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Autore: Camipp    20/04/2018    2 recensioni
Sei anni sono passati da quando Bellamy e Clarke sono stati divisi.
Riusciranno a ritrovarsi o ciò che li ha marchiati in passato li ha cambiati definitivamente?
Una brace che cova sotto la cenere può tornare a divampare?
Nella mia mente c’era un’immagine, un unico frammento che mi ha mandato in fissa. Questa storia non ha né capo né coda e si focalizza solo sulla réunion Bellarke, dopo la fine della quarta stagione.
Una storia breve, in attesa della premiere del 24 aprile. Buona lettura.
p.s. Ho cominciato a scrivere questa storia ad agosto scorso, quindi non tiene conto del trailer appena uscito e delle successive anticipazioni.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Raven Reyes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1- Sei anni
 
Camminava lungo i corridoi del bunker dove aveva vissuto negli ultimi sei anni, conosceva ogni singola crepa di quel luogo, ogni singola piastrella scheggiata. Era la sua casa, sua e di Maddie.
Clarke lanciò uno sguardo dietro di sé, la ragazzina la stava seguendo, un sorriso eccitato sulle labbra. Era così da quando loro erano tornati, da quando finalmente erano entrati nella sua vita.
Li aveva chiamati per nome dal primo momento in cui li aveva visti, quando, stanchi e affaticati, Clarke li aveva curati.
Quasi ballando in mezzo ai tavoli, inconsapevole che il suo cicaleccio poteva essere spossante, Maddie l’aveva aiutata a rifocillarli e a controllare le loro condizioni fisiche.
Ora, la piccola era accanto a lei, in trepidante attesa di incontrare Bellamy, l’unico che non avevano ancora curato.
Al pensiero di lui Clarke sentì uno strano sussulto doloroso al cuore: era venuto ancora in suo soccorso quando meno se l’aspettava, come tante volte in passato, eppure la persona che aveva visto non sembrava lui.
 
 
Il bunker e laboratorio di Becca, dove vivevano lei e Maddie, stava subendo un attacco da parte dei nuovi venuti, uomini arrivati, come loro, dalle stelle.
Ci avevano messo giorni per stanarle e ora volevano impadronirsi della loro casa, del loro piccolo Eden, che era riuscito a risorgere dalle ceneri del Primfaya.
Clarke era convinta che non sarebbero sopravvissute.
Le avevano attaccate di notte dopo essersi infiltrati attraverso uno dei condotti di aereazione che avevano sabotato.
Non erano riusciti a prenderle del tutto di sorpresa, ma avevano conquistato parte del laboratorio.
Clarke era pronta ad arrendersi quando aveva sentito dei colpi d’arma da fuoco e delle voci che sembravano provenire direttamente dalla sua testa. Una voce su tutte l’aveva colpita: un grido per intimare agli assalitori di fermarsi se non volevano morire.
 Altri colpi.
La resa.
Il silenzio.
Solo in quel momento Clarke si era permessa di dare una sbirciata dalla sua posizione e lo aveva visto: alto, statuario, una durezza sul viso che non gli riconosceva.
Un volto segnato dalla vita.
Non era più il ragazzo che aveva conosciuto, ma un uomo, i suoi occhi cupi marchiavano un viso senza alcun accenno di sorriso.  La mascella rigida leggermente coperta da una rada barba parlava di quello che era diventato: un capo, un leader, un cervello, ma, a quale costo?
Riflessioni istantanee nella mente di Clarke, un turbamento a quella vista a cui non riusciva a dare un nome.
Dov’era il ragazzo a cui aveva parlato per sei lunghi anni?
Era rimasta incerta, come se lui fosse solo un’allucinazione generata dalla sua mente: il desiderio di non essere più sola trasformato in realtà.
L’aveva visto muoversi, sondare la stanza. Con poche decise parole aveva ordinato agli altri di legare i sopravvissuti e di cercare in giro tutto quello che poteva essere utile.
Anche la sua voce era cambiata, più bassa e roca, come se avesse urlato così tanto al punto da rovinarsi le corde vocali.
Aveva visto dietro di lui avanzare una claudicante Raven, il viso smunto eppure sereno.
In quel momento, quando aveva visto la giovane, aveva capito: la sua non era un’allucinazione e lui era finalmente tornato.
Aveva visto il mezzo sorriso di Bellamy fare capolino sul suo viso in risposta a un battuta del meccanico.
C’era Bellamy in quelle fattezze d’uomo. Aveva ritrovato per un istante il ragazzo che conosceva, che aveva sognato e desiderato rivedere.
 
