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Autore: rainbowdasharp    01/06/2018    0 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Epilogo 1: C'era una volta... 



I libri hanno un potere incredibile. Possono creare mondi nuovi, farteli assaporare, sorseggiare, vivere... e poi alla loro fine ti trovi di nuovo al tuo posto, nella realtà. E per un attimo ti guardi intorno, disorientato, perché non è più... tuo. O, almeno, non è più come lo ricordavi.


«Come va, Cenerentola?»

Tsukasa Suou non era in vena di commenti sarcastici sin dal primo mattino, doveva essere sincero. E non perché si era svegliato di malumore – semplicemente, non era in grado di sopportare certe velate frasi velenose a quell'ora. Così, riservò a Tori un'occhiata che trasudava minacce e poi tornò ad esibire il suo composto sorriso di circostanza.

«Una meraviglia, direi. Meno male che almeno il bancone non ha la tua voce fastidiosa».

Il ragazzino dai capelli rosa si limitò a concedergli una smorfia, mentre si sedeva all'appena citato bancone del piccolo bar. Mancava poco all'inizio delle lezioni e non ci sarebbe stato da stupirsi che fosse lì, vestito di tutto punto, con il maggiordomo Yuzuru al suo fianco; però Tsukasa ricordava bene la bontà del cappuccino con doppia schiuma e cacao che preparava Fushimi direttamente a casa loro, quindi sapeva perfettamente che l'unico motivo per cui l'ex coinquilino si presentava ogni giorno, puntuale, sul suo posto di lavoro era dargli il tormento.

«Immagino che il tuo bel principe sia ancora chissà dove in giro per il mondo» osservò il giovane erede degli Himemiya, sfogliando svogliatamente il menù (c0me se ne avesse bisogno – erano due mesi ormai che ordinava sempre il solito); Tsukasa colse comunque l'occhiata piena di attenzione che gli riservò, ben sapendo di aver scoccato l'ennesima freccia in una ferita che, dopo quindici mesi, ancora non voleva saperne di rimarginarsi.

Da quando Leo era partito, alle porte dell'estate, la vita di Tsukasa si era completamente capovolta: aveva lasciato l'università, stufo delle pressioni dei suoi genitori e aveva trovato lavoro come cameriere in un bar; ora abitava da solo in un piccolo monolocale in centro – solo, sì. Perché da solo stava cercando di ridipingere la sua vita, come se questo potesse tenergli la mente occupata più a lungo... ma, alla fine dei conti, sapeva dove queste decisioni, prese apparentemente in presa alle emozioni, lo stavano conducendo: da una parte, avrebbe voluto tornare ad essere “Robin”. Anzi, nella parte di Robin era stato paradossalmente più sincero con se stesso di quanto non lo fosse mai stato il resto della sua vita – aveva vissuto, seppur per qualche mese. Dall'altra, voleva mettersi alla prova. Voleva diventare una persona responsabile, un adulto reale e non l'oggetto dei sogni e delle speranze dei suoi genitori. Ne aveva abbastanza.

«Non ne ho idea» rispose, atono, mentre gli serviva un cappuccino con poca schiuma, come ogni mattina, nella vana speranza che la piantasse di presentarsi durante i suoi turni di lavoro.

Sapeva bene come Tori la pensava, sul suo ultimo e magistrale colpo di testa: perché impegnarsi tanto per un uomo che non aveva esitato a partire senza neanche lasciargli un messaggio, men che meno una data di ritorno? Quello che il suo amico non capivo era che Tsukasa non aveva tagliato con la sua vecchia vita per colpa di Leo – al contrario, per questo avrebbe dovuto ringraziarlo: aveva afferrato con decisione le redini della sua vita perché aveva preso finalmente delle decisioni che poteva ritenere proprie: Aveva ripreso a suonare il violino, aveva una sua indipendenza, si era ritagliato il suo spazio nel mondo. Uno spazio che nessuno aveva già preparato per lui, ma un luogo che stava costruendo con le sue stesse mani, mattone dopo mattone.

«I tuoi genitori sono furiosi» insistette il più basso, senza nascondere una smorfia di disgusto per la pessima bevanda. «Immagino tu non ti sia neanche presentato all'incontro matrimoniale, eh? Non te la perdoneranno mai, questa».

