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Autore: Alicat_Barbix    29/04/2018    1 recensioni
Trama:
Sherlock è un sociopatico con manie omicide. John è un ribelle alla ricerca di avventure. In una noiosa cittadina conformista, le loro vite si incontrano inesorabilmente: Sherlock sceglie John come sua prima vittima, John sceglie Sherlock come suo compagno d'avventure. Il loro singolare rapporto raggiunge il culmine quando partono insieme per un viaggio alla ricerca di un senso alle loro esistenze.
Dal capitolo uno:
“Ehi.”
“Ehi.” Rispondo col suo stesso scarso entusiasmo.
“Ti ho sentito suonare, in aula musica. Fai abbastanza schifo.”
Stringo i pugni sotto il tavolo e assottiglio lo sguardo: mi basta sbattere appena le ciglia per riuscire a vederlo sdraiato di fronte a me, la maglietta bianca imbrattata di sangue e gli occhi vuoti. E’ perfetto. E’ il soggetto ideale. Percepisco l’angolo delle mie labbra guizzare appena verso l’alto: come mi aspettavo, pregustare la morte di un essere umano infonde una sensazione ben migliore di quella che dà l’uccidere un banale ratto: è liberatorio, saziante. Eccitante.
“Vaffanculo.”
CROSSOVER CON LA SERIE TV THE END OF THE F***ING WORLD.
Johnlock Teenlock
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti
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The End Of The F***ing World

EPISODE ONE
 
 
TARGET
Il mio nome è Sherlock. Sherlock Holmes. Ho diciassette anni e in questi 6540 giorni ho capito due cose importanti: la prima è che il mio IQ è nettamente superiore alla media, la seconda è che sono uno psicopatico. Anzi, non esattamente uno psicopatico: un giorno ne ho parlato con mio fratello Mycroft, quando ero ancora bambino, e lui con la sua aria da sapientone ciccione ha semplicemente detto che i sintomi sembrano più quelli della sociopatia. Ah, Mycroft, il sapientone ciccione, è mio fratello maggiore e lo odio con tutto me stesso. Non so quando ho cominciato, so solo che è così e ogni volta che sono costretto a vedere la sua brutta faccia mi sale il voltastomaco. Poi c’è mio padre, un perfetto idiota con la mania di riempire i buchi portati dal silenzio. Mio padre ha paura del silenzio, della non espressione, e così racconta barzellette odiose che non fanno neanche ridere o tiene il volume della TV al massimo mentre io cerco di studiare.
La mia vita è come la cappa di nuvole che regna perennemente sul cielo della nostra città: grigia, spenta, vuota. A nove anni, pur di provare qualcosa oltre alla completa apatia, ho immerso la mano nell’olio bollente della friggitrice e ora porto i segni di quel gesto sulla mia pelle. A quindici anni, per tentare un’esperienza nuova, ho portato il gatto dei vicini nel bosco e l’ho ammazzato col coltellino regalatomi da mio padre. Da allora, ho cominciato a divertirmi uccidendo piccoli animali, collezionando le loro carcasse, tenendo a mente il numero delle mie vittime.
Il mio nome è Sherlock Holmes. Ho diciassette anni e in questi 6540 giorni ne ho capita anche un’altra, di cosa: sono stanco della ripetitività del mio operato. Uccidere animali è diventata un’attività tediosa. Non ricordo bene il momento preciso in cui presi a chiedermi come fosse spremere via la vita da un altro essere umano, so solo che ogni giorno mi aggiro per la scuola studiando le mie possibili vittime, deducendo ogni cosa della vita di questi patetici adolescenti, immaginandomi che aspetto potrebbe avere il cadavere di uno di loro.
