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Autore: Kat Logan    31/05/2018    8 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Makoto era una a cui piaceva essere pratica. Faceva spesa il giovedì quando il market aveva il “due in uno” per i detersivi e il “tre per due” sui pacchi dei cereali. Il pieno per la macchina era ammesso solo sulla Wilshire Bulevard perché così non doveva perdere tempo a fare svolte o inversioni, siccome si trovava già sulla strada in direzione per il lavoro. All’alba, quando la marea lo permetteva, surfava a Malibu in modo da essere già pronta per aprire il bar sulla spiaggia senza doversi nemmeno cambiare d’abito.  E al tramonto giocava a beach volley, perché ferma aveva capito di non riuscire a stare.
Le giornate correvano e lei non aveva la minima intenzione di rimanere indietro.
Solo il suo giorno libero le permetteva di non avere tutto pienamente sotto controllo o organizzato al secondo. Così, aveva aperto la porta di casa, si era stiracchiata nel vialetto e si era lanciata con le cuffiette nelle orecchie a correre per il quartiere con Ronald, il suo fido pastore australiano.
Anche quello era pragmatico: lei faceva attività fisica e si risparmiava la passeggiata per il cane perché stava già facendo entrambe le cose.
 
Sono multitasking.  
Era quello che le piaceva ripetersi.
 
Sullo stesso marciapiede qualcuno a testa bassa camminava in direzione opposta.  Una ragazza bionda dai lunghi capelli e una chitarra in spalla nascondeva gli occhi, solitamente pieni di stelle, bagnati come se piovesse.
Makoto e la sconosciuta si sfiorarono appena, Ronald le annusò le caviglie per poi seguire la padrona che era già davanti a un vialetto dai colori sgargianti e una bicicletta abbandonata a sé stessa sul prato ben tagliato.
Nell’abitazione, al di là della porta a vetri, una buffa ventitreenne dai codini dorati litigava animatamente con una pila di frittelle che pendeva pericolosamente in direzione del pavimento.
Una macchina dai vetri oscurati si accostò a ridosso dell’abitazione.
Makoto fantasticò sul possibile ospite della vettura. Le supposizioni scivolarono dal gangster, alla star del cinema fino ad arrivare al politico corrotto. Probabilmente nella lista dei papabili candidati avrebbe inserito anche il principe del Galles, quando venne distratta dal saluto che Michiru le lanciò dalla propria decapottabile.
 
Michiru, quella mattina, al contrario di Makoto non si era potuta godere a pieno il bel tempo che la California offriva loro.
Aveva guidato per un’ora e mezza imbottigliandosi nel traffico di Rodeo Drive, ma era ben altro quello che poteva sfinire una giovane donna come lei.  In primis l’istinto basso e basilare dell’uomo sapiens a competere solo per il gusto di sentirsi infallibile e pavoneggiarsi davanti ai suoi simili.
Michiru non ci stava. Non era quel tipo di donna; quella superficiale che accetta di essere usata e poi dimenticata dopo una scampagnata tra le lenzuola o una di quelle tanto prive di autostima, da accettare di diventare l’accessorio preferito del suo uomo fino a diventare una di quelle senza più una propria opinione.
Beverly Hills pullulava già a sufficienza di quegli involucri vuoti ingioiellati e lei non aveva intenzione di divenire parte di quell’inutile schiera.
Alzò la musica dell’autoradio per non cadere vittima del continuo e frenetico suono dei clacson. Un recente studio aveva dimostrato che lo stress di ritrovarsi fermi in mezzo a tanta gente, bloccati per strada, era una delle cause maggiori a scatenare istinti violenti nell’uomo.  Michiru che amava la tranquillità e aveva tutta l’intenzione di conservare il proprio senno permise al proprio cervello di concentrarsi sulla musica, piuttosto che su quel caos di scappamento e gente irritata.
Quando l’ingorgo parve sbloccarsi, poté dirigersi verso casa. Attraversò un lungo viale adornato da alte palme verdi dietro le quali si stagliavano cancelli in ferro battuto e vialetti bianchi che introducevano all’entrata di villette indipendenti tutte similari fra loro.
Riconobbe Makoto, una ragazza del proprio quartiere, intenta a fare jogging col proprio cane. La sorpassò facendole un cenno con la mano e compì un parcheggio da manuale nel proprio viale pieno di vasi colorati, straripanti di ibisco dalle tonalità fucsia e rossastre.
Solo una volta spento il motore, lanciando un’occhiata fugace allo specchietto, notò l’auto sospetta.
Michiru conosceva tutte le vetture dei vicini e sebbene quello fosse un buon quartiere non ospitava di certo star o gente di alto livello.
Chiavi in mano e buste raccattate, scese dall’auto.
 
