palpebra destra, non bagna la guancia, precipita dalle ciglia e si schianta contro il mobiletto. Apre un disco trasparente che luccica sotto la luce soffusa del corridoio.

Sgrano gli occhi alla vista della lacrima aperta sul tavolo. Una gelida ondata di panico mi aggredisce il corpo, ghiaccia il respiro come un pugno dato alla bocca dello stomaco.

No, no, no, non deve succedere!

Chino le spalle in avanti, schiaccio la mano appesa alle chiavi contro la bocca, ingoio il pianto con un singhiozzo, gli occhi restano spalancati per evitare che scendano altre lacrime, il respiro accelera, inumidisce le dita.

Il pianto gocciola ancora – plic, plic, plic –, allarga la macchia trasparente sul mobiletto che va a inzuppare l’orlo del centrino sotto il telefono.

Serro i denti, lo smalto stride.

Non posso mettermi a piangere, merda, non posso!

Rabbia e dolore aggrediscono il cuore, affondano un morso violento che pulsa come una scossa elettrica attraverso le costole.

Tolgo la mano dalla bocca, schiaccio il dorso su un occhio, le lacrime scivolano fra le dita e si infilano sotto la manica della giacca. L’altro occhio continua a gocciolare come il rubinetto della cucina. Tappo anche quello, ma il pianto continua a bruciare e scivola lungo le guance fino agli angoli delle labbra. Il petto scotta, i polmoni stanno per scoppiare, sono in apnea. Schiudo le labbra per prendere un respiro e ne esce un singhiozzo tremante, simile a un sussurro. Mi tappo anche la bocca. Copiose lacrime scivolano lungo il dorso della mano, si infilano fra le dita, luccicano sulla superficie del portachiavi incastrato fra le punte delle falangi. Singhiozzo ancora e sento il cuore spaccarsi in due. Un blocco di ghiaccio frantumato che si scioglie lentamente.

«Lukas?» La voce di Emil non riesce a scuotermi.

Scollo la mano dalle labbra e la spingo di nuovo contro gli occhi. Cala il buio, il dolore preme sul petto, affonda un crampo alla bocca dello stomaco e mi fa torcere in due. Piego il gomito sul mobiletto, il braccio trema, chino le spalle in avanti per sorreggermi e il pianto continua a salire, a scuotermi come nel mezzo di una tempesta. Mi mordo le labbra. Deboli gemiti si mescolano ai singhiozzi. La cornetta scivola lentamente giù dall’orecchio e della mia mano.

«E-ehi, Lukas?» La voce di Emil suona più tesa, lui la alza. «Cos’hai?»

Le gambe non reggono, vacillano e cedono. Cado con le ginocchia a terra, i gomiti aggrappati sull’orlo del mobiletto, e la cornetta che scivola fra guancia e spalla. Nascondo la fronte fra le braccia incrociate, soffoco i singhiozzi che mi fanno tremare le spalle e la schiena, raccolgo le mani attorno al viso e la guancia bagnata di lacrime preme sulla bandierina danese. Strizzo gli occhi, tengo le labbra morsicate fra i denti, singhiozzo a bocca chiusa, a bassa voce, ma il petto va in fiamme. Tutto il dolore si scioglie e trabocca, mi svuota l’anima.

La tiepida mano di Mathias sulla mia guancia, la mano fredda del suo corpo sotto le luci bianche dell’obitorio; i suoi occhi azzurri brillanti sotto la calda luce rossa del tramonto d’estate e i suoi occhi tristi e disperati scuriti dal riverbero della nostra ultima notte assieme; il battito del suo cuore accanto al mio orecchio e il suo respiro fra i miei capelli; il suo calore che se n’è andato e che non potrò mai più raggiungere.

La cornetta del telefono vibra, ma la voce di Emil è distante come un eco. «Lukas, ti prego, rispondimi, non mi spaventare.»

Non ce la faccio a rispondergli. Non ce la faccio.

Resto chino, inginocchiato davanti al telefono, la faccia bruciante di lacrime rintanata fra le braccia, le chiavi di Mathias contro la guancia, e i singhiozzi strozzati che mi soffocano il respiro.

«Lukas...»

Il pianto non smette, continua a soffocare i singhiozzi contro i gomiti intrecciati, mi infradicia le maniche della giacca, le labbra strette fra i denti tremano, il dolore pulsa e mi fa scoppiare il cuore.

Solo ora mi rendo realmente conto che Mathias è morto.

È morto e non c’è nulla che possa farlo tornare a casa. Non tornerà mai più.

 

.

 

Mi affaccio al finestrino dell’aereo, lascio riposare la testa tenendo la tempia premuta contro la parete ricurva, e spingo il gomito sul bracciolo. L’imbottitura si è scrostata, lo spigolo preme sull’osso, il sedile vibra e il fracasso delle turbine in azione mi ronza nella testa come il costante risucchio di un aspirapolvere.

Fuori dal doppio finestrino incrostato da sottilissimi cristalli di ghiaccio, una coltre di nuvole nasconde la distesa del mare. Somiglia a un tappeto di cotone, una lunga distesa di ovatta bianca, di quella che si compra in un pezzo intero e non a batuffoli. L’aereo perfora una nube più sottile ed entra in un banco di foschia, il vapore si squaglia contro l’ala, fa traballare l’alettone, e la leggera turbolenza fa dondolare la fusoliera.

Sistemo il peso contro il sedile vibrante e la cintura preme sui fianchi. Sollevo una gamba, provo ad accavallarla, ma il ginocchio resta incastrato nella poltroncina davanti alla mia, schiacciando le riviste infilate nella tasca a rete, tutte stropicciate agli angoli. Quanto detesto viaggiare in aereo.

