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Autore: Pendincibacco    11/06/2018    2 recensioni
- Se stai per avere un attacco di panico ti consiglio di non respirare troppo velocemente, rischieresti di iperventilare. -
A due passi di distanza si trovava un bambino con folti capelli scuri, sottile e allampanato. Doveva essere, probabilmente, un po’ più giovane di lui, impressione data da una certa rotondità infantile che ancora ammorbidiva il suo viso, quasi disarmonico appaiato al corpo già così slanciato e spigoloso.
- Cos-cosa? –
- L’iperventilazione può portare a varie conseguenze spiacevoli, fra cui la paralisi temporanea degli arti dovuta all'eccesso di ossigeno nel flusso sanguigno, cosa che non farebbe altro che aggravare la tua situazione. Dovresti, piuttosto, concentrarti sul fare lenti respiri profondi per regolarizzare il respiro e il battito cardiaco, calmando così le ondate di panico. Pare sia anche utile sentirsi “costretti”, ad esempio avvolgendosi addosso strettamente una coperta, ma temo che dovrai arrangiarti stringendoti le ginocchia con più forza: non ho con me una coperta e non ho intenzione di abbracciarti. -
Scritta per la challenge pasquale indetta sul gruppo Facebook "ASPETTANDO SHERLOCK 5"
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'Autrice: One shot senza pretese scritta per la Challenge Pasquale indetta sul gruppo Facebook ASPETTANDO SHERLOCK 5 sulla base del prompt per immagini proposto da Annalinda Santini.
Un semplice primo incontro alternativo tra Sherlock e John in un momento in cui entrambi sono poco più che bambini. Ho scritto la parte finale a distanza di due mesi dal resto, buttandola giù di getto con la consapevolezza che altrimenti non l'avrei fatto mai più; il risultato è che non è neanche simile a ciò che pensavo e non mi piace più di tanto. Non ho la forza di modificarla quindi pazienza, spero solo che la storia nel suo complesso vi porti un sentimento di tenerezza quasi infantile simile a quello che ho provato io scrivendo.
Buona lettura.




 
 
