Fanfic su attori > Coppia Cumberbatch/Freeman
Ricorda la storia  |      
Autore: AminaMartinelli    22/05/2018    11 recensioni
Al Lucca Comics per ricevere un premio alla carriera, Martin decide improvvisamente di raggiungere Benedict che è in Corea per promuovere 'Infinity war'. Tom lo aiuterà ad avvicinarlo per spiegare i suoi sentimenti e tentare di riconquistarlo. Un contest per dj creerà l'atmosfera giusta...
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Disclaimer: come è ragionevole pensare questa storia non vuole offendere nessuno ed esprime solo ed unicamente le fantasie dell’autore.

Questa fanfiction è un po’ diversa: non essendo una songfic ci sono canzoni al suo interno che fanno parte integrante dello svolgimento degli eventi. I testi sono scritti sia in originale che in italiano e, per chi fosse interessato ad ascoltare le canzoni può cliccare sul link:
https://www.youtube.com/playlist?list=PLnSHOA1OddU_CkL3fmz4ofdqiWBYjlJQZ

la dedico con tutto il cuore alle mie adorabili, pazienti, preziose amiche ChiaFreebatch, Pri82 e Johanna Lindsay Noonan che mi sostengono e mi incoraggiano. In questa particolare occasione Chia e Pri sono state anche delle meravigliose Beta. Ragazze, non vi ringrazierò mai abbastanza!




“Mr. Freeman, da questa parte prego”

Aveva sempre amato la lingua italiana, così fluida e musicale (anche se aveva imparato a non dirlo agli italiani per evitare la figura del turista snob con la testa piena di preconcetti “Italia, pizza, mandolini, mafia”) e negli ultimi giorni aveva avuto l’occasione di sentirla continuamente, prima a Roma e ora a Lucca. Seguì l’addetto stampa fin sul palco. Un’altra intervista, poi le domande, le battute, la conferenza stampa…non che non gradisse queste cose, inoltre ricevere premi alla carriera fa sempre piacere, ma questo non era proprio il suo periodo migliore.

Poi un giorno mi spiegherai il perché - si diceva, ovviamente senza trovare risposta. Gli capitava di distrarsi ogni tanto, anche per riposare un po’ la mente e i muscoli facciali contratti in una serie di sorrisi che cominciava a sembrargli infinita, oltre che insopportabile.

Devi avere proprio un’espressione da scemo, in questo momento - doveva smetterla di parlare con se stesso o prima o poi lo avrebbe fatto ad alta voce, altro che ‘mind palace’…ecco, non poteva distrarsi un attimo che i suoi pensieri venivano invasi dai ricordi.

Basta Martin, piantala subito - ma intanto stava già pensando ad un metro e ottantatré di sorrisi timidi e voce profonda, occhi di cristallo e mani da pianista, in volo per la Corea per promuovere l’ultimo film degli Avengers. Un titolo molto appropriato, pensò: anche la loro era una guerra infinita anche se era fatta più che altro di silenzi e lontananze. Quando finalmente scese dal palco ebbe la sensazione di non riuscire a camminare, tutto quel tempo seduto gli aveva procurato formicolii alle gambe.

Stai invecchiando – mormorò, convinto di averlo solo pensato, guadagnandosi un paio di sguardi interrogativi…sì, doveva decisamente smetterla di parlare da solo. Per rimediare sbloccò il telefono per fingere di stare parlando con qualcuno, ma fu un errore perché la prima cosa che apparve sullo schermo fu la pagina delle notizie con una bella foto di Tom all’aeroporto, anche lui in Corea per il film.

“Accidenti!” – sbottò, poi si guardò intorno sperando che nessuno lo avesse sentito e vide che fortunatamente era solo, ma ormai il suo umore e la serata erano irrimediabilmente rovinati. Si precipitò in albergo prima di essere bloccato dall’addetto stampa o da qualcun altro che lo incastrasse in sessioni di autografi o, peggio ancora, party post-premiazione. Aveva già salutato i fan producendosi in tentativi di italiano che avevano suscitato reazioni entusiastiche da parte di tutti, come se avesse fatto chissà quale prodezza…a volte avrebbe voluto non essere ammirato ed amato così tanto.

A chi vuoi darla a bere? – niente, ormai era proprio un vizio.

Invece è vero, almeno non avrei ansie da prestazione – perfetto, adesso si rispondeva pure!

Chiuditi nella stanza dell’hotel, così non farai danni! – questa almeno era una buona idea.

Una volta nella sua camera mise il cartellino “non disturbare” sulla maniglia della porta e si chiuse dentro: voleva solo mettersi a dormire, dimenticare ogni cosa e arrivare alla mattina del giorno dopo per poter tornare a casa. A casa. Certo. Peccato che ormai da tempo non si sentisse più “a casa” da nessuna parte…

Si sedette sulla sponda del letto e riprese il telefono, sbloccandolo con il pollice. La luminosità dello schermo gli ferì gli occhi ma rimase a fissarlo aspettandosi chissà cosa, forse la risposta al perché si sentiva così vuoto. Sentì la schiena indolenzita e si piegò in avanti poggiando gli avambracci sulle gambe, continuando a fissare la schermata home. Si passò stancamente una mano tra i capelli tirando indietro il ciuffo che gli ricadeva sulla fronte, emise un profondo sospiro e tornò a fissare il telefono senza quasi più vederlo. Migliaia di pensieri gli attraversavano la mente, lasciandosi dietro una traccia di tristezza, migliaia di ricordi in rapida sequenza, frammenti di felicità che ora tagliavano come schegge di diamante.

Come erano arrivati a tutto quel silenzio tra loro? A tutto quel rancore, quel dolore, come poteva tanta felicità essersi trasformata in…questo? Da quasi un anno, ormai, le cose erano andate peggiorando giorno dopo giorno. La sua vita era scivolata lungo una china trascinando, nella sua rovinosa caduta, il suo rapporto con Amanda, la sua vita sociale, il suo ottimismo, la sua allegria. Niente sembrava più avere senso e, nonostante la sua carriera fosse lanciata in una inarrestabile corsa, un successo dopo l’altro, si ritrovava a vivere tutto come se una parte di lui non fosse lì, impedendogli di assaporare le vittorie, i riconoscimenti, persino l’affetto del pubblico, rendendogli insopportabili le interviste, instillandogli una gran voglia di ribellarsi, di dire o fare qualcosa di cattivo, qualcosa che scioccasse chi lo stava a sentire…

Proprio un comportamento maturo, non c’è che dire – scosse lentamente la testa massaggiandosi il collo, da quanto tempo era in quella posizione? Non ne aveva idea, ma sentiva gli occhi bruciare. Li strofinò piano e si accorse che lacrimavano.

Maledetti occhi blu, così sensibili alla luce! – ma sapeva bene che non era la luce, il problema: i suoi occhi stavano solo concretizzando in lacrime il dolore che la sua mente e il suo cuore non volevano più sopportare, la sofferenza che si era inflitto per non distruggere il castello di bugie in cui viveva, in cui entrambi vivevano. In un lampo tutto gli fu chiaro. Sapeva esattamente cosa doveva fare. Si alzò di scatto, tanto da fargli girare la testa, del resto non aveva neanche cenato.

Mangerò qualcosa in aereo. – pensò dirigendosi verso il telefono dell’hotel e sollevando la cornetta. Digitò il numero del concierge e aspettò la risposta, poi parlò, senza quasi riconoscere il suono della propria voce:

“Buonasera, potreste prenotarmi un volo per Seul? Il primo disponibile, grazie.”

“Certo, mr. Freeman”

“E un taxi per l’aeroporto, ovviamente”

“Ovviamente. L’avviseremo non appena sarà qui.”

“Grazie mille”

“Dovere, mr. Freeman”

Chiuse la chiamata e si diresse verso la sua valigia, prese uno zaino che portava sempre con sé e ci buttò dentro alla rinfusa poche cose sufficienti per una notte o due. Indossò un giubbotto di pelle e si mise lo zaino in spalla, poi si sedette di nuovo sulla sponda del letto in attesa della chiamata del concierge. Era consapevole di avere un aspetto particolarmente strano, in quel momento, ma non gli importava, non gliene sarebbe importato neanche se un esercito di paparazzi lo stesse accecando con i flash. Poi un’idea gli attraversò la mente: c’era un’altra cosa da fare. Riprese il telefono, lo sbloccò, entrò in Whatsapp, cercò un numero poi scrisse un messaggio:

A: Tom
‘Digli che sto arrivando’

Pochi minuti e ricevette la chiamata che gli notificava l’arrivo del taxi.

Fece il percorso del taxi fino all’aeroporto e dall’ingresso fino al check-in in una specie di trance.

Quando si ritrovò sull’aereo una tonnellata di dubbi di ogni genere gli attraversò la mente, si chiese decine di volte quanto pazzo doveva essere per fare quello che stava facendo, si prefigurò gli scenari più disparati, catastrofi indicibili una volta atterrato e raggiunta la sede dell’evento per promuovere il film. Ma quando fu davanti all’edificio in cui la kermesse si sarebbe svolta su di lui scese una calma innaturale, prese un lungo respiro e si guardò intorno.

Uhm, perfetto, e adesso che sei qui cosa pensi di fare, genio? – la sua voce gli tuonò nella testa come faceva quella di suo padre, tantissimi anni fa. “L’attore? Ma certo! Questa sì che è una grande idea, Martin! E poi cosa pensi di fare? Vincere l’Oscar?”, pensava di aver superato l’impatto devastante di quelle parole e l’insicurezza che gli avevano generato quando era ancora solo un bambino, ma si rese conto in un attimo che l’unico periodo in cui la sua decisione di intraprendere quella carriera gli era sembrata la migliore che avesse mai preso in vita sua era durante le riprese di Sherlock, un ciak dopo l’altro, giorno per giorno, anno dopo anno, mentre il legame con Ben diveniva sempre più forte, l’intesa professionale e umana cresceva e maturava, mentre loro creavano sullo schermo una coppia indistruttibile, un legame che solo la grossolana pesantezza della realtà, della vita quotidiana, delle apparenze e delle convenienze era riuscita a distruggere.

Semplice: aspetterò qui. Del resto non ho un invito, quindi non potrei comunque entrare.

Semplice. In realtà non c’era proprio niente di semplice in quello che stava facendo, meno ancora in quello che aveva in mente di fare quando si fosse trovato davanti a Benedict, passato da parte a parte da quello sguardo colore dell’oceano, carico di consapevolezze mai riconosciute, di domande mai poste, di risposte chiare e dirette ma sconvolgenti come la più inaccettabile delle realtà. Uno sguardo che fin dal primo momento gli aveva chiesto di fare chiarezza dentro di sé, di fare una scelta, di affrontare il mondo ma soprattutto se stesso e confrontarsi con la paura di essere rifiutato, con la possibilità di essere discriminato, col terrore di sentirsi, ancora una volta, inadeguato.

Per tentare di riemergere da quei pensieri non proprio coerenti, prese il telefono e digitò un messaggio per Hiddleston per fargli sapere che era arrivato. Solo allora si accorse di essere osservato con insistenza e crescente sospetto dalla guardia che presidiava l’ingresso. Prima che uno dei due facesse qualcosa arrivò la notifica Whatsapp:

Da: Tom
‘Dove sei?’

Digitò velocemente:

‘Di fronte all’ingresso, la guardia mi sta squadrando indecisa se affrontarmi da solo o chiamare rinforzi’

‘Per l’amor del cielo! Non ti muovere: arrivo!’

‘Grazie’

In quel momento la guardia fece un passo verso di lui, Martin si voltò verso la strada fingendo di chiamare un taxi, per prendere tempo. Fu sufficiente: un attimo dopo, l’alta figura di Hiddleston varcò la soglia del palazzo e si diresse spedita verso Freeman. Arrivatogli alle spalle lo apostrofò senza mezzi termini:

“Tu sei pazzo, lo sai?”

Martin si voltò con sollievo nonostante la voce calda dell’amico l’avesse colto di sorpresa, facendolo sussultare.

“Lo so. Che vuoi farci? Aiutami ad entrare, ti prego: devo vederlo”

Lo sguardo di Tom si addolcì da dietro le lenti dei suoi nuovi occhiali.

“Avviso la sicurezza e ti faccio preparare un “pass”. Aspettami qui.” – poi lanciò uno sguardo al militare accanto alla porta a vetri – “Anzi, no. Vieni con me.”

Si rivolse in coreano alla guardia che annuì e li fece entrare, mantenendo uno sguardo sospettoso su Freeman.

“Da quando parli il coreano?”

Tom lo prese sottobraccio:

“Ho imparato l’essenziale. Gli ho detto che sei con me.”

Martin guardò l’amico con ammirazione e gratitudine.

“Sei un grande”

“Lascia perdere…non hai bevuto sull’aereo, vero?”

“Solo un goccetto, tanto per darmi un po’ di coraggio”

Hiddleston volse gli occhi al cielo:

“Che Dio ce la mandi buona!”

Martin fece una risatina:

“Continua a pregare, amico, non sai quanto ne ho bisogno!”

Man mano che si addentravano nell’enorme edificio, avvicinandosi al settore dedicato ad “Infinity war”, il cuore di Martin batteva sempre più forte, il suono delle pulsazioni si era fatto assordante nelle sue orecchie, si chiese come mai Tom non lo sentisse. Una strana sensazione di debolezza si era diffusa dal suo stomaco alle gambe, la attribuì all’alcool bevuto sull’aereo ma sapeva che si stava prendendo in giro.

Inconsapevolmente utilizzò il braccio di Tom come sostegno, pesandogli addosso un po’ più del dovuto.

Hiddleston si voltò verso di lui, scherzando:

“Hey, non avrai intenzione di svenire!” – poi vide il pallore sul volto dell’amico e il suo tono cambiò -
“Martin…vuoi sederti un attimo prima di entrare?”