Riaggiusto le spalle contro lo schienale, rilasso le gambe intorpidite, e sospiro a lungo. Mi strofino la fronte e massaggio le tempie, spalmando il mal di testa lungo i nervi, e chiudo gli occhi, allontanandomi dal paesaggio fuori dal finestrino. Le palpebre pesano, bruciano, e ogni volta che le sbatto mi sembra di ricevere due coltellate nei bulbi oculari. È da due giorni che non dormo. Già due giorni che Mathias è morto.

Il ronzio dell’aereo si affievolisce, diventa un suono più basso e profondo, scava nella testa facendo riaffiorare i ricordi dove emerge il suono della mia voce e di quella di Emil. Il ronzio dell’aereo in volto si trasforma nel brusio della nostra ultima telefonata.

“Non so ancora il giorno del funerale, non me l’hanno ancora detto, non so nemmeno se è già fissato. Ma volevo...” Sospirai. Mi asciugai gli occhi ancora umidi con la manica della giacca. Lo sguardo era tornato freddo, il ghiaccio si era solidificato un’altra volta, e la penombra del corridoio nascondeva il rossore del mio viso. Strinsi la mano aggrappata alla bandiera, non tremava più. Sentivo il petto più leggero dopo aver pianto, ma continuava a fare male come una lama incastrata fra le costole. “Volevo solo andare con lui un’ultima volta.”

“Okay, ascolta, posso andare subito a parlare con il direttore e farmi congedare per un paio di giorni. Mi invento che è morto il nonno, non lo so. Prendo il primo volo per Copenaghen e ti aspetto lì, ti accompagno.”

“Guarda che non sei costretto a venire.”

L’aereo ha smesso di traballare.

Socchiudo gli occhi, il tappeto di nuvole a forma di onde di cotone si stende ancora sotto di noi, ma il cielo sopra i cumuli splende di un azzurro terso, la sagoma luminosa del sole brilla all’orizzonte, i raggi si allungano attraverso l’aria e si raccolgono sul profilo dell’ala, facendola luccicare come uno specchio.

Ding!

Si spegne la spia rossa che obbliga a tenere le cinture allacciate. Lungo le due file di poltroncine si solleva il clangore metallico delle chiusure che si slacciano e che vengono lasciate cadere ai lati dei braccioli. Anche il tizio seduto accanto a me si sgancia la cintura, lascia scivolare sui fianchi le due estremità, e uno dei morsetti va a sbattere sulla mia poltroncina. Il tizio riprende in mano il giornale, lo scrolla, e si rimette a leggere.

Io non la slaccio. Tanto fra venti minuti dovrei tornare a rimetterla, siamo quasi arrivati.

Abbasso la mano dalla fronte, stendo le dita sul viso, riparo gli occhi dalla luce del sole che sbatte sul finestrino, e creo una maschera di buio. Torno a chiudere gli occhi, a far riposare le palpebre su cui sembra che abbiano gettato manciate di sabbia, e mi isolo dai rumori. Di nuovo il ronzio delle turbine che vibrano sotto le gambe mi riporta alla voce sgranata di Emil con cui ho parlato dall’altro lato della cornetta.

“No, voglio venire con te, sul serio. Non voglio che tu vada da solo e...”

“Non piangerò di nuovo, se è questo che ti spaventa.”

“Senti, voglio venire e basta.”

“Va bene, va bene.”

“Solo...” La voce di Emil aveva tentennato. Si era fatta impastata e insicura, come se avesse parlato stringendosi il labbro fra i denti e arrotolando il cavo di gomma fra le dita. “Come lo dico a papà?”

La testa di una hostess, abbellita con un copricapo blu e rosso che tiene fermi i suoi capelli sulla nuca, sbuca in mezzo alle poltroncine. La giovane si gira e tira un carrellino d’acciaio colmo di bottiglie – acqua, aranciate, succhi di frutta e bibite gassate – e di tre pile di bicchierini di plastica bianchi. Una seconda hostess la accompagna, regge il carrello dall’altra estremità e la aiuta a spingerlo lungo il corridoio lievemente inclinato. La prima si china, sorride a uno dei passeggeri e gli chiede qualcosa che non riesco a capire, c’è troppa gente che borbotta e il ronzio dell’aereo è troppo forte. L’hostess raccoglie una bottiglia di aranciata, un bicchiere. Lo riempie e lo porge al passeggero. Un sorriso di cortesia a incurvarle le labbra spalmate di rosso.

Riprendo a guardare fuori e appoggio la spalla e la tempia alla parete ricurva.

Le nubi si dividono. Un lenzuolo di terra frastagliata si getta nella distesa azzurra del mare, rientranze di un blu più scuro evidenziano i laghi e i fiumi che si snodano fra le foreste, divorando il terreno come una rete di budella. Soffi di nuvole grigie sbavano il territorio, gettano ombre nere che rivestono le macchie grigie delle città, incavano le sporgenze delle montagne e le rive dei laghi. La luce del sole si sta scurendo e mi culla in uno stato di piacevole assopimento che mi riempie la testa. Ci sarà brutto tempo sia oggi che domani, probabilmente. Come a casa e come a Londra. Come sempre ai funerali.

La mia voce riecheggia nei ricordi. “Che c’entra, lui?”

“Dovrò...” Emil aveva esitato. “Qualcuno dovrà pagarmi il volo, come faccio per...”

“Lascia stare. Te lo pago io. Tu però non dirgli niente, non deve nemmeno sapere che io e te ci siamo visti, d’accordo?”

