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Autore: Rossella Stitch    11/05/2018    4 recensioni
Uno squarcio nel passato di Lena, un piccolo salto nel tempo per capire quello che è stato e cosa l'ha portata ad essere la donna che tutti noi, attualmente, conosciamo ed amiamo. Un personaggio fiero, intelligente, una donna carismatica che - nonostante tutto - porta sulle spalle il peso di una vita vissuta intensamente.
Una personale interpretazione del vissuto di questa magnifica donna che sfocerà poi nell'incontro, nell'amicizia e si, nell'amore che la legherà per sempre a Kara.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Kara Danvers, Lena Luthor, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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THIS IS ME
 







 
I am not a stranger to the dark
Hide away, they say
'Cause we don't want your broken parts
I've learned to be ashamed of all my scars
Run away, they say
No one'll love you as you are
But I won't let them break me down to dust
I know that there's a place for us
For we are glorious
When the sharpest words wanna cut me down
I'm gonna send a flood, gonna drown them out
I am brave, I am bruised
I am who I'm meant to be,
 this is me!

THE GREATEST SHOWMAN, SOUNDTRACK





 
 
D’istinto, qual è la prima cosa che una persona fa quando rompe un oggetto?      
Lo getta via.

Fa parte della natura umana tentare di resettare, nella convinzione che a tutto si possa dare un nuovo inizio, una nuova storia, un nuovo cammino da perseguire.      
Se un vaso accidentalmente si rompe, schiantandosi con un sonoro crack in terra, il primo istinto è quello di raccoglierne i cocci per poi gettarli via nella pattumiera. Raccogliere i cocci per poi tentare di riassemblare il vaso… quella è azione di pochi.

Ma la chiave di tutto è nascosta proprio in quell’azione che appartiene a pochi.  
Un vaso che va in mille pezzi, una corda che si sfibra fino a spezzarsi, un tessuto che si lacera, un cuore che va in frantumi, lembi di pelle corrosi da lesioni, occhi velati dalle ombre più oscure.
Gettare via, accantonare, rimpiazzare soltanto perché qualcosa è danneggiato è un gesto definitivo. Dal quale non si può tornare indietro una volta compiuto e che spesso si compie con la convinzione di essere nel giusto, sperando di poter avere poi tra le mani qualcosa di migliore, di degno ed integro.

D’altro canto però, non esisterebbe storia senza danno e non esisterebbe danno senza vissuto.   
Come una grande arazzo composto da centinaia di fili intrecciati, così la vita di ognuno di noi rappresenta l’insieme di storie, cammini ed esperienze. Tutte portatrici di insegnamenti. Ma nessuno ha mai imparato nulla senza sentirne dentro il peso di quegli insegnamenti. Un peso che fa male, che a volte brucia, che può graffiare, che spesso si deposita nell’animo e rimane in silenzio, tacito e presente. Sommesso e incessante nel suo esistere. E grava, stringe, strappa, morde, urla, si dimena… danneggia.

Un peso che si alimenta di emozioni, di azioni, di intenzioni. Che rappresenta l’essenza di ognuno di noi e di cui dovremmo andar fieri sempre, a prescindere i danni arrecati.

Le cicatrici che raccontano i danni subiti negli anni però, spesso narrano di storie che vogliono tenersi in disparte, nascondendosi al meglio che possono sotto strati di pelle, maglioni spessi, camicie inamidate, sorrisi smaglianti e sguardi sfuggenti. Nessuno vorrebbe servire sé stesso su un piatto d’argento, donandosi agli altri in maniera incondizionata. Nessuno.

C’è chi si prende cura delle proprie cicatrici invece, mostrandole e raccontandone le storie di ognuna soltanto a chi dimostra di aver davvero voglia di ascoltare.          
Chi non vuole farle vedere neppure ai propri occhi, ritrovandosi a maledire il proprio riflesso. E non importa se quel riflesso sia stato catturato da uno specchio o da un altro paio di occhi, l’odio rimane.
Ci sono quelli che le trascurano, le proprie ferite, tanto da renderle infette. Un’infezione che brucia, che dilania, sfinisce. Un dolore che non si riesce a sopportare se non alimentandolo con altro dolore. In quel caso non ci sono cicatrici, null’altro se non carne viva, pulsante, rossa e sanguinante.

E poi c’è chi fa finta di niente.         
 Chi non si nasconde e non tace. Chi non teme più il giudizio perché dopo anni di negazione ed autosabotaggio alla fine abbraccia con fierezza le proprie cicatrici, cosciente che ognuna di esse rappresenta un pezzo di vita, di speranza, di emozione e di lotta. Consapevole, alla fine, che le cicatrici sono il simbolo di una vita vissuta sulla pelle, identificandoci per quello che siamo: unici ed irripetibili.

