Fuga
Cari lettori, questo è l’ultimo capitolo, anche se per ragioni di comodità ho preferito dividerlo in due, e posto qui tutti i commenti da
fare perché voglio che il finale rimanga nel silenzio. Tanto per cominciare
ringrazio con affetto le persone che hanno recensito la storia. Reus, che è
stata incredibilmente positiva nei suoi commenti e che mi ha incoraggiato
davvero tanto; Bleus de Methylene che ho trovato molto riflessiva e che in
poche parole mi faceva comprendere di aver colto le cose più importanti della
storia; Darseey che ha recensito in modo ragionato e mi ha dato molta
soddisfazione come autore; Francy91 che è straordinariamente accurata e
riflessiva. Poi: verso la fine a imitazione del manga che conclude la storia
con delle pagine nere ci sono dei segmenti neri che se evidenziati illustrano un
testo nascosto. La frase è incompleta e per completarla bisogna andare al
secondo capitolo che ha a sua volta una piccola frase oscurata. Ringrazio
coloro che hanno anche solo letto, perché è davvero una gioia sapere di
qualcuno che pur nel silenzio si interessa a quello che fai e infine grazie a
chi ha inserito la fan fiction tra le preferite e le seguite. Sono onorato di
avere scritto per tutti voi.
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Aveva conosciuto Lene ai tempi dell’università, quando
Adam River l’aveva convinto ad andare fuori città insieme a lui, per incontrare
un paio di amiche.
Quando l’aveva vista non aveva trovato nulla di
particolarmente interessante in quei capelli lunghi, neri, la frangetta corta e
quegli occhiali rettangolari con la montatura grigia, neanche il rossetto scuro
riusciva a renderla appariscente.
Adam River la corteggiava sfacciatamente, il suo modo era
goffo e Lene aveva inarcato le sopracciglia più di una volta, ma non aveva
commentato.
Forse avrebbe trovato più interessante Grace Lee. La
ragazza bionda con i capelli ricci legati con un foulard arancione e rosa.
Avevano parlato per circa mezz’ora di musica e lei aveva iniziato una noiosa
conversazione sui prezzi dei biglietti per qualche concerto.
Poi era successo: erano andati a bere e Lene era un po’
brilla, così era corsa davanti agli altri e canticchiava un motivetto, aveva
preso il foulard dai capelli di Grace e col braccio teso lasciava che il vento
lo arricciasse.
“Tan tan taan…” la voce di Lene non era troppo alta ma
era felice.
Sincera, pensò Jim, la cosa più sincera che avesse
sentito.
Grace Lee forse sperava che lui le facesse qualche
complimento sui suoi capelli sciolti, ed era bella, certo, Jim gliel’avrebbe
detto.
Ma nessuna in quel momento era bella come Lene. Lene
O’Brian.
Un mesetto dopo, a casa di un suo amico, avrebbe
riascoltato il motivo cantato da Lene: era uno dei notturni di Chopin.
“Tan tan tan taaan…” faceva Lene nei suoi ricordi e lui
capì che quella stronza avrebbe anche potuto sposarsi, ma lui avrebbe fatto di
tutto per continuare a vederla.
Sempre.
Ora invece Lene non era la ragazza che cantava e se ne
infischiava della gente brontolona per le strade. Quella che sembrava camminare
lungo uno scivolo di nebbia, come se si trovasse in una fiaba. E con lo stesso
scintillio negli occhi di uno sguardo fanciullesco: frivolo nella sua ombra di
capriccio e profondo in quella luce fissa di colui che scoperto qualcosa di
segreto.
Era diventata una donna senza fantasia, senza immaginazione
e senza libertà, una donna insensibile e quella era la morte della bellezza.
Jim aveva sempre creduto che il suo amore per Lene
sarebbe morto solo quando lei avrebbe ucciso la sua fantasia e la capacità di
fare cazzate come una bambina. E allora perché? Perché, maledizione, l’amava
come un coglione anche ora che era diventata un’asciutta calcolatrice?
Jim si coprì gli occhi con la mano. Aprì l’agenda per
controllare qualche numero e vide una frase scarabocchiata a matita nell’angolo
di una pagina.