«Si-signorina Kaiō?» una voce flebile, titubante, richiamò la sua attenzione prima che potesse girare le chiavi nella toppa e varcare la soglia di casa.
«Si? Sono io!».
Dietro a due uomini con tanto di auricolare e occhiali da sole si fece spazio una figura esile.
«Sono Ami».
«Oh certo! Ho qui tutta la tua roba!» le sorrise gioviale Michiru.
Non si aspettava che una delle menti più brillanti d’America si palesasse con due guardia del corpo.
Ami chiese sottovoce agli uomini di aspettarla fuori e raggiunse Michiru alla porta.
«Non se li aspetta mai nessuno» sottolineò non appena le fu vicina.
«Ma non sono stata io a chiederli!» si apprestò a spiegarle subito come a giustificarsi.
«Beh, sei una persona piuttosto importante ora. È una buona precauzione. Prego, entra».
 
Ami accettò l’invito della padrona di casa e una volta varcata la soglia dell’abitazione si palesò dinnanzi a lei un salotto in perfetto ordine, dai colori chiari e luminosi.
«MICHI SAMAAAAAAAAAAAAA!».
Entrambe sobbalzarono a quel verso improvviso proveniente dalla cucina.
Ami si portò una mano al cuore e Michiru alzò gli occhi al cielo richiudendosi la porta alle spalle.
Due codini biondi e un grembiule completamente ricoperto di macchie si presentarono nel salotto.
«Oh, hai ospiti. Scusa!».
«Tranquilla, Bunny. Non ci metteremo molto».
«Ooh ma tu…tu sei…» Bunny parve boccheggiare mollando il mestolo a terra. Si portò le mani alle guance e si pestò i piedi per l’emozione.
«TI HO VISTA IN TV!» gridò come se tutti i presenti fossero sordi puntando il dito verso Ami.
«Michi Sama hai portato una star in casa tua».
«Sembra proprio di sì» ne convenne Michiru, facendo cenno a Ami di accomodarsi sul divano.
«Cos’hai…».
«Combinato? Io?!» la bionda parve entrare in modalità finta tonta. «Nulla! Sapete? Riordino solo la cucina, ora. Proprio…ora! E vi faccio una limonata. Prima. Prima di riordinare la cucina. Si. Vado».
Una risatina sommessa scappò dalle labbra di Ami. Mai nella vita le era capitato di incappare in una persona tanto stramba come quella appena incontrata.
«Non farci caso. È solo un concentrato di vitalità, ma è innocua!» la rassicurò Michiru.
Lei era elegante e posata. Pensò Ami guardando Michiru posare la borsa e sistemare le buste che aveva con sé sul tavolino in vetro ai piedi del divano.
Sembrava che ogni suo gesto fosse misurato come quello delle geishe nella cerimonia del tè.
«Allora…ho qui qualcosa per te» cominciò Michiru, strappando Ami alle sue riflessioni.
«Hanno detto sei la migliore. E io se non si tratta di algoritmi o cose similari non so da dove cominciare».
«Per la cronaca. Sei tanto intelligente che nessuno dovrebbe guardare come sei vestita. Dovrebbero semplicemente pendere dalle tue labbra. Ma sicuramente l’abito giusto aiuta molto in alcune situazioni!». Michiru le schioccò un occhiolino e aprì una scatola dal colore giallo crema.
«Da quanto lo fai?».
«Che cosa? Vestire le star?» domandò.
Ami accennò un timido “si” col capo.
«È una cosa piuttosto recente. Non è un lavoro a tempo pieno…».
«Do-dovresti! Si dicono solo cose belle sul tuo conto. Litigano sempre per avere te!».
Michiru si sentì lusingata. Veniva spesso contattata da personaggi dello spettacolo che volevano ingaggiarla per rifarsi il guarda roba o essere sicuri di indossare l’outfit giusto sul tappeto rosso.
«Allora fidati se ti dico che dovrai indossare queste fantastiche scarpe!» annunciò aprendo la scatola e sottoponendole al giudizio della sua cliente. «Da abbinare con questo abito che ho scelto per te».
 