Oggi non è da meno. E’ come se non attendessi altro. Il coltellino è pronto, la mia mente è lucida, la mia bramosia insaziabile. Ne ho bisogno. Ho bisogno di trovare la mia vittima, di guardarla negli occhi, di vedere il suo corpo crollare a terra ricoperto del sangue stillante dalla ferita che io le ho inferto. Poggio insofferentemente la custodia del mio violino – un insulso hobby come la danza, con l’unico scopo di contenere la mia mente galoppante – su un tavolo della mensa distaccato dagli altri. Mi porto il succo alle labbra e studio la stanza con avidità, nutrendomi delle storie della gente solo puntando i miei occhi su di loro. All’improvviso, la mia mente sembra vacillare, quasi inviare dei sommessi ronzii per avvertirmi di qualcosa. Mi riscuoto pigramente dal mio stato di caccia e punto i miei occhi in quelli di un ragazzo di circa la mia età che se ne sta immobile di fronte a me, lo sguardo al contempo vuoto e vivace. Il mio cervello lavora, analizza i dati: padre lontano, probabilmente immischiato in qualche giro criminale, madre menefreghista, risposata con un uomo più giovane da cui ha avuto una bambina Harriet, una quindicenne forse – difficile a dirsi così su due piedi – ma quel che è certo è che, nonostante la giovane età, è già stata catturata dalla malsana spirale della dipendenza – sicuramente alcol, ma potrebbe anche rientrare qualche tipo di droga, seppur leggera. Imposto irruentemente la modalità muta alla mia mente e torno a concentrarmi sul viso inespressivo del ragazzo.
“Ehi.”
“Ehi.” Rispondo col suo stesso scarso entusiasmo.
“Ti ho sentito suonare, in aula musica. Fai abbastanza schifo.”
Resto per qualche istante sbigottito e mi domando se ho sentito bene, ma soprattutto se è lui ad aver sentito bene: nessuno mi ha mai detto una cosa del genere, nessuno. Chiunque mi abbia mai ascoltato suonare è sempre rimasto col fiato sospeso e gli occhi dolcemente chiusi anche per i minuti successivi la fine dell’esecuzione, e invece questo piccolo, stupido cazzone si permette di presentarsi qui, di fronte a me, dicendo che faccio abbastanza schifo. Stringo i pugni sotto il tavolo e assottiglio lo sguardo: mi basta sbattere appena le ciglia per riuscire a vederlo sdraiato di fronte a me, la maglietta bianca imbrattata di sangue e gli occhi vuoti. E’ perfetto. E’ il soggetto ideale. Percepisco l’angolo delle mie labbra guizzare appena verso l’alto: come mi aspettavo, pregustare la morte di un essere umano infonde una sensazione ben migliore di quella che dà l’uccidere un banale ratto: è liberatorio, saziante. Eccitante.
“Vaffanculo.”
 
CLUASTROPHOBIA
Il mio nome è John. John Watson. Ho diciassette anni e in questi Dio solo sa quanti giorni – sicuramente troppi perché una persona sana di mente li conti – dicevo, in questi giorni della mia esistenza ho capito due cose: la prima è che la mia vita fa schifo, la seconda è che se non faccio qualcosa al più presto, scoppierò. Ci sono giorni in cui ho bisogno di stendermi, perché tutto sembra semplicemente troppo per me. Guardo in alto e vedo il blu, il grigio, il verde… e mi sembra quasi di fondermi con essi, e tipo per mezzo secondo mi sento libero, felice, innocente, come un cane o un alieno o un bambino. Ma quando mi alzo in piedi e guardo intorno a me, non ci sono più il cielo, il grigio, il blu… mi sento in trappola e una sensazione come di claustrofobia mi prende alla gola, come un attacco d’asma o di panico o magari d’entrambi. Casa mia mi sembra ormai una prigione con quel coglione di Tony – il nuovo marito di mia madre – e quella stronza di Harriet – la mia, sfortunatamente, sorellastra –, per non parlare dei due neonati che non fanno che piangere e strillare perché devono mangiare o dormire o perché si sono pisciati addosso. Non vedo mio padre da… beh, non me li ricordo: ero talmente piccolo che sono stato abituato ad anni e anni di giochi in palestra mentre tutti gli altri bambini preparavano il lavoretto per la festa del papà. Come me, lui non reggeva questa cazzo di vita e così se n’è andato. Non lo incolpo, in fondo è quello che vorrei fare anche io se solo ricevessi un segno, una spinta, qualsiasi cosa. Comunque, ad ogni compleanno mi invia un biglietto, senza mai saltarne uno, se non altro so che si ricorda di me. Ad ogni modo, lo capisco: non mi fido della gente inquadrata, è buona solo a mandare avanti un mondo del cazzo.