Voltò lentamente il viso, incontrando lo sguardo preoccupato di Tom, e scosse nervosamente il capo:

“N-no, sto…bene”  

Hiddleston sollevò un sopracciglio.

“Non si direbbe” – fece una piccola pausa, si fermò, prese Freeman per le braccia e lo costrinse a voltarsi verso di lui – “Martin, guardami…sarà felice di vederti, rilassati”

Freeman fece spallucce evitando lo sguardo intenso dell’amico.

“Sì, come no: debole, patetico…ho letto l’intervista, sull’aereo. È questo che pensa di me”

Un sorriso intenerito si fece spazio sul viso di Hiddleston:

“Cerca di capire…si è sentito rifiutato, non ci sei andato leggero neanche tu, devi ammetterlo”

“Ma non ce l’avevo con lui! Io parlavo della pressione esercitata dalla BBC e dalle aspettative dei fan”

“Mettila come vuoi, amico mio, ma con una sola frase hai rinnegato anni di lavoro, di ottimi risultati e di intesa perfetta…anni di voi”

Lo sguardo di Hiddleston era così penetrante che per un attimo gli ricordò quello di Ben.

Tom aveva ragione, lo sapeva, le cose dette in quell’intervista erano il frutto di una di quelle crisi che lo travolgevano ultimamente. Non avrebbe mai voluto dire che si era stufato, che non si divertiva più e che quindi non voleva più farlo. Ma era questo il messaggio arrivato al pubblico e di conseguenza a Ben, dato che non si parlavano più direttamente da tanto.

Poi ci mancavano i giornalisti a metterci il carico, a travisare, estrapolare, modificare, stravolgere e soprattutto peggiorare le già sciocche parole che gli erano scappate di bocca. Accidenti a lui e alla sua intemperanza!

Ma la questione era un’altra: come avrebbe fatto a rimediare a quel caos? Ben, sentendosi ferito, era passato al contrattacco e anche in questo caso vai a capire dov’era il confine tra la verità e il gossip…Hiddleston! Ma certo! Lui doveva saperlo per forza: era lì.

Mentre ancora Tom lo teneva per le braccia (per confortarlo o per sorreggerlo? Non avrebbe saputo dirlo) Martin alzò su di lui uno sguardo quasi febbricitante:

“Lo ha detto lui?”

“Cosa?”

“Quelle cose dell’aver rinnegato, della debolezza, della pateticità…le ha veramente dette lui?”

“Ascolta Martin, lui ha reagito alle tue parole, gli hanno chiesto di commentare le tue affermazioni e lui ha detto che prendersela con i fan è un atteggiamento debole e che sarebbe patetico se la pressione delle aspettative fosse l’unico motivo per rinunciare ad un ruolo, ad un lavoro importante. Il fatto che si sia sentito rifiutato e rinnegato è una mia sensazione. Sembrava un adolescente “friendzonato”. Cosa vuoi che ti dica?”

Freeman ebbe un piccolo tremito, si morse il labbro inferiore e agganciò di nuovo lo sguardo a quello di Tom:

“Niente. Mi hai già detto tutto quello che mi serviva di sapere. Sei un vero amico, Tom, non saprei cosa fare senza di te”

“Ok, adesso piantala con le sciocchezze. Vieni. In fondo a questo corridoio c’è il palco” – il cuore di Martin mancò un battito, Ben era laggiù – “tu aspettami lì, dietro le quinte, goditi lo spettacolo così quando starà per finire potrò farti un cenno e tu andrai nella sala trucco, che è la porta più vicina al palco. Ecco, questa. Io porterò Ben nella sala trucco con una scusa qualsiasi e ti troverà lì. Va bene?”

Martin aveva percorso gli ultimi metri come un sonnambulo. Sentiva le parole di Hiddleston arrivare da lontano, ovattate, l’unico pensiero che riusciva a formulare era che Ben era dietro quel sipario, sul palco, e Tom avrebbe fatto in modo di farli incontrare. Da quel momento in poi tutto poteva succedere: un disastro o un miracolo.

Hiddleston salì sul palco e lui si accomodò alla meglio dietro le quinte per poter osservare ed ascoltare senza essere notato. Sbirciò dietro la pesante tenda e lo vide.

Doveva rassegnarsi: in qualunque situazione, in qualunque paese del mondo, comunque stessero le cose tra loro, Benedict che entra nel suo campo visivo sarebbe sempre stato uno shock. Stava lì, seduto tra Hiddleston e Holland, così semplice ed elegante, ascoltando e annuendo.

Poi, d’un tratto, lo vide cambiare espressione, agitarsi, a disagio sulla sua sedia, girarsi verso il muro alle sue spalle e portarsi una mano agli occhi. Stava ridendo? No, sembrava piuttosto che fosse…commosso? Ma per cosa? Dalla sua posizione Martin non poteva vedere bene, sapeva che il presentatore stava mostrando loro un cartellone, delle fanart, in base a quello che dicevano. Non c’era motivo per Ben di essere commosso.

Martin non riusciva a capire, né a smettere di tremare. Non riusciva a sopportare di vederlo in quelle condizioni e non poterlo abbracciare e consolare, come succedeva tanto, troppo tempo fa.

Era ancora immerso in quei pensieri quando si accorse che Tom lo stava guardando insistentemente cercando di attirare la sua attenzione. Lo vide gesticolare di nascosto nella sua direzione, quindi annuì energicamente e si diresse in fretta nella sala trucco. Poggiando la mano sulla maniglia si rese conto che stava ancora tremando e si maledisse

Cominciamo male, Martin, cominciamo proprio male…

Entrò con circospezione nonostante sapesse che la stanza era vuota e si chiuse la porta alle spalle cercando di non fare rumore, adocchiò una sedia in un angolo e ci si lasciò cadere sopra con un sospiro.

Accidenti! Sembra che ti aspetti un’esecuzione… - e forse era proprio così.

Passarono solo cinque minuti ma a lui sembrarono un’eternità. Quando cominciò a sentire le loro voci che si avvicinavano ebbe l’impulso di nascondersi ma rimase lì seduto, inchiodato su quella sedia, dandosi del cretino.

Fissava la maniglia aspettando di vederla abbassarsi, come se quel semplice movimento dovesse provocare un’esplosione e quando la maniglia effettivamente si mosse chiuse gli occhi e strinse le mani attorno ai braccioli della sedia da trucco su cui si stava sentendo come un condannato sulla sedia elettrica.

La luce venne accesa e Freeman si accorse solo in quel momento di essere rimasto al buio per tutto il tempo.

“Tom, ma che accidenti mi hai portato a fare in sala trucco – oh!”

Benedict non finì la frase perché all’improvviso si ritrovò senza fiato: seduto, o meglio imbalsamato, su una sedia in un angolo c’era quello che la sua mente definì subito come un’allucinazione.

Volgendo lo sguardo da uno all’altro Hiddleston per un attimo temette di aver preteso troppo, di essere stato presuntuoso a pensare di poter ricucire il rapporto tra i suoi due amici, ma non se ne sarebbe comunque mai pentito: voleva troppo bene a quei due, non ne poteva più di vederli così.  

Cumberbatch strinse i pugni e irrigidì la mascella, fece per voltarsi ed uscire ma fu bloccato dalla mano di Tom che gli afferrò un polso e sussurrò:

“Ben, evita di comportarti come un teenager ferito e almeno ascolta cosa ha da dire: si è fatto un sacco di strada…per favore”

Dal canto suo Martin aprì finalmente gli occhi e vide la scena sentendo il suo cuore sbriciolarsi. Voleva dire qualcosa ma nessun suono uscì dalla sua gola riarsa. Fu Hiddleston a parlare:

“Ragazzi, vi prego, datevi una possibilità. Una sola. Provate a parlare senza sbranarvi, fatelo per me.”

Benedict lo fulminò con lo sguardo ma non replicò, Martin emise un lungo sospiro e si appoggiò allo schienale.

Tom riprese a parlare, tirando leggermente per il braccio Cumberbatch che si lasciò trascinare come un bambino riluttante, ma non oppose resistenza, per fare in modo di avere entrambi i suoi amici dallo stesso lato, per poter guardare entrambi. Perché entrambi potessero leggere nel suo sguardo quanto ci tenesse, quanto dolore gli provocava vederli detestarsi.

“Adesso io esco, ma rimango qua fuori, così posso fare da palo…ed entrare a dividervi se dovessi sentire rumori di lotta – scherzò - vi do dieci minuti, poi ce ne andremo tutti e tre a bere qualcosa, d’accordo?”.

Vide Freeman annuire e gli giunse un grugnito da parte di Ben che continuava a fissarlo con aria truce rifiutandosi di voltarsi verso Martin, come se non ci fosse. Hiddleston si lasciò sfuggire un piccolo sorriso, era buon segno che almeno non stessero già urlando, lasciò il polso di Benedict, si aggiustò gli occhiali, si passò una mano nei capelli ed uscì, chiudendosi la porta alle spalle e pregando tutti gli dei di Asgard, gli eroi del Valhalla e persino le Valchirie, che le cose andassero bene.

Il gelo. Martin era convinto di averlo già sperimentato, nella sua vita, ma niente era paragonabile a quello che regnava in quella stanza ora. Gli sembrava di essere seduto su una lastra di pack staccatasi dalla banchisa polare mentre era in atto uno dei tanti terremoti che scuotono quotidianamente l’Antartide, gelo ed un rombo sordo, costante, nelle sue orecchie, e la terribile sensazione che tutto sotto di lui si stesse muovendo.

Doveva assolutamente fare o dire qualcosa ma nella sua mente si formavano solo frasi sconnesse, prive di senso. In fin dei conti sarebbe stato meglio tacere.

Malauguratamente la bocca prevalse sul buonsenso:

“Ben…come stai…” non era neanche una domanda, più una constatazione, lo vedeva benissimo come stava: pallido, stanco, triste. Si pentì immediatamente della scelta di parole, ma ormai era tardi: Cumberbatch stava alzando lentamente la testa, tenuta fino a quel momento ostinatamente bassa.

In un istante Freeman si sentì tramutato in un famoso Hobbit, inerme davanti ad un famoso Drago: lo sguardo fiammeggiante, l’espressione indecifrabile…se aprendo la bocca ne fosse uscita una potente, mortale fiammata, nessuno dei due se ne sarebbe meravigliato.

Martin serrò per un attimo gli occhi, in attesa del peggio, poi li riaprì sentendo la devastante nota di dolore misto a rabbia nella voce che tanto amava. Il rombo adesso era un tuono in avvicinamento.

“Cosa sei venuto a fare.” Neanche questa era una domanda. Somigliava più ad una accusa. Nella fredda luce della sala trucco vide distintamente che le spalle di Benedict erano scosse da un leggero tremito continuo, forse perché stringeva i pugni così forte da sbiancarsi le nocche, forse perché controllare il tono della voce gli costava uno sforzo enorme. Quel tremito gli si trasmise, inevitabilmente, e per quanto facesse non poté impedire che coinvolgesse il suo cuore e le sue labbra.

Ben aspettava. Forse non voleva realmente sapere cosa Martin facesse lì, ma aspettava comunque una risposta, tanto sapeva che qualunque cosa lui avesse detto non avrebbe fatto altro che gettare sale sulle ferite.

Sentì emergere prepotente il desiderio di riversargli addosso tutta la sofferenza dei mesi passati. Il risentimento, tenuto a fatica sotto controllo ogni giorno, trasformato in gelidi sorrisi e frasi educate ma affilate come lame d’acciaio, gli stava montando dentro come un’onda anomala, uno tsunami che minacciava di travolgerli entrambi.

“Sono…” Martin cominciò, poi abbassò la testa con un gesto sconsolato, si tirò indietro i capelli intrecciandoci le dita, tirandoli fino a farsi male “…un idiota” concluse. Rialzò piano il viso, proprio mentre Benedict sibilava tra i denti:

“Ti aspetti compassione?”, aveva fatto un passo in avanti, stringendo i pugni ancora più forte, pronto ad una lotta che non avrebbe mai voluto ingaggiare, ma dalla quale non sarebbe fuggito.
Non sarebbe più fuggito, ne aveva abbastanza di fughe e menzogne, di sentirsi un evaso, un latitante, un impostore. Non gli importava delle conseguenze: voleva sincerità, onestà, le pretendeva, soprattutto da se stesso.

Freeman scosse la testa con forza, per sottolineare il “No!” che uscì dalle sue labbra senza indugi.

Con un coraggio che non pensava di avere piantò le sue iridi blu nell’eterocromatico splendore di quelle che aveva davanti. Quelle lame che lo fissavano da un tempo ormai incalcolabile per la sua mente provata dalla stanchezza, dalle emozioni, dalla sofferenza che la decisione presa mesi addietro gli aveva fatto indossare come un cilicio, uno strumento di tortura, una punizione che sentiva di meritare per aver scelto di essere un codardo.

Nonostante Cumberbatch fosse pericolosamente vicino, Martin decise di alzarsi per fronteggiarlo, perché seduto su quella sedia si sentiva ancora più piccolo di quanto si fosse mai sentito davanti a…

…l’uomo più bello che io abbia mai visto – si sorprese a pensare – ancora più bello in questo momento, sconvolto e tremante di rabbia, un dio greco pronto a scagliare i dardi della sua ira sullo sconsiderato mortale che aveva osato provocarlo… - ecco, si era perso ancora una volta in lui, come nel più disorientante deserto, ammaliato da un miraggio che continuava ad inseguire.

Con sua grande sorpresa vide l’espressione del volto di Benedict mutare, passare in pochi istanti dal livore al dolore, dallo stupore all’incertezza. Lo vide abbassare le palpebre e scuotere piano il capo mentre si mordeva con forza il labbro inferiore, quasi a voler negare l’evidenza di tutti quei sentimenti che si accavallavano nel suo cuore.