 
***
 
 
Sul molo a Malibu Rei si godeva i gabbiani piroettare per poi sfiorare il pelo dell’acqua.
Sedette allo sgabello del solito bar seguita dall’amica che da quando era rientrata a casa aveva la faccia da funerale.
«Mina ti prego, tirati su il morale perché sembra ti sia morto il gatto!».
«Non dirlo nemmeno per scherzo!». Minako si drizzò sulla sua postazione fulminandola con il suo sguardo azzurro cielo. Lei un gatto l’aveva sul serio e per essere scaramantica, non permetteva a nessuno di attentare a una delle sue nove vite che fosse a fatti o a parole.
Rei sbuffò sonoramente poggiando la guancia al palmo della mano e puntando il gomito al tavolino. Sbirciò l’orario nell’orologio che portava nel polso opposto, di Haruka ancora nessuna traccia.
«Vuoi parlarne?» domandò anche se poco convinta.
Minako si torturò una mano con l’altra, un vizio al quale cedeva sempre quando aveva il morale a terra ed era in procinto di vomitare fiumi di parole.
«Avevo il provino a West Hollywood oggi…».
Rei rubò una manciata di noccioline dalla ciotola in vetro trasparente davanti a sé.
«E mi ero preparata, davvero!».
«Si ho notato…» commentò Rei.
Minako la guardò torva e l’amica sventolò le mani tentando di recuperare alle parole che le erano appena uscite di bocche.
«Voglio dire, lo so. Insomma…quanto l’avrai suonata quella canzone? Almeno…cento volte?».
«Duecentoquarantasette per la precisione. Però la chitarra mi ha mollata. E’ partita una corda oggi. CAPISCI?!».
«Cosa dovremmo capire, Taylor Swift?» Haruka s’intromise senza salutare nella conversazione, o meglio, quello per lei era già un saluto bello e buono.
Spostò uno sgabello e si sedette accanto a Minako che aveva tutta l’intenzione di continuare a piangersi addosso.
«Ha fallito un provino» la ragguagliò Rei.
«L’ennesimo» puntualizzò Minako.
«La strada per il successo è impervia» commentò sarcasticamente Haruka.
Niente, non pareva dotata di tatto agli occhi altrui. Sembrava costantemente disinteressata delle difficoltà che costellavano il cammino degli altri, ma così non era e Rei, questo, lo sapeva bene.
Haruka non riusciva ad essere preoccupata nemmeno davanti a una bomba. Aveva fatto il pieno di ostacoli sin da bambina che se davanti a sé non si palesava una vera e propria tragedia non lasciava trasparire nulla.
Quella del Kansas, era stata una vera e propria fuga.
«Non sei morta nemmeno oggi» commentò Rei, facendo cenno a un cameriere per ordinare.
«No. E nemmeno Mina anche se ancora non pare accorgersene» cantilenò, mentre la bionda accanto a sé metteva su il muso incrociando le braccia al petto.
«Anche tu non mi sembri arrostita».
«Era uno stupido fornello. Si erano dimenticati il fuoco acceso con uno strofinaccio vicino. Non poteva nemmeno chiamarsi incendio quello».
Minako sbuffò «siete sempre così polemiche…». A volte era difficile essere lei, perché aveva due amiche che ogni mattina rischiavano la pelle mentre lei poteva giusto contare qualche callo sui polpastrelli a causa del continuo strimpellare.
Ma sin da bambina il suo sogno era quello di suonare e viveva per quello forse perché non aveva ancora incontrato qualcuno per cui vivere.
«Cosa posso portarvi?». Il cameriere arrivò al tavolo delle tre con un palmare alla mano.
«Un Bellini per me e due Long Island per loro» disse in automatico Minako facendo finalmente comparire sul viso un leggero sorriso.
«Basta un uomo per tirarla su!» ridacchiò Rei non appena il ragazzo si allontanò con le loro ordinazioni.
Minako fece una linguaccia ritrovando il buon umore nella luce del tramonto.
 
 
***
 
 
Era tarda notte quando il cellulare di Michiru s’illuminò nel buio della stanza. Fu la vibrazione insistente a svegliarla di soprassalto e con una mano, a tentoni, riuscì a recuperare il piccolo oggetto e a portarselo all’orecchio.
«Kaiō» sibilò senza rendersi nemmeno conto di non sapere chi fosse l’interlocutore dall’altra parte.
 
«Abbiamo bisogno di te».
 
Michiru si strofinò gli occhi portandosi una mano alla testa.
 
«Avevo detto di no per un pò».
 
«Sono passati sei mesi».
Michiru scalciò pigramente il lenzuolo tirando su il busto e poggiandosi con la schiena alla testata del letto.
Rimase in silenzio. Solo il suo battito pareva riecheggiare nella stanza.
«Devi smetterla d’incolparti».
Dall’altro capo del telefono non parevano mollare. Erano già passati sei mesi dall’incidente che l’aveva irrimediabilmente cambiata.
«Michiru?».
«Ci sono».
Le gambe sembravano non voler collaborare. Michiru madida di sudore rimase ancora qualche secondo immobile in quella posizione.
Aveva detto di esserci, ma non era vero. Con la testa era a sei mesi prima, all’inferno.
«Vincent Thomas Bridge».
«Ok» anche se niente in quel momento lo era.
«Fai presto». La linea cadde e con quella scoppiò anche la bolla di calma che Michiru si era faticosamente costruita.
 