Cammino per la mensa con aria insofferente, consapevole delle occhiatacce provenienti dal mio ex gruppo d’amici. L’altro giorno, a pranzo, ho dato di matto come una ragazzina mestruata e ho buttato il telefono a terra, ma in fondo… chi se ne frega? Il portafoglio di Tony è ricco di verdoni così come la sua testa è ricca di stronzate, perciò sono in una botte di ferro. Supero il tavolo dei suddetti ex amici e mi guardo intorno, ricercando in mezzo alla gente inquadrata qualcuno di non altrettanto inquadrato. Con la coda dell’occhio, scorgo la figura di un ragazzo alto e magro, con lo sguardo perso nel vuoto, così strano da farlo apparire quasi inquietante. Nella mia testa si fa largo un… Perché no? Non dico che lui sia la soluzione, però… è sicuramente qualcosa.
“Ehi.” Esordisco con scarso entusiasmo.
“Ehi.”
“Ti ho sentito suonare, in aula musica.” Dico anche se non è vero. “Fai abbastanza schifo.
“Fanculo.”
All’improvviso, incontro l’accenno di un sorriso sulle sue labbra. E’ debole, magari sono solo io che me lo immagino, però… però, cazzo se è bello quel sorriso. La campanella trilla insistentemente, ma mentre ogni studente si alza svogliatamente, borbottando lamentele su quanto quella giornata appaia infinita, io sorrido con fare forse impertinente al tizio strambo di fronte a me, infine mi volto e mi lascio inghiottire dalla calca di alunni che sciama verso le armi.
 
THE PLAN
John Watson è qualcosa. Qualcosa di preciso. Ed io so perfettamente che cosa sia: la mia vittima. Durante la noiosa lezione di sessuologia tenuta da un altrettanto noioso professore che non fa che ammiccare in direzione delle ragazze più, a quanto pare, decenti della classe, cerco di elaborare un piano efficacie per togliere di mezzo quel John Watson, ma non riesco a pensare a nient’altro che alla frase conosci il tuo nemico. Non che sia mio nemico, è solo un cazzone che ha pestato i piedi alla persona sbagliata. Sarà divertente ucciderlo: ho ancora i brividi ripensando a lui.
Alla fine delle lezioni mi siedo sul muretto all’ingresso della scuola e attendo, rifilando occhiate annoiate a chiunque mi capiti davanti. Tra quei volti e quelle nuvole di deduzioni non riesco a trovare nessun altro come John Watson. E’ come se non fossi in grado di ricreare un vittima così perfetta come lui. Finalmente, quando ormai la torma di fronte a scuola si è defilata nelle proprie case o da qualche parte a fare quello che comuni adolescenti fanno, la figura di John Watson fa capolino fuori dall’edificio. Non mi devo neanche sforzare ad alzarmi in piedi o a chiamarlo, è come se lui sapesse esattamente dove avrebbe dovuto fermarsi e chi avrebbe trovato ad attenderlo. Mi fissa con un mezzo sorriso e affonda le mani nelle tasche di un giubbetto lacero e ormai fuori moda, forse leggermente grande per lui.
“Aspettavi me?”
Mi limito a mantenere il contatto visivo con lui, anche mentre si lascia cadere lo zaino dalla spalla destra e mi si avvicina con espressione incuriosita. Si ferma a pochi centimetri da me, senza smettere di esaminarmi con quei suoi occhi così vividi che per un attimo mi sembra quasi un peccato doverli privare della loro luce.
“Mi aspettavi per una ragione in particolare?”
Di nuovo, taccio e stavolta sul suo viso scorgo un sorriso quasi esasperato mentre scuota la testa.