Lo sentì sussurrare “Perché” per l’ennesima volta una domanda che non lo era affatto, Freeman lo sapeva bene, lo sapevano tutti e due: era uno schiaffo, una carezza, una preghiera…ma volle rispondere lo stesso, ne avevano bisogno, ne aveva bisogno lui per primo.

“Guardami, ti prego”, Ben alzò il viso e riprese a fissarlo e Martin continuò “Vuoi sapere perché ho voluto distruggere, sporcare, cancellare tutto? Perché ho avuto paura. Perché la mia mente non voleva accettare quello che il mio cuore pretendeva. Perché il prezzo mi sembrava troppo alto. Perché mi sono sempre sentito inadeguato, sbagliato, e dovevo conformarmi a ciò che ci si aspettava da me o non avrei più avuto un posto nel mondo”.

A quelle parole Benedict fece un passo indietro, avvolgendosi nelle sue stesse braccia, per tenersi insieme, perché sentiva che stava cadendo a pezzi. Freeman però non aveva intenzione di lasciargli mettere altra distanza tra loro e fece un passo in avanti, continuando a parlare.

“E vuoi sapere perché sono qui? Perché non ce la faccio più. Perché non voglio che sia la paura a governare la mia vita. Perché tutto il fango che ho gettato su di noi serviva a coprire la vergogna che provavo per essermi comportato da vigliacco. Perché dare ascolto alla mia mente ha generato solo dolore e confusione, per il mio cuore e per il tuo, ma anche per quello di coloro che abbiamo coinvolto nella mia, nella nostra finzione e mi sono reso conto che il prezzo più alto lo stavamo già pagando”.

Dalle labbra di Benedict sfuggì un suono che somigliava disperatamente ad un singhiozzo e che lui cercò di soffocare portando una mano a coprirsi la bocca. Martin proseguì, nonostante quel suono lo avesse trafitto come un pugnale.

“Ma soprattutto perché non mi sono mai sentito tanto sbagliato come da qualche mese a questa parte e perché ho scoperto che il mio posto nel mondo sei tu.”

Appoggiato alla porta Hiddleston guardava nervosamente l’orologio ogni trenta secondi. Ne era certo: quelli sarebbero stati i dieci minuti più lunghi della sua vita! L’unica cosa che lo tranquillizzava era il fatto di non sentire grida o altri rumori inquietanti provenire dalla stanza. Non che tutto quel silenzio fosse una garanzia, ma su qualcosa doveva pur fondare le sue speranze…

Nella sala trucco Benedict era immobile davanti a Martin, chiuso in un silenzio che non sapeva come spezzare. Le parole di Freeman lo avevano paralizzato, ora non sapeva davvero più cosa fare, cosa dire, nemmeno cosa pensare. Fu di nuovo Martin a parlare:

“Prima, sul palco, ti ho visto commuoverti, ho pensato fosse per quello che vi stavano mostrando ma mi è sembrato molto strano…”

Cumberbatch chiuse gli occhi e volse di lato la testa, emettendo un lungo sospiro.

“Non vuoi dirmi cosa ti stava succedendo? Mi si è spezzato il cuore a vederti in quello stato senza poter fare nulla. Tutti hanno creduto che tu stessi ridendo, ma io so che non erano lacrime di ilarità, quelle. Nessuno ti conosce come ti conosco io”

A quelle parole Benedict tornò a fissarlo, spalancando gli occhi, indeciso se accettare quella che per lui era una crudele provocazione. Le emozioni presero il sopravvento e lui rispose, senza neanche volerlo.

“Davvero non lo immagini?” Freeman scosse la testa e lui sentì il sangue pulsargli nelle orecchie, doloroso e martellante. “Il presentatore ci stava mostrando delle fanart sugli Avengers, ma io sono riuscito solo a pensare alle tue parole, alla tua reazione alle fanart su di noi…cioè, su John e Sherlock! Il veleno che hai sputato nelle tue interviste ha invaso la mia mente, il mio cuore. Ho sentito chiaramente che tutto il bello che avevamo costruito insieme non valeva più niente, anzi: era qualcosa di sporco, odioso! Stavo ridendo? Sì, certo: ridevo della mia stupidità, delle illusioni in cui sono vissuto per anni, ridevo della morte di un sogno…è così che si reagisce, no? Ridendo e ridicolizzando. Come hai fatto tu!”

Freeman fece un altro passo verso di lui e poggiò delicatamente una mano su quelle braccia che ancora si stringevano convulse.

“Il sogno non è morto: sono qui, ho lasciato tutto per raggiungerti, per vederti, parlarti. Volevo, dovevo spiegarti quello che è successo e perché, ma soprattutto volevo sentire di nuovo la tua voce, non solo sognarla, ricordarla, ascoltarla in interviste che ci allontanavano sempre di più. Non mi importa di nient’altro, lo capisci questo? Urlami contro, insultami, picchiami, ma non scacciarmi, non allontanarmi! Ho bisogno di te e so che tu hai bisogno di me, non puoi negarlo!”

La veemenza delle parole che gli uscivano come un fiume in piena dalla bocca contrastava con la gentilezza del tocco della sua mano sul braccio di Ben, che aveva ripreso a tremare.

Benedict inspirò con forza chiudendo di nuovo gli occhi, poi si lasciò sfuggire un sussurro:

“Non posso negarlo, anche se lo vorrei tanto!”

“Ragazzi, mi dispiace interrompervi, ma dobbiamo andare o rischiamo di rimanere chiusi qui dentro”

Hiddleston fece capolino dalla porta con un’espressione di sincero rammarico dipinta sul viso.

L’inattesa interruzione fece sussultare i due che misero istintivamente un po’ di distanza tra loro mentre ascoltavano l’avvertimento del loro amico. Martin replicò prontamente:

“Andiamo. Sbaglio o si era parlato di andare a bere qualcosa?”

In questo modo si guadagnò un’occhiata di traverso da parte di Benedict che non poté fare a meno di chiedersi come diamine facesse a passare da uno stato d’animo all’altro con quella disinvoltura. Mentre lui era ancora scosso da un sottile tremore che non accennava a diminuire e sentiva la sua faccia come se non gli appartenesse, Freeman sfoggiava un radioso sorriso e parlava di andare a bere tutti insieme.

Si sentì uno sciocco sentimentale e si maledisse per essersi lasciato coinvolgere dalle belle parole di Martin, di nuovo, maledizione! Aveva giurato a se stesso che non avrebbe più ceduto ai suoi sentimenti per quell’uomo, si era promesso di proteggersi, di impedirgli di fargli ancora del male ed invece eccoli lì, per l’ennesima volta: lui a pezzi, col cuore in tumulto e le gambe deboli, Freeman fresco come una rosa, sorridente e sereno, pronto a passare una bella serata tra amici! Si sarebbe preso a schiaffi!

Quello che non sapeva era che quella di Martin era solo una maschera. L’orgoglio aveva preso il sopravvento, come gli succedeva spesso, costringendolo ad un rapido reset e la sua espressione era di conseguenza mutata automaticamente.
In realtà Martin detestava questo suo bisogno di adeguarsi immediatamente ai cambi di atmosfera, lo faceva sentire falso anche nei confronti di se stesso, come se ogni sorriso di circostanza lo allontanasse un po’ di più dai suoi veri sentimenti lasciandogli dentro un insopportabile vuoto.

Presi nelle loro riflessioni seguirono Tom fin sul marciapiedi davanti al palazzo. Mentre Hiddleston chiamava un taxi, Benedict non riusciva a smettere di fissare Martin, spiando ogni suo movimento, sperando di cogliere un qualsiasi segno che gli permettesse di capire che quello che era appena successo, tutto quello che si erano detti, non fosse stato solo un sogno. Salì sul taxi senza quasi rendersene conto, si riscosse solo quando sentì di nuovo la voce di Martin:

“Allora, Tom, dove ci stai portando?”

Hiddleston fu grato di quel pretesto per parlare, il clima era decisamente troppo pesante da sopportare per un terzo incomodo.

“Non ci crederai ma ho trovato un pub irlandese, il Wolf Hound!”

“Fantastico!”

Per Ben fu troppo. Gli dispiaceva deludere il suo amico e fare la solita figura da asociale, ma per lui quella serata era già stata troppo difficile, l’idea di passare ore a far finta di sorridere in un posto che gli generava altri dolorosi ricordi anche solo sentendone il nome andava oltre la sua capacità di sopportazione (che, doveva ammetterlo, ultimamente era alquanto limitata).

Si sporse appena verso Hiddleston mantenendo però un tono di voce tale da farsi sentire da Martin:

“Tom, perdonami ma non ce la faccio, sono troppo stanco. Sarei una pessima compagnia, andate voi”

Martin stava per dire qualcosa ma Tom gli posò una mano sul ginocchio, con apparente indifferenza, rispondendo:

“Ma certo Ben, non preoccuparti. Ti accompagniamo in hotel. Passo a prenderti domani sera per andare all’anteprima, come avevamo stabilito”

Il calore e l’affetto trasmessi dalla voce di Tom fecero accendere un piccolo sorriso sul volto di Benedict:

“Grazie, sì, come avevamo stabilito”

In pochi minuti di imbarazzante silenzio raggiunsero l’hotel e Ben aprì la portiera per precipitarsi fuori dal taxi più velocemente possibile dopo aver salutato sottovoce Hiddleston.

Stava per richiuderla ma sentì che non poteva andarsene così: lui non era Martin, non era capace di far finta di niente. Si voltò verso il taxi e si abbassò per guardare dentro, pronto a lanciargli una frecciatina acida, ma lo vide che si mordeva l’interno della guancia per non parlare, bloccato in una postura rigida, quasi militare, che gli ricordò tanto il suo John Watson e non riuscì a dire altro che “Buon viaggio, Martin”.

Poi si volse di scatto e se ne andò, quasi correndo, verso l’ingresso dell’hotel. Non poté quindi vedere Freeman spalancare gli occhi e afferrare la mano che Hiddleston continuava a tenergli sul ginocchio, rivolgendogli uno sguardo disperato. Sarebbe sceso anche lui dal taxi e lo avrebbe raggiunto, se non fosse stato fermato dall’espressione sul viso di Tom che lo guardava scuotendo piano la testa per fargli capire che non era il caso, non in quel momento. Si fidò di lui, ancora una volta, dopotutto Tom conosceva Benedict da più tempo, sapeva di fare bene ad ascoltare i suoi consigli. Doveva a lui il loro incontro di quella sera, comunque fosse andato.  

Mentre il taxi li portava al Wolf Hound rimasero di nuovo in silenzio, ma non c’era più imbarazzo. Martin si trovava bene con Tom: era il classico bravo ragazzo che nella comitiva va d’accordo con tutti e fa da collante nelle situazioni difficili, riuscendo a far fare pace ad eventuali litiganti, evitando la distruzione di amicizie, riportando alla ragione anche tipi infiammabili come lui. Avrebbe dovuto chiedergli consiglio prima, chissà che non sarebbero riusciti ad evitare di trovarsi a questo punto.

Arrivati al pub si sedettero ad un tavolo nell’angolo più tranquillo, ordinarono due pinte e si misero comodi ad aspettarle. Martin si passò le mani sul viso e, quando riaprì gli occhi, trovò su di sé lo sguardo amichevolmente interrogativo di Hiddleston.

“È stata dura, eh?”

Emise un rumoroso sospiro:

“Non sai quanto”

“Ma almeno non vi siete scannati, non ho sentito volare suppellettili, e neanche insulti…”

Freeman non poté evitarsi di ridacchiare, pensando che forse sarebbe stato persino meglio.

“No, infatti. Abbiamo solo parlato. Beh, diciamo che io ho parlato parecchio. Lui ha più che altro ascoltato, e mi ha lanciato un paio di stilettate. Ma del resto me le sono meritate, avrei meritato ben di peggio.”

In quel momento la cameriera portò le loro Kilkenny e le poggiò con studiata lentezza sul tavolo in legno massiccio, quasi dello stesso colore delle birre, e prima di allontanarsi offrì uno splendido sorriso ai due uomini. Hiddleston la seguì con lo sguardo. Martin bevve un sorso poi sentenziò:

“Perdi un sacco di occasioni stando dietro a questo tuo vecchio amico rincoglionito” – nascondendo un sorriso amaro dietro il bordo del boccale.

Tom riportò lo sguardo su Freeman, prima di bere anche lui un breve sorso e, continuando a guardarlo, sospirò:

“Sono masochista, che vuoi farci? Ma parliamo di cose importanti: vi siete chiariti, alla fine?”

“L’hai guardato bene? Ti sembrava che mi avesse perdonato?”

“Non ho parlato di perdono. Ti ho chiesto se vi siete spiegati i motivi delle cose che avete detto nelle interviste, se avete chiarito cosa provate davvero l’uno per l’altro”

A Freeman quasi andò di traverso la birra.

“Cosa – proviamo – Tom…”

Con un gesto stanco Hiddleston si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo accanto al boccale.

“Hai intenzione di fingere anche con me?” – vide l’amico trattenere il fiato – “Fino a ieri potevo nutrire ancora qualche dubbio, ma dopo oggi, dopo aver visto come vi guardate…a me sarebbe bastato riunire due amici a cui voglio tanto bene ma questo – questo è molto di più. Martin…se non glielo hai detto chiaramente, capisco perché se n’è andato a quel modo”

Freeman scosse sconsolatamente il capo e lo abbassò fino a poggiarlo sulle mani, che teneva unite davanti a sé sul tavolo, le dita intrecciate in un gesto a metà tra una preghiera e il vano tentativo di trattenere le emozioni.

