Storie originali > Fantascienza
Ricorda la storia  |      
Autore: Kerberos 1001    21/04/2018    0 recensioni
Grande cosa la curiosità scientifica! Le scoperte che ne derivano possono essere infinitesimali, importanti, addirittura epocali, come i cambiamenti che inducono nella società. Di solito. In alcune occasioni, però, perseverare nell'errore, anche se del tutto involontariamente, può risultare spiacevole fino al limite del catastrofico. Quando si dice che la fortuna è cieca, ma la sfortuna ci vede benissimo ...
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Il primo ospite uscito dal portale era un coacervo di braccia, mani, bocche. Non possedeva soverchia bellezza, tantomeno una qualche simmetria, deficienze che compensava ampiamente con una fame smisurata, implacabile al pari della sua furia omicida. Muovendosi con grazia aliena all’interno del campo di contenimento afferrò, stritolò e dilaniò un plotone dei Corpi Speciali di Infiltrazione, soffermandosi a sgranocchiare un soldato ogni qualche minuto, quelli che sembravano essere più di suo gusto, armi e armature comprese.
Per nostra enorme, sfacciatissima fortuna, risultò essere decisamente stupido: se avesse posseduto un minimo di cervello, avrebbe per lo meno sospettato che le scatolette portate al polso dai soldati che cercavano invano di eliminarlo non erano decorazioni bensì l’interruttore che avrebbe abbattuto lo scudo, liberandolo e fornendogli tanto, tantissimo altro cibo con cui baloccarsi.
Invece, si limitò a strizzare corpi e attrezzature tanto da farli implodere, né più né meno che alla stregua di un mostruoso boa constrictor, per poi scagliarsi contro il campo di forza convinto di raggiungerci, più e più volte, come una palla di gomma lanciata contro un muro, sempre respinta al mittente. Se fosse riuscito a sfondare … molto meglio non pensarci, davvero!

Dopo ventiquattr’ore di questo gioco tedioso, decidemmo di ricacciarlo là dove lo avevamo preso, ormai convinti che non sarebbe stato buono a nulla. Restringendo pochi centimetri alla volta l’emisfera di energia, lo obbligammo ad attraversare il portale che avevamo riaperto, un’esperienza simile a quella di un addestratore che induce a più miti intenti una belva ribelle, costringendola in un angolo a colpi di frusta; solo che il nostro metodo era decisamente più sicuro: com’è risaputo, alle volte la belva alle strette scatta dal suo angolo e divora il domatore …
La cosa buffa fu che nel passaggio di ritorno, quella creatura sembrò rimpicciolire, come se venisse strizzata dai campi multidimensionali che costituivano il nostro primo varco sull’altrove; quando tutto fu finito, mentre lasciavamo la sala controllo del laboratorio, un’impressione vaga rimase a fluttuare nel mio cervello, come se non avessi capito nulla di quanto avevo visto, di quello che era accaduto in realtà, e questo tarlo non mi abbandonò per intere settimane, mentre veniva accuratamente preparato il secondo esperimento: sapevo che ci era sfuggito qualcosa, continuavo a ripetermelo incessantemente, ma non riuscivo a sfondare il muro di gomma che mi si opponeva, così che lasciai perdere e mi dedicai al lavoro, cercando in questo modo di distrarmi.

Arrivò infine il grande giorno: per l’occasione, memori degli avvenimenti occorsi durante il primo tentativo, cercammo di correggere tutti gli errori che sicuramente avevamo commesso e di prevedere persino l’imprevedibile. Il campo di forza venne rinforzato e stratificato, con batterie di generatori ausiliari dedicati destinati ad inserirsi in successione in caso di pericolo e/o sovraccarico; batterie automatiche multicalibro erano state installate tutt’attorno all’area, controllate da un sistema sincronizzato con la fase del campo per poterci sparare attraverso senza bisogno di staccarlo neppure per una frazione di secondo; dulcis in fundo, sensori, a carrettate, per monitorare ogni possibile tipo di segnale che potesse venire emesso nel raggio di un centinaio di chilometri. Eravamo sicuri, decisi a cogliere il successo come un frutto dorato talmente maturo che si sarebbe staccato da solo dall’albero per noi, non avremmo dovuto far altro che tendere la mano, palmo al cielo.