Emil era rimasto in silenzio – mi era quasi parso di trovarmi davanti alla sua espressione contrariata – ma alla fine si era arreso con un sospiro. “D’accordo.”

Le ruote del carrellino si avvicinano, rullano sul pavimento dell’aereo e anche la voce dell’hostess emerge dal brusio, disturba i ricordi. «Desidera qualcosa da bere?» Sbircio socchiudendo un occhio. È a tre posti da noi, una delle bottiglie di acqua minerale è giù vuota, la bottiglia di aranciata è scesa a metà, anche quelle delle bibite gassate si sono abbassate di volume. La seconda hostess si china a raccogliere quella dello champagne che tengono nello scompartimento più basso e regge anche una bustina verde con l’immagine di una cascata di arachidi saltati nel sale che ha raccolto dal cesto degli snack.

Giro la testa. Tengo il viso nascosto per metà dentro la mano aperta sulla guancia, copro il mezzo broncio che mi fa aggrottare le sopracciglia. Forse se mi fingo addormentato non verranno a rompermi le scatole.

“Lukas.”

La voce di Emil è vicinissima, sembra che mi stia parlando dalla poltroncina di fianco, e la sgranatura della connessione scricchiola contro l’orecchio.

Presi un respiro profondo, strinsi anch’io la mano contro la cornetta, e la mia voce arrochita dal pianto che tornò piatta e gelida. “Sì?”

“Mi... mi spiace per quello che è successo.” Era sincero. Valse di più quella piccola frase detta da mio fratello che tutti gli sguardi finti e smielati ricevuti da poliziotti e infermiere. “Davvero.”

Un campanello trilla – di-dong! – mi strappa dal buio.

Tiro su la testa, apro gli occhi di colpo. Sono di nuovo tutti ai loro posti, il carrellino e le due hostess sono svaniti, la voce che ci ha accolti al decollo torna a parlare attraverso il microfono.

«Gentili passeggeri, vi informiamo che fra qualche minuto inizieremo le manovre d’atterraggio verso Copenaghen. Vi invitiamo a controllare che i bagagli siano stivati correttamente, che il tavolino davanti a voi sia chiuso, che lo schienale della poltrona sia in posizione verticale con i braccioli abbassati e che le cinture di sicurezza rimangano allacciate fino all’apertura delle porte. La temperatura al suolo è di tre gradi centigradi e il tempo è nuvoloso. Vi ringraziamo per aver volato scegliendo British Airways e vi auguriamo un piacevole soggiorno.»

Passa qualche secondo, e la voce del comandante ripete il messaggio anche in danese.

Premo la nuca contro il poggiatesta della poltroncina, il peso dell’emicrania si affievolisce, ma spinge tutto sulle palpebre che non riescono a rimanere aperte e che si chiudono sprofondando nel buio. La mano che prima tenevo premuta contro la guancia scivola verso il basso, si stende sul fianco e batte sul rigonfiamento della giacca. Stringo i polpastrelli, tasto la forma del pacchetto delle HB che mi sono portato dietro assieme ai nostri due mazzi di chiavi. Scavo nella tasca, le chiavi trillano sbattendo fra di loro, e incontro uno dei due portachiavi a forma rettangolare. Lo estraggo. È quello di Mathias, con la mia bandiera norvegese appesa alla catenella. La sera in cui è morto sono andato fino al Waterloo Bridge portandomelo dietro, volevo buttarlo nel Tamigi, volevo che una parte di lui rimanesse sepolta anche a Londra. Ma alla fine non ce l’ho fatta. Sarebbe stato come imprigionarlo di nuovo nel mondo che lo ha ucciso e da cui è finalmente riuscito a staccarsi.

Chiudo le dita attorno al ciondolo, i dentini delle chiavi mi pizzicano la pelle, i colori della bandiera norvegese svaniscono nel palmo lasciando fuori solo due spigoli rossi. Accosto la mano alla guancia e chiudo di nuovo gli occhi.

“Ci vediamo a Copenaghen.”

L’aereo si inclina, la pressione nelle orecchie diminuisce, le turbine accelerano, e iniziamo l’atterraggio.

 

.

 

Un gruppetto di persone si disperde sotto l’uscita del Gate B16. Un signore vestito con un cappotto a quadri mi supera, accelera il passo, solleva il braccio che regge la valigia ventiquattrore e lancia un’occhiata all’orologio da polso. La valigia a fiori di una signora dai capelli rossi fa una gran confusione quando striscia sul pavimento. Due ragazzi infagottati con zaini da montagna si girano a guardare e la lasciano passare quando zampetta in mezzo a loro. Un bambino stretto fra le braccia di sua mamma scruta la folla che gli cammina attorno, si appoggia alla spalla della donna tenendosi con le mani aggrappate al suo collo, e farfuglia qualcosa in danese. Il padre scambia una parola con la donna, sistema le valige che sta portando da solo, lei annuisce, regge il bambino contro la spalla e ricontrolla le carte di imbarco infilate fra i passaporti.

Qua fuori fa più freddo rispetto all’interno dell’aereo. Mi stringo le spalle, reggo contro il fianco l’unica borsa che mi sono portato dietro come bagaglio a mano, e mi strofino il braccio per placare i brividi. Sta iniziando a fare buio, quando siamo scesi dall’aereo il sole stava già calando, e le luci piantate lungo le pareti del corridoio sono come pugni negli occhi ogni volta in cui sbatto le ciglia.

Io e gli altri passeggeri sfiliamo davanti ai bagni pubblici e due signori si infilano dentro, il resto del gruppetto si disperde accelerando il passo verso l’insegna “Arrivals” accanto alla sagoma di un aereo che atterra.