“Gli – ho detto che ho bisogno di lui – e lui di me, ma non è bastato.  Io volevo solo che tutto tornasse come prima…”

“Martin” – a quel richiamo, dal tono amichevole ma deciso, alzò di nuovo la testa e rimase in attesa del resto, mordendosi il labbro inferiore, sapendo già in cuor suo che non sarebbe stato facile starlo ad ascoltare, accettare la verità detta con la semplicità e l’intensità di cui solo Tom era capace – “gli hai detto quanto lo ami? Gli hai detto che lo vuoi solo per te? Che da oggi sarebbe stato tutto diverso?” – Martin si agitava nervosamente sulla sedia, ma non riusciva a staccare gli occhi da quelli del suo amico – “È questo che ha bisogno di sentirsi dire. Lui non vuole che le cose tornino come prima, è evidente, vuole di più. Ha bisogno di certezze, per trovare il coraggio di mandare tutto all’aria e fare finalmente chiarezza nella sua vita”

“Ormai è tardi. Ho fallito. Domani prenderò il primo volo e…” – tentò.

“Tu non prenderai nessun volo. Domani ci sarà l’anteprima del film. Hai un’altra occasione, amico, non sprecarla”

Era un ordine, Tom non avrebbe accettato un no. Anzi, non si aspettava proprio nessun tipo di replica. Pagò le due birre e si alzò con decisione, afferrando saldamente l’amico per un braccio per aiutarlo ad alzarsi.

“Vieni, ti ospito nella mia suite. Hai bisogno di dormire anche tu. Domani avrai l’intera giornata per pensare alle parole giuste da dirgli, fai un giro, resta in hotel, come preferisci. Ma domani sera non sentirò ragioni: accompagnerò prima te al teatro, poi tornerò a prendere lui. Ci godremo il film e quando ti vedrà farò in modo che non scappi. Poi vi riporterò in albergo e vi lascerò a parlare da me, territorio neutro, stavolta.”

Mentre parlava lo scortava fuori dal locale, chiamava un taxi, lo faceva salire, saliva a sua volta…era inarrestabile, sembrava che da quel piano dipendessero le sorti del mondo.

Freeman lo guardava affascinato, senza reagire. La stanchezza, l’alcool e le emozioni lo facevano sentire incapace di ribellarsi, e Tom era così sicuro, così convincente. Lo seguì senza fiatare fino in albergo, lo osservò prendere la chiave della suite e si lasciò trascinare, come lui trascinava il suo zaino, fino davanti alla porta poi si appoggiò stancamente al muro accanto allo stipite, mentre aspettava che lui aprisse.

Improvvisamente cominciò a ridacchiare senza riuscire a fermarsi, sentendosi leggero e un po’ stupido.

Aprendo la porta Tom si girò a guardarlo, incuriosito:

“Che ti prende?”

Martin riusciva a malapena a respirare, tra una risata e l’altra:

“Posso solo immaginare - cosa avrà pensato - il portiere!”

Hiddleston finse un’espressione offesa, lo prese per le braccia e lo spinse nella stanza:

“Idiota” gli sussurrò, ma non poté impedirsi di cominciare anche lui a ridere.

---

La notte era passata più tranquilla del previsto, per Martin. Sarà stato merito della birra, ma era sprofondato in un sonno senza sogni e quando aveva riaperto gli occhi il sole era già alto.

Tom non c’era, ma gli aveva lasciato un biglietto sul frigo: ‘Starò fuori tutto il giorno: devo vedere alcuni amici che vivono qui. “Fai come se fossi a casa tua”. Ci vediamo stasera alle 7. Buona giornata’.

Gli nacque spontaneo un sorriso intenerito...solo Tom poteva lasciare un messaggio sul frigo, come una mammina protettiva! Quel ragazzo era prezioso, un cuore ed un’anima rari.

E se tu non fossi l’uomo più stupido del pianeta, il suo aiuto ti avrebbe permesso di riconquistare Benedict! – ce l’aveva a morte con se stesso per aver sprecato quella meravigliosa opportunità che Hiddleston gli aveva procurato. E gliene avrebbe regalata un’altra stasera! Avrebbe tanto voluto essere all’altezza delle aspettative, quelle di Tom, quelle di Ben, quelle della sua famiglia…

‘Accidenti a te, Martin! So che non sei una persona orribile come vuoi sembrare, ma allora perché ti comporti in modo da rovinare sempre tutto?’ – quella frase, uscita dalle labbra di un antico amore, gli si era stampata dentro a lettere di fuoco e lui continuava a ripetersela ogni volta che si trovava in una situazione come quella. Era davvero il peggior nemico di se stesso. Bell’affare.

Decise che rimanere chiuso in albergo non sarebbe stata affatto una buona idea. Uscire gli avrebbe permesso di provare a contrastare i pensieri tristi e l’umore nero e se anche non ci fosse riuscito, perlomeno avrebbe visitato una città che non conosceva.

Si preparò in fretta ed uscì, sperando che tutti gli abitanti di Seul parlassero inglese.

Prese a gironzolare per il quartiere, godendosi la bella giornata e l’aria piacevolmente tiepida.

Seul non poteva non piacergli: una città con una storia di seicento anni, dove vestigia del passato e modernità estrema convivono creando un contrasto affascinante, definita la città più felice del mondo, nonostante i suoi dieci milioni di abitanti…praticamente un parco di divertimenti di più di 605 km², per lui.

Per un po’ dimenticò tutta la tensione accumulata fino al giorno prima, tutto il nervosismo e la frustrazione.

Finalmente, a 8852 km da Londra, si sentiva libero, nient’altro che un turista qualsiasi, un uomo normale a cui nessuna possibilità era preclusa, a cui nessuna regola dello show-business poteva impedire di essere felice, di vivere la vita che desiderava.

Aveva voglia di godersi la vacanza imprevista, di lasciarsi andare e fare qualcosa di sciocco, folle e perfettamente inutile.

L’ispirazione gli venne da una pubblicità: un negozio di dischi nel quartiere, il Room360 gestito da DJ Soulscape, organizzava un evento per aspiranti dj. Era a pochi minuti a piedi da dove si trovava e non riuscì a resistere alla tentazione di andare a vedere di cosa si trattasse.

Davanti al negozio una piccola folla indicava che le selezioni erano già cominciate. Si diede dell’idiota tre o quattro volte prima di mettere da parte ogni indugio e ogni remora e accodarsi per entrare, in fin dei conti cosa aveva da perdere?

La fila scorse più veloce del previsto così dopo meno di dieci minuti si ritrovò all’interno del locale, al primo piano di quel palazzo apparentemente fatiscente ma in realtà in ottimo stato.

L’ambiente era incredibile, sembrava di essere entrato in un video K-pop: luci colorate in movimento vivacizzavano pareti ed espositori in cui centinaia di vinili facevano bella mostra di sé, decine di ragazzi e ragazze con capelli improbabili si agitavano intorno a quattro consolle presidiate da un gruppo di dj locali, il tutto coordinato da DJ Soulscape in persona.

L’eccitazione arrivò alle stelle quando fu annunciato l’inizio del contest. Tutti i partecipanti si disposero accanto alla consolle loro assegnata in base al numero consegnatogli all’ingresso e anche Martin fece lo stesso. La sua consolle era la terza, al centro del locale, quindi passò in mezzo a spettatori urlanti, sfilando insieme ai suoi quattro “avversari” tutti coreani, ma nonostante fosse l’unico occidentale nessuno sembrò farci caso, con suo grande sollievo.

Prima di lui si esibirono due poco più che ventenni e decisamente in gamba, questo lo fece sentire per un po’ a disagio: un vecchio rimbambito in piena crisi di mezza età che cerca di sentirsi ancora giovane mischiandosi a ragazzi che potrebbero essere suoi figli, cimentandosi in prove fuori dalla sua portata. Ma la sgradevole sensazione durò poco perché guardandosi intorno si rese conto che nessuno sembrava pensarla a quel modo, anzi con la sua camicia a righine rosse, i jeans e il ciuffo biondo cenere attirava sguardi molto compiaciuti.

Quando fu il suo turno si immerse nella prova con tutto se stesso, impegnandosi come se dovesse conquistarsi un DJ Award. Si perse totalmente nella musica e con lui tutti quelli che lo circondavano, che cominciarono a fare il tifo per lui ballando e incitandolo, coinvolgendo l’intero locale.

Quando la sua performance si concluse gli sembrò di tornare sulla Terra dopo un viaggio nello spazio, erano anni che non si sentiva più così.

Sorridendo felice fece un inchino per ringraziare per gli applausi, ma quando rialzò lo sguardo dalla consolle vide qualcosa che gli fece mancare il fiato: in fondo al negozio, appoggiato ad uno scaffale, Benedict lo stava osservando con l’espressione di chi non riesce a credere ai propri occhi e una luce nello sguardo che, se non fosse stato assurdo, Freeman avrebbe potuto interpretare come orgoglio per il successo che gli aveva appena visto riscuotere.

In quel momento DJ Soulscape gli si avvicinò per complimentarsi e Martin non poté fare a meno di ringraziarlo e scambiare due parole. Salutato il dj, cercò di nuovo con lo sguardo Benedict che però era sparito.

Freeman sentì il mondo crollargli addosso. Si fece largo tra la folla scusandosi in tutte le lingue che conosceva e guadagnò rapidamente l’uscita. Scesa la prima rampa di scale lo vide nell’androne e non poté impedirsi di gridare per fermarlo:

“Ben, aspetta!”

Cumberbatch si bloccò raddrizzando le spalle, ma non si voltò e riprese a camminare. Martin si precipitò giù per la seconda rampa, lo raggiunse sul portone e lo afferrò per un braccio.

“Ti prego!”, esclamò accorato.

Benedict chiuse gli occhi e chinò il capo ma rimase di spalle, allora Freeman si mise tra lui ed il portone e rimase a fissarlo per un tempo che ad entrambi sembrò infinito, prima di chiedere:

“Com’è possibile che ci siamo incontrati qui!?”

Cumberbatch strinse i pugni e rialzò il viso incrociando lo sguardo dell’altro in cui lesse la sua stessa incredulità. Emise un sospiro spezzato.

“Sono andato a prendere un tè da Tieris, a pochi passi da qui. Stavo tornando in hotel quando, passando davanti a questo palazzo, ti ho visto in fila con gli altri. Non riuscivo a credere che fossi davvero tu, ero convinto che fossi in volo per l’Inghilterra, a quell’ora, così quando vi ho visto entrare vi ho seguito e mi sono trovato in quel posto surreale, con tutti quei ragazzi che facevano una confusione incredibile, la musica, le luci…ho pensato di stare sognando. In mezzo a quel caos ti ho perso di vista, così mi sono messo a scrutare tutto il locale per ritrovarti e provare a me stesso che non ero impazzito e improvvisamente ti ho visto prendere posto alla consolle e cominciare ad esibirti. A quel punto il dubbio che fosse un sogno è diventato una certezza e sono rimasto ad osservarti imbambolato. Ero troppo sotto shock per fare qualsiasi altra cosa.”

Aveva parlato di getto, senza mai prendere fiato, come quando Sherlock si lanciava in una delle sue strabilianti deduzioni, e l’altro era rimasto a guardarlo ipnotizzato, perso nella bellezza di quel volto acceso dall’enfasi della spiegazione.

Prima che un qualsiasi pensiero razionale potesse formarsi nella mente di Martin le sue mani si mossero verso il viso di Ben e lo presero con delicatezza e decisione.

In un attimo azzerò la distanza tra di loro e catturò quelle labbra, che sognava tutte le notti, in un bacio disperato.

Per lunghi istanti tutto scomparve intorno a loro, sovrastato dal battito dei loro cuori, poi Benedict riprese il controllo e si staccò da quel bacio ma non ebbe la forza di allontanarsi. Abbassò la testa e sussurrò, annientato:

“Martin, no…”

Entrambi ansimavano. Freeman, che aveva lasciato cadere le mani ne portò una sulla guancia scavata di Cumberbatch in una carezza adorante, cercando il suo sguardo.

“Benedict…Benedict”, non riusciva a dire altro. Fece scivolare la mano dietro quello splendido collo che lo aveva sempre fatto impazzire e lo attirò a sé, poggiando la fronte nell’incavo pulsante fra le clavicole di Ben che, non riuscendo a staccarsi da lui, sospirò:

“Dio…perché mi stai facendo questo…perché vuoi distruggermi!”

Martin scosse piano il capo per negare, per rifiutare il dolore che sentiva nelle parole di Ben e si sentì un mostro perché un sorriso affiorò sulle sue labbra al pensiero che quelle parole significavano che lui non lo aveva dimenticato, che provava i suoi stessi sentimenti e che averlo così vicino lo sconvolgeva ancora.

“Non voglio distruggerti, voglio ritrovarti. Voglio ritrovare quello che avevamo e costruirci il nostro futuro. Voglio averti accanto, proteggerti, renderti felice. Questo è ciò che voglio. È la mia ragione di vita, adesso, lo capisci? Mi credi?”.

Aveva parlato affondando sempre di più il viso nella camicia blu di Benedict, accarezzando la sua nuca, facendo scorrere il palmo dell’altra mano lungo quella schiena perfetta, sentendo i brividi che la percorrevano, gioendo di ogni singolo sussulto, dei piccoli singhiozzi con cui Ben cercava di prendere fiato.

Sentiva che lui non lo stava respingendo e questo gli fece pensare di avere una speranza, di riuscire a farlo arrendere alla realtà, alla forza di ciò che li legava indissolubilmente.

Cumberbatch poggiò la guancia sulla testa di Martin, il ciuffo morbido a solleticargli il mento. Sospirò:

“Sono così stanco…”

Sentì il cuore stretto in una morsa di tristezza, depositò un morbido bacio sullo sterno che si alzava e si abbassava velocemente sotto la stoffa blu, alzò il viso e si sentì annegare in quell’oceano velato di lacrime che lo fissava inviando una muta richiesta di soccorso, perché anche lui stava annegando.