La prima cicatrice è quella che si ricorda per sempre, un po’ come il primo amore.           
Ci si prende cura del suo ricordo, anche un po’ con tenerezza alle volte, perché in essa si ritrova un passato che oramai non fa neppure più male, ma che non si vuole dimenticare. Questo Lena lo sa bene, perché di cicatrici ne ha tante, troppe. Tutte che raccontano una parte del suo passato, tutte di diversa profondità, ma tutte rigorosamente indimenticabili.

Si chiama ‘famiglia’ la sua prima cicatrice.  
All’inizio soltanto un piccolo graffio, quasi indolore e privo di significato. Ma il tempo è un bastardo masochista, si sa, e pian piano quel piccolo insignificante graffietto si è trasformato in un foro. Un piccolo squarcio quasi invisibile ad occhio nudo, purtroppo però dolorosamente profondo e dilaniante.     
Una decina d’anni fatti di discussioni, minacce, complotti e qualche tentato omicidio dopo, alla fine però aveva accettato la realtà: era lei la sua unica famiglia. Le uniche braccia che l’avrebbero accolta e l’avrebbero amata erano le sue. Le uniche orecchie che avrebbero ascoltato ogni sillaba erano le sue. L’unico conforto lo avrebbe tratto dall’amor proprio. Ed amare sé stessi non è impresa facile. Lena ne è consapevole.

La prima volta che si è resa conto di non amarsi abbastanza aveva 15 anni.          
Molti sogni nel cassetto, troppa rabbia repressa e fin troppo poco amore nella sua vita. E per una persona affamata d’emozioni la ricerca di queste ultime è estenuante, qualcosa che ti sfinisce fin nel profondo. Prima di incontrare Malcolm, Lena non credeva di esser così bisognosa di attenzioni, di affetto e di emozioni sincere.        
Ma si sa, le superiori restano sempre le superiori, anche se il liceo in questione è uno degli istituti privati più costosi d’America e anche se lo Stato ti riconosce come secondogenita dei Luthor. Non cambia il frenetico bisogno di accettazione che contraddistingue ogni adolescente, tanto meno il bisogno impellente di ribellione che tutti sentono a quell’età. Lena, a discapito di ogni aspettativa, era una tipica adolescente che a causa del laboratorio di fisica si prese una cotta per il compagno di banco.

Malcolm era tutto quello che una ragazza per bene potesse mai desiderare. Era piacente, sportivo, discretamente intelligente e soprattutto divertente, il che non guastava di certo. Capitano della squadra di basket e di scacchi, aspirante Re del ballo – il più giovane mai eletto da decenni in quell’istituto – e sogno proibito di ogni matricola. Tutto questo racchiuso in un unico essere umano.   

Tutto molto sorprendente per una quindicenne Lena. Una stacanovista, puntuale, lige al dovere e perfetta in tutto quindicenne Lena.

E così Malcolm e Lena da vicini di banco diventarono amici, confidenti e poi amici che si piacevano. Finché un giorno d’Aprile il ragazzo non le porge un cioccolatino e le chiede di uscire.        

Sette mesi di parole dolci, di baci rubati, di promesse e gesti romantici. E giacché la situazione era già di per sé molto da romanzo rosa, ci si aggiunse anche un invito a cena a casa dei genitori di lei.
“Vogliamo conoscere questo giovanotto, Lena. E’ inammissibile che abbiamo scoperto di questa frequentazione grazie a tuo fratello. Venerdì alle sei e trenta. Ceneremo tutti insieme.”    
Memorabile l’eccitazione che si poteva scorgere dalle parole di Lilian Luthor quel giorno, tanto memorabile che Lena ne ricordava ancora l’ingombrante assenza.

Sette mesi che collassarono gli uni sugli altri come un mucchio di carte che fino a poco prima formavano un castello. Collassarono due giorni dopo la fatidica cena, in un pomeriggio di studio.
“Credo che le cose si stiano facendo un po’ troppo impegnative Lena. Non è colpa tua, è che…. Non voglio vivere niente di complicato, non a quindici anni.”  
A quel complicato, Lena sentì nitidamente un punto indefinito nel suo corpo lacerarsi. Come un bisturi che con prepotenza si immerge nella carne viva e taglia. Non sapeva dove fosse collocato quel taglio, ma sapeva che sanguinava. E bruciava. E faceva un male bestiale.