Non aveva più pensato al pericolo di sbucare in mezzo a loro mentre ancora imbracciavano le armi, e si era slanciata verso di lui.
Ancora incredula che fosse vivo, desiderava solo sentire che era reale, ma, arrivata a pochi passi da lui, prima ancora che riuscisse ad abbracciarlo, si era ritrovata faccia a terra.
Un ginocchio sulla spina dorsale, una canna di fucile puntata contro il viso.
Era rimasta annichilita dalla velocità con cui era stata messa a terra, ma il grido di paura di Maddie, le aveva dato la forza di reagire.
Non era importante che loro fossero tornati, Maddie era sua figlia, doveva dirle che tutto era a posto, che nessuno le avrebbe fatto male. Doveva essere certa che loro non le facessero male.
“Sono Clarke!” aveva urlato con tutta la voce che aveva in corpo, sperando di fermare una follia che poteva trasformarsi in un terribile errore.
Quelle parole avevano generato un silenzio immediato. Istanti che si erano trasformati in eternità mentre Clarke riusciva a vedere solo il pavimento e i piedi degli altri ragazzi.
“Echo, tirala su, per l’amor di Dio! John, lascia la ragazzina”. Le parole di Bellamy si erano insinuate dentro di lei, attraverso il battito serrato del suo cuore.
Non era lui, non poteva essere lui, non potevano essere loro.
Chi erano quelle persone che indossavano il volto dei suoi amici?
Cosa aveva fatto loro la vita per ridurli in quel modo?
Si era sentita tirare su di peso da Echo. Il suo sguardo, ora impaurito, che li guardava uno alla volta, attimi sospesi mentre si sondavano e si scrutavano a vicenda.
Erano cambiati, increduli gli uni della presenza degli altri poi, qualcosa era scattato e Raven si era slanciata verso di lei, abbracciandola stretta.
“Credevamo fossi morta” parole le sfuggivano in mezzo ai singhiozzi. Al suo abbraccio era seguito quello di tutti gli altri eccetto lui.
Lui l’aveva solo osservata, i suoi occhi rimanevano vuoti, privi di qualunque emozione.
Si era sciolta dall’abbraccio degli altri, si era avvicinata a lui, stava per parlargli, a disagio, quando lo sguardo di lui si era spostato alla sua destra.
Lei aveva seguito la stessa traiettoria accorgendosi solo in quel momento di avere Maddie accanto a sé. Si sentì in colpa: per un istante, vedendo Bellamy l’aveva dimenticata.
 “Lei è mia figlia Maddie, ci siamo trovate un anno dopo il primfaya, è una sangue nero come me!” aveva detto cingendo con un braccio le spalle della ragazzina.
Gli occhi di tutti si erano concentrati su di lei, sorpresi, ma allo stesso tempo soddisfatti dalle sue parole. Consci della loro importanza.
“C’è speranza quindi?” aveva mormorato Raven, la voce rotta e incerta.
Clarke aveva solo annuito e in quell’istante aveva visto qualcosa che non avrebbe mai immaginato di vedere in quei sei anni in cui aveva sognato, cercato e desiderato i suoi amici.
Aveva visto scoppiare Raven a piangere, Harper accanto a lei sorreggerla, anche lei con le stesse lacrime a rigargli il viso.
“L’incubo è finito…” mormorava di continuo Murphy poco distante da loro, ciondolando, lo sguardo perso nel vuoto.
In quel momento Clarke aveva visto un gruppo di ragazzi, spossato, distrutto e annichilito. In quell’istante aveva compreso che quei sei anni, che lei aveva passato crescendo Maddie, esplorando la nuova Terra, per i suoi amici erano stati anni di prigionia, nella speranza di tornare.
Una speranza che di certo era stata coltivata da un solo uomo.
Il suo sguardo era stato calamitato di nuovo da Bellamy.
La scrutava, nei suoi occhi scuri una scintilla di qualcosa, un’emozione a cui Clarke non sapeva dare un nome.
Erano a pochi passi di distanza, eppure sembrava che in mezzo a loro ci fosse un mondo, fra loro c’erano sei anni che non potevano essere recuperati.
Clarke li aveva guardati uno per uno: erano denutriti, feriti e avevano bisogno di riprendersi da ciò che avevano dovuto passare. Aveva sentito il suo cuore farsi pesante, mentre si chiedeva se sarebbe stata in grado di aiutarli, poi, aveva preso un bel respiro e, istintivamente, dopo sei anni, aveva ripreso il ruolo che le era già appartenuto in passato.
Con tranquillità li aveva guidati in quelle prime ore in cui la Terra era di nuovo diventata casa loro.
 
E ora si trovava di fronte alla camera di Bellamy, mancava solo lui. Non aveva voluto farsi controllare, aveva mangiato poco e si era subito eclissato in camera sua, separandosi presto dal gruppo. Gli altri sembrava non avessero nemmeno fatto caso a quel comportamento, come se fosse normale, eppure lei lo conosceva, sapeva come era prima, e quello non era il Bellamy a cui aveva parlato attraverso la radio per sei anni.
 
 
CAPITOLO 2-Estranei
 
La porta era chiusa e la sua mano incerta davanti al battente.
“Su, dai bussa…” insistette Maddie, nulla sembrava fermarla, alcuni concetti come l’intimità non le appartenevano.
Era un piccolo animaletto selvatico.
Clarke le sorrise, pronta a spiegarle che Bellamy forse non voleva essere disturbato, e vide i suoi occhi raggianti di aspettativa: Per cinque anni l’aveva sentita parlare alla radio, per cinque anni le aveva raccontato dei suoi amici, della sua famiglia che si trovava fra le stelle e un giorno sarebbe tornata per riunirsi con loro e non farle sentire più sole.
“Lo faccio io, ha bisogno di cure, l’hai detto anche tu” aveva insisto la piccola e Clarke non poté fare altro che annuire.
Lo spazio aveva chiesto uno scotto molto alto ai loro fisici e, prima che potesse essere somministrata la cura di sangue nero che Clarke era riuscita nel corso degli anni a sintetizzare, i suoi amici dovevano tornare in forze. Era necessario, perché la cura sarebbe stata dolorosa, ma era anche l’unica speranza per sopravvivere sulla Terra senza conseguenze nel lungo termine.
Prese un profondo respiro poi bussò lievemente. Aspettarono diversi secondi, Clarke era già pronta a desistere, forse non era ancora in grado di vederlo, ma, prima che potesse dire alla ragazzina che sarebbero tornate più tardi, Maddie bussò di nuovo con più forza.
“Ehi Bellamy, siamo noi!” disse ad alta voce sperando di farsi sentire. Un sorriso birichino le illuminava il volto, si muoveva su una gamba e poi sull’altra, incontenibile.
“Maddie!” sussurrò inorridita Clarke, “non ti ho insegnato a comportarti così”. La ragazzina abbassò lo sguardo, contrita.
“Scusa” mormorò subito dopo, “è che… hai parlato tanto di lui, voglio vederlo da vicino.” Quelle parole strapparono un sorriso a Clarke.
“Non è mica un animale da guardare!” le fece notare la donna, però capiva.
Lui era stato così sfuggente quando si erano ritrovati e Maddie così impegnata a coccolarli tutti che non aveva avuto occasione di passare un po’ di tempo con Bellamy, il suo eroe personale, dopo la madre adottiva.
“Comunque credo che stia dormendo profondamente, è meglio non disturbarlo, ha bisogno di riposare” continuò Clarke.
Vide subito la delusione negli occhi della piccola.
“Dai su, adesso non andranno da nessuna parte e staranno sempre con noi,” le disse per tirarle su il morale. “Erano tutti stanchi, hanno bisogno di riposare, potrai parlare con Bellamy domani” terminò, consapevole che le sue parole non avrebbe lenito il disappunto di Maddie.
Era pronta ad andarsene, quando la porta si aprì.
 