Il secondo ospite fu peggiore del precedente.

Se non altro, questo possedeva una forma intelligibile, almeno stando al computer che iniziò ad analizzarlo a partire dall’istante stesso della sua uscita dal varco: ad essere del tutto sinceri, noi scienziati non riuscimmo a cavarne visivamente granché, poiché si presentava come un coagulo iridescente di superfici geometriche non euclidee, con colori che sfumavano in continuazione dall’assolutamente nauseabondo al totalmente inguardabile, secondo scale e con frequenze che sembravano progettate apposta per fare male; si muoveva – spero che i colleghi mi perdonino la licenza poetica – intersecandosi con la realtà che lo circondava, un po’ sopra un po’ sotto il nostro continuum, cercando una via di fuga dalla prigione in cui lo avevamo rinchiuso. Forse. Dico forse perché dopo non più di trenta secondi nessuno riusciva più a rimanere voltato verso la cupola, era troppo doloroso anche solo il pensiero di farlo; lo sguardo fisso ostinatamente sulla parete opposta, mentre gli strati del campo cedevano uno dopo l’altro, udimmo l’allarme squillare come la tromba del giudizio, sovrastato dal rumore delle batterie automatiche che sparavano ronzando come vespe infuriate, svotando caricatori e accumulatori di energia a velocità prodigiosa.

Non rimandammo indietro il nostro ospite, questa volta: ne rimase unicamente un grumo catramoso grosso quanto un pugno, ucciso fortunosamente da non si sa bene quale combinazione di armi. Sigillammo quella melma in uno dei contenitori destinati allo stoccaggio a lungo termine dell’antimateria, settando il livello massimo di contenimento e lo seppellimmo al centro di un centinaio di metri cubi di cemento ad altissima densità; volevamo dimenticarcene, capite? Non volevamo saperne più nulla: era arrivato ad assimilare cento e tre dei centocinque strati dello scudo difensivo! Questa volta c’era mancato davvero un soffio! Ciononostante, i responsabili del progetto erano in sollucchero: la teoria della multidimensionalità si era dimostrata talmente corretta da consentire di riportare qualcosa nel nostro continuum due volte su due! Occorreva perseverare e tentare di perfezionare ulteriormente la tecnologia, in vista della nostra prima visita al di là. Il fatto che entrambi i tentativi avessero avuto un costo spropositato in vite umane – per non parlare di quello monetario! – non li sfiorava minimamente.
Se avessero potuto osservare da vicino – come noi fummo costretti a fare per prestar loro i primi, inutili soccorsi – i trentadue assistenti e tecnici di laboratorio che subirono le conseguenze peggiori dell’esposizione al secondo ospite …
Vedete, normalmente, le mutazioni sono indotte da un agente fisico: radiazioni, sostanze tossiche, mutageni, insomma, che possono venire identificati, eventualmente scansati o trattati con antidoti vari. Ma una geometria colorata! Come può una combinazione di forma e colore far crescere un arto dalla nuca di un uomo?! Come può deformargli il cranio al punto da esporne l’encefalo? E questi erano solo gli esemplari ancora riconoscibili, i migliori, per così dire: vedendo gli altri, attivammo per la seconda volta il protocollo di difesa; non più di trenta caritatevoli secondi, quanto bastava. Fu una decisione unanime e nessuno ebbe mai nulla da ridire al riguardo.
Noi, però, avemmo a che dire con i nostri superiori. Molto.