Gli uomini vogliono sempre essere il primo amore di una donna, è una loro
grossolana vanità, la donna, invece ha un intuito più sottile, preferisce
essere l’ultima avventura di
un uomo. Oscar Wilde
Sembrava una minaccia di morte.
***
Lene suonò a lungo il campanello, poi abbassò la mano,
stizzita; salì in macchina, sbattendo forte lo sportello, girò la chiave.
Retromarcia e piede sull’acceleratore.
Vede la porta avvicinarsi, la macchina sobbalza sugli
scalini, ma riesce a salire e infine l’urto, Lene si sente spingere forte in
avanti, ma ha calcolato bene il momento in cui fermarsi e poi il dolore non lo
sente, scende ancora e poi ripete, premendo più forte sull’acceleratore.
Torna indietro e accosta alla meglio, scende. Ora la
porta ha una grossa apertura verticale, Lene tira via il legno che non si è
staccato bene, mette la mano nel varco. Le schegge le graffiano il braccio, ma
lei non ci pensa, non deve pensarci adesso.
Sente il pomello della porta, spera che non sia chiusa a
chiave, lo gira e finalmente sente l’anta scorrere avanti.
Lene entra senza troppi complimenti, senza neanche
guardare i rivoli sottili di sangue che scendono dalle ferite.
Cerca nella casa. Non c’è nessuno. Sale e perquisisce la
stanza di Sayu: sfila completamente i cassetti, li rovescia, poi esce. C’è
un’altra stanza, apre la porta e vede un uomo legato per i polsi alla sponda
del letto con due cavi, le mani quasi blu per la stretta e l’espressione
sconvolta.
“Cazzo!” esclama Lene, corre fino al letto e scioglie i
nodi.
“Tu chi sei?” chiede all’uomo.
Lui non rispose, la sua espressione rimaneva vuota.
“Senti devi dirmi dove sono andati, devi dirmi tutto.
Loro due sono… il vecchio e il nuovo Kira, non è così?”
Il ragazzo si girò a guardarla.
“Ascolta non voglio far loro del male, voglio aiutare
Sayu” mentì Lene, cercando un modo per convincerlo.
“Ho bisogno di informazioni” insistette.
“Sei della polizia?” chiese lui.
“Sì, sono a capo dei poliziotti che indagano sul nuovo
Kira” inventò lei di sana pianta.
“Sono la madre del detective che risolse il caso del
vecchio Kira” continuò per essere più convincente.
“Sei la madre di Near?” chiese l’uomo incredulo.
Bene, pensò Lene, questo tizio lo conosceva, sarà più
facile.
“Sì Near, Nate River. Mi hanno scelta per mandare avanti
le indagini su Kira. Adesso, ti prego, dimmi ciò che sai”
Lui abbassò la testa sconsolato.
“Sì sono i due Kira, lui era morto, io non so come è
possibile tutto questo. Sono partiti ore fa, hanno lasciato qui tutto”
Ovvio, pensò Lene, sanno di essere stati scoperti. Alla
stazione.
“Ok, tu torna a casa, o dove cavolo vuoi, io devo correre
alla stazione” disse.
Non aspettò la risposta, scese gli scalini di corsa
rischiando di cadere due o tre volte, uscì di casa e salì in auto, guidò fino
alla stazione, appena svoltò vide un’ambulanza che aveva accostato lì.
Lene parcheggiò e scese, corse verso l’ambulanza.
“Mi scusi!” gridò all’infermiere che stava per salire
sulla vettura.
“Aspetti!” cercò di fermarlo.
“Un secondo maledizione!” afferrò il braccio
all’infermiere.
“Che è successo?” chiese quando quello si girò seccato.
“Signora non posso dare informazioni su…”
“Lì lavora un mio amico, la prego!” inventò lei.
“Attacco cardiaco” disse quello, seccato.
Lene aspettò che l’ambulanza se ne andasse.
Light e Sayu dovevano essere partiti molto prima… quella
era opera di Kuraji.
Strinse i pugni.
“Kuraji!” cominciò a gridare fuori di sé, correndo a
cercarlo.