“Entrate” disse Bellamy prima di scostarsi dall’entrata e raggiungere il letto poco distante. Clarke rimase spiazzata, si chiese se per caso lui non avesse sentito l’intera conversazione prima di aprire la porta.
Era confusa, ma non ebbe nemmeno tempo di riflettere che la piccola si era già infilata dentro la stanza, trascinando con sé la borsa medica. Come un turbine aveva già preso una sedia e l’aveva avvicinata al letto dove si trovava Bellamy, aveva appoggiato ai suoi piedi la borsa e, dopo averla aperta, ne stava estraendo uno sfigmomanometro per misurare la pressione.
“Mamma, posso misurargli io la pressione? posso?” chiese la piccola, voltandosi verso di lei.
Clarke sorrise a quella piccola sfacciata, ma per Maddie loro erano la sua famiglia e Clarke le aveva insegnato che ci si prendeva sempre cura della propria famiglia.
Una cosa che Bellamy stesso le aveva insegnato molto tempo prima.
Alzò lo sguardo verso lui, che stava osservando indifferente la piccola.
“Devi chiedere a Bellamy il permesso” disse quasi in un sussurro, soffrendo a vederlo così chiuso in se stesso. Timorosa di scoprire cosa, del mondo, lo avesse rovinato in quel modo.
La bambina non se lo fece dire due volte “Posso misurarti la pressione? devo controllare come stai. Sai, vero, che dovrai fare la cura di sangue nero, ma per farla devi tornare in forze, ti faremo le analisi del sangue in laboratorio per controllare i livelli di radiazioni nel tuo corpo, poi ti daremo delle vitamine e dei sali minerali per renderti più forte e poi ti inietteremo la cura che ha trovato la mamma…” La cascata di parole della bambina s’interruppe solo quando dovette prendere fiato e, proprio in quel momento, Bellamy la frenò, un sorriso appena accennato.
“Fai pure piccola!” rispose alzando la manica della maglia.
Un sorriso solare illuminò il volto della ragazzina, che subito cominciò a recuperare le cose necessarie. Si interruppe solo quando il suo sguardo cadde su un’ orribile scottatura, guarita da tempo, che deturpava l’avambraccio.
“Cosa ti sei fatto?” chiese alzando gli occhi verso di lui.
“Non ho fatto attenzione mentre lavoravo e mi sono scottato con dei cavi elettrici scoperti che hanno preso fuoco.”
“Ha fatto tanto male?”
“Maddie, non adesso, devi solo misurargli la pressione” si intromise Clarke, non voleva che la piccola potesse diventare troppo invadente.
“Sì, è stato molto doloroso,” rispose invece Bellamy “ma è anche un buon promemoria” concluse senza aggiungere altro.
La piccola lo scrutò corrugando la fronte, pronta a fare altre domande, ma Clarke la interruppe di nuovo, obbligandola a concentrarsi sulle misurazioni.
 
Maddie fece ciò che le era stato ordinato con attenzione e prese la pressione di Bellamy, era bassa come se l’aspettavano.
Dopo aver tolto lo sfigmomanometro la ragazzina prese il necessario per il prelievo del sangue.
“Posso…?” chiese rivolgendosi di nuovo a Clarke.
La ragazza scosse il capo “Il prelievo lo farò io.”
“Ma Harper me l’ha lasciato fare..” tentò la piccola
“Perché Harper è buona”
“E Raven allora?”
“Ha un’alta soglia del dolore” ribatté subito Clarke.
“Beh, immagino che Bellamy sia buono e abbia anche un’alta soglia del dolore”.
A quella risposta Clarke boccheggiò un paio di volte.
“Lasciala fare, ha bisogno di esercitarsi” rispose al suo posto Bellamy.
Clarke alzò gli occhi di scatto verso di lui. Aveva ragione lui, Maddie doveva imparare, anche lei aveva cominciato a specializzarsi in medicina quando era poco più grande di Maddie e avere delle competenze in campo medico, sulla Terra, era ancora più importante.
“Ok,” disse “ma fai attenzione e concentrati.”
Mentre Maddie era concentrata nelle varie operazioni di prelievo, Clarke scrutava Bellamy. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, da quando era entrata, lui non l’aveva guardata nemmeno una volta, se non di sfuggita.
Aveva la dolorosa certezza che di fronte a lei ci fosse ormai un estraneo e non il Bellamy che le aveva dato speranza durante quei lunghi anni di separazione.
 
“Ho fatto” le parole della piccola interruppero il filo dei suoi pensieri. “E sono stata anche brava, ho preso la vena al secondo colpo, ehmm forse terzo” terminò, sbirciando di soppiatto l’uomo che le fece solo un vago cenno di assenso.
“Sei stata brava, ma ora devo continuare io e tu devi andare.”
 La piccola borbottò qualcosa di inintelligibile.
“Se vuole può rimanere, per me è indifferente” si intromise Bellamy.
“Meglio di no e lei lo sa vero Maddie?” chiese Clarke scrutando severa la bambina che a quelle parole abbassò il capo.
“Non è giusto però” mormorò infastidita.
“Adesso vai, c’è la sala comune da riordinare.”
“Io…”
“No, c’è la sala comune da riordinare… vai!” le parole decise di Clarke ormai avevano bloccato qualunque replica e la piccola sempre più delusa annuì.
Maddie si voltò verso Bellamy, ancora seduto sul letto, poi fece un gesto inaspettato per entrambi gli adulti: Si slanciò verso l’uomo e lo abbracciò.
 “Sono contenta che tu sia finalmente con noi, sei mancato tanto alla mamma,” parole sussurrate, il viso arrossato dall’imbarazzo, poi la fuga oltre la porta.
I due adulti guardarono per un istante l’uscio, entrambi increduli in maniera diversa per quel gesto spontaneo.
 