Il corridoio dopo il passaggio del gate si apre sulla piazzola d’ingresso, delimitata da traversine di ferro che tengono la gente accalcata e distante dall’uscita. Il brusio delle voci, dei richiami dagli altoparlanti e delle valige che trascinano le ruote, si intensifica.

Mi infilo in mezzo alle spalle di due signori e accelero anch’io, inizio a far scorrere gli occhi sulla folla ammassata oltre le traversine, in cerca di Emil.

Un tizio oltre la sbarra si guarda attorno, regge il cartello con su scritto “Mr Orson” e si alza sulle punte dei piedi, continuando a cercare con lo sguardo. Due bambine con i boccoli biondi reggono insieme un cartellone più grande, una di loro sta succhiando un leccalecca, e ogni tanto si girano a sorridere verso una donna. Il loro cartellone è scritto con pastelli rosa e viola, e dice: “Velkommen hjem, far!”, circondato da fiorellini.

Gli odori si mescolano, c’è più caldo. Da uno dei bar mi raggiungono le ventate di aria dolce che profuma di zucchero, quella che puzza del fumo delle sigarette accese, quella acre della candeggina che hanno appena sparso per ripulire il corridoio fuori dai gabinetti, e di tutto questo ammasso di umanità che brulica come un gregge di pecore in un prato.

Una ragazza con una gonnella a righe che le sbuca da sotto il cappotto scamosciato mi supera e corre verso un altro ragazzo, lascia cadere la valigia e si butta fra le sue braccia, lui la solleva e le fa compiere una piccola giravolta. Scivolo più in là, e continuo a passare gli occhi da una faccia all’altra, in cerca di Emil.

Una sagoma si infila fra le spalle di due uomini imbacuccati in giacche nere lunghe fino al ginocchio. Solleva lo sguardo, lo incrocia con il mio, e l’incontro con quegli occhi familiari mi fa sentire una nostalgica fitta al cuore.

Emil solleva il braccio che non regge la sua borsa, sventola la mano sopra la testa, e saltella di un passo in avanti, superando una signora anziana che sta rovistando nella borsetta. Lo sguardo di mio fratello mi resta incollato, le palpebre larghe di preoccupazione, grigie di stanchezza, e un luccichio di ansia che brilla nel lucido degli occhi.

Sospiro e gli vado incontro a passi calmi, senza fretta. Il cuore si svuota di tutta la nostalgia e riprende a battere più lentamente.

Emil lascia scivolare a terra la borsa e mi abbraccia per primo. Mi stringe le spalle, preme la fronte sulla clavicola, i nostri piedi si incrociano, non mi dice niente. Lascio anche io la borsa e lo abbraccio. Gli poso il viso sulla spalla, respiro il profumo impregnato nella sua giacca, un odore diverso da quello che sentivo quando eravamo piccoli, più forte e meno dolce, di altra gente e di un altro paese, ma sempre il suo.

Chiudo gli occhi e lo stringo forte, il dolore preme sul petto ma l’abbraccio mi aiuta a scaricarlo. Sto trattenendo il respiro, mi sono morso il labbro, non voglio farmi vedere in faccia da lui con un’espressione del genere. Però sto meglio. Abbracciato a mio fratello è più facile da sopportare.

Emil stringe le mani sulla mia giacca e mormora contro la mia spalla. «Mi dispiace.» Le vibrazioni della sua voce fremono accanto all’orecchio.

Annuisco. Annuisco e basta.

Resto abbracciato a lui, le borse ai nostri piedi, il fracasso dell’aeroporto che ci ronza attorno assieme all’ammasso di persone che ci ignorano, e non ho bisogno di dire nient’altro.

 

.

 

Infilo le chiavi nella serratura d’ottone, l’ingranaggio gracchia mentre ingoia la dentatura seghettata, il portachiavi con il numero della camera – ottantasette – sbatacchia sulla mia mano mentre do due giri. La serratura scatta. Spingo la maniglia e apro la camera della pensione. L’odore di stoffa pulita, di chiuso e di deodorante per ambiente mi investe e soffoca le narici. È così forte e ruvido che mi dà un capogiro.

Entro per primo lasciando la porta aperta, premo la mano sulla parete e tasto fino a che non trovo l’interruttore della luce.

Emil si infila fra me e lo stipite, scivola di fianco, schiacciandosi come una sottiletta, e mi passa davanti facendo strusciare la sua borsa sulla mia. «Speriamo che non ci siano i topi» si lamenta.

Abbasso l’interruttore e la luce scatta.

Il lampadario che pende sopra i due letti sfarfalla, la lampadina emette uno stridio simile a un’unghia che graffia sul vetro, e si assesta riempiendo la camera di una luce gialla e opaca. Le tende della finestra sono chiuse, tappano il riverbero dei lampioni installati sul tratto di strada fuori dalla pensione che resta incastrato fra le saracinesche. Fra i due letti rifatti a nuovo – le coperte piatte come tavole – si incastra un piccolo comodino con il telefono e una piccola abat-jour. Una scrivania più grande è accostata alla parete assieme a una seggiola accostata all’angolo della stanza.

Scivolo di un passo in avanti, getto lo sguardo a sinistra e scosto la piccola porticina accanto al guardaroba. Un fascio di luce entra nel bagno. C’è solo il water, il lavandino, e la doccia ad angolo.

Scrollo le spalle, mi chino a raccogliere la mia borsa. «Meglio di quello che credevo.» Sfilo le chiavi dalla porta e la chiudo dietro di me.