«Tori» sospirò Tsukasa, già stanco – non era il lavoro a renderlo stressato, quanto le ramanzine degne di una zia un po' troppo ficcanaso che il ragazzo dai capelli rosa gli riservava ogni singolo giorno. Per quanto variasse l'argomentazione, il punto rimaneva lo stesso: “Tsukasa, torna a casa. Stai sbagliando” e invece, il rosso sentiva di essere più che mai nel giusto. «Sto bene, ok? Vivo la mia vita. Ho un lavoro, una casetta per me, il tempo di dedicarmi a suonare e ho un obiettivo in mente» ripeté, per l'ennesima volta nel giro di una ventina di giorni. «So che non sei d'accordo con le mie scelte, ma non tornerò indietro. Sono abbastanza certo che riprenderò gli studi in futuro, ma non adesso».

Questo sembrò chiudere, almeno per il momento, la discussione. L'erede dell'impero Himemiya, con un sonoro schioccare di lingua, con un piccolo balzo scese dallo sgabello un po' troppo alto per lui e, senza aggiungere altro se non un cipiglio più che contrariato, lasciò il piccolo bar.

Tsukasa tirò un sospiro di sollievo, prima di togliere quanto l'ex coinquilino aveva lasciato – ovvero, l'intero cappuccino, ovviamente non di suo gradimento, e più di metà brioche – che si sbrigò a buttare; poi raccolse le monete che Yuzuru aveva lasciato impilate impeccabilmente sul bancone, precise al centesimo e le mise in cassa.

A dirla tutta, non rimpiangeva niene di quella perfezione. Nessuno meglio di lui sapeva che anche Tori, nella sua ostentata arroganza e ricchezza, aveva le sue pene da scontare e che, forse, in parte quel tormento che gli riservava derivava proprio dall'invidia che provava nei suoi confronti, del coraggio che aveva sfoggiato così, all'improvviso. E in effetti In certi momenti stentava a credere lui stesso di essere stato capace di osare tanto.

Inoltre, constatò con un sorriso, c'era del paradossale nelle provocazioni del suo ex-coinquilino; dopo mesi, ancora ricordava quando lo aveva chiamato per la prima volta “Cenerentola”.

«Che diamine hai fatto ai capelli?!» aveva esclamato, di ritorno da una lunga giornata passata a chiacchierare con la sua futura sposa nel giardino della residenza Himemiya. Era il giorno in cui Narukami aveva rivoluzionato quasi completamente la sua immagine, colorandogli i capelli di nero ed aggiungendo numerose ciocche di capelli similmente veri, con una maestria tale che persino Tsukasa aveva avuto difficoltà a riconoscersi allo specchio. Dopo essere stato messo al corrente, più o meno, della situazione, Tori aveva commentato con uno strafottente: «Praticamente sei una novella Cenerentola che va al ballo per ingannare il principe. Complimenti per la carriera, Suou».

Se avesse potuto correggerlo con le consapevolezze del presente, Tsukasa gli avrebbe detto che la sua fiaba non sembrava dover avere un lieto fine – non nel senso letterale del termine. Il suo principe forse non lo aveva cercato in lungo e in largo con una metaforica scarpetta di cristallo (anzi, forse non lo avrebbe mai più voluto vedere), ma Cenerentola aveva deciso di dare un bel colpo di scopa alla matrigna e alle sorellastre.

Ma anche allora, il suo tono fastidioso non l'aveva particolarmente scalfito; sapeva bene che quel piano sarebbe parso insensato agli occhi di chiunque e non solo di un principino quale era il suo ex-coinquilino e a ripensarci adesso...

«Tsukasa?» Strappato dai suoi pensieri mentre puliva in un gesto ormai abituale la macchina del caffé, quasi trasalì quando si sentì chiamare per nome e, per un attimo, lo attraversò il pensiero che Tori fosse tornato indietro giusto per ricordargli ancora quanto sembrasse ammattito tutto di un colpo; quindi, in un primo momento, l'espressione che rivolse a colui che l'aveva interpellato dovette sembrare a dir poco irritata. Ma si rilassò subito quando, dall'altro lato del bancone, si trovò di fronte proprio colui che per primo aveva proposto il folle piano che aveva completamente ribaltato la sua vita... e che lo aveva anche reso possibile.

«... Narukami!» esclamò, distendendo subito lo sguardo, mentre le labbra si sciolsero in un sorriso sincero e caldo.

Poco prima che Leo lo costringesse a confessare, Arashi lo aveva chiamato al cellulare. La ricordava bene, quella chiamata, perché non si era mai sentito così... disonesto in tutta la sua vita. Gli aveva raccontato che Leo aveva detto ai suoi amici di essere fidanzato con un ragazzo, un certo Robin; poi gli aveva chiesto se fosse vero, se avesse inteso davvero di quel Robin – se stesse davvero parlando di Tsukasa; infine, gli aveva ricordato che non era per questo che lo aveva aiutato, che avrebbe dovuto raccontargli la verità, che lo stava illudendo più di chiunque altro.