«Professore! Brutte notizie! Temo che ci sia una falla nella sicurezza!»
«Cosa glielo fa credere?»
«È sparito del materiale di laboratorio; materiale sperimentale.»
«Prezioso?»
«No, facilmente rimpiazzabile: non hanno toccato il settore riservato. Però è comunque una seccatura.»
«Qualche traccia sulle registrazioni della sicurezza?»
«Nessuna, purtroppo! La cosa assurda è che sembrano essere coinvolti singoli campioni …»
Il professore fissò stralunato l’assistente: «E questa idiozia come le è venuta?»
«Non è venuta a me, è un parto del computer di controllo.» ribatté l’assistente, per nulla offeso.
Il professore si allungò sulla poltrona, sbuffando esasperato: «Di bene in meglio! Chieda all’assistenza di mandare qualcuno a controllare quel catorcio di computer! Immediatamente! E mi scusi per lo scatto di prima.»
L’assistente sorrise: «Di nulla, professore. Al posto suo, avrei reagito allo stesso modo.»

La terza apertura del portale ebbe luogo lontano da tutto e da tutti, sul fondo del cratere che un qualche grosso meteorite di passaggio aveva scavato chissà quando in un asteroide in orbita a debita distanza sia da Marte che da Giove. Era occorso quasi un semestre per selezionare ed attrezzare l’installazione vera e propria, oltre alla gemella posta a ventisettemila chilometri di distanza in un modulo operativo da spaziofondo trascinato in posizione da un rimorchiatore e ormeggiato gravitazionalmente in loco. Noi eravamo stipati nel modulo; il portale con tutte le apparecchiature ausiliarie, la strumentazione e l’incrociatore da battaglia automatizzato che fungeva anche da relè audio-video galleggiavano all’interno di una bolla che li avvolgeva completamente, il più grosso campo di forza mai realizzato sino a quel momento: ci sarebbe stato davvero di che vantarsene, se tutta l’operazione, tutta la dannatissima ricerca!, non fossero state coperte dal segreto. Comunque fosse, a venti minuti dall’evento, avevamo esaurito i controlli preliminari per l’ottava volta e non avevamo davvero nient’altro da fare che stare a guardare gli schermi, girandoci i pollici nell’attesa. Questa volta … questa sarebbe stata la volta buona, anche perché sarebbe stato impossibile contare vittime.
Non c’è due senza tre, ricorda! Non c’è due senza tre, ricorda! Non c’è … una litania continua, che mi rigirava nella mente come il bolo di un ruminante; pensieri allegri che mi aiutavano di certo a trascorrere il tempo dell’attesa, senza che ci fosse un motivo logico per tanto pessimismo. A parte il mio istinto, ovvio.