“P-possiamo rallentare se vuoi. Io non ci vedo nulla di complicato, vedo solo te che vuoi lasciarmi. Se ho fatto qualcosa di sbagliato o che ti ha lasciato intendere altro… mi dispiace.”   
Quel se ho fatto qualcosa di sbagliato, poi le fece capire che no, di sicuro Malcolm non l’amava abbastanza. Ma lei stessa ancora meno.


 
                                                                                                          ***


A diciassette anni arrivò la sua prima grande soddisfazione, la vittoria del campionato nazionale di scacchi. Lena Luthor, prima ragazza nella storia del liceo INFUS a conquistare la coppa nazionale. Quella coppa, tutt’ora lucida e aitante nella vetrina del suo ufficio, le ricordava come soltanto otto anni prima era riuscita a procurarsi uno di quei tagli che assomigliano quasi a squarci. Lì, nel petto, dove aveva sempre creduto risiedesse la sua anima, seduta di fianco al cuore a tenergli compagnia.

“L’anno prossimo finirai il liceo e non sei ancora stata in grado di portare a casa alcun risultato soddisfacente. Tuo fratello alla tua età era già molto di più di quanto tu potrai mai anche solo sperare di essere. Tanto vale andare in un college qualsiasi se l’unica cosa che vuoi fare è divertirti.”
Eh si, la memorabile spinta motivazionale di papà Lionel era stata importante per Lena, tanto importante da decidere di voler lottare per il primo posto al campionato nazionale di scacchi. Tanto importante che durante le regionali il suo team la soprannominò ‘regina di ghiacci’. Insomma, un nome adatto  ad una campionessa di scacchi tutta studio, dovere e niente emozioni.

Le regionali, le provinciali e alla fine le nazionali, tutte tappe che avevano permesso alla regina dei ghiacci di sfoderare le sue armi migliori, tutta la sua intelligenza e si, anche qualcosa in più.            
La sera prima del grande giorno si riunirono tutte le squadre nella hall dell’hotel per festeggiare. Seduti chi per terra e chi sui divani in pelle, tra un gioco di società e un sorso dalla fiaschetta di contrabbando alla fine Lena sedette di fianco a Finn. La specie oramai la conosceva, niente di diverso da Malcolm o da altri che negli anni a seguire le erano andati dietro. Lena sapeva cosa fare per estorcere a Finn ciò che le serviva per incastrarli, così dopo il terzo sorso di vodka decise di entrare in azione.

“Ehi Finn, vieni. Vorrei mostrarti una cosa.” Il richiamo fu veloce e Finn, da bravo, accorse.      
Fu un quarto d’ora avvincente per certi versi, per altri straziante.   
Riuscì a capire per la prima volta il senso di tutti i pettegolezzi che si aggiravano nello spogliatoio delle ragazze durante l’ora di ginnastica. “Non capisco perché gli venga da parlare durante..” Sussurrava sempre Jennifer. “Lo giuro, quando accade gli viene da starnutire e io non so mai cosa fare.” Borbottava divertita Fiona del secondo anno. E poi c’era la sua preferita, quella che ogni volta che l’ascoltava le faceva infilare la testa nell’armadietto per evitare di farsi scoprire dalle altre in preda ad una ridarella convulsiva. “Tocca lì come se stesse schiacciando un bottone. Non è che se ci spingi su come un campanello io vengo prima.”     
Dopo Finn, una volta ritornata a scuola alla fine della competizione, era riuscita a capirne sfortunatamente la metafora.

Quando conobbe Andrea però, al primo anno di college, Lena capì che le cose si stavano mettendo davvero male per lei e che nessuna cicatrice sarebbe stata più difficile da accettare quanto quella.
L’MIT l’aveva accolta con una lettera di benvenuto clamorosa, felici più che mai di accettare una studentessa modello proveniente da uno dei licei migliori del paese. Cambridge era carina, diversa da Metropolis ma sicuramente allettante. E nonostante la sua natura schiva e introversa, era addirittura riuscita a fare amicizia con la sua coinquilina, Alice, una piccoletta tutto pepe che nel giro di poche settimane era riuscita ad inglobarla a tempo indeterminato nella sua comitiva di amici.         
  
Era seduta al solito posto, vicino allo stesso scaffale con attorno sempre i soliti mattoni di libri quando vide Andrea per la prima volta. Capelli mossi di un intenso ramato, altezza media, spalle larghe e un fisico decisamente differente rispetto alla norma. Era bella Andrea, con il naso affondato tra le pagine di meccanica quantistica e le gambe che molleggiavano incessantemente anche se la ragazza trascorreva ore seduta.