E anche allora Tsukasa lo sapeva, che aveva ragione – sapeva che Leo meritava di meglio rispetto a un omuncolo che non faceva che raccontargli falsità. Eppure... non aveva mai trovato davvero il coraggio, almeno non fin quando lui non gli aveva dato altra via di fuga: la verità o costringerlo per sempre ad amarlo e odiarlo allo stesso tempo.

Era ben distante adesso quella voce dura dal ragazzo che si sedette con grazia al bancone, poggiando la borsa che portava sulla spalla sullo sgabello vicino. Si poggiò al bancone col suo solito fare naturalmente ammiccante e coinvolgente, che ad un giudizio superficiale poteva sembrare frivolo. Tsukasa ricordava bene quanto si era sentito in difficoltà con lui, inizialmente.

«Me lo fai un tè freddo?» chiese il biondo, con un sorriso raggiante, mentre poggiava il mento sulla propria mano. Inutile dire che i pochi clienti ancora nel bar (tanti erano fuggiti in fretta e furia per la lezione del mattino) si voltarono a fissarlo – Narukami era così: attirava l'attenzione ovunque andasse, volente o nolente.

«Lo offre la casa» gli rispose semplicemente Tsukasa, mentre tirava fuori del ghiaccio dal freezer sotto il bancone. L'amico lo guardò attentamente mentre lavorava con sicurezza, padrone di quella piccola zona che era il piano del bar. «Come mai da queste parti?»

«Aspetto Mika. Qualcosa a proposito di una mostra di letteratura, non so. Ma Shu è ancora all'estero, quindi è lui a doversi occupare di queste cose». Erano cambiate così tante cose, in quei mesi.

Mika Kagehira ormai gestiva la libreria Itsuki quasi con la stessa disinvoltura con cui lui serviva caffè al mattino, ma ironicamente entrambi ancora attendevano – c'erano posti vacanti, nelle loro vite e per quanto il moro avesse trovato il suo Predestinato... Beh, Shu era fondamentale, nella sua vita. Era la sua famiglia, dopotutto.

«Piuttosto» continuò, «come va la vita da uomo indipendente?»

Tsukasa ridacchiò, in parte orgoglioso dei suoi piccoli risultati. «Sto bene. È tutto nuovo, ma—bello. Il lavoro mi piace e anche la casa».

«Ruka mi ha detto che ti hanno dato il permesso di tenere Merlino, nel condominio».

«Oh, sì! Sono stati molto gentili, hanno fatto un'eccezione» spiegò a grandi linee, prima di servirgli il tè al limone che gli aveva preparato. «Mi fa sentire... beh, meno solo».

Non poteva negarlo, sarebbe stato sciocco: sin da bambino era stato abituato a vivere sempre con qualcuno pronto ad assisterlo, seppur in modo formale e anche se, per puro orgoglio, di rado approfittava della sua posizione. Questo però non rendeva meno difficile vivere improvvisamente senza più alcun appoggio; già vivere con Tori si era rivelato difficoltoso ma adesso, completamente solo, a volte si sentiva soffocare dal silenzio. Con i suoi amici, quel silenzio si attenuava ma... doveva ammettere che era difficile stare anche con loro – stare con Narukami, con Sakuma, Isara e Ruka... lo portava sempre a guardare in un angolo della stanza, ponendosi questioni che nella quotidianità riusciva a mettere da parte.

Dovrebbe esserci lui, qui”, “Non merito di stare con i suoi cari, dopo quello che gli ho fatto”, “È colpa mia se non possono vederlo”.

Il biondo lo guardò a lungo, come se cercasse di leggere i suoi pensieri, prima di prendere a rovistare nella sua borsa a tracolla e poggiare un pacchetto sul bancone con un sorriso eloquente. «Visto che dici sempre che sei troppo stanco per uscire, ti ho portato un regalo. Ma non devi aprirlo prima di tornare a casa!» lo avvertì, agitando l'indice con fare di rimprovero sotto il suo naso.

«Va—bene, lo aprirò a casa. Grazie» rispose quasi intimidito da quel brusco cambio di atteggiamento - che ci fosse sotto qualcosa? - ma in un attimo Narukami tornò a sorridergli e Tsukasa replicò con un po' di imbarazzo. Difficilmente in vita sua aveva avuto amici, tanto meno... aveva ricevuto regali da parte loro. Ogni tanto era difficile per lui rimanere al passo delle novità e non farsi trovare impreparato, per belle che fossero.