“Andiamo via da qui. Torniamo in hotel, nella suite di Tom. Lì potremo stare tranquilli, almeno fino alle sette”.

Ben fu scosso da un lieve tremito, serrò la mandibola e annuì nervosamente.


Mentre Freeman prendeva la chiave alla reception, Benedict aspettava in piedi accanto all’ascensore, guardandosi intorno: si sentiva osservato come se tutti sapessero di loro. Quando Martin lo raggiunse lui lo seguì nell’ascensore con evidente sollievo, ma mantenne lo sguardo basso fino a che non si fermarono al piano della suite.

Entrarono trattenendo il respiro, si scambiarono uno rapido sguardo poi Martin gli prese una mano e se la poggiò sul cuore.

“Anche il tuo batte così forte?”, sorrise quasi imbarazzato. In fondo era la prima volta dopo tanto tempo che si trovavano da soli in una stanza con la certezza che nessuno li avrebbe cercati per ore. Una situazione che fino a due anni prima li avrebbe visti scambiarsi incandescenti effusioni e che adesso li faceva tremare nel profondo.

Benedict non poté evitarsi di sfiorare con la punta delle dita il tessuto sottile della camicia di Martin, chiuse gli occhi quando i polpastrelli percepirono il calore della pelle, inspirò e per un attimo si perse in quella sensazione, così familiare eppure quasi dimenticata.

Parlò senza volerlo:

“Il mio cuore batte così per te da tanti anni, Martin. Quando le cose tra noi si sono complicate ho provato mille modi per dimenticare quello che sentivo, per accettare e vivere una “normalità” che sembrava l’unica via possibile. Ho pensato che, se tu ci riuscivi, ci sarei riuscito anche io. Ti vedevo come un bel sogno proibito che lentamente svaniva, ti credevo felice così, lontano da me, e avevo paura di rovinare la mia vita per qualcuno che in realtà non teneva a quello che c’era tra noi. Ho cominciato a pensare che non fossimo destinati a stare insieme, che fosse un sentimento sbagliato. Così mi sono immerso nel lavoro e ho lasciato che le apparenze diventassero più importanti dell’essenza, la mia essenza, quella che amava te più della vita stessa.”

Quando si rese conto di aver parlato e di cosa aveva detto era troppo tardi: per quanto la sua voce fosse stata solo un sussurro, Martin doveva aver sentito e lui non sapeva se desiderarlo o temerlo.

Aprì gli occhi, preoccupato dal silenzio, e vide davanti a sé due iridi blu notte quasi completamente nascoste dalle pupille. Martin batteva le palpebre come se avesse la vista annebbiata. Le labbra dischiuse, le gote accese da un lieve tono di rosso, era uno spettacolo sconvolgente per Ben che non resistette alla tentazione di posargli una mano sul lato del collo, dove il pulsare ipnotico di una vena aveva rapito il suo sguardo.

Freeman piegò la testa per catturargli la mano tra la guancia e la spalla e chiuse gli occhi, beandosi di quel tocco. Quanto gli erano mancate quelle mani! Le mani più belle che avesse mai visto, che per anni avevano saputo donargli tutta la felicità che poteva desiderare. Voleva sentirle di nuovo su di sé, su ogni centimetro della sua pelle, e voleva ricambiare ogni tocco, ogni carezza, come faceva in quel meraviglioso passato che si era lasciato sfuggire e il cui ricordo era diventato la più dolce delle torture.

Una lacrima si fece strada attraverso le ciglia serrate e andò a bagnare le dita di Benedict.

Vedere Martin piangere era inconsueto, non era certo un tipo che si lasciava andare facilmente, anche per questo quella lacrima bruciò la pelle di Benedict come una goccia di acciaio fuso.

Quando un’altra goccia argentata si unì alla prima, Ben la asciugò prontamente con il pollice trasformando poi quel gesto in una carezza delicata, mentre la punta delle sue dita giocava con i corti capelli sulla tempia, un affascinante mix di biondo e grigio che rifletteva la luce della stanza e su cui lui avrebbe tanto voluto poggiare le labbra.

“Hai - parlato al passato…”. La voce di Martin era poco più di un singhiozzo.

“C-cosa?”, era talmente immerso nelle sensazioni che sfiorare Martin gli dava, che quelle parole, dette a mezza voce, gli sembrarono pronunciate in una lingua straniera.

Freeman però non fece in tempo a rispondere, perché i loro telefoni notificarono all’unisono l’arrivo di un messaggio.

Frastornati si separarono per controllare chi fosse. Entrambi gli schermi dicevano “Tom” (anche se su quello di Cumberbatch accanto al nome c’era scritto “Bro”, particolare che Martin aveva già notato in precedenza e che gli aveva sempre provocato una piccola fitta di gelosia, che sapeva essere ingiustificata ma che non riusciva ad evitare).

Il testo era lo stesso:

‘Sono nella hall, il portiere mi ha avvisato che la mia suite è stata invasa (scherzo). Volevo comunicarvi che sarebbe ora di prepararsi per andare alla proiezione. Ah, Martin, congratulazioni! Il portiere ha detto che hanno chiamato per te dal Room360: pare tu sia il vincitore del contest per dj, anche se non ho idea di cosa si tratti! Amico, sei pieno di talenti! Se posso salire vi spiego meglio a voce…’

Martin fece una risatina nervosa, quindi Tom sapeva che erano lì insieme, e chissà cosa pensava stessero facendo! Rispose al messaggio, con le dita che tremavano:

“Grazie! Ovvio che puoi salire!”

Ben invece inviò solo una emoji dal faccino imbarazzato. Poi si voltò verso il ‘vincitore del contest’ offrendogli un dolcissimo sorriso:

“Sapevo che avresti vinto: sei stato bravissimo”, strinse le labbra appena finito di parlare, perché sentiva gli occhi riempirsi di lacrime: era sempre stato fiero di lui, dei successi che conseguiva, gli era capitato più volte sul set di Sherlock di doversi frenare dal battere le mani o esprimere ad alta voce l’ammirazione per come aveva recitato una scena. Ricordava ancora il dolore sinceramente provato per l’interpretazione di Martin nella scena della morte di Mary, o in quella dell’abbraccio in The Lying Detective. Solo lui sapeva fargli vivere quelle emozioni, anche solo con uno sguardo.

In quel momento sentirono bussare. Martin si avvicinò alla porta e sussurrò:

“Parola d’ordine?”

Dall’altra parte si sentì arrivare qualcosa che poteva essere ‘cretino’ o qualsiasi altra cosa che avesse lo stesso suono, e una risata. Freeman aprì e si fece da parte per permettere ad un sorridente Hiddleston di entrare.

Mentre avanzava nella stanza Tom si rivolse a Cumberbatch inclinando lievemente la testa e mimando con le labbra ‘tutto bene?’, come risposta Ben si limitò ad un occhiolino che però fu intercettato da Freeman a cui mancò un battito per quel gesto familiare ma non rivolto a lui, questa volta.

Avrebbe dovuto rassegnarsi al fatto che l’amicizia tra Ben e Tom era di vecchia data e molto intensa, sapeva che erano come fratelli, ma lui aveva sempre avuto un temperamento geloso che con Benedict aveva raggiunto l’apoteosi: non si era mai sentito tanto possessivo nei confronti di qualcuno, era come se lui fosse un esploratore che aveva trovato una pietra preziosa dall’immenso valore e aveva timore a mostrarla al mondo, perché era e doveva essere solo sua!

Raggiunse anche lui il centro della stanza.

“Sto bene anch’io, Tom, grazie per avermelo chiesto!”

Hiddleston si voltò con un ghigno divertito sul viso:

“Fai poco lo spiritoso, tu. Piuttosto: non posso lasciarti un attimo da solo che mi diventi l’idolo di Seul! Mi spieghi che accidenti sta succedendo?”

Freeman si sedette sul divano e raccontò più sinteticamente possibile come erano andate le cose, omettendo il finale nell’androne.

Nel frattempo Hiddleston si era accomodato in una poltroncina e, mentre ascoltava, faceva scorrere lo sguardo da uno all’altro dei suoi amici. Poté così cogliere con estrema facilità l’espressione fiera di Cumberbatch nel rivivere quei momenti. Si sorprese a pensare ‘Ah Ben, sei proprio cotto amico mio! Come ho fatto a non rendermene conto? E, del resto, come darti torto? Siete una coppia perfetta. Guai a te se non mi chiederai di essere il tuo testimone di nozze!

I suoi pensieri furono interrotti da Martin che attirò la sua attenzione con una domanda:

“Ma…mi stavi prendendo in giro, prima, dicendo che ho vinto. Vero?”

Ci mise un po’ a realizzare.

“Eh? No – no…è vero! Me lo ha detto il portiere: pare tu abbia sbaragliato la concorrenza!”

“Non posso crederci! L’ho fatto per giocare, perché mi annoiavo!”

“Beh, non solo hai vinto ma sei stato invitato stasera alle 11 a tenere un piccolo concerto per beneficenza nello stesso locale, con la collaborazione di DJ Soulscape. Un trionfo, mio caro Martin!”

Freeman si agitò, guardando in direzione di Cumberbatch.

“Ma – stasera non c’è l’anteprima?” – riportò lo sguardo su Hiddleston – “Mi avevi detto che potevo assistere…”

Tom si fece serio:

“Ehi, calmati, sì che puoi. Andremo insieme al teatro, tanto per l’ora dello spettacolo l’anteprima sarà finita e avremo anche salutato il pubblico. Non penserai che io voglia perdermi la tua performance!? Ci tengo almeno quanto Ben a vederti esibire. Eh, Ben?”

Rivolse a Cumberbatch un sorrisetto furbo, anche Martin lo guardò ed entrambi lo videro arrossire.

“Ce-certo. Non – vedo l’ora”

Hiddleston si alzò e si diresse verso la camera:

“Allora faremo meglio a prepararci per andare alla proiezione, altrimenti tutti i nostri programmi salteranno! Ci vediamo nella hall, Ben?”

Cumberbatch era già sulla soglia della suite:

“Ci metto cinque minuti!”, poi si rivolse a Freeman, che lo guardava con gli occhi di un cucciolo che sta per essere abbandonato, “Parleremo ancora, dopo, vero Martin?” – disse a bassa voce.

Il volto di Martin si rischiarò:

“Io – vorrei tanto”

Benedict gli riservò un sorriso che illuminò la stanza:

“Anche io”, annuì appena e uscì, chiudendo la porta della suite come avrebbe chiuso lo scrigno di un inestimabile tesoro affidatogli.

---

La proiezione in anteprima di Infinity war fu, come previsto, un grande successo. Quando le luci si riaccesero, nel teatro, gli spettatori erano emozionati e commossi e proruppero in un fragoroso applauso che presto si mutò in una standing ovation. I protagonisti furono invitati a salire sul palco per salutare, ringraziare e sottoporsi alla pioggia di flash dei reporter in sala.

Accuratamente nascosto in un palco Martin aveva seguito il film con il cuore in gola. Aveva anche lui recitato al fianco di un eroe Marvel, conosceva bene il fascino che quei supereroi e le loro gesta esercitavano sul pubblico ed essendone a suo modo parte, si riteneva in un certo senso immune. Invece quel film lo aveva stregato. Aveva vissuto ogni attimo di quell’epopea come avrebbe fatto a sedici anni, seguendo le sorti dei protagonisti con apprensione e commozione. Particolarmente colpito, neanche a dirlo, dall’interpretazione di Benedict.

Prima che qualcuno potesse accorgersi della sua presenza si diresse al luogo convenuto per aspettare gli altri due e recarsi al Room360.

Non ci poteva pensare: si sarebbe esibito come un vero dj, affiancato dal più famoso dj coreano, compositore di colonne sonore e di brani che facevano ballare migliaia di giovani. E lui che amava soul, jazz e funky! Quali musiche avrebbe dovuto far suonare, per quell’audience così particolare? Ci aveva riflettuto per tutto il tempo, mentre si preparava, poi aveva avuto un’illuminazione improvvisa e siccome era pronto in anticipo aveva scritto la sua playlist su un foglio, con un ordine preciso, perché ogni brano aveva un significato ed un riferimento anche temporale, e l’aveva dettato per telefono, con le indicazioni per creare il remix, a DJ Soulscape che si era dimostrato entusiasta della scelta.

Ora bisognava solo aspettare di essere lì, tutti e tre, e far sì che Benedict ascoltasse con attenzione tutti i brani. Ricordava bene quanto fosse bello ascoltare musica insieme, soprattutto nelle serate autunnali, davanti al camino, quasi un cliché. Ma la cosa più bella era Ben, che dimostrava di apprezzare qualunque brano lui gli facesse ascoltare, facendosi piacere anche generi e canzoni che lo annoiavano a morte, piuttosto che rischiare di ferire Martin.
 
Quei ricordi gli strappavano il cuore dal petto. La sua unica speranza era che tutto andasse come in una commedia musicale con tanto di happy ending, ma non avrebbe avuto modo di saperlo fino alla fine della serata e questo lo mandava in fibrillazione.

Quando Cumberbatch e Hiddleston lo raggiunsero, salirono sul primo taxi disponibile e si fecero portare al Room360.

Giunti a destinazione furono accompagnati all’entrata di servizio per evitare la folla formatasi e, mentre Tom e Benedict venivano fatti accomodare nei posti migliori, Martin fu raggiunto da DJ Soulscape che se lo portò via parlandogli di come si sarebbe svolta la serata.