“Se continui di questo passo finirai per sfondare il pavimento un giorno o l’altro.” Esordì Lena una sera, presa da un atto di coraggio assolutamente immotivato. Ma dopo settimane di attenta osservazione ed analisi oramai era decisa: voleva conoscere quella ragazza.

“Quindi tu parli!” Le rispose quindi la giovane, alzando gli occhi e mostrandoli per la prima volta a Lena. Grigi. Profondi. Veri. “Iniziavo a temere che avresti trascorso l’intero semestre a spiarmi da lontano.”

A quelle parole la schiena di Lena si raddrizzò di scatto, colta in flagrante ma per niente intenzionata ad ammetterlo. “Non sono mica una stalker, non spiavo nessuno. Neppure ti conosco.” Rispose quindi, stringendo convulsamente la matita tra le dita e obbligando i suoi occhi a guardare altro.

“Woah Woah, frena tigre!” esclamò sbalordita l’altra, alzando le mani in segno di resa per poi scoppiare a ridere divertita. “Non ho detto mica che non mi facessero piacere i tuoi occhi addosso.” Continuò poi, spostandosi dalla scrivania facendo stridere il legno della sedia sul marmo del pavimento. Perfetta nei suoi pantaloni neri, stivaletti borchiati e camicetta bianca, si avvicinò a Lena con sicurezza, allungandole la mano con eleganza. “Sono Andrea, piacere.”

“Lena Luthor.” Si ritrovò a rispondere meccanicamente la mora, alzandosi a sua volta così a caso ed allungando la mano per stringere quella di Andrea. “Piacere mio.”

Andrea era imprevedibile.     
Straordinariamente intelligente, buffa e così… donna. Un tipo di donna che non aveva mai incontrato prima, una di quelle donne consapevoli del loro fascino e della loro potenza, capace di farti ammutolire con un solo sguardo e allo stesso tempo capace di metterti a tuo agio con una parola.

Baciare Andrea divenne un bisogno che iniziò a bussarle dentro, violentemente e senza sosta, sin dalla loro prima chiacchierata. Ma non importava, non poteva far si che diventasse qualcosa di importante. Così buttava giù, inghiottendo giorno dopo giorno bocconi saturi di passione repressa e negazione. Non voleva, non doveva e non capiva soprattutto perché adesso. Andrea era una donna, come tante altre donne e lei aveva avuto amiche donne nella sua vita, conosceva tante donne e nessuna le aveva mai fatto l’effetto che le faceva Andrea. Quindi il problema non era il suo desiderio inespresso, ma Andrea. Era Andrea, soltanto Andrea.

“Andrea?”

“Si?” Rispose pacatamente l’altra, il viso incollato al tomo di fisica e le gambe che saltellavano sul posto come di consueto. I capelli mossi intrecciati morbidamente, le labbra carnose tumefatte dai morsi che si autoinduceva senza pensarci durante lo studio, le guance rosse dal caldo e quella spruzzata di lentiggini su tutto il viso che la rendevano sempre così curiosa agli occhi di Lena. Era bella.

“Secondo te le persone possono cambiare i propri gusti all’improvviso?” Le domandò furtiva la mora, poggiando la matita tra le pagine del libro e incrociando le braccia al petto.

“Studi sostengono che l’essere umano cambia i propri gusti ogni sette anni a causa di un’evoluzione del nostro corpo.” Rispose con noncuranza Andrea, senza staccare gli occhi da ciò che stava leggendo. “Quindi direi di si. Perché, stamattina ti sei svegliata e hai finalmente compreso che quelle brodaglie che ti ostini a chiamare infusi non sono altro che brodaglie?” Continuò, alzando adesso gli occhi per guardare l’altra. “O mio Dio hai iniziato a bere caffè!” Esclamò poi entusiasta, conscia di aver alzato un po’ troppo il tono di voce e loro erano in biblioteca.

“Non sono mica impazzita.” Rispose impettita la mora, guardando dritto di fronte a sé, cercando il coraggio per aprirsi all’altra. “E’ che… credo di avere qualcosa che non va? Ok, non lo so. Non ti è mai capitato di trovarti dinanzi ad una situazione e non capirci nulla?”

“Tesoro, a cinque anni speravo che Sailor Mars prendesse davvero vita e mi portasse con lei per sempre. A dodici avevo in camera il poster di Willow e Tara appeso a mo di crocifisso di fianco al letto e a quindici mi sono iscritta al primo social club LGBTQ+ della mia città. Direi che ho affrontato parecchie situazioni che necessitassero di accettazione, non credi?” Si ritrovò a rispondere Andrea, con la solita tranquillità segretamente invidiata da Lena.