“Cazzo, se sei impossibile…”
Si guarda rapidamente intorno prima di eliminare la distanza tra di noi e appoggiare le sue labbra sulle mie. E’ una sensazione strana, ancora più strana di quella che ho provato quando mio padre ha tentato per la prima volta di farmi ridere con una sua barzelletta, come se stessi silenziosamente comunicando a Watson che non avrà mai ciò che vuole, almeno non definitivamente.
Mi trovo a pensare che è la cosa più disgustosa che mi sia mai capitata. Mi sembra quasi di avere una specie di lumaca in faccia. La sua mano scivola lentamente sulla mia coscia e poi si muove verso la mia, quella sfregiata dall’olio bollente. A contatto con la mia pelle, le sue dita esitano e il suo viso si stacca appena dal mio, gli occhi azzurri che si riflettono nei miei.
“Che cos’hai fatto alla mano?”
Gli rivolgo un’occhiata truce, allontanando istintivamente la mano dalla sua. “Sta’ zitto.” sibilo poco prima che le sue labbra ritornino sulle mie, facendomi rabbrividire. Di disgusto, ovviamente.
Quando si stacca e riprende lo zaino penso che abbia intenzione di andarsene per la sua strada, ma inaspettatamente si volta e mi invita con un cenno del capo a seguirlo. Afferro a mia volta lo zaino e la custodia del violino e avanzo rapidamente verso di lui, la testa mezza incassata nelle spalle. Camminiamo. Non so verso dove. Non so per fare cosa. Camminiamo in silenzio per le vie di questa città che sembra diventata ormai troppo stretta per me. Ripenso al bacio. Al mio primo bacio. Non pensavo che Watson fosse gay, visto che, nonostante sia qui da appena un semestre, è noto per la sfilza di ragazze con cui è uscito. Non pensavo che io fossi gay, ma probabilmente non lo sono. Non penso neanche di essere etero. Probabilmente non sono nient’altro che un sociopatico con tendenze omicide.
“Possiamo andare a casa tua?” mi chiede dopo un po’ rompendo il filo generale dei miei pensieri.
In un flash, mi compare davanti l’immagine di lui agonizzante e ricoperto di sangue. Un brivido mi percorre mellifluamente la schiena e cerco di frenare l’impulsività delle mie emozioni. Pazienza. Devo avere pazienza. Devo ucciderlo nel migliore dei modi, senza lasciare alcuna traccia che mi ricolleghi al delitto. Pazienza.
“Sì, certo.”
Casa mia non è distante. Lo guido con passo svelto verso di essa, ignorando le occhiate curiose che alcuni anziani ci lanciano. Una volta di fronte all’edificio, spero con tutto me stesso che Mycroft non sia in casa, altrimenti finirò per fare la figura dell’imbecille agli occhi di John, con tutti gli aneddoti che mio fratello ha su di me. Non che mi importi di fare, in un certo senso, colpo su di lui.
“Perché la tua casa è così strana?” domanda stupidamente fermandosi a studiarla. Che razza di idiota…
“Non lo so.” rispondo laconicamente mentre infilo le chiavi nella toppa e faccio scattare la serratura.
“Ci sono troppe finestre.”
Entriamo e, con mio sollievo, la casa è mezza avvolta dalla penombra, segno che né mio padre né mio fratello sono qui. John esplora con lo sguardo il salotto e io mi trovo con gli occhi incollati su di lui. Devo carpire ogni dettaglio che possa essermi utile al mio scopo.
“E’ tua madre?” chiede a un certo punto indicando la fotografia di mia madre sulla mensola della libreria.
“Sì.” mormoro in risposta, abbassando appena lo sguardo. “Vive in Giappone.”
“Figo!” esclama lui rivolgendole un’occhiata curiosa. “Le assomigli.”
Ci sediamo sul tetto, le gambe a penzoloni, gli occhi volti all’orizzonte ammantato dell’azzurro del cielo e del bianco delle nuvole. C’è pace, qua sopra. Me l’ha chiesto John di salire qui, ha detto di volersi sentire libero per mezzo secondo, ma non so cosa intendesse dire, so solo che per mantenermelo buono ho bisogno di assecondarlo. Ora che ci penso, mi basterebbe spingerlo e lasciare che si sfracelli a terra. Ciononostante, l’altezza non è considerevolmente alta, inoltre eliminare le prove all’esterno sarebbe molto più rischioso del farlo in un ambiente interno.