Il portale si aprì puntualmente come le altre volte, illuminando gli schermi di luce ambrata; per una frazione di secondo, mi parve di scorgere, al di là, stagliata sullo sfondo dello spazio, una superficie piana e lucida, immensa al punto da risultare inconcepibile, poi il portale si chiuse, lasciando il nostro ospite solo sulla nuda roccia basaltica levigata dalle benne robot.
Assurdo. Semplicemente assurdo. Sembrava un batuffolo di cotone tremante ad una brezza che non esisteva, perché all’interno della bolla c’era il vuoto dello spazio. Capiamoci: non era stato volontario. I sensori posizionati attorno al portale avevano anche il compito di analizzare l’ambiente di provenienza del campione ed elaborarne un’esatta copia all’interno dell’installazione al momento dell’apertura: le altre due volte tutto aveva funzionato a meraviglia e la fortuna ci aveva concesso di usufruire di un’atmosfera respirabile, addirittura in eccesso di ossigeno; questa volta le letture erano state talmente falsate dai disturbi che l’impianto si era bloccato, senza produrre alcunché, lasciando la regione piena di … vuoto, appunto, che quella cosa sopportava per altro benissimo! Rimanemmo basiti ad osservarla per minuti interi, in attesa di vederla implodere, congelare, sublimare: per quello che la riguardava, potevamo anche attendere per l’eternità: si limitava a tremolare, forse saggiando il nuovo ambiente, forse tremando di paura, forse tramando un attacco lampo per poter poi conquistare l’universo! Follia paranoica, dite? Sicuramente: chi non sarebbe stato un pochino paranoico, dopo i nostri precedenti exploits? E poi, molti sono convinti che una sana paranoia sia un tratto alquanto desiderabile, essenziale alla sopravvivenza e alla perpetuazione della specie ...
Fatto sta che trascorse all’incirca un quarto d’ora, prima che la situazione sull’asteroide mutasse: ipnotizzati dal tremolio, faticammo ad accorgerci che la creatura stava lentamente sprofondando nella roccia, un millimetro alla volta, scavando un pozzo che l’avrebbe portata, nell’arco di giorni, ad attraversare completamente l’asteroide. Poco male, il campo di forza avvolgeva completamente quel sasso troppo cresciuto: anche se ci fosse riuscito, si sarebbe comunque trovato al suo interno. Rassicurandoci a vicenda, ci disponemmo ad aspettare comodamente seduti di fronte agli schermi; qualcuno si affrettò persino in cucina a prendere caffè per tutti. I sensori lavoravano per noi, registrando tutto, secondo per secondo: se il nostro ospite si credeva una talpa, che si divertisse pure come meglio riteneva opportuno.

«Professore! Professore, questa volta è seria!» L’assistente entrò barcollando nell’ufficio, inciampando nel tappeto e quasi finendo addosso al tavolino di cristallo riservato agli ospiti.
«Calma! Le sembra questo il modo? Ha fatto eseguire la diagnostica come le avevo chiesto?»
L’assistente respinse la domanda con un gesto stizzito: «Sì, sì, la diagnostica è a posto! Abbiamo ben altri problemi, adesso!»
«Cosa diavolo sta farfugliando, si può sapere? Non ci capisco nulla!»
«Il settore B18-92!» sbottò il giovanotto «Qualcuno è riuscito a penetrare tutti i layers di sicurezza e a sottrarre un campione!»
Pallido, il professore si alzò dalla sua poltrona: «Quale?»
«N0-K987-B32!»
«Terroristi! Ma come hanno fatto a sfondare le difese?»
«Non lo so! Secondo il computer, non l’hanno fatto: hanno prelevato un singolo esemplare dal nucleo di contenimento, proprio come le altre due volte!»
«Quando?»
«E come faccio a saperlo? Il conteggio avviene una volta ogni due giorni, come da protocollo …»
«Speriamo che non lo rilascino nell’atmosfera.»
«Sarebbe peggio se lo rilasciassero nello spazio …»

Fummo lenti, troppo lenti. Quando la massa dell’asteroide cominciò a contrarsi, il processo era ormai irrimediabilmente avviato: quella cosa non si stava limitando a scavare, assimilava e convertiva ciò che scavava, trasformandolo in massa critica. Alle prime avvisaglie, l’AI dell’incrociatore avviò il protocollo d’emergenza, attivando tutti i sensori alla massima potenza, raccogliendo dati di un tipo decisamente diverso da prima, questa volta: distanze, distribuzioni di massa, parametri gravitazionali, per poter elaborare sequenze di lancio, dispersioni di salva e traiettorie di massima saturazione per le artiglierie e i vettori di testate belliche di cui era ampiamente stato dotato; iniziò a sparare senza alcun preavviso, impartendo al contempo l’ordine di restringere progressivamente la bolla. Perché? Cosa ci era sfuggito, in quelle poche ore, che l’AI aveva invece notato? Poteva essere un minuscolo particolare, certo, ma era stato giudicato fondamentale dalle routine di sicurezza della nave: cosa?
Cosa aveva estrapolato per scatenare una simile reazione? Scorsi a velocità record i listati, cercando, cercando, cercando …
Trovai. Purtroppo. Era evidente, in retrospettiva, lento, inequivocabile, appena percettibile: quel subdolo bastardo stava collassando. E noi eravamo bloccati laggiù con lui, ancorati nello spazio.