Dopo qualche minuto di trans, Lena puntò gli occhi fissi in quelli dell’altra e fece per parlare. Ma per la prima volta in diciannove anni di vita dalla sua bocca non uscì alcun suono. Un momento rimasto negli annali a detta di Andrea.

“Lena.” Si ritrovò a pronunciare lentamente Andrea, come quando un adulto si approccia ad un bambino nel tentativo di spiegargli qualcosa. “Frequento l’MIT, vuoi che non abbia capito cosa ti turba sin dal primo momento in cui ti ho vista?” Continuò. “Non ne ho mai parlato semplicemente perché credevo non fossi pronta, ma se siamo qui a parlarne evident-“

“Devo andare!” Esclamò quindi Lena, interrompendo bruscamente il soliloquio di Andrea e raccattando molto velocemente le sue cose. Voleva lasciare quanto prima quella sala studio, magari con l’intenzione di non metterci mai più piede. Voleva tornare in camera, rinchiudersi nelle mura della sua stanza e riflettere.

“Lena, avanti.” Tentò di richiamarla Andrea, alzandosi dalla propria postazione e cercando di fermarla mentre lei riponeva i libri nella borsa. “Puoi fidarti di me. Non rendere ancora più complicata una situazione che già di per sé non è semplice per nessuno.”

A quelle parole Lena si bloccò d’improvviso. Lentamente alzò lo sguardo infuocato verso l’altra, trafiggendola con una sola occhiata. “Non permetterti di psicoanalizzarmi.” Esclamò con furia puntandole il dito contro. “Tu non sai niente di me, assolutamente niente. Non mi conosci e solo perché ti ho dato delle attenzioni non significa che tu abbia il diritto di credere che ci sia qualcosa che ci lega. Tu non mi conosci e noi non siamo niente. Niente!”

“Allora se non siamo niente, fermami.” Esclamò autoritaria Andrea, aggirando velocemente il tavolo da studio e strattonando Lena, tirandola a sé per non farla scappare. “Fermami!” Sussurrò ancora ad un centimetro dalle labbra di lei, prima di immergersi in quello che per entrambe era un bacio da troppo tempo desiderato.

Lena tentò di retrocedere, ma le braccia ferme di Andrea incrociate dietro la sua schiena non glielo permettevano. Strinse violentemente i pugni e fece lo stesso con gli occhi, nella speranza che opponendosi fisicamente sarebbe riuscita a far opporre anche il suo cervello e il suo stomaco. Strinse i pugni e iniziò a picchiare forte sul petto dell’altra, fin quando Andrea non dischiuse le labbra e il sapore fruttato di lei non travolse Lena. Irrimediabilmente. Drasticamente.          
E senza accorgersene aveva iniziato a ricambiare il bacio, instaurando una sensuale lotta al predominio. Le mani, fino ad allora chiuse a pugno sul petto di Andrea, si rilassarono andando ad infilarsi nell’ammasso di capelli rossi dell’altra, iniziando a tirare per spingersela addosso.

“N-on possiamo.” Si ritrovò a sussurrare Lena nel bacio, bloccata però dalla foga dell'altra che, ad ogni secondo che passava, cercava sempre di più il corpo della mora. “Non pos-“ Cercava di fermare tutto ciò, di allentare la presa, ma non riusciva. O non voleva.

“Andy” Esclamò affannata dopo qualche minuto, le mani ad avvolgere il volto bordeaux dell’altra e le fronti a contatto. “Io non posso.” Affermò di nuovo, cercando gli occhi limpidi di Andrea.

Aveva sempre le mani fredde, Lena le ripeteva spesso che non poteva avere le mani fredde anche in piena primavera. Ed anche in quel momento Andrea notò, in contrasto con le mani dell’altra così calde e sudate, di averle fredde. Afferrò le mani di Lena poste sul suo volto, imitandone la posizione. La guardò un’altra volta negli occhi e poi trascinò le loro mani verso il basso, per liberarsi.

“Nessuno vale più della tua felicità, ricordatelo.” Disse con fermezza, lasciando poi le mani di Lena e indietreggiando di qualche passo. “Sei molto più di quello che credi Lena e prima o poi dovrai affrontarlo.”