Tornare a casa a fine turno era sia una maledizione che una liberazione. Nel percorrere il tratto verso il suo appartamento in metro (purtroppo non poteva ancora permettersi una macchina tutta sua, nonostante avesse faticosamente ottenuto la patente), non faceva altro che guardare il suo riflesso e pensare.

E aveva imparato a sue spese che pensare non era mai la soluzione giusta.

Il pensiero più ricorrente era che faticava a riconoscersi e non perché il riflesso nel vetro del treno fosse meno chiaro di quello in uno specchio: era indubbiamente dimagrito, più pallido e anche con qualche occhiaia di troppo. Non rinunciava mai ad essere in ordine – dopotutto, aveva ricevuto una severa educazione riguardo all'apparenza e alla cura del proprio corpo – ma lo Tsukasa che per la prima volta era salito su un mezzo pubblico sembrava distante anni luce e, doveva ammetterlo, un po' invidiava la sua spensieratezza, la sua meraviglia di allora.

Ma sapeva che c'era poco altro da rimpiangere, così come era consapevole che il lavoro lo faceva stare bene. Doveva parlare, muoversi in continuazione, cercare di mettere a proprio agio le persone: il tempo per pensare si annullava e si ripresentava solo quando ormai fuori era buio, mentre salutava educatamente il titolare del bar e il suo collega, un coetaneo che si chiamava Sora. Fin quando non apriva la porta di casa, finché Merlino non lo accoglieva con un sonoro miagolio irritato - “Dov'è la cena?” - non poteva fuggire ai suoi pensieri. E anche nel sonno, era piuttosto difficile ignorarli quando apparivano sotto la sua forma.

Beh”, si consolò, “almeno per oggi ho una distrazione”. Non avendo idea del contenuto del suo pacchetto, lo aveva tenuto tra le braccia per tutto il tempo (poteva rompersi!) e a forza di curiosare e tastare con le mani perché damn, se voleva sapere di cosa si trattava, aveva intuito che doveva trattarsi di un libro, il che lo incuriosiva più che mai.

Ad essere sincero, negli ultimi tempi non aveva avuto modo di leggere molto: il lavoro lo sfiniva, inoltre... niente riusciva a stuzzicare il suo interesse per più di poche pagine. Ogni libro aveva, in un certo senso, perso la sua magia e i suoi colori: non riusciva più ad immedesimarsi in quelle righe, ad interagire con le pagine.

Ma un libro regalato era un'altra cosa, o così Tsukasa pensava; la persona che lo acquistava pensava al destinatario, girovagava per le librerie alla ricerca di qualcosa che suggerisse il nome di chi voleva che lo ricevesse. Lo trovava un pensiero pieno di affetto silenzioso, come un mazzo di fiori anonimo.

Coinvolto da queste riflessioni, doveva aver accelerato il passo una volta fuori dalla metro perché si trovò di fronte al portone del suo modesto condominio ben prima di quanto pensasse; non appena spalancò la porta dell'appartamento (un modesto bilocale al terzo piano, senza ascensore) il miagolio irritato di Merlino ebbe lo stesso sapore di un “Bentornato!”.

Ma era di buonumore, quella sera, complice quel regalo tanto inaspettato; quindi si tolse le scarpe, abbandonò borsa e pacchetto momentaneamente in un angolo dell'entrata e poi sollevò il suo coinquilino, portandoselo vicino al volto per riempirlo di attenzioni. Prevedibile, il felino provò a divincolarsi quasi subito e per poco non gli lasciò un bel segno sulla guancia (non amava essere preso a quel modo; lo permetteva a pochi eletti e, soprattutto, di rado); nonostante l'iniziale rifiuto, dopo qualche minuto si rilassò e cominciò a fare delle basse ma continue fusa.

Soddisfatto, Tsukasa lo lasciò andare solo quando gli parve che Merlino lo avesse perdonato per l'intera giornata di assenza e così, con l'improvviso peso della stanchezza del lavoro addosso, riprese borsa e regalo per trascinarsi nella sua modesta cameretta.

Avrebbe cenato con calma dopo, si disse, mentre si gettava sul letto con un sospiro, senza neanche cambiarsi. La curiosità inoltre, era ormai alle stelle: voleva sapere. Strappò l'involucro senza alcuna pazienza, un po' come fanno i bambini a Natale con i propri pacchetti e—gli mancò il respiro.