“Perché hai mandato via la ragazzina?” la voce roca di Bellamy la raggiunse, era così diversa da quella che si ricordava.
Clarke guardò la cartellina che aveva tra le mani. “Ho bisogno di farti alcune domande sul tuo stato di salute e devo fare altri controlli…” Per un momento si sentì in imbarazzo “Ho visto che la tua maglia era macchiata di sangue e volevo controllare se fossi ferito.”
L’uomo la scrutò, poi assentì prima di togliersi la maglia che indossava, totalmente indifferente alla vicinanza di Clarke.
A disagio, nel silenzio della stanza, Clarke concentrò la sua attenzione sulla borsa degli strumenti, cercando di non pensare all’uomo vicino a lei, l’uomo che aveva sognato durante le lunghe notti di solitudine, che le aveva tenuto compagnia con i suoi sorrisi, le sue battute, la sua presenza, anche se solo onirica.
“Fatto!” le parole di Bellamy interruppero il filo dei suoi pensieri.
Clarke sgranò gli occhi alla vista del corpo segnato da altre cicatrici e bruciature.
“Cos’è successo?” chiese avvicinandosi a lui. Le ferite che gli segnavano le braccia e i pettorali erano ormai rimarginate da tempo eccetto per un lieve taglio sulla spalla che era fresco.
“Un incidente nel primo anno in cui eravamo sull’Arca,” rispose indifferente.
“È passato ormai”.
La donna allungò una mano con l’intenzione di sentire quelle cicatrici, il desiderio di mettersi in contatto con Bellamy, sondare la sua vita in quei sei anni separati, ma poi si bloccò lasciando cadere la mano.
Non riusciva a capire come approcciarsi a lui.
Nella sua mente si era creata immagini su immagini dedicate al loro primo incontro, mai si sarebbe immaginata di non ritrovare il ragazzo che aveva conosciuto.
Possibile che avesse mitizzato la figura di Blake per aggrapparsi a qualcosa, al ricordo di qualcuno che forse non c’era mai stato e che lei aveva innalzato a verità, modificando gli eventi stessi del suo passato?
Scosse infastidita la testa a quel pensiero.
No, non poteva essere così, non voleva fosse così.
Là da qualche parte c’era il suo Bellamy, quello che l’aveva protetta, rinfrancata, appoggiata e sì forse anche amata.
“Senti, sono stanco, forse è il caso di fare questa cosa dopo che avrò dormito” le parole di Bellamy si fecero strada nella mente confusa di Clarke.
Il suo sguardo corse alla ricerca degli occhi scuri di Bellamy, nella speranza che quelle parole non fossero vere: lui aveva sempre trovato tempo per lei.
Invece vi trovò solo una stanchezza che forse celava un muro di indifferenza che lei si ostinava a non vedere.
“Io…io…” balbettò Clarke, poi tacque senza sapere cosa dire, prese un respiro, doveva sapere “Io volevo rimanere sola con te, per quello ho mandato via Maddie” disse tutto d’un fiato avvicinandosi a lui “Volevo che tu mi raccontassi di questi lunghi sei anni, come io ti ho raccontato la mia vita ogni giorno per 2166 giorni…” Continuò di slancio, ma Bellamy la bloccò “Ho saputo, mi dispiace che non siamo mai riusciti a metterci in contatto con te.”
Parole che spezzarono anche le ultime speranze di Clarke. Forse quelle parole in quei sei anni non erano altro che una menzogna che si era raccontata, per continuare a credere che ci fosse speranza, per non sentirsi sola, per sentirsi amata.
Ammutolita, fece un passo indietro, si osservarono. Tentò di andare oltre, sondarlo, sperava che i suoi occhi potessero raccontare del tumulto che sentiva, ma vide solo due schegge color ossidiana, prive di qualunque emozione.
Poi, Bellamy rispose al suo sguardo con parole che la fecero crollare nella prostrazione più completa.
“È meglio che tu vada, sono veramente stanco.”
Clarke non seppe come reagire e fece l’unica cosa che poteva fare: trincerare il proprio cuore dietro ad un muro e uscire da quella stanza prima di crollare.
 
 
CAPITOLO 3 – Prigionieri
 
Clarke si chiuse la porta alle spalle poi vi si appoggiò contro. Senza che lei se ne accorgesse, le gambe cedettero e si ritrovò seduta, le braccia mollemente poggiate sulle ginocchia, la testa china, le lacrime che non riusciva a trattenere bagnavano il pavimento.
La mente era vuota da qualunque pensiero, il dolore riempiva ogni spazio.
Non seppe per quanto tempo rimase lì seduta, lievi singulti uscivano dalle sue labbra, desiderando che Bellamy, oltre la porta, sentisse ogni cosa. Sperava che questo gli ricordasse ciò che erano stati l’uno per l’altra, ma quella porta continuava a restare chiusa.
Sigillata ad ogni emozione.
 