Guardare Andrea andare via, mettere a posto le sue cose ed uscire dalla sala studio era stato devastante.          
Quella sera, da quella biblioteca, oltre ad Andrea era andata via anche una parte di lei.   
E lei non aveva fatto assolutamente nulla per fermarla.

Quella cicatrice, nonostante gli anni, non poteva negarlo: era ancora incredibilmente sensibile.


           
                                                                                                         ***


 
Laurearsi a soli ventun’anni in ingegneria chimica all’MIT, per di più proclamata migliore del suo anno, fu per Lena fonte di inestimabile soddisfazione.
L’università le aveva permesso di conoscere sé stessa, incentivandola ad inseguire i suoi sogni ed iniziare a credere davvero nelle sua capacità. Oramai donna, se ripensava agli anni precedenti vissuti in quel luogo, non poteva fare a meno di rivolgere un sorriso compassionevole alla ragazza introversa ed insicura che era stata. Per molto tempo aveva indossato un vestito fatto di timori, rancori ed un bel po’ di codardia. Ed anche se a poco più di vent’anni già poteva vantarsi di avere quasi tutta sé stessa marchiata da numerose cicatrici, per fortuna aveva imparato ad accettarle, ad accudirle con delicatezza. Quegli anni a Cambridge le avevano permesso di ritrovarsi – o forse di incontrarsi davvero per la prima volta – come quando incontri fisicamente una persona dopo tanto tempo nel quale ne senti parlare. Per tutta la vita erano stati gli altri a dirle chi fosse, a dettare legge sulla sua persona e ad inondarla di aspettative che non la rappresentavano affatto.   
Ma poi – un po’ per volere e un po’ perché costretta dalla vita – aveva capito di dover lavorare sulla sua persona. Doveva farlo. Lo doveva ad Andrea, a tutte le occasioni mancate, a tutte le esperienze che si era lasciata scivolare tra le dita e a tutte le emozioni che non si era permessa di provare a causa di chissà quale ridicola convinzione. Lo doveva alla Lena che sapeva di essere, ma che non aveva mai avuto la forza di mostrare.

Ma prima… prima bisogna fare decisamente un passo indietro.

“The struggle ends when the gratitude begins.”

La targa in marmo situata all’entrata della comunità di supporto LGBTQ+ del campus recitava quelle parole. Sfondo bianco e scritta oro. Non aveva la minima idea di chi le avesse pronunciate ed onestamente poco le importava, ma per una persona che trovava per la prima volta il coraggio di presentarsi in un gruppo di supporto… beh, sicuramente rappresentava una frase ad effetto.

“Ciao, io sono Leo, molto piacere.” L’accolse un ragazzo non appena si ritrovò a varcare la soglia del plesso. “Sei nuova da queste parti? Oh, io amo i volti nuovi. Vieni…” continuò poi il ragazzo, con un entusiasmo e dei modi che la portarono all’esasperazione in un nanosecondo.

“Ragazzi, lei è Lena. Secondo anno di ingegneria chimica e beh, nuova nel settore.” La introdusse Francisco alla prima riunione a cui aveva preso parte, una riunione molto più simile ad un incontro con il proprio gruppo di studio e che miracolosamente riuscì a non metterla a disagio.     
Furono un paio d’ore interessanti, nonostante la sala che ospitava il gruppo non fosse molto grande e lei fin troppo schiva. Sedette per tutto il tempo su una seggiola nera pieghevole, in fondo alla sala. Braccia incrociate sotto al seno e gambe elegantemente accavallate, mentre con occhio critico osservava due ragazzi su un palchetto posto dall’altra parte della stanza che parlavano della storia dell’orgoglio gay.

Quel giorno scoprì che la comunità LGBTQ+ aveva una storia, un passato, un vissuto. E come lei, fin troppe cicatrici. I due giovani parlavano di diritti, di uguaglianza, di potere e di orgoglio, facendo riferimento ai moti di Stonewall di cui lei non conosceva praticamente nulla. Ma tornata in camera, la stessa sera dell’incontro, non ci pensò un solo attimo prima di aprire il computer e cercare informazioni a riguardo. Sui moti e molto altro, tanto da trascorrere l’intera notte attaccata allo schermo del pc, affamata di sapere la storia di tutti coloro i quali negli anni si erano battuti per la libertà e le pari opportunità. Per quei diritti, che d’altronde, erano anche i suoi.