Era un libro di modeste dimensioni, rilegato in cartoncino rigido di un azzurro pastello che ricordava una raccolta di storie per bambini; il titolo troneggiava su quasi tutta la copertina, in uno stampatello elegante ma non troppo ricercato, quasi sobrio e recitava “Voto di silenzio”. Sotto di esso, vi era un'illustrazione fatta di soli colori, con gli acquarelli, supponeva: una quiete valle verde menta dove si poteva cogliere a stento la sagoma illuminata di un singolo uccello, che sembrava prendere il posto del sole che invece mancava.

In basso a destra, in calligrafia corsiva, c'era un nome e fu quello, più di qualunque altra cosa, a fare male.

Leo Tsukinaga.

Rimase fermo, immobile, ipnotizzato da quelle lettere così quotidiane, banali ma che, messe assieme, riuscirono a farlo rabbrividire. Le sfiorò, tremante, con le dita e ne avvertì il modo in cui erano rialzate sul cartoncino plastificato e quasi si illuse di poter raggiungere il proprietario di quel nome. Ne percorse i segni uno dopo l'altro, come un non vedente che legge in braille.

Se non fosse stato per Merlino, il quale con poca grazia balzò sul letto ben intenzionato ad attirare la sua attenzione, probabilmente sarebbe rimasto ancora a lungo a fissare quel nome; invece il gatto, con il suo miagolio insistente, riuscì a distrarlo e riportarlo alla realtà, lontano della sua vita passata.

Da quello che non aveva più.

«Ma sì, arriva—preparo la cena» mormorò, scusandosi a bassa voce, lasciando immediatamente andare il libricino come se all'improvviso fosse stato coperto di fiamme. In fretta e furia, a capo chino, si precipitò nel cucinotto sia per mettere a cuocere il suo riso che per riempire la ciotola di Merlino.

Intanto, la mente però era in pieno tumulto: Tsukasa aveva letto ogni singolo libro di Leo e quello—quello non lo conosceva affatto. Era quel libro? La stessa fiaba a cui non riusciva a trovare un finale? Quella di cui tanto animatamente avevano discusso a tavola, quella sera? La storia del cavaliere e dell'elfo? Del paradiso perduto?
La
loro storia?

Per poco non si bruciò con la pentola, che quasi gli cadde dalle mani.

I pensieri non si placarono: perché era stato pubblicato? Quel libro era rimasto in sospeso, senza finale; Leo era partito, nessuno aveva più saputo nulla di lui... figurarsi della storia che stava scrivendo (anche se, conoscendolo, non era da escludere che tenesse più a far arrivare i suoi racconti che a tornare a casa). Poteva però significare, forse, che il suo viaggio era concluso?

Aveva—finito il loro libro?

Trovato una risposta?

«Narukami, jesus christ» sibilò, mentre metteva i croccantini nella ciotola di Merlino, che però non lo aveva seguito in cucina; nonostante questo, il suo corpo si muoveva ormai per inerzia – un comando automatico lo spingeva a compiere le azioni di ogni giorno senza rendersene conto, perché la sua mente era in modo piuttosto evidente, completamente slegata dalla realtà attuale.

Se fosse stato pubblicato, però, lo avrebbe saputo; il pubblico ormai conosceva il nome di Leo, sapeva quanta creatività ci fosse nella sua malinconia e in molti attendevano con ansia le sue opere. Una volta, anche lui era così.

Ora, invece, attendeva con ansia la possibilità di rivederlo.

Era come se dentro di lui ci fossero due Tsukasa – anzi, no, Robin e Tsukasa. Robin voleva sapere, voleva immaginare: se Leo era giunto ad una risposta, allora forse aveva la possibilità di tornare ad esistere. Era quella parte di sé che aveva deciso di prendere la tavola elegantemente apparecchiata con servizi di cristallo e porcellana e tovaglie di seta e di ribaltarla, rompendo tutto, creando finalmente il caos a cui anelava da ancor prima di incontrare l'uomo della sua vita. E dall'altra, stava Tsukasa che, come un bambino, faceva un passo alla volta, incerto, con i resti di quelle stoviglie tra le mani perché, dopotutto, non era ancora sicuro di potercela fare da solo. Quelle stupide stoviglie potevano ancora essere importanti, per lui, perché non sapeva se sarebbe riuscito a rimettere in ordine quel disastro.

Non era sicuro di poter affrontare il finale della loro storia.

Non era così sicuro di poter crescere davvero, senza Leo al suo fianco.