Il negozio era irriconoscibile: aveva assunto un aspetto da club con poltroncine e tavoli, delle quattro consolle solo una era rimasta ed era stata posizionata su una pedana al centro del locale, in modo che fosse visibile da ogni angolazione. Le poltrone ed i tavoli erano davanti e ai lati della consolle, mentre dietro era stato lasciato spazio per tutti coloro che, non avendo un invito speciale, avevano acquistato un biglietto a prezzo ridotto e avrebbero seguito l’esibizione in piedi.

Gli spettatori erano talmente tanti che Hiddleston si chiese, non senza una certa apprensione, se non avessero superato il massimo della capienza del locale.

Benedict era estasiato. Non che lui fosse un amante di situazioni affollate e locali rumorosi, ma quella era un’occasione speciale: quella era la serata di Martin e lui, fiero ed entusiasta come un ragazzino, non se la sarebbe persa per nulla al mondo! Il trionfo appena conseguito sul palco del teatro in cui si era svolta l’anteprima era svanito dalla sua mente, questo era infinitamente più emozionante.

Finalmente DJ Soulscape apparve accanto alla consolle e chiese l’attenzione del pubblico. Tutti fecero immediatamente silenzio, Ben e Tom si scambiarono uno sguardo allegro, pieno di eccitata anticipazione. Il dj spiegò le motivazioni della serata e annunciò l’esibizione di Martin che in quel momento salì sulla pedana, in postazione, pronto a far partire la playlist scelta e a lanciarsi nel remix. Sembrava tranquillo, ma in cuor suo ringraziò la scarsa illuminazione che nascondeva il suo sguardo ansioso e il leggero tremore delle mani. Per lui quella serata andava molto al di là di un evento di beneficienza, per quanto importante, o una performance e una premiazione…dalla riuscita dei suoi piani dipendeva la sua felicità, la sua intera esistenza.
 
Avrebbe voluto cominciare subito, ma gli venne chiesto di illustrare brevemente il genere musicale o l’artista scelti e lui non poté esimersi dal farlo. Del resto avrebbe potuto essere utile al suo scopo, quindi accettò di buon grado e prese il microfono.

“Buonasera a tutti. Vi ringrazio per essere intervenuti così numerosi.” – si schiarì la voce – “Dunque…ho voluto tentare un esperimento, una sorta di ‘fusion’ tra il pop e i generi che io amo: jazz, soul e funky, quindi ho scelto sei brani tutti, tranne uno, di Marlena Shaw che si prestano bene allo scopo. Spero che sappiano parlare al cuore di tutti voi, e ad uno in particolare…”

Marlena Shaw. Quel nome provocò nella mente di Benedict un rapido susseguirsi di ricordi, come istantanee scattate nei momenti più felici della sua vita, quelli passati insieme a Martin. Questo era un colpo basso da parte sua. Si ripromise di farglielo notare quando sarebbero finalmente riusciti a parlare di nuovo, più tardi.

L’applauso che seguì le parole introduttive di Freeman fece tornare Ben a concentrarsi sull’esibizione, ma sentì su di sé lo sguardo di Tom. Si voltò per ricambiarlo e si rese conto che doveva avere un’espressione desolata perché Hiddleston gli fece un timido sorriso sghembo e gli diede una leggerissima spallata, un gesto di conforto amichevole abituale tra loro.

La musica partì e il cuore di Cumberbatch sembrò fermarsi.

Il primo brano si intitolava Sweet beginnings

Sweet beginnings
(Sweet beginnings)
Oh.... anything can happen
Now the door is open
Eyeyeye, oh love why don't you come on in

Laughter is a language, lovers use in small cafes
Words could not invade what their eyes have to say
Laugh inside and hesitate, if we must have a pride
Laughing right out loud, to as it one time

(Dolce inizio
(Dolce inizio)
Oh ... può succedere di tutto
Ora la porta è aperta
Ehi, amore, perché non vieni dentro?

La risata è una lingua, che gli innamorati usano nei piccoli caffè
Le parole non possono invadere ciò che i loro occhi hanno da dire
Ridi dentro di te e esiti, se dobbiamo avere un orgoglio
Ridere a squarciagola, come una volta)


Martin aveva scelto quella canzone perché sapeva bene cosa avrebbe ricordato a Benedict e infatti, nella mente di Cumberbatch, si era immediatamente acceso un riflettore sulla prima serata passata insieme lontano da Londra.
Un cottage in Cornovaglia, il camino acceso e un iPod in cui Martin teneva tutta la sua musica preferita. ‘Ascolta questo brano di Marlena Shaw…dimmi se ti fa pensare a qualcosa’. Il blu degli occhi di Freeman, reso più intenso dal riflesso delle fiamme, scavava nell’animo di Ben, cercando la chiave del suo cuore. Quella canzone parlava di loro due, dei loro primi incontri, della sensuale timidezza di Benedict, della tenera irruenza di Martin. Loro, così diversi eppure così simili, legati da qualcosa di innegabile e inestinguibile. Loro, e il dolce inizio del loro amore.

Sweet beginnings
(Sweet beginnings)


(Dolce inizio
(Dolce inizio)


Freeman fece sfumare le ultime parole del ritornello nella canzone successiva You taught me how to speak in love.

I know how to say ‘Te amo’
I know how to say ‘Je t'aime’
I've used a thousand phrases
Without any love in them
But your eyes
Always spring things I've never heard before
Now I don't need words any more

Oh cause you taught me how to speak in love
Your kisses taught me how to speak in love
The sweetest language that I know
Oh you taught me how to speak in love
And since you taught me how to speak in love
The things you'd never have to say
Oh say you love me so

While we're holdin' one another
And we're close to sleep in bed
Your fingers brush my cheek and say
That you want me again
All my life, I've been waitin' for the chance to see
The things your smile's been tellin' me

Oh ‘cause you taught me how to speak in love
(So come dire Te amo
So come dire Je t'aime
Ho usato mille frasi
Senza alcun amore in loro
Ma i tuoi occhi
Esprimono sempre cose che non ho mai sentito prima
Ora non ho più bisogno di parole

Oh perché mi hai insegnato come parlare in amore
I tuoi baci mi hanno insegnato come parlare in amore
Il linguaggio più dolce che io conosca
Oh, mi hai insegnato come parlare in amore
E da quando mi hai insegnato come parlare in amore
Le cose che non avresti mai dovuto dire
Oh, mi ami così tanto

Mentre ci stringiamo l'un l'altro
E stiamo per addormentarci nel letto
Le tue dita mi sfiorano la guancia e dicono
Che mi vuoi di nuovo
Per tutta la vita, ho aspettato per la possibilità di vedere
Le cose che il tuo sorriso mi ha detto

Oh, perché mi hai insegnato a parlare in amore)



Era solo il secondo brano e Benedict aveva già perso la cognizione del tempo e dello spazio. Ormai lanciato suo malgrado nei ricordi, scosso dallo stesso tremito che provava nelle braccia di Martin, la sua mente era diventata lo schermo su cui la loro storia veniva proiettata. In un attimo di lucidità si guardò intorno, convinto di avere gli occhi di tutti addosso. Si sentiva esposto e vulnerabile, incapace di controllare l’espressione del viso, concentrato sulla necessità di trattenere le lacrime. Con sollievo vide che nessuno stava guardando lui: tutti erano concentrati su Freeman, attratti dal suo carisma e dal suo talento come da una potentissima calamita. Non si accorse però che l’unico che guardava lui, anche se con la coda dell’occhio, era Tom, che percepiva chiaramente le sue emozioni e soffriva con lui, consapevole di stare assistendo al travagliato punto di svolta di quella storia senza poter fare nulla per aiutare il suo migliore amico.

Mentre ancora erano entrambi presi dai loro pensieri, Freeman inserì il terzo brano che si discostava dagli altri ed introduceva l’elemento pop. Il ritmo diverso indusse gli spettatori a ballare e l’atmosfera si alleggerì notevolmente, anche se non per Cumberbatch che ricordava bene quando l’aveva ascoltata con Martin.
Le piacevoli note di You are the sunshine of my life e l’inconfondibile voce di Stevie Wonder si diffusero nel locale e la mente di Benedict venne trasportata lontano.

You are the sunshine of my life
That's why I'll always be around
You are the apple of my eye
Forever you'll stay in my heart
I feel like this is the beginning
Though I've loved you for a million years
And if I thought our love was ending
I'd find myself drowning in my own tears
You are the sunshine of my life
That's why I'll always stay around
You are the apple of my eye
Forever you'll stay in my heart

You must have known that I was lonely
Because you came to my rescue
And I know that this must be heaven
How could so much love be inside of you?
You are the sunshine of my life, yeah
That's why I'll always stay around
You are the apple of my eye
Forever you'll stay in my soul
Love has joined us
Love has joined us
Let's think sweet love

(Sei il raggio di sole della mia vita
Ecco perché ci sarò sempre
Sei la pupilla dei miei occhi
Per sempre resterai nel mio cuore
Sento che questo è l'inizio
Anche se ti ho amato per un milione di anni
E se pensassi che il nostro amore sta finendo
Mi troverei ad annegare nelle mie stesse lacrime
Sei il raggio di sole della mia vita
Ecco perché resterò sempre vicino
Sei la pupilla dei miei occhi
Per sempre resterai nel mio cuore

Devi aver saputo che ero solo
Perché sei venuto in mio soccorso
E so che questo deve essere il paradiso
Come può esserci tanto amore dentro di te?
Sei il sole della mia vita, sì
Ecco perché resterò sempre vicino
Sei la pupilla dei miei occhi
Per sempre resterai nella mia anima
L'amore si è unito a noi
L'amore si è unito a noi
Pensiamo ad un dolce amore)


Le riprese della seconda stagione erano appena terminate, l’ultimo episodio si era concluso col tragico volo di Sherlock dal tetto del St. Bart’s, la disperazione di Watson inginocchiato sull’asfalto accanto a quel corpo senza vita, le lacrime e l’accorata richiesta di un ultimo miracolo davanti alla lapide ‘Don’t be dead’. Sebbene sapessero che, in accordo con il canone, Holmes non era veramente morto e che ci sarebbe stata una terza stagione, girare quelle scene era stato emotivamente pesante per entrambi: erano ormai parte uno dell’altro e il pensiero di perdersi, inevitabilmente suscitato dalle esigenze di copione, era insopportabile.

Per aiutarsi reciprocamente a riprendersi Martin aveva proposto una serata a tema in un locale nel West End. Il tema erano gli anni settanta e molte persone erano vestite secondo la moda di quell’epoca. Benedict aveva colto al volo l’occasione per prendere in giro Freeman: ‘Ti sentirai a tuo agio stasera’ – gli aveva detto appena entrati – ‘sono quasi tutti vestiti come te! Oh guarda! Quel tipo laggiù ti ha rubato una camicia!’. Martin non poté fare a meno di ridere, per quanto cercasse di mostrarsi offeso: ‘Attento, Benny Hill, potresti pagare molto cara la tua sfrontataggine!’. Continuando a ridere erano andati a sedersi su un divanetto in un angolo del locale, poi Martin era andato a prendere da bere per entrambi e, mentre Cumberbatch aspettava, il dj lanciò You are the sunshine of my life.

Sospirando e chiudendo gli occhi Benedict si era appoggiato allo schienale per rilassarsi. Nel momento in cui la sua nuca toccò la spalliera la voce di Freeman, che cantava con un tono basso e sensuale seguendo il testo della canzone, sfiorò il suo orecchio inviando una serie di brividi inarrestabili alla sua spina dorsale. Poi Martin gli prese con delicatezza il mento e gli posò un leggero bacio sulle labbra. Fu un contatto breve, Benedict poteva anche pensare di averlo sognato, se non fosse stato per la frase che subito dopo Freeman soffiò sulla sua bocca: ‘Sei veramente la luce del sole, per me. Prima di te ho vissuto nella nebbia, il tuo splendore e il tuo calore mi hanno riportato in vita’. Gli si era seduto accanto lasciandogli una carezza leggera sulla guancia e Benedict non si era mai sentito tanto felice.

Le note del presente si sovrapposero a quelle del ricordo, mentre Martin mixava abilmente il brano con quello successivo I wish I knew, quasi un gospel, un inno alla libertà di esprimersi, di vivere, di essere se stessi ed amare, senza limiti, senza il peso dei pregiudizi.

Well I wish, I knew how It would feel to be free
Just to break all of the chains, that kinda keep binding me
And I wish that I could say, all that I'm longing to say
Say it loud, say it clear for the whole wide world to hear

And I wish that I could share all the love I got in my heart
Lord how sweet it would be If we never never had to part
And I wish that you could know what it's really like to be me
Then you would see and agree every man ought a be free

And I wish that I could sing like a bird up in the sky
Lord! How sweet it would be child if I found that I could fly
I would soar up to the sky and I'd look down, look down at the sea, and then I would sing, 'cause I know what it's really like to be free

I wish, I knew how It would feel to be free
Just to break up all the chains, that just keep on binding me
And I wish that you could know, what it's like to be me
I know you would see how, and then agree
Each and every man ought a be free

Freedom, Freedom, Each and every man wants freedom
Free at last, free at last good God mighty I'm free at last
I wish you could know, I wish you could see
I wish you could know what it's like to be free

(Beh, vorrei sapere come ci si sente liberi
Solo per rompere tutte le catene, quelle che mi tengono legato
E vorrei poter dire, tutto ciò che desidero dire
Dirlo forte, dirlo chiaramente a tutto il mondo

E vorrei poter condividere tutto l'amore che ho nel cuore
Signore! Quanto sarebbe dolce se non avessimo mai dovuto separarci
E vorrei che tu sapessi cosa vuol dire essere me
Allora vedresti e concorderesti che ogni uomo dovrebbe essere libero

E vorrei poter cantare come un uccello in cielo
Signore, quanto sarebbe dolce se scoprissi che posso volare
Mi alzerei verso il cielo e guarderei giù, guarderei verso il mare,
e poi canterei, sapendo cosa vuol dire essere liberi

Vorrei sapere come sarebbe sentirsi libero
Solo per rompere tutte le catene, che continuano a legarmi
E vorrei che tu potessi sapere, com'è essere me
So che vedresti come, e poi saresti d'accordo
Che ogni uomo dovrebbe essere libero

Libertà, libertà, ogni uomo vuole la libertà
Finalmente libero, finalmente libero, buon Dio, sono finalmente libero
Vorrei che tu potessi sapere, vorrei che tu potessi vedere
Vorrei che tu sapessi cosa vuol dire essere liberi)


Questa era una canzone che Benedict non ricordava, ma il messaggio era chiaro tanto quanto era potente il significato e lui ricordava benissimo quanto straziante fosse stato affrontare il discorso sulla libertà di amare e il suo prezzo, sui pregiudizi del mondo (il loro mondo, in particolare) e il mare di difficoltà in cui si sarebbero trovati a navigare. Ricordava il dolore provato nel capire che Martin non era pronto, nonostante tutto, ad accettare le conseguenze del rivelare il loro amore.