***
Quando era sceso dalla finestra, scivolando con le suole
delle scarpe lungo il muro, si era accorto che Jim e Lene stavano uscendo ed
era stato costretto a rimanere lì, pregando di non essere scoperto.
Finalmente, poi quei due erano andati via.
Kuraji era rimasto seduto per terra con le mani che
stringevano la gamba sinistra.
Era sceso male e ora non riusciva a muoverla.
Non è niente, non è niente!
Non poteva rimanere lì. L’avrebbero ucciso come un
animale. Come un…
Kuraji ripensa ai volti umidi delle donne che aveva fatto
a pezzi, umiliate, impotenti.
No, a lui non succederà questo!
Mosse un po’ la caviglia. Ok, ci riusciva.
Piegò il ginocchio, il dolore stava scemando. E se una
volta scoperto il furto del quaderno la ragazza fosse uscita a cercare il
ladro? Magari con un coltello, lui non avrebbe fatto in tempo a scrivere.
Rabbrividì e senza aspettare provò ad alzarsi in piedi.
Faceva male, proprio male, ma avrebbe potuto sopportare.
Che avrebbero fatto adesso quei due? Penseranno che sia stato tutto un piano di
Lene probabilmente.
Quindi che faranno? Non possono provare a ucciderla, non
hanno il quaderno. Quindi è probabile che tentino la fuga.
Magari avrebbe potuto aspettare lì, aspettare che quella
ragazza uscisse per guardarle il viso. Ucciderla.
Sì. Certo. Avrebbe aspettato al massimo un’ora, se invece
non fosse uscita sarebbe tornato indietro. Al come ci avrebbe pensato dopo,
anche perché non sarebbe riuscito ad arrivare da nessuna parte con quella gamba
rotta.
Attese. Passò un quarto d’ora. Poi due.
Finalmente la porta si aprì, si sporse dall’angolo della
casa, sperando che lo Shinigami non lo vedesse.
Fissò lo sguardo sulla ragazza, ma gli dava le spalle. Di
lei vedeva soltanto i capelli scuri un po’ mossi dal vento, vide che aveva
preso il cellulare e aveva chiamato una sua amica per farsi venire a prendere.
Maledizione, ma perché non si girava? Perché non si
decideva a girarsi?
La sua amica arrivò dopo altri minuti. Kuraji l’aveva
vista in faccia e ne aveva letto il nome grazie agli occhi degli Shinigami:
Hatsue Nitta.
Avrebbe potuto scrivere, forse, il suo nome imponendole
di ammazzare Sayu prima di morire.
Anzi.
Anzi no. Ricordava: non si poteva provocare la morte di
un secondo scrivendo il nome di qualcuno sul quaderno.
Kuraji osservò impotente la partenza della ragazza.
Doveva andare alla stazione: manipolare le azioni di
qualcuno affinché lo accompagnasse, perché la gamba stava diventando un inferno
di dolore.
Qui non avrebbe visto nessun passante. Allora doveva
scrivere il nome di qualcuno che già conosceva.
Kuraji sentì un tuffo al cuore: rimorso. Avrebbe scritto
il nome di suo zio. Un caro zio. Il fratello di suo padre, un brav’uomo: uno
che lo lasciava venire in campagna, quando non sopportava più i suoi genitori e
faceva qualche battuta stupida per tirarlo su. Una persona dolce. Era
poliziotto in una città vicina, ci avrebbe messo un po’, qualche ora, ecco. Però
magari anche il treno che avrebbero preso quei due sarebbe arrivato tardi.
Prese il quaderno da terra, sfogliò fino alle pagine
bianche, sfilò la penna dalla tasca. Scivolava. Aveva le mani tutte sudate.
Tolse il tappo che cadde a terra. Chi se ne frega.
Troveranno le sue impronte se verranno qui. Non fa niente.
Scrisse il nome di suo zio e precisò le azioni da
compiere prima della morte.
“E ora…” mormorò.
“Speriamo che non sia troppo lontano”
In effetti suo zio doveva essere stato fuori città perché
aveva impiegato ore ad arrivare, ma almeno aveva portato la pistola, come
Kuraji aveva scritto. Quando partì da casa della ragazza vide dietro di se una
macchina che arrivava.