E poco importava se il riso era ormai cotto da almeno cinque minuti e se a breve non sarebbe stato più neanche commestibile, Tsukasa si era fermato a fissare il vuoto. Si era fermato ad immaginare la forza che era riuscito a tirare fuori in quel momento, quando gli aveva detto che lo avrebbe aspettato anche per sempre, se necessario. Dov'era ora quella spavalderia, quella sicurezza? Ne aveva bisogno. Eppure, era bastata la sola presenza di qualcosa con il suo nome perché crollasse come un castello fatto di carte, perché di questo si trattava: di finzione.

Come poteva pensare alla realtà, quella in cui si limitava a spegnere il fornello, a svuotare in fretta e furia la pentola del riso ormai scotto e a dirigersi verso la porta, quando era così vuota?

Prese la custodia nera poggiata di fianco alla porta e, senza neanche salutare Merlino come faceva sempre, senza neanche prendere la giacca nonostante il clima non fosse dei più miti, uscì da casa sua.

Casa sua, ma chi voleva prendere in giro – la sua casa era altrove, chissà in quale stato, quale continente o su quale aereo.


L'unica cosa che poteva fare, quando la sua facciata da cavaliere itinerante crollava, era suonare ed era anche, in effetti, tutto ciò che gli rimaneva. Ma a quell'ora avrebbe disturbato i vicini, quindi non poteva far altro che camminare un po', con l'aria perduta di chi ha perso la strada, appostarsi vicino ad una panchina qualunque ( magari non nei pressi delle abitazioni) e brandire il violino, la sua unica arma.

Così da poter urlare il suo nome nell'unica lingua universale che fosse mai appartenuta all'uomo.

Non c'era una melodia specifica, in quei momenti: il solo tenere lo strumento tra le mani rendeva più facile accettare la solitudine di cui si era fatto carico e gli ricordava il coraggio con cui aveva affrontato le sue paure. E mentre muoveva con destrezza l'archetto e chiudeva gli occhi, sentiva che il ricordo di Leo prendeva corpo, si materializzava seduto su quella panchina, lo sguardo suo e suo soltanto e inanto ondeggiava il capo al ritmo della musica, sensibile all'arte come solo lui sapeva essere, mentre le mani, incapaci di stare ferme, giocherellavano con una penna, anch'essa immaginaria. Non era esitante, in quell'illusione: la penna faceva parte di lui, di tanto in tanto la usava come la bacchetta di un direttore di orchestra; in altri momenti si limitava a guardarlo, studiando i suoi movimenti, inventando chissà quale nuova storia.

Quando suonava, era sempre con lui. Aveva sempre la sensazione che fosse improvvisamente raggiungibile nel momento in cui iniziava a suonare e che svanisse non appena si fermava; per questo, in quei mesi, aveva suonato furiosamente: rabbia, tristezza, speranza – tutto, aveva dato forma a tutte le sfumature dei suoi sentimenti pur di ritrovarlo, pur di credere seppur per qualche momento di averlo ancora al suo fianco.

Ma quando finalmente smise di suonare, quando anche quell'effimera immagine fu scomparsa, non aveva ancora una risposta: non sapeva cosa fare. Il Leo nato dalle sue note era rimasto in silenzio, come sempre – al massimo, aveva lasciato il posto ad un Robin irritato, perché la scelta era scontata.

Crollò, madido di sudore, seduto sulla panchina, più leggero – certo, tutti i suoi dubbi, le due domande ma soprattutto la sua solitudine erano ancora lì, ma suonare rendeva tutto meno opprimente. Era come se avere tra le mani il violino lo aiutasse a mettere in ordine le idee, a riprendere contatto con la realtà quando le emozioni sembravano sul punto di schiacciarlo. Era una fuga tattica, una pausa che permetteva alla mente e al cuore di riposare quel tanto che bastava per non lasciarsi travolgere.

La musica, insieme a Merlino, lo aveva letteralmente salvato in quell'ultimo anno.

Stava riponendo sovrappensiero il violino nella propria custodia, quando sentì dire: «Tieni».

Trasalì quando si ritrovò vicino al volto un bicchiere di caffè fumante, ma non gli ci volle molto prima di capire di chi si trattasse: nel sollevare lo sguardo, non fu sorpreso di incontrare gli occhi di Izumi Sena.