Emil raggiunge la seggiola all’angolo e vi poggia sopra la sua borsa, si sfila la giacca e getta anche quella sullo schienale. Passa un dito sulla superficie di legno della scrivania, accanto al foglietto plastificato su cui sono segnati i numeri di emergenza e quello della reception, e strofina i polpastrelli. «Per una pensione da aeroporto.» Preme la mano sulla spalla e fa roteare il braccio, le vertebre del collo scricchiolano. «Avremmo potuto prenderci una camera in città, qui dobbiamo anche andarci a cercare un ristorante per la cena.»

Ficco la mano nella tasca esterna della mia borsa, sollevo uno scricchiolio, ed estraggo i due panini al tonno e maionese avvolti nel cellophan che ho comprato al terminal di Londra. Li scuoto. «Quale ristorante?»

Emil si gira e inarca un sopracciglio. Squadra i due panini e sospira, la sua espressione si ammoscia. «Grandioso» brontola. Si sfila le scarpe senza nemmeno slacciarle e si lascia cadere supino sul letto accanto alla finestra chiusa, a braccia spalancate come un crocifisso. Accosta una mano agli occhi e si ripara dalla luce giallognola del lampadario.

Rinfilo i panini nella borsa e vado verso l’altro letto. «Non valeva la pena prendere un albergo in città.» Abbandono la borsa sul pavimento di moquette, vicino all’armadio a parete che rimarrà vuoto. Mi tolgo anche io la giacca, il tepore scivola dalla pelle lasciandomi una maglia di brividi attorno al busto, e la lancio sul materasso. «Tanto domani saremo di nuovo qui per il volo di ritorno. Sarebbe stato uno spreco.» Mi butto anche io a sedere sul letto, le molle cigolano e il materasso sobbalza come una gelatina. Slaccio le scarpe e le sfilo, i piedi si rilassano, un piacevole formicolio risale le gambe. «Qui va benissimo.» Rimbocco il cuscino e mi sdraio sul fianco, la guancia contro l’imbottitura ancora fredda ma morbida, il corpo sdraiato sopra la giacca, e un braccio a ciondolare verso il pavimento, le dita a sfiorare la moquette da cui proviene il profumo ruvido di deodorante per ambiente. Abbasso le palpebre e sospiro. «Non fare lo schizzinoso, dobbiamo solo dormirci.»

Emil sbuffa, ha la bocca schiacciata al cuscino. «Mhf.» Il suo letto cigola, forse si è girato. «Se non altro è meglio delle poltroncine del terminal. Mi è diventato il sedere quadrato a forza di starci seduto tutto il giorno.»

Rispondo con un mugugno. Ho le palpebre pesanti, non riesco a tenerle aperte, sbatto le ciglia e le riapro di poco, la vista si appanna e il respiro rallenta. Potrei crollare anche subito. «Se mi addormento mangia pure il mio panino» sbiascico. «Anzi, mangiatelo lo stesso.» Infilo la mano nella borsa, tasto i due panini e mi soffermo su quello più grosso. Impenno il braccio. «Non ho fame.» E lo lancio dietro di me.

Il cellophane scricchiola, emette il suono di un piccolo schiaffetto perché forse Emil è riuscito ad acchiapparlo al volo. Le dita strappano la pellicola di plastica e la appallottolano, Emil dà un primo morso al pane morbido che non scrocchia e mangia in silenzio. «A che ora ci alziamo domani?» E strappa un altro morso.

Scrollo le spalle, mi rigiro sulla schiena, la nuca affonda nel cuscino. «All’ora che vuoi.» Tengo gli occhi socchiusi rivolti al soffitto, le mani raccolte in grembo, i piedi distesi che non toccano il fondo del letto. Una macchia verdognola si espande dall’angolo del soffitto, dove sottili incrostazioni di muffa stanno aggredendo l’intonaco screpolato. «Il funerale è alle tre» dico, la voce piatta, il tono assente. «Prima ho chiesto alla reception e mi hanno detto che ci vuole mezz’ora da qui per il cimitero, quindi potremmo partire verso le due.»

Emil ha ancora la bocca piena ma parla lo stesso. «Taxi?»

«Sì.»

«Costerà una botta.» Emil divora l’ultimo boccone di panino al tonno e succhia le briciole dalle punte delle dita. Aveva proprio fame. «Se dobbiamo fare andata e ritorno dal centro.»

Sbuffo. «Pazienza.» Premo una mano sulla fronte, massaggio le palpebre schiacciandoci i polpastrelli sopra. «Domani mattina lo faccio chiamare dalla tipa della reception giù. Ora non ci pensare.»

«Hai fatto il cambio di soldi?»

I sol – merda.

Aggrotto la fronte, strizzo le palpebre ed emetto un lungo sospiro che termina in un ringhio. «Porca...» Stringo le dita attorno alle tempie.

Le molle del letto di Emil cigolano, forse si è girato. «Vado io dopo, se vuoi.» Abbassa la voce, diventa un mormorio. «Sei uno straccio.»

Lascio scivolare la mano dal viso e giro la guancia contro il cuscino. «Lavati i denti e le mani prima di uscire, non metterti a dormire se hai ancora la bocca che sa di panino.»

«Va bene, va bene.» Emil fa scricchiolare di nuovo il cellophane che ha strappato dal panino e lo lancia nel cestino accanto alla scrivania. «Dio» si lamenta. «Mi sembri papà.»

Serro le dita sulla giacca stesa sopra le coperte, le unghie grattano la stoffa, restringo le palpebre e la vista appannata diventa rossa. Uno sgradevole ma familiare formicolio mi agita lo stomaco, il sangue ribolle, mi accorgo di star trattenendo il respiro solo quando i polmoni cominciano a bruciare.

La voce di Emil è più fioca. «Scusa.»