Gli aveva chiesto di aspettare, di lasciare tutto com’era e Ben si era sentito tradito, usato: Martin voleva stare con lui, amarlo, ma poi tornare da Amanda, che nel frattempo era anche entrata a far parte del cast nel ruolo della moglie di Watson! Un’intera stagione in cui il fantasma del pensiero che Martin non gli apparteneva realmente aveva infestato il set, mettendogli sotto gli occhi ad ogni ciak la realtà: solo Amanda aveva il diritto di abbracciare e baciare Martin, stringersi a lui e sentirsi sua. Lui, Benedict, era il vero fantasma, inconsistente ed evanescente quanto la possibilità di un loro futuro insieme.

Fu allora che all’orizzonte apparve Sophie. Si era immerso nel lavoro, quattro ruoli in meno di un anno dalla fine delle riprese della terza stagione di Sherlock, soprattutto per avere quanti più pretesti possibile per stare lontano da Freeman e per non pensare. Anche Martin era preso dal terzo film della trilogia de Lo Hobbit, tanto che la produzione di Moffat e Gatiss aveva subito uno stop. Erano lontani i tempi in cui si incontravano sul set BBC e poi su quello di Jackson, i tempi di Bilbo Baggins e Smaug che si abbracciavano incontrandosi, come se non si vedessero da chissà quanto tempo mentre pochi giorni prima si erano visti nei panni di Holmes e Watson.

A novembre del 2014 arrivò l’annuncio del fidanzamento con la Hunter e sia Ben che Martin pensarono fosse la fine di tutto.

I ricordi avevano ormai invaso le menti di entrambi, irrefrenabili, minacciando di travolgerli.

Le mani di Freeman tremarono più forte e ci fu un piccolo problema di missaggio col brano successivo: Without you in my life. Da esperto dj riprese subito il controllo e le note si sovrapposero per alcuni attimi, lasciando poi spazio alla malinconica, intensa voce della cantante.

I fooled around
And you walked right out of my life
Into another’s arms
I could not believe I might be telling me
I have lost my chance – oh no!
[…]
How was I to know
I would be the one to get left behind?

Without you in my life
What am I to do?
‘Cause my days don’t seem right
And I can’t sleep at night
Without you in my life

As the minutes pass me by
I sit alone at night
Thinking of you

I was deaf, dumb and blind
Actin’ that your love
I’d never lose

Without you in my life
What am I to do?
‘Cause my days don’t seem right
And I can’t sleep at night
Without you in my life

(Sono stato incauto
E sei uscito dalla mia vita
Tra le braccia di un altra
Non potevo credere che avrei potuto dirlo
Ho perso le mie possibilità - oh no!
[…]
Come potevo saperlo
Che sarei stato l'unico ad essere lasciato indietro?

Senza di te nella mia vita
Che cosa devo fare?
Perché i miei giorni non sembrano giusti
E non riesco a dormire la notte
Senza di te nella mia vita

Mentre passano i minuti
Siedo da solo di notte
Pensando a te

Ero sordo, muto e cieco
Pensando che il tuo amore
Non lo avrei mai perduto

Senza di te nella mia vita
Che cosa devo fare?
Perché i miei giorni non sembrano giusti
E non riesco a dormire la notte
Senza di te nella mia vita)


Mentre finalmente il disco girava diffondendo indisturbato le sue note e quelle parole di rimpianto, Martin provò a frenare il tremito delle mani, stringendole tra loro, ma ebbe come unico risultato di farlo trasmettere al resto del suo corpo. Il ricordo di tutte le volte che aveva ascoltato quella canzone seduto da solo al buio, asciugandosi rabbiosamente le lacrime che sfuggivano dai suoi occhi per raggiungere le labbra e rammentargli, col bruciore del loro sale, quanto bruciante fosse la mancanza di Benedict nella sua vita, lo aveva colpito senza pietà come una frustata in pieno viso.

Ripensò al momento in cui seppe la data delle nozze (il 14 febbraio, così San Valentino non sarebbe più stata la ricorrenza del loro primo appuntamento, ma l’anniversario di quel matrimonio!), e che meno di tre mesi dopo Sophie avrebbe dato alla luce un figlio…
Quante volte si era maledetto, dopo quella notizia? Aveva perso il conto.

Quando Mark gli comunicò il titolo dell’episodio speciale The abominable bride gli provocò una risata quasi isterica: l’abominevole sposa, ma davvero? L’ironia della situazione era quasi crudele.
Tutto sommato fu una bellissima esperienza, e il rapporto tra loro sembrava tornato ideale. Si capivano al volo, come sempre, e la recitazione scorreva fluida, piacevole, tanto da fargli sperare di avere un’altra possibilità. Ma non ci fu un seguito. I loro rapporti si esaurirono con la fine delle riprese.

La quarta stagione di Sherlock pose fine anche all’ultima speranza.

Sul set si respirava solo disperazione e rabbia, non erano più vicini come un tempo e le scene da interpretare non li aiutavano affatto. Ci fu un solo momento in cui i muri caddero e i loro cuori ripresero per un po’ a battere all’unisono. Durante le riprese di The lying detective Sherlock abbracciò John che piangeva disperatamente…Benedict abbracciò Martin che non stava affatto recitando, sotto gli occhi di Amanda che sapeva tutto anche se nessuno le aveva detto nulla. Purtroppo durò il tempo di quel ciak, poi di nuovo tutto finì, come un incantesimo spezzato.

Dopo The final problem Cumberbatch era definitivamente fuori dalla vita di Freeman, ma Benedict manteneva saldo il suo posto nel cuore di Martin.

Il momento di mixare l’ultimo brano arrivò troppo presto: mentre le note si disperdevano nell’aria DJ Soulscape si accorse che qualcosa non andava, si avvicinò alla consolle e, fingendo che fosse tutto programmato, prese il microfono, passò un braccio attorno alle spalle del suo “collega” ed esordì:

“Ed eccoci giunti all’ultima canzone. Il nostro ospite d’onore ha lasciato per il finale il pezzo più importante…vero Mart?”

Con una stretta rassicurante e un sorriso a trentadue denti passò il microfono ad un frastornato Freeman che gli sorrise con gratitudine e fece del suo meglio per togliersi di dosso la cappa di dolore che lo aveva quasi atterrato. Puntò lo sguardo su Cumberbatch, che non aveva smesso di fissarlo un solo istante dall’inizio dell’esibizione, e annunciò la canzone:

You been away too long chiude questa serata. È davvero il brano più importante perché dichiara amore e appartenenza, e non c’è altro che conti: quando, nella vita, si riconosce l’amore nel volto di una persona non si può lasciarlo andare. Può capitare di essere così stupidi e folli da allontanarlo, perché il vero amore fa paura. Ma poi bisogna combattere per riconquistarlo, perché vale ogni lotta, ogni sacrificio, ogni ferita. Perché siamo nati per quella persona e possiamo vivere solo se l’abbiamo accanto…”

Il pubblico lo fissava ammutolito, col fiato sospeso, in attesa. Martin sganciò lo sguardo dalle iridi in tempesta di Ben, chinò la testa sulla consolle e fece partire il disco.

If you knew
How much I miss you!

You've been away too long
You shouldn't stay so long
Now my life is much too empty
When you're gone
Now how you wouldn't stay so long
You could not stay so long
If you know how much I miss you babe
When you're gone

All day long
And every night it's you
I'm thinkin' of
We belong
Like the stars to the night
If you looked in your heart
You would know that I'm right so
Don't make me wait so long
How could you take so long
Everything seemed so empty baby
And life wasn't meant to be lonely baby
Oh, darlin' you know it's you only
When you're gone

I sit back all day long
Each and every night
It's only you
That I'm thinkin' of
We belong
Like the stars to the night
If you looked in your heart
You would know that I'm right
So why should you make me wait so long
How could you take so long
You know that everything seems so empty
And life wasn't meant to be lonely
And I'll let you know, it's you only
When you're gone

Oh, baby
Yeah, daddy
When you—
When you're gone
Who could stand it?
Knowin' the kind of love you got
What man could take it
When he's had part of your love

(Se sapessi
Quanto mi manchi!

Sei stato via troppo a lungo
Non saresti dovuto restare lontano così a lungo
Ora la mia vita è troppo vuota
Da quando te ne sei andato
Ora non vorresti restare lontano così a lungo
Non potresti restare lontano così a lungo
Se sapessi quanto mi manchi, tesoro
Da quando te ne sei andato

Tutto il giorno
E ogni notte
è a te che penso
Ci apparteniamo
Come le stelle alla notte
Se guardassi nel tuo cuore
Sapresti che ho ragione
Non farmi aspettare così tanto
Come hai potuto prenderti così tanto tempo
Tutto sembrava così vuoto, baby
E la vita non doveva essere così solitaria, baby
Oh, tesoro, sai che ci sei solo tu
Da quando te ne sarai andato

Siedo tutto il giorno
Ogni notte
è solo a te che penso
Ci apparteniamo
Come le stelle alla notte
Se hai guardato nel tuo cuore
Sai che ho ragione
Allora perché dovresti farmi aspettare così tanto
Come puoi prenderti così tanto tempo
Sai che tutto sembra così vuoto
E la vita non doveva essere solitaria
E ti farò sapere che ci sei solo tu
Da quando te ne sei andato

Oh, baby
Sì, daddy
Quando tu-
Quando te ne sei andato
Chi potrebbe sopportarlo?
Conoscendo il tipo di amore che hai
Quale uomo potrebbe riuscirci
Quando ha avuto una parte del tuo amore?)



L’applauso scrosciante gli fece rialzare la testa. La folla lo acclamava osannante, ma lui riusciva a vedere soltanto i due posti vuoti lasciati da Tom e Benedict. Avvertì distintamente il rumore del suo cuore che si spezzava, emise un lungo sospiro di rassegnazione e cercò dentro di sé la forza di ringraziare e sorridere, fece un piccolo inchino e lasciò che l’entusiasmo del pubblico lo avvolgesse.

DJ Soulscape gli si affiancò di nuovo, si congratulò con lui poi chiese a tutti di fare silenzio.
Tra le mani teneva il trofeo del contest che consegnò a Martin, ringraziandolo per la splendida performance e per aver contribuito alla causa benefica per cui quella serata era stata organizzata: grazie a lui erano stati raccolti quasi 13 milioni di Won, il corrispettivo di circa 9 mila Sterline, un vero successo.
Martin ascoltava e sorrideva, poi finalmente fu tempo di salutare e andarsene, con in bocca l’amaro lasciatogli dalla consapevolezza che lui stasera non aveva vinto affatto, anzi.

Una volta in strada rimase fermo qualche istante, inspirando profondamente l’aria umida della notte che gli accarezzava la fronte sudata, rigirando il trofeo tra le mani. Quindi si incamminò verso l’hotel.
Fatti pochi passi fu affiancato da un taxi. Lì per lì si preoccupò e accelerò, poi fu raggiunto dalla voce di Hiddleston.

“Martin, dove corri? Sali dai, torniamo in albergo”

Voleva chiedere dove fosse Ben, ma se lo impedì con tutte le forze.
“Grazie Tom, preferisco camminare”

“Non ti conviene, credimi. È più lontano di quanto sembri. Dai, sali…”

Si voltò a guardarlo e si lasciò convincere dall’espressione quasi implorante di Tom.
Entrò nel taxi sbuffando:

“C’è qualcuno che riesce a dirti di no?”

Hiddleston ridacchiò e rispose:
“Uhm, fammi pensare…no, non c’è”

“Ne ero certo”, e con un altro sbuffo si lasciò andare con forza contro lo schienale.
 

Giunti in hotel Hiddleston andò alla reception poi fece un cenno a Martin che era rimasto in mezzo alla hall, guardando pensieroso il premio, cercando di capire cosa rappresentasse.
Salirono nell’ascensore, senza che Freeman proferisse verbo. Tom lo guardava di sottecchi e non riusciva a sopprimere un sorrisetto, nonostante la preoccupazione continuasse ad appesantirgli il cuore.

Le porte dell’ascensore si aprirono e Martin seguì Tom fino alla porta della suite, senza badare a quale piano si fossero fermati, né che la porta si trovava dal lato opposto al solito. Si accorse che c’era qualcosa di strano solo quando Hiddleston bussò, invece di usare la chiave.
Raddrizzò la schiena e rivolse un’occhiata interrogativa all’amico, che in quel momento rispose “Noi” ad una domanda proveniente dall’interno che lui però non aveva sentito.
Quando la porta si aprì Freeman sentì il pavimento del corridoio farsi molle sotto i suoi piedi, o forse erano le sue gambe che stavano cedendo: il viso di Benedict, davanti a lui, sembrava essere stato assorbito dai suoi occhi, tanto erano grandi: due laghi alpini che lo osservavano liquidi ed incerti ma con dentro una scintilla che prima non c’era.