Era forse sciocco, da pare sua, trovare ironico che, nei suoi momenti di solitudine, avesse trovato in quel ragazzo – l'uomo che Leo aveva amato senza remore alcuna, senza darsi tregua, quasi autodistruggendosi – un inaspettato alleato. Si erano incontrati per caso, poco dopo che si era trasferito, in una serata molto simile a quella: Tsukasa era uscito, violino alla mano e aveva suonato... A lungo, forse per qualche ora, senza fermarsi mai. Si era svuotato di ogni energia così che la sua mente potesse smettere di tormentarlo, così che potesse alimentare per un po' l'illusione che lui fosse lì, al suo fianco... e quando aveva smesso di suonare, Izumi Sena era di fronte a lui, che lo guardava con occhi di zaffiro e una lattina di birra tra le mani, lasciata a metà. Lo sguardo impenetrabile, l'espressione marmorea: si era quasi spaventato, in un primo momento – Izumi faceva quell'effetto a quasi tutti, almeno stando a quanto diceva lui.

Circostanze fortuite, forse. Eppure, nessuno meglio di lui avrebbe potuto capire il vuoto che Leo Tsukinaga lasciava nella propria vita, una volta lasciato volare via.

«Sena...» sussurrò Tsukasa, con un mezzo sorriso colmo di gratitudine, mentre prendeva il bicchiere di plastica tra le mani. Si sentiva rinvigorito persino dal solo odore della bevanda. «Di ritorno da casa del signor Yuuki?»

Il ragazzo scrollò le spalle e poi gli si sedette accanto, aspettando che sorseggiasse quanto gli aveva offerto. «Ti ho visto suonare mentre facevo due passi. Il caffè è perché ho pensato che potessi prendere freddo» mormorò, guardando altrove. Un po' Tsukasa riusciva ad immaginarlo al fianco di Leo, con quei modi bruschi ma pieni di attenzioni mentre in sottofondo risuonava la risata rumorosa e prorompente del rosso, ottima per irritarlo e al tempo stesso strappargli un sorriso esasperato.

«Grazie, sei davvero gentile».

«E tu un idiota» ribatté subito, tornando tagliente ed ostinandosi a guardare dall'altro lato della strada. «Ma chi è il cretino che esce senza giacca di questi tempi? L'estate è finita da un pezzo, Kasa».

Era singolare quel soprannome – se fosse stato chiunque altro ad utilizzarlo si sarebbe arrabbiato, sicuramente; Tsukasa non amava i vezzeggiativi, così come non gli piaceva essere trattato come un bambino. Eppure, con Izumi non riusciva a protestare: non avrebbe saputo dire perché, ma negargli quell'accenno di familiarità, se lo sentiva, sarebbe stato come prendere a calci quella muta amicizia che si era instaurata tra loro. E solo Merlino sapeva quanto ne aveva bisogno.

«Sono... uscito di corsa, senza pensare» provò a giustificarsi, prendendo appena un po' di colore sulle guance. In effetti, era scappato così in fretta che non aveva neanche pensato che potesse far freddo, a quell'ora di sera.

«... È successo qualcosa?» A dirla tutta, si aspettava l'ennesimo burbero rimprovero. Ed invece trovò lo sguardo preoccupato del modello ad indagare sul suo volto, apprensivo.

Perché Izumi sapeva quale voragine lasciava Leo Tsukinaga.

Avrebbe potuto dirgli che no, non era successo niente. Avrebbe potuto raccontargli qualunque cosa, del lavoro, dello stress del trasloco, di Tori... senza accennare al libro che lo aveva di nuovo trascinato indietro nel tempo, a quella sera in cui aveva cercato di far capire ad un testardo che essere felici non era sbagliato; che pensare a se stessi non era un crimine. Che nessun eroe veniva premiato, nella realtà.

Ma fu sincero, invece. Si era ripromesso di provare a mentire il meno possibile. «... Ho visto Narukami, oggi».

«E?» Era ovvio, Izumi sapeva che c'era dell'altro. Qualcosa di grosso, qualcosa in grado gettarlo in strada senza la giacca a suonare come un folle.

«Mi ha portato un regalo. Un libro, per essere precisi» sospirò, pensando al modo in cui gli aveva detto di aprirlo assolutamente a casa con quel suo fare allusivo. Se, come diceva Tori, gli era toccata la parte di Cenerentola in quella storia, allora Arashi era una fata madrina con un pizzico di sadismo al posto della bacchetta. «... Il libro che stava scrivendo Leo prima che se ne andasse».

Seguì qualche attimo di silenzio in cui Tsukasa non ebbe il coraggio di incrociare lo sguardo del più grande; se per chiunque altro, un libro non sarebbe di certo stata una questione così incredibile, entrambi sapevano che il modo migliore (e l'unico, ad essere sinceri) in cui Leo veicolava con sicurezza quello che provava era attraverso le parole scritte.