Abbasso le palpebre e il nero riempie la vista, fa svanire il rosso. Rilasso i muscoli e il respiro si distende, scioglie il formicolio che bruciava in fondo alla pancia. Mi si è chiuso lo stomaco ed è rimasto un lieve senso di nausea, come quando ero a bordo dell’aereo che traballava fra le turbolenze. Torno a infilare il braccio nella tasca della borsa e afferro anche l’altro panino. Lancio anche quello a Emil. Mi è passata la fame. «Non fare briciole sul letto.»

Il cellophan schiocca fra le sue mani, lo ha acchiappato al volo. Emil scarta il panino, la pellicola stride fra le sue dita, e dà un morso più piccolo e meno vorace di quelli con cui ha divorato il primo. Mastica piano. Nel silenzio mi accorgo che il lampadario ronza, passi si muovono attraverso il corridoio, qualcuno trascina una valigia, una porta si apre, chiavi sbattono contro la maniglia, una voce borbotta qualcosa in una lingua che non conosco. Fuori una gettata di vento sbatte contro le imposte della finestra. L’aria fischia, ulula in lontananza, trascina con sé le nuvole di maltempo che abbiamo attraversato in volo prima dell’atterraggio. Forse domani pioverà.

Emil prende un altro piccolo morso, ingoia prima di parlare. «Sul serio non vuoi dire niente a papà?» Il materasso cigola, si è girato verso di me.

Mi stringo nelle spalle. «Cosa dovrei dirgli?»

«Che io e te ci siamo visti.» Un altro morso. «Che avresti voluto tornare a casa un paio di giorni assieme a me prima di Natale.» Il cellophan scricchiola fra le sue dita.

«Certo.» Sollevo il braccio che ciondola verso il pavimento e lo rannicchio accanto al viso, contro quello già spremuto sotto il cuscino. Le mie labbra parlano contro la stoffa. «E dirgli anche che il motivo per il quale sono vicino a casa è lo stesso che impedisce a me e a lui di guardarci in faccia da cinque anni a questa parte.»

«Capivebbe» risponde Emil, con la bocca piena. Appallottola il cellophan e lancia anche quello contro il cestino dall’altro lato della stanza. Emil si sposta sul materasso, resta seduto. «In questa situazione capirebbe.»

«No» sbuffo. «E non mi interessa che capisca.» Chiudo gli occhi, aggrotto le estremità delle sopracciglia in un’espressione di disapprovazione, storco un angolo della bocca sentendo un sapore amaro, viscido e familiare toccarmi la lingua. «Uno che ti toglie il cognome per un motivo come questo non merita nemmeno di capire» mormoro.

Qualcun altro si muove fuori dalla porta, passi più forti e veloci superano la nostra stanza e il loro eco si perde nelle profondità del corridoio.

Mi giro supino, lo sguardo vola sul soffitto, gli occhi socchiusi catturati dalla debole e scura luce del lampadario sfrigolante. Stendo un braccio sopra la fronte, riparandomi, e resisto al dolore del mal di testa che torna a risalire le ossa facendo pulsare le tempie e battendo contro le pareti del cranio. «Sul serio, mi va bene così» dico. «L’importante è che non lo venga a sapere per te.» Sospiro, chiudo gli occhi. «Ormai io sono il figlio perso, tu sei quello salvabile.»

«Non è papà che ti tiene lontano da casa» ribatte Emil. «Sei tu che non vuoi tornarci.»

«Ormai è Londra la mia casa. È lì che mi sto...» Mi mordo il labbro, la voce tentenna. «Stavo...» Sbuffo e faccio roteare lo sguardo da sotto il braccio. «Sto ricostruendo una vita.» Sospiro e mi giro sul fianco, schiaccio la guancia contro la spalla, la giacca si deforma sotto il mio peso. «Poi se le cose si disintegrano dovunque io metta piede è un altro discorso.» Un rigonfiamento spigoloso proveniente dalla giacca mi preme sul costato. Tasto il gonfiore che cede attorno alla forma dello spigolo, e infilo la mano nella tasca. Le dita scuotono i due portachiavi a forma di bandiera, incontrano il pacchetto delle sigarette HB. Lo tiro fuori, lo rigiro sotto la luce, la carta lucidata scintilla e le ombre si infossano nelle lettere che compongono il nome di Gilbert calcato con la penna a sfera sul retro dell’astuccio. Me lo sono portato dietro senza nemmeno essermene accorto, l’ho ficcato nella tasca della giacca ancora quando ero a Londra e poi mi sono dimenticato di toglierlo. Forse dovrei gettarlo, anche perché non ho la minima intenzione di andare a portarglielo.

Avvolgo il pacchetto di sigarette e lo accosto alla guancia. Il leggero aroma di tabacco si espande dall’astuccio, solletica la punta del naso e mi brucia la gola, gli spigoli di cartoncino mi pungono la guancia. Forse dovrei buttare anche questo nel Tamigi assieme al portachiavi.

«Da quanto...» La voce di Emil tentenna. Giro la coda dell’occhio, sbircio da sopra la spalla. Emil si rannicchia contro la testata del letto, avvolge le braccia attorno alle ginocchia premute sul petto, si dondola avanti e indietro facendo cigolare il materasso. Mi rivolge uno sguardo esitante, tiene la fronte bassa. «Da quanto vivevate assieme?»

Mi assale un gelo al petto, il cuore si stringe, appesantendosi, e diventa di pietra. Sospiro, abbasso le palpebre e allontano lo sguardo, distogliendolo dai ricordi. Ne ho abbastanza di ricordare. «Da tre mesi.» Rigiro il pacchetto di sigarette, l’immagine del marchio HB si alterna al nome di Gilbert. La voce esce piatta e fredda, un sospiro di ghiaccio. «Ma ci siamo conosciuti in primavera.»