Scavò lentamente dentro di sé, cercando la forza che le aveva permesso di andare avanti per tutti quegli anni, scacciando il pensiero che parte di quella forza gli fosse stata data proprio da Bellamy, dalla certezza che sarebbe tornato.
Prese un profondo respiro e si alzò in piedi, c’erano troppe cose da fare ora che i ragazzi erano ritornati per lasciarsi andare al dolore.
Si diresse oltre le stanze dove erano stati rinchiusi i prigionieri rimasti in vita dopo l’assalto al laboratorio. Non lanciò nemmeno un’occhiata in direzione delle porte dietro le quali si trovavano quegli uomini; non voleva ancora sapere nulla di loro, la sua mente non era ancora abbastanza lucida per affrontare quel problema. Sapeva che il giorno dopo avrebbero deciso cosa farne e così allungò il passo verso il laboratorio: voleva analizzare il sangue dei ragazzi il prima possibile.
Stava superando la stanza in cui aveva riposto tutti gli aggeggi meccanici su cui aveva lavorato nel corso degli anni, quando sentì provenire un tintinnio. Si accostò alla porta semi aperta e notò Raven seduta su uno sgabello davanti al bancone.
Era intenta a smontare un radar che Clarke aveva tentato invano di convertire in qualcosa che l’aiutasse a fare dei rilevamenti nel sottosuolo di Polis, che ormai era ridotto a un cumulo di macerie.
“Ho provato ad aggiustarlo, ma non ho il tuo talento!” disse Clarke entrando. Si avvicinò al bancone, incuriosita dal lavoro dell’amica. A grandi linee era in grado di seguire ciò che il meccanico stava facendo.
“Eri sulla strada giusta” rispose la ragazza alzando lo sguardo e sorridendole “Scusa se mi sono messa a lavorare su questo senza chiedertelo, ma avevo bisogno di un oggetto come questo.”
“Sono contenta che ci sia tu, io ero bloccata da mesi” rispose la ragazza.
Un silenzio sereno calò su di loro, mentre il meccanico collegava delle parti e Clarke osservava ogni sua mossa, notando quanto precisi e sicuri fossero i suoi movimenti.
“Perché dicevi che avevi bisogno di lavorare su questa cosa?” chiese Clarke incuriosita. Era certa che sul relitto dell’Arca le sue doti fossero state fondamentali.
“Perché in sei anni le cose che ho fatto erano sempre le stesse e l’unico scopo che avevano era farci sopravvivere o tornare qui sulla Terra. Finalmente potrò fare qualcosa di nuovo!” replicò sorridendo Raven prima di chinare nuovamente la testa sul radar.
“Deve essere stata dura.”
Il meccanico smise di trafficare con il radar e alzò gli occhi verso di lei.
“Sì” una risposta laconica che ricordò a Clarke lo stesso sguardo duro di Bellamy.
Desiderava chiederle ogni cosa di quei sei anni passati lontani, ma una sorta di pudore glielo impedì. Si rese conto che forse, per quanto difficile, la sua vita sulla Terra era stata più facile, anzi, la solitudine e le sue responsabilità nei confronti di Maddie erano state quasi catartiche, rispetto ai primi mesi sulla Terra.
Consapevole che forse doveva dare tempo al tempo, si alzò.
“È tardi, ti lascio lavorare, non fare troppo tardi, avete bisogno di recuperare le forze”.
“I primi mesi sono stati i più facili” le parole di Raven la raggiunsero quando ormai era sull’uscio, Clarke s’immobilizzò, la mano sulla maniglia. “Sono stati i più impegnativi dal punto di vista fisico, il nostro corpo si doveva abituare e avevamo troppe cose da fare solo per riuscire a sopravvivere” le parole della ragazza erano un monotono mormorio.
Clarke si girò per osservarla: non stava guardando lei, lo sguardo del meccanico osservava il pezzo che stava girando lentamente fra le mani. Clarke rimase immobile.
“I primi mesi sono stati una passeggiata rispetto al dopo,” continuò senza cambiare tono “ogni giorno ci alzavamo con l’unico obbiettivo di rendere l’Arca abitabile, cinque anni sembravano pochi…” Raven alzò lo sguardo incrociando quello di Clarke “non sapevamo quando lunghi potessero essere.”
Si bloccò, nei suoi occhi il tormento, l’incertezza di chi non sa come raccontare il resto. “Prima Emori… lo spazio là fuori la spaventava per la sua immensità, non riusciva a vivere in quei luoghi così ridotti e lentamente si è lasciata andare fino a quando non ha deciso che non poteva vivere così. John l’ha trovata in un lago di sangue quando lei ha deciso di tagliarsi le vene” il meccanico inghiottì a vuoto un paio di volte, un luccichio nei suoi occhi “Poi l’incidente di Bellamy quando eravamo da poco più di un anno sull’Arca.”
Clarke era immobile eppure sentì il suo corpo protendersi verso Raven.
“Facendoci strada fra i resti dell’Arca abbiamo trovato la stanza di controllo e trasmissione. Sembrava miracolosamente rimasta intatta. Bellamy ci ha obbligato a lavorare a ritmi serrati per riprendere il prima possibile le trasmissioni radio con la Terra, per captare qualunque segnale. Era ossessionato da quel luogo, si rintanava lì notte e giorno. Doveva sapere, doveva essere certo che tu fossi viva!” negli occhi di Raven lesse rabbia e odio, durò solo un attimo, ma Clarke era certa di ciò che aveva visto.
“Un giorno…” riprese a parlare Raven dopo essersi umettate le labbra “ci fu un incidente, un errore di Bellamy, dovuto alla stanchezza probabilmente. Un corto circuito, una scintilla e ci fu un’esplosione che investì in pieno lui, Monty a e Harper. Credevo che li avrei persi tutti e tre. Monty e Harper per fortuna non erano gravi, ma Bellamy, oh Bellamy…” Raven si lasciò sfuggire unsinghiozzo e le lacrime inumidirono i suoi occhi. “Il suo torace, le sue braccia e le gambe erano pieni di ustioni, il tessuto si era attaccato alla pelle, la carne viva era visibile in alcuni punti. Il suo viso era coperto dalla maschera per saldare, ma il suo corpo…” si bloccò di nuovo. “Non sapevamo cosa fare, non avevamo morfina e lui urlava per il dolore. Sveniva e quando si risvegliava, le sue urla riempivano l’intera nave. E i lamenti, Clarke…” sussurrò Raven “i lamenti e le sue urla ci stavano facendo impazzire… volevamo che smettesse, abbiamo pensato di farlo smettere, volevamo una fine misericordiosa per il suo tormento, quante volte lo abbiamo pensato, pronti ad agire mentre le sue urla martellavano la nostra testa. Poi un giorno il nulla, per ore non abbiamo sentito arrivare alcun lamento dalla sua camera. Nessuno osava entrare, nessuno voleva sapere. Quando siamo entrati il giorno dopo, lui respirava ancora, è rimasto così per giorni, non sapevamo cosa fare Clarke, non sapevamo cosa fare…” ripeté in un basso mormorio colpevole.
“Lentamente si riprese, non sappiamo nemmeno noi come sia potuto succedere” continuò Raven, mentre il cuore di Clarke si faceva sempre più pesante, rabbrividendo dall’orrore per la consapevolezza di ciò che doveva aver passato Bellamy. “Abbiamo passato i successivi tre anni tentando di lottare contro l’apatia che sembrava raggiungerci a lente ma continue ondate. Ogni giorno era una lotta per non arrendersi, un giorno uguale all’altro, la Terra sotto di noi una palla nera che non cambiava mai colore fino a quando, circa due anni fa, le nubi che l’avevano avvolta hanno cominciato a diradarsi, permettendoci finalmente di vedere il mondo, di vedere quell’unica macchia verde in mezzo all’opaco colore grigio del resto della Terra. Abbiamo lavorato per due anni per poter tornare, senza alcuna speranza ormai, non eravamo più persone, eravamo dei prigionieri che volevamo scappare da quel luogo dimenticato da Dio. Solo quello ci interessava e ci dava la forza di sopravvivere. Solo quello spronava Bellamy: tornare sulla Terra e portarci tutti fuori dalla prigione che era l’Arca.”
Raven guardò Clarke dritta negli occhi “Ecco cosa sono stati i nostri sei anni lassù.”
La giovane sentì le guance bagnate, rigate dalle lacrime che erano sgorgate durante il racconto di Raven.
Si avvicinò a lei, non conosceva parole in grado di confortare il meccanico per quegli anni, riuscì solo ad abbracciarla stretta, cullandola fra le braccia nelle stesso modo con cui rassicurava Maddie dopo un incubo, mormorandole parole di conforto “Ora siete a casa e nessuno vi porterà più lontano da me…” mormorava la giovane al meccanico, rannicchiato fra le sue braccia.
 