«Quello a cui non sapeva che finale dare?» Il giovane Suou annuì, di nuovo con lo sguardo fisso sul riflesso del lampione in quel che restava di una pozzanghera sul ciglio della strada. «E fammi indovinare: hai paura di scoprire quale ha scelto». Tsukasa non poté che accennare di nuovo un assenso col capo, consapevole che dopo tanta spavalderia mostrata negli ultimi mesi, quello sarebbe dovuto sembrare un atto dovuto. Invece... faceva male. Aveva la sensazione che, una volta iniziato quel libro, qualcosa si sarebbe inevitabilmente concluso: nel bene o nel male, ogni speranza che aveva riposto nel futuro avrebbe trovato una sua fine.

Era la prima volta in vita sua che non voleva conoscere il finale di una storia.

Izumi rimase in silenzio per parecchio tempo e poi dopo aver sospirato, inaspettatamente portò una mano sulla sua nuca e, con un po' di burbera goffaggine, gli scompigliò i capelli rossi per poi dargli un colpetto leggero.

«Leo ama più di chiunque altro» mormorò, come se non stesse parlando a lui, ma stesse riflettendo ad alta voce. E per quanto quell'affermazione fosse vera (lo sapevano entrambi, che Leo Tsukinaga viveva ogni sua emozione amplificata rispetto a qualunque essere umano) Tsukasa si chiese se avesse mai—provato rancore, nei confronti del Predestino; se non avesse mai desiderato tornare alla sera di autunno di cui Leo gli aveva raccontato per ribellarsi, per rimanere con lui, per difenderlo da se stesso. «Penso che dovresti provare a leggerlo, quel libro. È più bravo a scrivere che a parlare, dopotutto».


Con quelle parole in mente, non riuscì a chiudere occhio. Perse il conto delle volte in cui tentò di prendere sonno e in cui si rigirò, senza risultato, nel suo letto singolo. Merlino miagolò un paio di volte in segno di protesta. Era come se il libro, posato sul comodino con la copertina rivolta verso il basso, brillasse di luce propria, rendendogli impossibile dormire.

E così, esausto ed esasperato da se stesso, dall'autore e anche da quella storia, nel bel mezzo della notte accese la luce e si mise a leggere.


"C'era una volta, un giovane cavaliere che credeva più nella sua spada che in se stesso..."


Note: Leo ha provato a fermare il tempo, ma non c'è riuscito. Il tempo è tiranno, non aspetta i comodi di nessuno... e Tsukasa sa cosa vuol dire, sentire il tempo scorrere.
Ammetto che ho provato, forse non proprio esaurientemente, a differenziare il mondo di Tsukasa da quello di Leo con cui ho familiarizzato così tanto: Tsukasa cerca certezze, punti di appoggio e spesso le trova. Ha un lavoro, una vita indipendente (questo forte bisogno di valorizzarsi, di cavarsela con le sue sole forze, come per dimostrare a chi lo guarda che lui può farcela) ma gli manca molto.
Gli manca un po' tutto, in effetti. 
Credo che il suo ruolo in questa storia sia stato il più difficile e il più doloroso. Leo ha vissuto di sogni, Tsukasa ha sempre saputo che tutto era destinato a finire, in qualche modo. E quando ho pensato al libro, a quel "Voto di Silenzio" che riprende un po' grossolanamente Silent Oath, ho pensato che ne sarebbe stato terrorizzato. Perché fondamentalmente si sente solo anche se non lo è.
L'epilogo, come temevo, si è diviso in due: questo perché volevo che Tsukasa respirasse, vivesse come se stesso almeno in un frammento di questa storia - ho già detto che come Robin non ha mai mentito davvero, ma volevo rendergli giustizia e volevo dimostrare anche io quanto vale. Quanto coraggio ha, rispetto a Leo, di affrontare le sue scelte anche quando sono opinabili, al limite dell'etico; volevo anche che tornasse Izumi, volevo che in qualche modo si prendesse cura di Leo, indirettamente e anche di Tsukasa. Nel canon è così fondamentale per entrambi che non potevo permetterlo di non farlo sedere su quella panchina, al fianco del loro erede, cresciuto così in fretta.

L'ultima parte arriverà, spero, entro luglio! Mi scuso in anticipo ma tra esami che sopraggiungono e impegni presi, non scomparirò ma il finale non sarà così celere. E grazie, davvero, ancora.

   
 
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