Spostando per un attimo lo sguardo su Hiddleston, Cumberbatch mormorò “Grazie” e mentre Tom si allontanava tornò a guardare Freeman, che non riusciva ad uscire dal lieve stato di shock in cui l’apparizione di Ben lo aveva gettato.
Cumberbatch scostò piano la porta e fece un passo indietro, ma Martin non si mosse quindi disse, in un soffio:

“Non vuoi entrare?”

Martin, che stringeva convulsamente il trofeo quasi potesse aggrapparvisi per non cadere, annuì lentamente e fece due passi in avanti con la stessa incertezza del primo uomo sulla Luna. Appena fu dentro la stanza serrò le palpebre e si appoggiò con le spalle alla parete per riprendere fiato, perché si accorse che stava ansimando, come se avesse fatto una corsa. Il rumore della serratura della porta gli fece riaprire gli occhi. Benedict era di nuovo di fronte a lui, con le braccia abbandonate lungo i fianchi, pallido, con un’espressione che faceva pensare ad un imputato che aspettava la sentenza.
Siccome Martin rimaneva in silenzio, Ben inalò quanta più aria poté tentando di riempire i polmoni, che rifiutavano di espandersi e cominciò:

“Le – cose che hai detto – le parole – di quelle canzoni…”

Freeman lo corresse:
“Le nostre canzoni”

Ben scosse il capo:
“Non solo quelle. Anche le ultime due. Soprattutto quelle…erano – vere?”
Gli sembrava di aver perso la facoltà di esprimersi correttamente, le frasi uscivano spezzate, incerte. Martin si lanciò in suo aiuto:
“Potrei averle scritte io, se sapessi farlo”

Ben provò a replicare, ma dalla sua bocca uscì solo un respiro troncato, un singhiozzo mal trattenuto.
Martin sembrò accorgersi solo allora di stare ancora stringendo tra le mani il bizzarro trofeo, lo posò sul tavolino accanto a lui e rimase a guardarlo per qualche istante, come se dovesse uscirne qualche misterioso oracolo, poi alzò di nuovo il viso verso Benedict…lo amava, maledizione! Lo amava con tutto se stesso. Aveva provato a dare a quel sentimento altri nomi, aveva provato ad usare mille parole ma erano tutte vuote, le uniche vere erano quelle che Ben stesso gli aveva inconsapevolmente insegnato con i suoi occhi, il suo sorriso. Lui gli aveva veramente ‘insegnato come parlare in amore’ ed era giunto il momento di dimostrarglielo.

“Ti amo” – era il suo cuore a parlare – “non ho smesso un istante di amarti. Anche nei momenti peggiori. Anche quando mi sono comportato come uno stronzo, e te ne chiedo perdono, ora che vedo chiaramente cosa ti ho fatto, cosa ho fatto a noi. Dimmi che non è tardi, dimmi - che -nonostante tutto, nonostante me – non ti ho perso. Ti prego”

Chiuse gli occhi tentando di fermare le lacrime che premevano, brucianti, perché non volevano più aspettare a mostrarsi, segno innegabile della sua resa, del suo abbandonarsi finalmente all’amore senza più riserve.
Il respiro leggero di Benedict gli sfiorò le palpebre serrate, lo zigomo su cui le lacrime già scorrevano, la guancia fino al sottile strato di barba che le donava un’irresistibile ombreggiatura rossiccia. Avvertì il calore che irradiava da quel corpo snello avvolgerlo in un abbraccio prima ancora di sentire le lunghe braccia cingerlo, sostenerlo, cullarlo.

Ben asciugò con la guancia le nuove lacrime che si erano liberate dalla prigione fatta di ciglia bionde e scendevano copiose come una pioggia catartica, fiere della loro missione di cancellare tutto la sofferenza, tutto il risentimento, tutte le incomprensioni che li avevano tenuti separati. Portò una mano sulla nuca di Martin e sussurrò sul suo collo “Ti amo”.
L’intensità, la sincerità di quella confessione pronunciata con un tono così basso e profondo da essere percepibile più come vibrazione che come suono, spezzò l’ultimo baluardo di orgoglio nel cuore di Freeman che proruppe in singhiozzi, senza che potesse fare nulla per impedirlo. Ma del resto non avrebbe avuto motivo di farlo, perché non voleva più nascondersi dietro la maschera di uomo forte, inattaccabile. Ora voleva soltanto perdersi in quell’abbraccio e sentirsi fragile senza aver paura di esserlo, di mostrarlo. Voleva soltanto che Benedict lo amasse.

Gli passò le braccia attorno alla vita facendo scivolare le mani sul tessuto liscio e fresco della camicia, salendo fino alle scapole, felice di potersi permettere di nuovo quel gesto, beandosi nella sensazione dei muscoli che si contraevano sotto le sue dita. Quando sentì le labbra morbide di Benedict posarsi sul lato del suo collo, dove era visibile il pulsare sempre più frenetico del sangue, ogni pensiero volò via dalla sua mente.

Ben era inebriato da Martin. Non era mai riuscito a resistergli, gli piaceva ogni cosa di lui: i suoi occhi, il suo sorriso, le sue mani, il profumo maschile e pungente della sua pelle. Gli piaceva il suo ardore, la sua passione, gli piaceva come lo faceva sentire: cercato, desiderato, adorato. Martin lo toccava come se lui fosse la cosa più preziosa del mondo, lo venerava con le mani e con le labbra, lo trascinava via con sé alla scoperta di nuovi modi per dimostrargli quanto fossero perfetti, insieme. Ora, finalmente, tutto questo stava accadendo di nuovo.

Trascorsero quel che restava della notte amandosi come se fosse la prima volta. Martin lo prese con dolcezza e devozione, muovendosi con la delicatezza di chi, entrando in un tempio, cammina in punta di piedi per paura di profanare quel luogo sacro. Tra le sue braccia Benedict ritrovò tutta la felicità che solo Martin poteva dargli, ricordò perché prima e dopo di lui niente nella sua vita aveva avuto senso, abbandonò per sempre il timore del giudizio degli altri, l’insicurezza.
Insieme, perdendosi uno nell’altro, ricostruirono il porto sicuro del loro amore, dove dimenticare il mondo e la sua crudele superficialità, un posto da cui ripartire, insieme.

---

La luce del mattino li sorprese abbracciati, immersi nel sonno da poco più di due ore, ma rilassati e sereni come non erano più da tempo.
Martin aprì gli occhi per primo e il cuore prese a battergli furiosamente per la felicità di avere tra le braccia il suo amore. Rimase ad osservarlo quasi trattenendo il respiro per non rischiare di svegliarlo e riusciva solo a pensare a quanto fosse bello e angelico nel sonno: le ciglia che tremavano impercettibilmente creando magici fili d’ombra su quella pelle diafana, le labbra così perfettamente disegnate appena socchiuse, il lieve alzarsi e abbassarsi del petto in respiri lenti che catturavano ipnoticamente lo sguardo.

Sei diventato un poeta! – si prese in giro. Inutile: non riusciva a sfuggire all’auto-ironia neanche in momenti come quello.

Con un lento movimento per stendere le braccia anche Benedict si svegliò.

“Da quanto stai lì a guardarmi…”, sussurrò assonnato, incurvando le belle labbra in un sorriso che la vista di Martin così vicino al suo viso gli aveva fatto nascere spontaneo.

“Solo pochi minuti”, sorrise anche lui di rimando, come avrebbe fatto il riflesso di uno specchio.

‘Questo sono’ – pensò – ‘il tuo riflesso, la tua ombra, la tua eco. Non esisto senza di te’, e capì subito che quella era la cosa più vera che avesse mai pensato: la sua verità.
Stava per aggiungere qualcosa, confessare i suoi pensieri, ma non ne ebbe il coraggio.

“Temo che dovremo alzarci” – disse invece.

Benedict emise un comico lamento.

“Il solito guastafeste”, gli soffiò sulle labbra prima di poggiarci le sue in un lungo bacio pigro.

Fu la solita notifica di ricezione di un messaggio sul telefono di Martin – l’unico acceso – che li fece allontanare.
Tom sembrava avere un sesto senso.

‘Buongiorno! Volo alle 12:30, quindi Check-in alle 10:30, quindi colazione alle 9:30. Vi aspetto nella hall fra mezz’ora. xx”

Si prepararono svogliatamente, girandosi intorno e scambiandosi sguardi maliziosi. Martin aveva proposto di fare la doccia insieme “per risparmiare tempo”, ma Ben si era rifiutato fornendo la convincente motivazione che probabilmente non ne avrebbero risparmiato affatto, anzi. Così lui dovette accontentarsi di rubare un bacio ogni tanto, avvicinandosi furtivamente alla porzione di pelle di Benedict che in quel momento era scoperta, strappandogli, con quelle buffe manovre, sorrisi imbarazzati e piccole risate.

Alle 9:30 in punto andarono incontro a Hiddleston nella hall e raggiunsero tutti insieme la sala per la colazione. Tom li osservava tubare inconsapevolmente sotto i suoi occhi, e niente avrebbe potuto renderlo più felice. Non ci fu bisogno di spiegazioni: la riuscita del suo piano era evidente e a lui non interessava sapere di più, almeno per il momento. In fondo l’unica cosa che contasse era vederli tornare alla vita. Poteva raccontarsi di aver impedito la distruzione del loro universo, di aver sconfitto l’oscurità che li aveva imprigionati e di averli riportati indietro dall’oblio che minacciava di inghiottirli per sempre: un bel risultato per Loki, davvero niente male!

Scherzando fra loro come i vecchi, affezionati amici che erano raggiunsero l’aeroporto. Effettuato il check-in si misero di buon grado ad attendere che il loro volo venisse annunciato. Quella fu l’attesa meno pesante e noiosa che gli fosse mai capitata: decisero che dovevano assolutamente trovare il modo di viaggiare più spesso insieme, loro tre.

Sull’aereo Tom insistette perché Ben e Martin sedessero uno accanto all’altro, cedendo a Freeman il proprio posto. Poi si accomodò tranquillo e soddisfatto sulla poltrona, fortunatamente lato oblò, così durante il volo avrebbe potuto lasciar vagare lo sguardo nel bellissimo nulla sopra le nuvole, con la sua musica preferita nelle orecchie e un libro sulle ginocchia a cercare di distrarlo dai suoi pensieri.

Dopo un decollo impeccabile l’aereo raggiunse la velocità di crociera e prese l’assetto da mantenere per quel lungo viaggio.
Martin e Benedict decretarono che quella traversata infinita non avrebbe potuto essere più piacevole. Solo quando la destinazione cominciò ad essere davvero vicina lo sguardo di Ben sembrò rabbuiarsi. Martin lo guardò: si agitava nella poltrona come se non riuscisse più a trovare una posizione comoda, gli lanciava occhiate nervose ed inquiete che cercava di mascherare con sorrisi ed occhiolini poco convinti. All’ennesimo sospiro Martin decise che non poteva lasciare che andasse avanti così.

Posò una mano, delicatamente ma con decisione, sulle lunghe dita tamburellanti della destra di Ben che lo guardò e gli rivolse l’ennesimo pallido sorriso. Lui incatenò i suoi occhi alle gemme eterocromatiche che tanto amava e gli chiese, con il tono più tranquillizzante che riuscì ad usare:

“Ti va di dirmi che ti sta succedendo?”

Bastò quel contatto e il suono della sua voce perché Benedict si rilassasse un po’. Catturò la mano di Freeman tra le sue e raccolse tutto il suo coraggio per rispondere:

“Dovrai chiamare la direzione del Lucca Comics per farti spedire il premio alla carriera che ti hanno consegnato…”

Martin non poté impedirsi di sorridere.

“È questo che ti preoccupa così tanto da farti ballare nella poltrona come un tarantolato?”

Ben rispose al sorriso, fissandolo però con una intensità che tradiva la sua inquietudine.

“Indirettamente”, rispose.

Martin gli carezzò dolcemente il viso:
“Ti ascolto”

“Mart…sei – sei sicuro di sapere a cosa vai incontro? Potresti dover rinunciare all’idea di vincere altri premi, perlomeno quelli più importanti…”
Lo sguardo di Ben vagava sul volto di Martin, incapace di sostenere la paura che gli suscitava il solo fatto di aver toccato l’argomento.
Lui allora gli prese il viso tra le mani e gli impresse un piccolo bacio sulla fronte, prima di replicare, fissandolo intensamente e accarezzandogli le labbra con il pollice:

 “I premi…” emise un piccolo sospiro scuotendo la testa “…vieni qui”, gli fece posare il capo sulla sua spalla e prese ad accarezzargli i capelli per calmare i battiti di entrambi i loro cuori…
“Amore mio…ho tanto da farmi perdonare - ma se ci riuscirò e tu accetterai di starmi accanto per il resto della mia vita…se tu mi ami anche solo la metà di quanto io amo te – ho già vinto il mio premio, quello più importante, l’unico a cui tengo veramente: tu”

Benedict alzò il viso e fece incontrare le loro labbra, per dirgli senza parole che lo amava immensamente, che lo aveva già perdonato, che la sua vita avrebbe avuto senso solo se avesse potuto viverla con lui.

Quando la voce del comandante annunciò che stavano per atterrare, pregando i passeggeri di allacciare le cinture, si sistemarono nelle poltrone e si sorrisero. Totalmente immersi uno negli occhi dell’altro non si accorsero di Tom che, abbandonato anche lui ogni dubbio sulla possibilità di un lieto fine, li stava osservando e sorrideva, chiedendosi quale abito avrebbe potuto indossare al matrimonio del secolo…
   
 
Leggi le 11 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Coppia Cumberbatch/Freeman / Vai alla pagina dell'autore: AminaMartinelli