 
 
CAPITOLO 4- Tempo
 
Bellamy continuava a camminare avanti e indietro nella sua stanza, si era isolato dagli altri com’era sua abitudine quando doveva riflettere.
Poteva uscire, guardare il cielo stellato, respirare l’aria pura della Terra, ma solo lì, nella solitudine di quella piccola stanza, sentiva di poter mantenere le promesse che si era fatto: tenere tutti in salvo. 
La sua mente viaggiava veloce, ripassava continuamente ciò che doveva fare nei prossimi giorni. Aveva bisogno di tenere ogni cosa sotto controllo, di valutare i pro e i contro di ogni scelta, ogni mossa.
Un’abitudine, un obbligo, che aveva imparato quando era sull’Arca, e, ogni gesto, ogni scelta doveva essere programmata attentamente per continuare a sopravvivere.
Avevano interrogato i prigionieri. Storse la bocca al pensiero di ciò che aveva dovuto fare per ottenere delle risposte da loro.
Scacciò l’immagine dello sguardo sgomento di Clarke quando era uscito dalla stanza di uno di loro. Non era importante cosa avesse fatto, ora sapeva che altri sarebbero arrivati e non avevano alcuna intenzione di dividere con loro i pochi terreni abitabili. Erano molti e non ci sarebbe stato spazio per tutti.
Bellamy si rese conto che tornare sulla Terra significava nuovamente un Noi o Loro.
Ma lui, ora, era pronto.
Sarebbero atterrati presto e quelli erano in pochi, trovare la gente ancora rinchiusa nel bunker sotto Polis era indispensabile per affrontare coloro che sarebbero scesi sulla Terra.
Si concesso un sorriso pensando alla sorella che presto avrebbe rivisto.
Sei anni erano lunghi, era di certo cambiata, ma non aveva mai smesso di credere che lei fosse salva, era grande ormai, una guerriera.
Si chiese cosa sarebbe successo quando si sarebbero rivisti.
Sorrise.
Il ricordo di Octavia lo cullava ora, come nelle lunghe notti sull’Arca, pensare alla sorella non era pericoloso.
 
Si concesse, dopo molto tempo, di pensare a Lei.
Per un anno, appena erano giunti sull’Arca il fuoco del dolore aveva imperversato nella sua anima. L’incidente e le ferite del suo corpo avevano spento quella fiamma, riducendo in cenere il suo cuore, e avevano cancellato ogni ricordo di Lei.
Aveva dovuto farlo.
Ricordarla significava perdere se stesso, infrangere la promessa di tenerli tutti al sicuro.
Con fatica era riuscito a elevare un muro contro il dolore che lo rendeva impotente e confuso.
Con un gesto, ormai diventata un’abitudine, alzò la mano e sfiorò le cicatrici che gli ricoprivano il torace. Poggiò la mano sulla pelle rugosa sopra il cuore. Si concentrò sul battito. Un muscolo che batteva, nulla di più.
Ciò che era stato, ciò che lei vedeva in lui, ormai non esisteva più.
Non doveva più esistere perché non poteva più permettersi di anteporre lei agli altri.
Lasciò cadere la mano, prese un respiro profondo: lei era viva, ma questo non doveva cambiare nulla. 
 