 
 
***
 
 
«Queste sono le chiamate migliori». Dan era su di giri, mentre si aggiustava la tuta antiscoppio sul petto e Haruka tentava di infilargli il casco.
«Ma quale problema hai?» domandò lei senza credere alle sue orecchie.
Erano le quattro di mattina, aveva un sonno del diavolo e gli occhi minacciavano di chiudersi da un momento all’altro.
Aveva bisogno di un caffè nero sparato in vena. Subito. E se corretto con qualcosa di forte anche meglio, ma sul lavoro era senza dubbio vietato bere perciò avrebbe dovuto accontentarsi della brodaglia nera che avrebbe passato il convento.
«Le chiamate di notte. Passare all’azione, vedere l’alba…».
«Se vediamo l’alba dammi il numero del tuo spacciatore perché deve averti dato della roba davvero buona». Commentò Haruka tentando ancora una volta di centrare la zazzera di capelli di Dan per finire una volta per tutte la vestizione del compagno.
«Io alle quattro di mattina vorrei soltanto essere nel mio letto con una bella donna o a divertirmi da qualche parte. Non certo qui. Con te che sembri fatto come un copertone e…vuoi stare fermo?!». L’ultimo briciolo di pazienza era andato. Svanito nel nulla e lo fece capire all’amico con un’occhiataccia che avrebbe convinto chiunque.
 
Il camion dei pompieri parcheggiò alle loro spalle e dal posto di guida saltò già Rei intenta a trafficare con un elastico per raccogliere i lunghi capelli corvini.
«In forma, Ruka?» le schioccò un occhiolino e le mollò una pacca amichevole sulla spalla.
«Caffè» borbottò la bionda.
Il suo lavoro le piaceva di giorno, non al chiaror di luna quando era ancora più difficile individuare un ordigno e il rischio si triplicava.
«Non sono la tua barista, arrangiati» le disse tagliente Rei.
«Avete le sirene, fareste prima».
«Già, noi siamo ingombranti con questa roba addosso» le diede man forte Dan.
«Ray dovrebbe portarci le ciambelle. L’ho tirato giù dal letto con una chiamata anche se non era di turno chiedendogli di fare un passaggio da Dunkin Donuts».
Haruka scosse il capo sconsolata. Le sembrava sempre di essere a braccetto con uno da internare in un reparto di psichiatria per quanto era fuori di testa Dan. Lui e la sua ossessione per le ciambelle.
«Cosa stiamo aspettando?» chiese Rei.
«Il mediatore» borbottò Dan facendo scrocchiare le dita.
«E se si butta?».
«Facciamo il botto» disse candidamente Haruka.
 
Una volante a sirene spiegate si fermò davanti alla zona transennata.
«Capo delle operazioni presente» commentò Dan, facendo intendere a Rei di andare con i colleghi pompieri o quelli della SWAT avrebbero avuto grane per le troppe chiacchere.
La donna rispose alla ricetrasmittente oltrepassando i nastri e lo sbarramento.
«Capo Meiō» Dan si cimentò in una sottospecie di riverenza e la donna lo guardò dall’alto al basso per poi rivolgersi ad Haruka.
«Sviluppi?».
«No. L’idiota è lì. Abbiamo il sospetto che stringa in mano un possibile detonatore. La squadre sta setacciando il perimetro, per ora non abbiamo trovato l’ordigno. Se si butta saltiamo tutti per aria».
«Fantastico» Setsuna agognava una sigaretta, ma sarebbe stato poco opportuno.
«Possiamo avere il caffè capo Meiō?».
«Mi prendi per il culo Ten’ō?».
«Come non detto».
 
«Abbiamo il mediatore» gracchiò la ricetrasmittente.
Setsuna fece cenno agli agenti di far passare il loro uomo.
 
E sul Vincet Thomas Bridge, Haruka sbarrò gli occhi anche se in preda al sonno perché riconobbe senza indugio il mediatore.
Anche se ai piedi portava un paio di sandali adornati di gemme verde scarabeo, quella che avanzava verso di loro era senza ombra di dubbio tacco dodici.





Note dell'autrice:
Ecco qui un pò dei personaggi presentati alla "spicciola". Ovviamente non sono tutti e ognuno di loro verrà approfondito ma siccome erano già nove pagine non volevo fare un capitolo troppo lungo o avrete dovuto attendere per non so quanto a causa del poco tempo a disposizione.
Sono stati fatti tanti accenni alle storie di alcuni di loro, non rimarrà nulla del mistero perché pian piano vi svelerò tutto quanto.
Spero tanto abbiate potuto apprezzare anche questo capitolo. Al prossimo!
   
 
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