“Com’è la tua famiglia?”
“Mio padre è un coglione e mio fratello un perfetto stronzo.”
“Wow, siete una famiglia davvero deliziosa.” borbotta con una mezza risatina lui, senza distogliere lo sguardo dal cielo. “Chi è peggio tra di voi?”
“Mio fratello. A volte sento il bisogno di prenderlo a pugni.”
“Magari dovresti farlo. Potrebbe farti sentire meglio, più libero.”
Ometto di dire che è lui quello che prova un profondo desiderio di ridurre il suo patrigno a un cumulo di ossicini rotti e che è sempre lui quello che mi ha chiesto di venire qui per sentirsi più libero.
“Hai mai fatto un pompino?”
In situazioni come questa ritengo che sia più conveniente mentire e sembrare sicuro di me invece che ammettere la verità.
“Sì, qualcuno.”
“Quindi è da molto che sai di essere gay.”
“Da un po’.” mento.
“Vorrei fare sesso con te.”
I suoi modi diretti mi lasciano per un secondo senza parole. Non sono abituato a persone che, oltre a me, sono così secche ed esplicite. “Adesso?”
Finalmente, si volta e mi guarda, gli occhi quasi nostalgici e tristi. Mi trovo a studiare la sua espressione con attenzione, cercando di capire veramente che cosa si cela dietro quel velo di amarezza. “Domani. Sarò qui alle undici."
Detto questo si alza senza degnarmi di uno sguardo e sparisce in casa. Dopo qualche minuto, lo vedo sbucare fuori dall’ingresso, le mani ficcate in tasca e l’andatura leggermente caracollante. Rimango ad osservarlo col cuore in gola: la mia opportunità di farlo fuori oggi è completamente scemata via. Pazienza, Sherlock.
Inaspettatamente, John si volta, gli occhi che nell’ormai semioscurità cercano i miei, e quando mi vede, alza semplicemente la mano in un semplice gesto di saluto che, contro ogni logica, mi lascia turbato. Mi costringo a ricambiare, ma questa strana inquietudine che vibra all’altezza del petto mi ha colto impreparato e ora non so come comportarmi. Lo guardo mentre si allontana e viene inghiottito dal buio della sera.
Domani. Alle undici. Sarò pronto. Lo aspetterò e lo ucciderò.
 
ESCAPE
Mi osservo allo specchio. Non mi sono mai piaciuto particolarmente: non so cos’è che di me attira le ragazze. Questa è forse una delle rare volte che prima di un’occasione del genere spendo così tanto tempo a studiare il mio riflesso. Nelle relazioni avute finora non mi è mai interessato particolarmente apparire al meglio di me, alla perfezione, eppure stamattina c’è qualcosa di diverso. Quando mi sono svegliato mi sono chiesto se fosse stato solo un sogno, ma con mio grande stupore ho scoperto che è tutto vero. Sherlock, il bacio, l’appuntamento…
Mi passo una mano in volto, sperando quasi di cancellare la mia faccia dalla mia stessa faccia. Non mi sento adatto. Non mi sento pronto. Perché diavolo gli ho chiesto una cosa del genere? Tra di noi c’è stato appena un bacio. Non che io stia cercando una relazione seria: non dopo la bastonata menata da Mary.
Avverto i passi di mia madre sulle scale – li riconoscerei ovunque – e infatti dopo poco la sua testa sbuca nella stanza, agghindata di tutto punto per uno dei suoi party con gli amici di famiglia, cioè di Tony, con i miei vestiti più eleganti tra le braccia. “John! John, mettiti questi e vai di sotto.”
“Perché?”
“La festa.”
Incrocio le braccia al petto e la guardo impassibile. “Non esiste. Te l’ho detto: sto uscendo. Harriet è uscita con le sue amiche, perché devo essere io quello ad obbedirti sempre?” Come se mi passasse per la testa di rinunciare al mio appuntamento con Sherlock per trascorrere una mattinata con Tony il coglione e la sua banda!