Emil si dondola ancora, si ferma con la schiena al muro. «Ma tu sapevi già che lui era...» La sua voce ha un tremore. «Sì, insomma, che...» Stacca un braccio dalle gambe e si gratta la nuca. Movimenti rapidi e impacciati. «Che era dentro a quelle cose?»

Restringo le sopracciglia, le unghie danno una graffiata al pacchetto di sigarette. «Ovvio.»

«E hai lo stesso deciso di stare con lui?» Non sembra indignato o schifato. Solo sorpreso.

Sospiro. Non rispondo. Rigiro il pacchetto di sigarette facendo scorrere il riflesso del lampadario lungo la superficie di cartoncino lucido.

Emil torna a stendersi, fa rimbalzare il letto. «Ammirevole.» Le sue parole sono l’eco di quelle pronunciate dall’agente di polizia nell’abitacolo dell’auto, mentre mi stavano accompagnando all’obitorio. “Audace, a prenderlo come inquilino.”

Serro le dita sul pacchetto. «Non l’ho fatto per pietà.»

«Non ho mica pensato a questo.» Lo sento rigirarsi sul fianco, il materasso sotto di lui torna immobile, silenzioso come la stanza in cui si sente solo lo sfrigolio della lampadina e il soffio del vento contro la finestra. Emil prende un breve respiro. «Però...»

Tendo l’orecchio, lo squadro con la coda dell’occhio e smetto di far rigirare il pacchetto di sigarette fra le dita. Emil si gira dalla mia parte, lascia ciondolare il braccio giù dal letto, spreme la guancia sul cuscino, e le punte della frangia fanno ombra agli occhi che brillano di una luce scura e triste.

«Allora lo amavi davvero.»

Mi irrigidisco.

Un secco colpo al cuore mi fa ingoiare il respiro, schiaccio il pacchetto fra le dita e stringo l’altra mano alla giacca ancora stesa sotto di me.

Mathias me lo ripeteva di continuo. Erano le uniche volte in cui il suo tono di voce diventava più basso, profondo, persino serio. Le labbra si accostavano dietro il mio orecchio e lo mormoravano piano, carezzandomi la nuca, mentre le sue braccia mi tenevano stretto attorno ai fianchi. “Ti amo tanto, sai?” Io alzavo sempre lo sguardo al soffitto, gli premevo una mano sulla faccia, scollandogli le labbra dal mio collo, gli dicevo di piantarla e di rimettersi a dormire.

Un’ondata di rimorso freddo e viscido risale la pancia e si aggrappa al cuore, ci pianta gli artigli dentro spandendo schegge di ghiaccio che cristallizzano attraverso le costole, fermando il battito. È lo stesso rimorso che non mi fa dormire da due giorni, che mi ha impedito di guardare Mathias in faccia per l’ultima volta sotto le luci dell’obitorio, e che mi impedirà di andare da Gilbert a dargli queste dannate sigarette.

Mi avvinghio al cuscino. «Non dire assurdità.» Torno a chiudere gli occhi, le palpebre stanche si uniscono e restano incollate, pesanti come cemento.

Qualcuno sbatte una porta in corridoio, dà colpi sul muro che sembrano quelli di un martello che conficca il chiodo nella parete, e le vibrazioni attraversano anche il soffitto della nostra camera, la luce del lampadario sfarfalla, qualcosa si sbriciola e piove sul pavimento.

Stringo i denti, contengo un tremore di rabbia.

Giuro che se hanno intenzione di andare avanti così tutta la notte...

«È stata un’overdose, hai detto?» La voce di Emil placa il ronzio di nervosismo che mi frulla nella testa.

Sospiro, annuisco, ma resto girato senza guardalo in viso. «Sì, me l’ha detto il medico legale. Un incidente, a quanto pare.» Una punta di amarezza si infila in bocca e inasprisce la voce. «Secondo me si è ammazzato da solo.»

Emil boccheggia. La sua voce ha un cedimento, «C...», poi torna squillante, stordita, «Cosa?».

Rigiro il pacchetto di HB e socchiudo una palpebra, le scritte sull’astuccio sono tutte appannate. «Quando mi sono svegliato lui non c’era.» Infilo l’unghia fra i caratteri calcati a penna che compongono il nome di Gilbert, gratto l’inchiostro nero. «Probabilmente si è alzato durante la notte, e infatti hanno detto che è morto parecchie ore prima che lo trovassero, e non la mattina stessa.» Scrollo le spalle. «Che senso aveva andare fino alla stazione solo per bucarsi? Avrebbe potuto farlo a casa.» Sollevo il braccio e scuoto il pacchetto di sigarette. «Poi mi ha lasciato queste.» Le lancio a Emil come ho fatto con i due panini. «Erano accanto al telefono, le ha lasciate lì perché le trovassi subito.»

Emil acchiappa il pacchetto al volo, lo sento atterrare fra i suoi palmi aperti e rigirarsi in mezzo alle dita. La voce di Emil si incrina. «Sigarette?»

Annuisco contro il cuscino e rivolgo lo sguardo a Emil. «Il pacchetto era aperto ma non ne ha tolta nemmeno una. Ha solo scritto il nome di un ragazzo sulla scatola, e fra le sigarette ha infilato dieci sterline. Probabilmente voleva che glielo dessi io.»

Emil lo gira sul retro, trova anche lui la scritta “Gilbert” e aggrotta le sopracciglia.