«Novità?»
«Nessuna, generale. Il conteggio è stato appena terminato: un solo esemplare è sparito dal nucleo di contenimento.»
«Ne sembra felice, professore. Come se uno non fosse più che sufficiente!»
«Non c’è traccia della sua presenza da nessuna parte, generale. Nessuna!»
«Come può esserne certo? Un affare tanto piccolo?»
«Ma dalle conseguenze enormi, signore: mi creda, se fosse stato liberato, a quest’ora ce ne saremmo accorti.»
«Sarà! Mi spieghi ancora una volta perché ne conservavate dei campioni nel vostro laboratorio!»
«A scopo di ricerca, ovviamente! Che altro? Come per tutti gli altri nostri ospiti: cercavamo un modo sicuro di neutralizzarli!»
«Voglio crederle. Del resto, i vostri registri parlano chiaro. Quello che vorrei sapere è come ha fatto a sparire: i vostri protocolli di sicurezza sono quasi più stringenti dei nostri!»
Il professore si strinse nelle spalle: «Non so darle una risposta, generale. Non ancora, per lo meno. Quello che posso dirle con certezza è che nessuno del dipartimento è implicato, e che è già partita un’attenta revisione per renderli ancora più impenetrabili di quanto già non siano!»
«Un’anomalia, dunque?»
«È l’ipotesi più probabile: uno di quei fenomeni casuali che normalmente hanno una probabilità infinitesima di verificarsi.»
«Infinitesima ma non nulla …»
«Esattamente. Questa volta siamo stati fortunati.»
Il generale trasse un gran sospiro: «Bene. Revocate lo stato d’emergenza generale e avvertite il governo: sembra proprio che la crisi sia passata.»

Stando alle teorie generalmente accettate, il collasso gravitazionale consegue all’implosione di oggetti di grande massa; teoricamente è possibile ottenere singolarità minuscole dotate di massa planetaria ma è solo teoria, il risultato di speculazioni matematiche portate avanti dai fisici, il risultato di equazioni che prevedono possibilità, non certezze. Un asteroide, no, non dovrebbe collassare. A meno che non venga aiutato in qualche modo, ovvio: a questo stava pensando il nostro ospite, evidentemente. Poco alla volta, per quanto possibile attraverso i bagliori delle esplosioni che si succedevano all’interno della bolla sempre più stretta, lo vedemmo contrarsi, sottoposto a forze per noi inconcepibili: si stava trasformando in un buco nero, e noi lo stavamo aiutando, fornendogli massa ed energia per mezzo dell’incrociatore; disturbata dalle violente variazioni all’interno della bolla, la sua AI aveva interrotto i contatti, passando all’isolamento totale come da protocollo di sicurezza e continuava, incosciente, a scaricare tutto quello che aveva a bordo sul bersaglio. Non ancora per molto, comunque: il processo stava accelerando a velocità esponenziale, mentre quella cosa fagocitava ogni singolo erg che le pioveva addosso, aggiungendolo alla massa che già aveva raggiunto, quasi stesse … riproducendosi!
Fu l’ultimo mio pensiero, per fortuna: magra consolazione, sapere di aver avuto ragione su tutto, mentre il modulo, strappato dai suoi ormeggi, veniva inesorabilmente trascinato vero il centro dell’azione. Pochi istanti prima di impattare contro lo scudo, riuscii a vedere chiaramente le centinaia di minuscoli fiocchi tremolanti che si allontanavano come neve dal nostro ospite. Fu allora che improvvisamente compresi: quella che avevo visto al di là del portale non era una semplice superficie. Era il fondo liscio di una capsula di Petri …
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantascienza / Vai alla pagina dell'autore: Kerberos 1001