Faccio per superarla così da recarmi in bagno, ma lei mi sbarra la strada, i vestiti che si ergono dittatorialmente tra le sue braccia. “Ne abbiamo già parlato. Non ho voglia di discutere un’altra volta.”
“Mamma, non esiste.” ripeto cercando nuovamente di superarla, ritrovandomi però la sua figura davanti.
“Ti prego, amore, vorrei che ci fossi anche tu.” mi implora addolcendo la voce. “Fallo per me.”
Inarco un sopracciglio, infastidito da quell’ultima frase. Mi sforzo di ricordare quando lei ha fatto qualcosa di importante per me, qualcosa a cui io tenessi particolarmente, ma purtroppo nella mia testa ho solo ricordi di lei che vizia e coccola Harriet e i gemelli, mentre il mio ruolo si riduce a qualche faccenda di casa o all’emarginazione totale dall’allegra famigliola. Ciononostante, afferro i vestiti con uno sbuffo e mi affretto in bagno. Prima finisco con questa pagliacciata e prima arrivo da Sherlock.
Come volevasi dimostrare, il mio compito è quello di distribuire tartine. Fantastico, no? E pensare che ho quasi passato l’intera nottata a rigirarmi nel letto, immaginandomi ogni eventuale scenario di oggi con Sherlock… Che spreco di tempo. Arraffo quante più tartine posso, cercando di sopprimere la delusione col cibo, ma dopo poco la voce di mia madre mi sibila all’orecchio di far passare il vassoio e poi di mettere altre bottiglie di birra in frigo.
Quando arrivo in cucina con la pila di bottiglie tra le braccia, emetto un profondo sospiro. Infilo con aria assente due birre nel frigorifero, e quando chiudo l’anta mi rendo conto che nella stanza è appena comparso Tony.
“Tutto bene?”
“Vai via.”
“Tieni.” mi offre porgendomi la bottiglia di birra che tiene in mano. “Bevi questa.”
“Grazie.” rispondo forzatamente mentre accetto la bottiglia, poi lo supero, ingoiando un sorso, gli occhi persi in giardino. “Sono tutte stronzate. La tua vita è una stronzata.”
“Se la odi così tanto…” risponde lui avvicinandomisi. “…vattene. Sono serio, fai un favore a tutti.”
Mi allontano con espressione disgustata. Non posso credere che l’abbia appena detto. Lui ridacchia e esce nuovamente in giardino, i suoi occhi ferini che finalmente si distolgono da me, liberandomi. Mi volto e, ferma sulla porta della cucina, noto la figura di mia madre che mi guarda con rimprovero – perché, poi, non ne ho idea. Ha appena visto suo marito incoraggiare suo figlio a scappare di casa e lei non sta battendo ciglio.
Dimmi qualcosa, ma’.
Ma lei si gira e se ne va.
A volte, tutto sembra all’improvviso semplice: è come se tutto cambiasse in un istante. Esci dal tuo corpo, dalla tua vita, e capisci molto chiaramente dove sei. Ti vedi e pensi: fanculo questa merda. Ed è esattamente questo che mi frulla in testa mentre mi infilo il mio amato giubbetto di pelle marrone e lascio la casa come faccio ogni mattina per andare a scuola. Peccato che oggi è per sempre. Non tornerò più indietro. Non rimetterò più piede in questa casa. Per nessuna ragione al mondo.
Me ne vado a passo spedito, senza voltarmi, i piedi che imboccano meccanicamente le vie per arrivare alla casa di Sherlock. Una volta lì, busso insistentemente alla porta, forse con fare anche disperato, e urlo il suo nome. Dopo pochi secondi, lui arriva, una camicia viola che gli avvolge il petto snello e prestante. Lo fisso e avverto la voglia di inchiodarlo al muro e baciarlo. E lo faccio. Gli afferro i polsi e lo sbatto contro la prima parete a disposizione. Le nostre labbra s’incontrano, scatenando in me un mix di emozioni irrefrenabili, letali come un veleno. E’ diverso dal primo bacio che ci siamo scambiati. Le sue labbra, fuse nelle mie, ricambiano ogni mio movimento, ogni singolo scambio, in perfetta simbiosi. E la rabbia, la delusione, la tristezza, la rassegnazione, l’eccitazione mi mandano fuori di testa. Mi stacco col fiato corto e affondo il viso nel suo petto, respirando il profumo dell’acqua di colonia che si mescola al suo odore.