Socchiudo le palpebre e guardo per terra, verso la moquette color navy macchiata di aloni più chiari che diventa più spelacchiata attorno alle gambe dei letti. La vista si sfoca, la mente annebbiata torna a un paio di giorni fa, all’ultima volta in cui mi sono sdraiato sul letto assieme a lui. «Era da un paio di giorni che si comportava in modo stra –» Faccio roteare lo sguardo. «Più strano del solito, come se stesse per piovergli il mondo addosso.» Stringo le dita attorno al copriletto, la mia voce arrochisce, le palpebre si assottigliano. «Se solo me ne fossi accorto prima...» Torna a salire il bruciore nel petto, il senso di colpa gonfia il cuore in una sensazione dura e pesante.

Emil solleva lo sguardo dal pacchetto di sigarette, flette le sopracciglia in un’espressione compassionevole. «Non è colpa tua.» Appoggia l’astuccio sul comodino incastrato fra i due letti, sotto la piccola lampada.

Inarco un sopracciglio. «Ah, no?» Rotolo sulla schiena, gli occhi affogano nella luce del lampadario, la vista diventa bianca. Stendo un braccio sopra la fronte e sospiro a lungo, la voce affievolisce. «Eppure, non riesco a pensare altrimenti.»

Il soffitto rimbomba, passi pesanti si spostano sopra le nostre teste e fanno oscillare il lampadario tenuto appeso solo fra due cavi di gomma intrecciati che artigliano l’intonaco.

Ha ragione Emil. Questo posto è una topaia.

«Sai perché si è ucciso?» chiedo di colpo.

«Uh.» Emil scuote il capo. «No.»

Inspiro la fitta e ruvida aria della camera che sa di chiuso e naftalina, di lenzuola appena stirate e di deodorante per l’ambiente. Tengo gli occhi socchiusi, due fessure sbiadite in mezzo alle ciglia nelle quali si specchia il riflesso polveroso del lampadario. «Perché lui era il ponte che mi collegava a loro.» Abbasso il braccio dalla fronte, lo raccolgo sul ventre e intreccio le dita sopra la pancia. Le mani si alzano e si abbassano seguendo il ritmo lento del mio respiro. «Non ha mai voluto che mi avvicinassi agli altri, è capitato solo un paio di volte, ma era sempre terrorizzato. Davanti a me non tirava mai fuori né droga né niente, nemmeno le sigarette.» Sbuffo. «Una volta ha persino litigato con uno di loro.»

«Davvero?» Il tono di Emil si anima di stupore. «Ha litigato per te?»

Annuisco, la nuca sfrega contro il cuscino. «È tornato a casa con la guancia rossa e gonfia. Qualcuno gli aveva tirato uno schiaffo ma non mi ha mai voluto dire chi di loro.» Gli è rimasto lo stampo sulla pelle per due giorni. Era l’impronta di una mano piccola e sottile, come quella di una ragazzina. «Da quella volta ha iniziato a essere sempre più chiuso, sempre più abbattuto, sempre più depresso.» Faccio roteare lo sguardo, inarco un angolo delle labbra verso il basso e la mia voce assume una sfumatura amara. «Mi ripeteva continuamente che avrebbe sistemato tutto, che avrebbe trovato un modo di tirarsi fuori dai guai», sventolo una mano, «che io e lui saremmo fuggiti da Londra, che mi avrebbe dato la vita che meritavo, che saremmo stati felici. Continuava a sognare come uno scemo.» Mi giro sul fianco dando le spalle a Emil e torno a stringere il cuscino sotto l’orecchio. Rannicchio le spalle, raccolgo le ginocchia al petto, parlo con le labbra a sfioro della stoffa imbottita. «Poi ha semplicemente capito che dalla sua sponda non c’era via d’uscita», scuoto le spalle, «e ha fatto saltare il ponte prima che io rischiassi di attraversarlo per raggiungerlo.»

Il letto di Emil cigola, il suo peso si sposta, forse è tornato ad accoccolarsi contro la testata. «Ha voluto salvarti.»

Scuoto il capo. «No, non è lui che ha salvato me.» Stringo le dita, il dolore annoda un groppo nel petto che pulsa e batte bruciando assieme al cuore. «Sono io che ho condannato lui.» Schiudo la mano e mi fisso il palmo bianco, immobile, nemmeno un tremito a scuoterlo. «Mathias si era aggrappato a me perché sperava che io riuscissi a salvarlo. Inconsciamente mi stava chiedendo aiuto, e io non l’ho mai realizzato fino ad adesso.» Torno ad appoggiare la tempia al cuscino, sbatto lentamente le palpebre appesantite dalla stanchezza, e respiro il tanfo di naftalina. La voce si abbassa, scivola rauca e amara attraverso la lingua. «Si è ucciso perché ha smesso di vedermi come la sua unica speranza di uscire e perché la sua fiducia nei miei confronti se n’era ormai andata.»

Emil sbuffa. «La fai molto cinica.» Anche la sua voce è più stanca e fioca.

Scrollo le spalle, le braccia si stringono al cuscino. «È andata così e basta.»

«Ma...» Il copriletto fruscia, Emil si gira verso di me, anche se non lo vedo. «Perché non avrebbe potuto amarti semplicemente?»

Storco un angolo delle labbra e scuoto il capo sfregando i capelli sul cuscino. «Perché queste cose non sono mai semplici.» Chiudo gli occhi, il buio mi inghiotte la vista, le tempie pulsano di dolore e di stanchezza, la pressione spinge sulla fronte e crea una nebbiolina fischiante che mi ovatta la testa. Voglio dormire. «Un giorno capirai» mormoro.

E spero che lui lo capisca prima di quando l’ho capito io.

   
 
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