Era Lene.
Per fortuna non l’aveva visto. Alla stazione costrinse il
bigliettaio a dirgli di una ragazza castana che aveva preso il treno attorno a
quell’orario. Sapeva l’ora in cui era partita, sapeva quella del prossimo treno
e soprattutto sapeva dove era andata. Dopodiché il bigliettaio era morto
d’infarto.
Solo dopo qualche minuto il tizio che doveva dargli il
cambio aveva chiamato l’ambulanza. Non importa.
Il treno sarebbe arrivato presto, sentiva già il rumore.
Poi la voce di quella Lene aveva preso a chiamare il suo
nome. La vide entrare in stazione come una furia, la porta del treno si aprì,
lui letteralmente saltò dentro e corse per i vagoni per non farsi vedere.
“KURAJI!”
Come aveva scoperto di lui? Come sapeva?
Un poliziotto che era rimasto lì dopo l’infarto del
bigliettaio accorse per cercare di calmarla.
Bene.
“Mi lasci andare cazzo!” sbottò lei cercando di
spingerlo.
Il treno stava per ripartire, io la guardavo dal
finestrino e lei mi scorse dietro la testa dell’agente.
“Kuraji! Scendi piccolo bastardo” strillò.
Il treno partì, lei si divincolò dalla presa del
poliziotto e cominciò a rincorrere il treno.
Sciocca.
***
I pali della luce erano ancora accesi quando quella
mattina arrivammo a Narita, nella prefettura di Chiba. Da lì nel caso le cose
si fossero messe male avremmo potuto prendere l’aereo e andare a rifugiarci
all’estero.
Sayu aveva preso una stanza in un albergo. Saremmo
rimasti lì. Io però davvero non sapevo come fare.
Dovevamo vederci ecco. Vederci col quaderno. Lene non
avrebbe avuto il coraggio di usarlo, se avevo intuito bene il suo carattere.
E gliel’avrebbero strappato dalle mani. A costo di
ammazzarla a mani nude Sayu avrebbe dovuto prenderle il quaderno.
Quella stupida. Che aveva in testa? Non era un
poliziotto, era una psicologa. Eppure per qualche ragione aveva indagato tutta
sola. Molto bene. Meglio così.
Il cellulare di Sayu squillò. Era Lene! Sicuramente.
“Rispondi e metti il vivavoce” risposi all’occhiata
interrogativa di mia sorella.
Lei obbedì.
“Pronto?”
“Stronza! Maledetta bugiarda, ti rinchiuderanno in
manicomio, assassina! Bugiarda!”
Avevo ragione! Era lei.
“Non riattaccare” suggerii a Sayu che mi fissava,
terrorizzata.
“Dille che ci incontreremo, ma lei dovrà portare con se
il quaderno”
Sayu ripeté le mie parole.
“Ma certo, volete prendermi in giro? È soltanto una
trappola! Una trappola! Magari mi spedirete dalla parte opposta del Giappone,
ma ormai so tutto e…”
“Ma come?” dissi prendendo il telefono dalle mani di
Sayu.
“Lene..” sorrisi.
“Questa è la tua grande occasione. Poi anche noi abbiamo
motivo di desiderare questo incontro, dato che siamo stati privati del nostro
quaderno dai tuoi complici” dissi.
“… e dato che il mio di quaderno non funziona affatto. Ne
è la prova il fatto che in questo momento tu sia ancora viva” Sayu sgranò gli
occhi. Le avrei spiegato, certo. Avevo un piano.
Lene tacque per un secondo.
“Bene. Dove vi trovate?”
“Narita. Domani. Farai in modo di trovarti a mezzanotte
in un vecchio campo da calcio. Chiedi in giro indicazioni: lo conoscono tutti.
Un ragazzino è morto lì” dissi.
Non volevo fare nomi di vie. La chiamata poteva essere
stata intercettata. Almeno con quel metodo ci avrebbero messo molto prima di
arrivare a me.
“Ok” mi rispose lei. Poi riattaccò.