 
“Mamma stai dormendo?” la voce di Maddie interruppe il filo di pensieri di Clarke, che continuava a girarsi fra le coperte. Sospirò pesantemente. “No, non ci riesco.” Rispose mettendosi a sedere. Anche la ragazzina si rizzò. Clarke notò, anche nella penombra, il lieve sorriso che le increspava le labbra.
“Secondo te troveremo finalmente gli altri?” le chiese, la sua voce lasciava trasparire tutta l’emozione. Per lei, la missione del giorno dopo era un’eccitante avventura.
“Ora che Raven ha messo a punto il radar ci sono delle buone possibilità” rispose Clarke senza sbilanciarsi troppo. Era certa delle capacità di Raven, ma il mondo era così diverso da quando erano partiti…e non era sicura che sarebbero riusciti a ritrovare l’accesso al bunker.
“Dobbiamo trovarli!” ribatté decisa Maddie. “Dobbiamo farlo prima che quelli scendano e conquistino la nostra Terra, dobbiamo lottare per tenerci ciò che è nostro” continuò quasi con foga e, in quelle parole, Clarke sentì l’eco dei discorsi di Bellamy.
Scosse il capo infastidita.
Non voleva che la morte tornasse a far loro visita, i ragazzi erano tornati da solo due giorni e non stavano bene. Voleva che loro si abituassero alla Terra, voleva di nuovo imparare a conoscerli e, soprattutto, egoisticamente non voleva che la guerra fosse l’unico modo per risolvere la questione.
Avevano capito da subito che i prigionieri erano i primi di molti altri ed era prioritario trovare la gente del bunker subito, anche se questo significava ritardare la cura del sangue.
Eppure, dentro di sé, sentiva qualcosa spegnersi ogni volta che ripensava alle parole di Bellamy, alla sua determinazione a raggiungere Polis, a trovare la sorella, a liberarli da là sotto e affrontare la nuova minaccia. Pensava alla sua risolutezza, al modo con cui aveva deciso ogni cosa e un altro ricordo di ciò che erano stati si affievoliva.
Si alzò in piedi di scatto “Esco a prendere un po’ d’aria, tu dormi, domani sarà una giornata lunga.” disse a Maddie che le fece solo un cenno d’assenso, aveva imparato che, ogni tanto, la sua mamma aveva bisogno di stare sola.
“Buona notte tesoro!” le disse avvicinandosi “E, ricordati che…”
“Tutto andrà bene stanotte, tutto andrà bene per sempre” sussurrarono all’unisono, queste le poche parole che ripetevano ogni sera, sin dalla prima volta che avevano condiviso lo stesso giaciglio.
 
Raggiunse in fretta l’uscita del laboratorio, aveva bisogno di vedere le stelle, respirare aria fresca mentre l’inquietudine si riverberava nel suo corpo.
Sapeva che salvare la gente del bunker era la loro priorità, ma temeva il momento in cui li avrebbero trovati, ogni cosa sarebbe sembrata ancora più reale, senza che lei potesse ritrovare il vecchio Bellamy.
Per sei anni aveva vissuto una vita diversa che le aveva permesso di fare pace con se stessa. Ora quello che era diventata sarebbe stato spazzato via e lei sarebbe stata catapultata nelle sabbie mobili della sopravvivenza, della lotta per poter vivere sulla Terra.
Guardò le stelle, come le aveva viste in tutti quegli anni, traendo la sua forza dalla speranza che loro sarebbero tornati, che lui sarebbe tornato e lei avrebbe potuto finalmente dirgli ciò che aveva capito di provare nei suoi confronti.
Si volse di scatto, consapevole che i suoi pensieri non avrebbero portato a nulla.
Rientrò nell’edificio, ma le sue gambe, il suo corpo e il suo istinto non presero la strada per raggiungere la sua camera, la portarono di fronte alla porta di Bellamy.
Senza nemmeno riflettere bussò.
Rimase lì, immobile, a fissare la porta chiusa, mentre nella sua mente passavano immagini di ciò che erano stati, delle volte che si erano sorrisi, di come avevano affrontato ogni cosa.
Il suo corpo attese di fronte a quella porta, mentre la sua mente continuava a ripercorrere il loro passato.
La porta si aprì di scatto e Bellamy le si parò di fronte, nessun segno di sonno nel suo sguardo vigile, fra le mani teneva la maglietta che non aveva avuto il tempo di indossare, le cicatrici sul suo torace ben visibili.
“È successo qualcosa?” chiese guardandola preoccupato.
Clarke scosse il capo e face un paio di passi all’interno della stanza.
“Gli altri stanno bene?” domandò l’uomo lasciandola passare.
Gli altri, pensò Clarke, il suo primo pensiero sempre.
 In quello non era cambiato.
“Stanno tutti bene.” Rispose Clarke prima di voltarsi verso di lui. “Avevo bisogno di vederti.”
In realtà non sapeva nemmeno cosa dire, aveva solo sentito la necessità di sentirlo vicino e trovare in lui, nella sua presenza, il conforto che aveva sempre trovato in passato.
“Perché?” chiese Bellamy.
Clarke scrollò le spalle “Perché da domani ricominceremo a lottare e io avevo bisogno di ricordare” mormorò sedendosi sul letto, sentiva la necessità di mettere una distanza da lui, dai suoi occhi scuri che la osservavano, da quel viso così simile, eppure così diverso.
“Avevo bisogno di ricordare come eravamo, come tu mi davi la tua forza e il tuo sostegno ogni volta che ne avevo bisogno.”
Lo vide stringere le labbra, il suo viso trasformarsi in una maschera immota.
“Non farlo!” rispose lui. “Ci faremmo solo del male, non siamo più quelli che eravamo.”
Un sorriso mesto le si dipinse sulle labbra, si lasciò sfuggire un lieve sospiro. “Tu dici? Non riesco a credere che ciò che abbiamo condiviso, ciò che eravamo, possa essersi infranto contro questa lunga separazione.”
“Non farlo Clarke,” ripetè l’uomo.
“Cosa non devo fare Bellamy? Dimmelo?” replicò alzando la voce “non devo ricordare come mi hai tenuto la mano quando dovevo entrare dentro ALIE? Non devo ricordare di come mi hai aiutato a tirare la leva a Mount Weather o come abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro e abbiamo capito che insieme saremmo sempre stati più forti che divisi? Cosa non devo fare Bellamy? Dimmelo?” disse alzandosi e avvicinandosi a lui “Non devo dirti che ogni giorno ti ho parlato alla radio? che sei stato la mia speranza nei miei giorni più bui?, che sapere che saresti tornato è ciò che mi ha dato la forza per andare avanti?” le parole di Clarke erano un fiume che colpiva l’uomo. “Non devo dirti che questi sei anni mi hanno fatto capire che forse non avrei più rivisto l’unico uomo che avrei mai potuto amare…”
“Ti ho uccisa!” le parole di Bellamy la bloccarono “ti ho uccisa due volte” continuò impedendole di parlare “la prima volta quando ti ho lasciata andare da sola sulla torre e ti ho abbandonata.”
Nei suoi occhi Clarke lesse il tormento “La seconda” mormorò quasi a filo di voce senza smettere di guardarla “quando, dopo un anno nello spazio, ho obbligato il mio cuore a dimenticarti. Ho cancellato il ricordo dei sei mesi sulla terra perché non mi avrebbero permesso di prendermi cura degli altri come tu mi avevi chiesto. Ho dimenticato ogni ricordo di te perché già una volta la smania di voler credere che tu fossi viva e avessi bisogno di me mi ha fatto dimenticare gli altri. Queste cicatrici che vedi” le disse lasciando che lei scrutasse il proprio torso nudo “me lo ricordano ogni giorno. Mi ricordano il giorno in cui la mia fissazione per te ha quasi ridotto in briciole l’Arca e ucciso tutti noi. Non potevo più permettermi di sperare, di credere, di ricordare. Potevo solo andare avanti e il mio cuore mi avrebbe mentito sempre, perché mi avrebbe sempre spinto alla tua ricerca.”
Si bloccò fissandola intensamente “No Clarke, il Bellamy che tu credi di amare non è mai esistito e mai esisterà. Prima ti renderai conto di questo, meglio sarà.”
Le parole di Bellamy la investirono come un’onda, la fecero boccheggiare, sentì gli occhi bruciarle per le lacrime.
Fece un passo verso Bellamy, lui rimaneva immobile, svuotato da quella confessione. Ne fece un altro, attratta da lui come una calamita. Alzò la mano e sfiorò le cicatrici sul petto.
Lasciò che la sua mano sfiorasse la pelle sopra il suo cuore, sentì che lui tratteneva il respiro a quel contatto.
Sollevò lo sguardo, i loro occhi s’incontrarono, mentre le dita percorrevano quelle cicatrici.
Percepì il suo battito accelerato, alzò l’altra mano e con delicatezza scostò una ciocca di capelli dalla fronte di Bellamy, un tocco leggero nel silenzio della stanza.
“Tu non mi hai uccisa” mormorò, il suo sguardo fermo, determinato.
Entrambe le mani, ora, gli trattenevano il viso.
“Sono qui!” continuò mentre lo traeva verso di sé. “Guardami!”
“Hai fatto quello che era giusto fare, hai usato la testa” disse sfiorandogli le tempie “Come io ti avevo chiesto, ma ora è il momento che tu ti riprenda il tuo cuore” concluse.
 