      
                                                                                                          ***


 
“Il nostro paese sta conoscendo tempi tristi, affamati di guerra e di potere. I cui soldati dimostrano la loro pace a suon di spari e di tortura.” Esclamò Lena, voce piena e sguardo fiero mentre si ergeva in tutta la sua bellezza sul palco del suo primo Pride come organizzatrice. Le era stato chiesto di fare un discorso. Perché una donna bella, intelligente, bisessuale e soprattutto ricca non solo fa paura, ma fa anche notizia. Ed essendo membro attivo della comunità LGBTQ+ dell’MIT da più di un anno, per sé stessa e per i suoi compagni aveva accettato di buon grado.

“"E poi ci siamo noi, i soldati dell'amore. Io ci chiamo simili.” Continuò, avvicinando la bocca al microfono ed aprendo le braccia per indicare tutti i suoi compagni disposti in massa dietro di lei. “Milioni di occhi di colore diverso che si studiano ed hanno paura, milioni di nasi che si annusano guardinghi, milioni di bocche che sussurrano parole dolcissime in tutte le lingue del mondo ma, tutti si capiscono. Tutti cercano di darsi una mano mentre intorno cercano di darcele di santa ragione.” Ringhiò con forza le sue parole Lena, guardando in viso ogni persona della folla ai suoi piedi che riusciva a catturare il suo sguardo. Sicura come non lo era mai stata, orgogliosa e potente come una leonessa. “Liberi di essere diversi ma concentrati per rimanere insieme, trattenendo le lacrime e le risate, combattendo a colpi di carezze e sguardi incoraggiati dalla protezione reciproca, mai vinti dall'odio e contro tutto e contro tutti si uniscono per le mani. E non esistono altari, altezze e colori.
Solo un progetto in comune: darsi lo slancio che serve per stare insieme su questo prato per andare a vedere cosa c'è oltre.”*

Lo scroscio di applausi ed urla che emersero dalla folla alla fine del suo monologo, gli abbracci dei suoi amici e fratelli che seguirono le sue parole e le decine di chiamate perse da parte di suo padre che vennero accumulate nel suo cellulare, diciamo che le fecero capire che di notizia ne aveva fatta. Ed anche tanta.

Era stato difficile accettare l’idea di amare gli uomini tanto quanto le donne. Difficile capire che non è certamente chi ci si porta a letto a definire la propria identità. L’essere umano, che possa essere gay, bisessuale, lesbica, trans o qualsiasi altra etichetta possibile, è nato per sopravvivere. Si perpetua nel tempo grazie alla sua capacità di adattamento rispetto ai cambiamenti nei quali è costantemente immerso. E tutto questo – anche se infondo lo aveva sempre saputo – lo aveva interiorizzato per davvero grazie all’esperienza, alla comunità e alle persone che nel tempo le avevano permesso di entrare in contatto con decine di storie anche più difficili della sua, ma che per fortuna come la sua avevano trovato un lieto fine nell’amore e nell’accettazione.

Si chiamava Max, la sua accettazione. Una splendida ragazza francese conosciuta grazie ad un progetto di intercultura e con la quale aveva avuto modo di rispolverare un po’ del suo arrugginito francese. Una buona occasione per poter sfruttare uno dei pochi benefici dell’essere una Luthor.

Maximilien Marie Marat era stata il suo primo vero amore, di quelli che ti bruciano dentro come fosse fuoco liquido, che ti marcia nello stomaco ad ogni sfiorarsi di dita e che ti accende di passione cieca ad ogni bacio rubato.     
Ricordava tutto di Max, dai lunghi capelli biondi agli occhi color del caramello, alle mani longilinee e delicate tipiche di un passato da pianista. La voce sottile ed armoniosa che le strappava sempre un sorriso quando non riusciva a pronunciare nel modo giusto alcune parole inglesi, ai sospiri caldi e seducenti che si infrangevano nei suoi capelli corvini quando la possedeva con ardore fino a notte fonda. Era sempre una scoperta con Max ed ogni momento vissuto con lei lo custodiva prezioso nel suo cuore.

“Voglio una compagnia tutta mia un domani, qualcosa da poter gestire a modo mio e che mi potrà aiutare a fare del bene.” Si ritrovò un giorno ad esclamare una appena ventunenne Lena, avvolta da lenzuola bianche fin troppo stropicciate e con indosso il saturo odore del sesso. “Voglio fare la differenza.”

“Secondo me tu la fai scià.” Le rispose Max, il viso poggiato sul petto nudo dell’altra ed  il corpo immacolato baciato dai riflessi di un timido sole autunnale.

“Beh si, lo so che sono già ricca di famiglia, ma questo non significa nulla. Voglio poter fare la differenza per conto mio, essere… avere un nome mio.” Sottolineò con vigore Lena. “Non voglio essere soltanto una Luthor.” continuò, sospirando piano.