“Andiamocene di qui.” sputo ansimando.
“Cosa?”
“Sono serio: andiamocene da questa città di merda ora. Tu la odi, io la odio, i miei sono teste di cazzo e da come ho capito la tua famiglia non è da meno, e poi tu hai una macchina.”
“E’ di mio padre.”
“Che uno coglione.” Le mie parole sprofondano nel silenzio. “Io me ne vado, che tu venga oppure no, ci stai?”
Ti prego, di’ di sì.
“Sì, okay.”
Il mio cuore perde un battito nel momento stesso in cui Sherlock pronuncia queste parole. Mi volto di scatto, convinto che mi seguirà, e riapro la porta d’ingresso che nella foga si è richiusa. Vicino alla macchina, intravedo la figura di un uomo sorridente, forse un po’ in là con gli anni, con in mano una busta di plastica che sfoggia come un trofeo. Sherlock gli si avvicina, una maschera d’indifferenza calata in volto, e gli sferra un brutale cazzotto in piena faccia che lo stende a terra, privo di sensi. Rivolgo una breve occhiata a quell’uomo all’apparenza così sereno e gioviale, ma non c’è tempo per i ripensamenti. Sherlock recupera le chiavi e apre la macchina così che possiamo infilarci dentro e partire il più velocemente possibile.
Il motore tossicchia appena, probabilmente è vecchio, ma dopo alcuni istanti siamo in movimento, le ruote che inghiottono l’asfalto delle stradine del quartiere. “Sei spaventato?” gli chiedo affondando comodamente nel sedile.
“Non lo so. Forse un po’.”
“Io no.” confesso con un sorriso, ma non per sembrare più figo o cosa, solo perché è la verità. Essere qui, insieme a Sherlock, m’infonde una sensazione di pace e serenità. Con lui mi sento protetto, al sicuro, lontano dai problemi. Lo conosco da un fottuto giorno eppure lui ha deciso di gettarsi con me in questa disperata fuga. La mia mano raggiunge quella di Sherlock, stretta attorno al cambio. I nostri occhi si incontrano per qualche istante e una strana sensazione viscerale mi smuove interiormente. Sherlock è qualcosa. Non ho ancora ben chiaro cosa. Ma sento che presto lo scoprirò.

SPAZIO AUTRICE
Salve a tutti/e! Se siete arrivati fin qui, complimenti, siete coraggiosi! Ho da poco avuto il piacere di guardare la serie The end of the f***ing world e confesso che inizialmente ho pensato: "ma perché?" Tempo un episodio e mi sono innamorata. Poi, la fatale immaginazione e l'altrettanto fatale domanda: e se... Così è nato questo crossover disagiatissimo che spero possa piacervi. Ho intenzione di sviluppare la storia in otto capitoli così come otto sono gli episodi della serie tv, ma non so ancora se riuscirò a fare qualcosa di così professionale visto che sono una disagiata (quante volte ho ripetuto questa parola nel corso di tipo tre righe?) Bene, sto delirando, ma visto che sono in vena di progetti vi comunico: indicativamente saranno otto capitoli (sì, hanno capito, puoi muoverti?), usciranno ogni domenica (scuola permettendo), ogni capitolo sarà diviso tra il punto di vista di Sherlock e quello di John, e la storia seguirà solo inizialmente la trama di The End of the f***ing world, poi i nostri picciolini spiccheranno il volo in autonomia. Spero che l'idea e la fanfiction possano piacervi, mi scuso da subito poiché sono sicura che probabilmente avrò delle difficoltà a pubblicare regolarmente dato il ritmo di Maggio e vi aspetto al prossimo capitolo. Ciao! (Era ora...)
   
 
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