 
Gli occhi lo fissavano, brillanti e vividi. Lei era lì, non era il fantasma di un ricordo.
Bellamy rimase immobile, inerme a quel lieve tocco che a malapena percepiva.
Pietrificato di fronte a quello sguardo.
Le ultime parole di Clarke rimbombarono nella sua mente.
Ebbe la sensazione, quasi fisica, che una bomba deflagrasse dentro di lui, sbriciolando in mille pezzi il muro che aveva costruito attorno a sé.
Frammenti del passato si ricomposero in lui: la piega determinata della mascella di Clarke quando prendeva una decisione, il dolore nei suoi occhi quando una sua scelta aveva portato alla morte di qualcuno, il suo sguardo sollevato ogni volta che lo aveva visto sano e salvo, il suo sorriso accennato quando sapeva di poter appoggiarsi a lui, la stretta delle sue braccia quando si erano abbracciati e il tocco delicato quando lo aveva curato.
Le immagini, prima, e le sensazioni dopo, travolsero la sua mente e il suo corpo.
Di colpo, il tocco delle dita di Clarke scaldò il suo viso, diventando reale.
Bellamy istintivamente alzò le braccia per cingere il corpo della ragazza e trarlo a sé.
Il calore che pulsava dentro di lui voleva quel contatto, aggrapparsi ad esso per sentirsi vivo e concreto.
Fu in quell’attimo che la sensazione di vuoto, che per lungo tempo lo aveva accompagnato, tentò nuovamente di prendere il sopravvento.
Lei era lì, vicino a lui, ma il terrore di perderla nuovamente, di non essere in grado di proteggerla, di rivivere tutto il dolore e di convivere con il senso di colpa e impotenza emersero con forza, confondendolo e bloccandogli il respiro.
Si irrigidì, tentò di allontanarsi per mettersi al riparo dalle emozioni che si stavano facendo spazio dentro di lui, ma sentì la presa delle mani di Clarke sul suo viso farsi ancora più ferma e le sue labbra sfiorare la sua bocca serrata.
Un tocco lieve all’inizio che divenne sempre più determinato. Le mani di Clarke scivolarono sul suo collo per trarlo a sé.
In quell’istante, quello che era stato in passato sulla Terra e quello che era diventato sull’Arca scomparvero e rimase solo lui.
Percepì il calore quasi bruciante delle labbra e del corpo di Clarke, contro il suo.
Ogni barriera, ogni pensiero ormai svaniti: dal suo corpo, che per anni era stato solo un automa, e dalla sua mente, che non aveva mai voluto cedere il passo al suo cuore.
Si lasciò andare a quel contatto che aveva il vago sapore della speranza, una lieve scintilla bruciante che parlava di possibilità.
La possibilità di poter tornare a vivere lì, sulla terra, lì accanto all’unica donna che avesse mai amato e che temeva di aver perso.
 
Rimasero abbracciati, consci di quel legame che stava rinascendo dalle ceneri di ciò che erano stati.
Il mondo fuori continuava a girare, il tempo a scorrere.
Presto vi si sarebbero nuovamente immersi, ma, per ora, solo loro due esistevano.
Desiderosi di ritrovarsi.
Desiderosi di perdersi l’uno nelle braccia dell’altro.
Il giorno dopo lo avrebbero affrontato, insieme, come avevano sempre fatto.
 
 
   
 
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