“Je connais la chanson, chérie.**” La sbeffeggiò bonariamente Max, consapevole delle insicurezze dell’altra donna e soprattutto conscia di quanto quei dubbi fossero infondati. “Scarai una donna in carriera al scento per scento Lena, vedrai. Non sc’è nessuno come te, fidati.”

E Lena si fidò. Tra le braccia della donna che in soli pochi mesi le aveva mostrato il vero significato dell’amore, lei si fidò.   
Si fidò perché Max non si era mai tirata indietro, rimanendole fedele nonostante la sua famiglia, nonostante il suo carattere particolare, nonostante le sue insicurezze che si portava dietro da una vita e nonostante i suoi sogni, che di giorno in giorno diventavano sempre più grandi e sempre più reali.

Tanto reali e tanto ingombranti da non permetterle di avere spazio per altro se non per il lavoro. E quando sei una donna laureata in procinto di investire per la prima volta su una società, tutto il resto non ha poi così tanta importanza. Non ha più importanza il perpetuo melodramma familiare che probabilmente avrebbe sicuramente avuto un triste epilogo e neppure gli amici, quelli fidati ai quali si erano fatte tante promesse. Niente ha più importanza dell’ambizione, neppure l’amore.

A ventitré anni, con una carriera promettente e moltissima fame di successo, Lena non aveva calcolato l’eventualità di altre cicatrici. Eppure, quando una sera – rincasando dopo il lavoro -  trovò parte dei cassetti dell’armadio vuoti e l’appartamento completamente sgombro degli effetti personali di Max, Lena capì che non avrebbe smesso molto presto di soffrire. E quello no, non lo avrebbe accettato mai.

Non avrebbe accettato altro dolore, altra gente che arrivava nella sua vita così dal nulla, usufruendo di lei nel modo che ritenevano più adeguato per poi gettarla via come un giocattolo rotto quando si sarebbero stancati di lei.   
Lei non era un giocattolo, i suoi ingranaggi non erano rotti e nessuno avrebbe mai avuto più il permesso di possedere niente che le appartenesse. Voleva essere sua e sua soltanto. Appartenere a sé stessa, contava solo quello. E il lavoro ovviamente.

Un lavoro che diventò l’occasione della vita quando dai giornali venne a scoprire che suo fratello Lex era stato arrestato. La Luthor Corporation in bancarotta, la famiglia apparentemente indebitata fino al collo e i suo genitori che probabilmente non erano riusciti ad espatriare soltanto perché frenati dall’ultimo brandello di dignità che ancora possedevano.

 “Susy, puoi organizzare un intervento con l’ufficio stampa cortesemente? Avrei un annuncio importante da fare.” Esclamò con fermezza Lena. Accomodata nell’ufficio della sua piccola compagnia di ricerca, aveva appena firmato i documenti che l’avrebbero ufficialmente resa una delle donne più potenti d’America. Firmando quei documenti era finalmente riuscita a rendere realtà il suo sogno più grande.

Era nata la L-Corp. L di Lena, non di Luthor.
 
 
 
 
*Discorso tratto dall'intro del Simili Tour di Laura Pausini.  
**Traduzione: "conosco la canzone, dolcezza"



 
 
NOTE AUTRICE:
Salve a tutti, buongiorno e se state leggendo queste note vuol dire che siete arrivati sino alla fine della prima parte di questa mini long. Per cui grazie, davvero grazie per aver dato una possibilità a questo mio nuovo, piccolo progetto.      
Questa prima parte riguarda espressamente il passato di Lena. Ho cercato di immaginare come poteva essere stata la sua vita prima di arrivare ad essere la donna che tutti noi amiamo nello show e ho immaginato molto naturalmente una serie di eventi che poi ho trascritto.   
Ovviamente nella seconda parte sarà tutto molto più ‘attuale’, il che prevede anche l’entrata in scena di Kara e del rapporto Supercorp che ho elaborato in un modo molto personale.          
Come al solito vi invito a darmi un vostro parere, soprattutto perché è davvero tanto che non pubblico qualcosa e sapere che i feedback ci sono mi farebbe davvero piacere. Probabilmente tra una settimana pubblicherò anche la seconda ed ultima parte di questo nuovo lavoro, ma nel frattempo attendo con ansia i vostri riscontri <3    
Grazie di nuovo per il supporto e per aver dedicato del tempo al mio lavoro e non temete, settimana prossima sarò puntuale così da farvi sapere come va a finire u.u

A prestissimo,
Ross <3
  
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