Zucchero Bruciato


 
“Ok ragazzi, passo a riprendervi qui all’ingresso alle dieci e mezza. Mi raccomando, comportatevi bene. Se uno di voi si separa dal gruppo non deve fare altro che andare in un posto riconoscibile, come la biglietteria della ruota panoramica, e aspettare che gli altri vadano lì a recuperarlo, avete capito bene? Se succede qualcosa di grave andate alla biglietteria all’entrata e chiedete di usare un telefono.”
Questo era ciò che il padre di Steve aveva detto circa un’ora prima, facendoli scendere tutti e quattro dall’auto nel parcheggio del Lunapark; John era certo di ricordare perfettamente le sue parole. Proprio per questo quando, dopo circa mezz’ora passata tra patatine, giri in giostra e giochi a premi, si era voltato verso il punto dove avrebbero dovuto esserci i suoi tre amici di una vita e si era reso conto di essere rimasto solo non aveva perso tempo in inutili drammi e sciocchi piagnistei e si era semplicemente diretto verso la ruota panoramica. Aveva tredici anni, santo cielo, non c’era alcun motivo valido per agitarsi: sarebbe bastato aspettare qualche minuto e di certo i suoi amici avrebbero girato l’angolo del chiosco delle limonate e sarebbero venuti a recuperarlo e la serata di festeggiamenti per la fine della scuola sarebbe continuata egregiamente. Certo, probabilmente avrebbe cacciato un pugno in testa ad Anthony, perché di sicuro era stato lui ad allontanarsi di colpo senza controllare che tutti lo seguissero, ma alla fine se la sarebbe fatta passare: dopotutto, era praticamente il suo migliore amico, non era in grado di rimanere arrabbiato con lui a lungo.
Tuttavia, i suoi buoni propositi di calma e fiducia avevano cominciato a vacillare dopo un quarto d’ora e, infine, dopo mezz’ora passata solo come un cretino in piedi a pochi passi dalla piccola biglietteria erano morti definitivamente. Per chissà quale motivo quei tre non si erano degnati di venire a prenderlo. Non dubitava che si fossero accorti della sua assenza: a volte erano un trio di cretini, ma non potevano esserlo a tal punto. D’altra parte, non riusciva a venirgli in mente un solo valido motivo per la loro assenza. Che non volessero averlo fra i piedi? No, era impossibile, loro quattro erano amici fin dalla prima, sempre insieme, anche quella serata era stata voluta da tutti. Addirittura Anthony l’aveva aiutato a supplicare sua madre perché lo lasciasse star fuori mezz’ora più del solito … no, aveva fiducia nel fatto che i suoi amici gli volessero bene. Ma allora perché non erano venuti a riprenderlo? L’unica cosa certa nella mente di John era che, quando li avrebbe rivisti, non l’avrebbero passata liscia.
Con un sospiro si lasciò andare contro la recinzione di protezione della ruota panoramica, scivolando con la schiena sul materiale plastico fino a ritrovarsi seduto per terra, dove si strinse le ginocchia con le braccia e lasciò andare un sospiro che somigliava pericolosamente ad uno sbuffo frustrato. Cosa avrebbe dovuto fare, arrivato a quel punto? Mancava ancora quasi un’ora perché il padre di Steve venisse a prenderli e non aveva intenzione di passarla lì seduto come un cane. Avrebbe potuto dirigersi all’uscita e aspettare lì i suoi amici, ma il parcheggio era poco illuminato e lievemente inquietante – non che avesse paura, chiaro – e a dirla tutta si sentiva più a suo agio dentro al Lunapark. Per qualche minuto aveva riflettuto sulla possibilità di sfruttare quel tempo girando il parco da solo, magari prima o poi si sarebbe anche imbattuto negli altri; tuttavia aveva velocemente accantonato l’idea prendendo in considerazione le dimensioni di quel posto, il più grande di tutta l’Inghilterra. Erano più alte le probabilità che si perdesse e non trovasse più l’uscita che quelle di imbattersi in quei tre disgraziati, senza contare che probabilmente non l’avrebbero nemmeno fatto salire da solo sulle attrazioni: per via della bassa statura veniva spesso scambiato per un ragazzino più piccolo, nessuno avrebbe detto che di lì ad un mese avrebbe frequentato la terza media. Inoltre, anche se era difficile ammetterlo, nonostante ormai non fosse più un bambino l’idea di andarsene a zonzo da solo lo metteva a disagio, forse perché sapeva che sua madre l’avrebbe messo in punizione fino alla maggiore età se fosse venuta a saperlo. “Cosa diavolo dovrei fare?” si domandò nuovamente, emettendo un nuovo breve gemito.
- Se stai per avere un attacco di panico ti consiglio di non respirare troppo velocemente, rischieresti di iperventilare. -
John per poco non si ribaltò voltandosi di scatto verso sinistra, spaventato – stavolta poteva ammetterlo - da quella voce sconosciuta incredibilmente vicina. A due passi di distanza si trovava un bambino con folti capelli scuri, sottile e allampanato. Doveva essere, probabilmente, un po’ più giovane di lui, impressione data da una certa rotondità infantile che ancora ammorbidiva il suo viso, quasi disarmonico appaiato al corpo già così slanciato e spigoloso.
- Cos-cosa? – domandò, incerto, chiedendosi se si stesse rivolgendo a lui o a qualcuno che non poteva vedere nascosto dalla curva della recinzione. Per tutta risposta, quello avanzò di un passo nella sua direzione e alzò gli occhi al cielo, come facevano a volte le maestre della sua scuola quando qualcuno di loro si rivelava particolarmente lento di comprendonio per via di una nottata passata davanti ai videogames. Lo fissò dritto negli occhi, lo sguardo serio e lievemente annoiato, rendendo chiaro che stesse rivolgendosi proprio a lui e a nessun altro.
- L’iperventilazione può portare a varie conseguenze spiacevoli, fra cui la paralisi temporanea degli arti dovuta all’eccesso di ossigeno nel flusso sanguigno, cosa che non farebbe altro che aggravare la tua situazione. Dovresti, piuttosto, concentrarti sul fare lenti respiri profondi per regolarizzare il respiro e il battito cardiaco, calmando così le ondate di panico. Pare sia anche utile sentirsi “costretti”, ad esempio avvolgendosi addosso strettamente una coperta, ma temo che dovrai arrangiarti stringendoti le ginocchia con più forza: non ho con me una coperta e non ho intenzione di abbracciarti. -
John lo osservò praticamente a bocca aperta. Come poteva un bambino così piccolo sapere cose del genere? Lui a malapena sapeva cosa volesse dire “iperventilare”! L’altro si appoggiò con il fianco alla recinzione, le braccia incrociate, un sorriso ironico ad incurvargli le labbra infantili.
- Mio padre certamente ti direbbe “Chiudi la bocca o ci entreranno le mosche!” ma in questa zona e all’attuale temperatura penso sia poco probabile. Piuttosto, un consiglio valido sarebbe “Chiudi la bocca o la tua saliva evaporerà e ti ritroverai assetato oltre che in procinto di cedere al panico!” -
Quelle prese in giro così evidenti parvero riscuotere John dal torpore in cui era caduto, risvegliando in lui un certo senso di irritazione. Quel bambinetto poteva pure essere dannatamente sveglio e usare tutti i paroloni presenti nel dizionario, ma di certo uno sconosciuto non aveva il diritto di trattarlo come uno scemo.
- Non sono in pro…cinto di cedere ad un bel niente, non sto avendo un attacco di panico, sapientone! -
Il bambino non parve infastidito da quell’appellativo, inclinò invece la testa da un lato e lo osservò con espressione lievemente corrucciata, pensoso.
- Ah no? Allora perdonami, dalla tua espressione angosciata e dagli strani singhiozzi che emettevi ad intervalli irregolari avevo pensato che stessi per averne uno. -
- Non ero angosciato e non stavo singhiozzando, stavo solo sospirando, erano sospiri. Hai presente, quelli che si fanno quando sei arrabbiato o scocciato. – spiegò, infastidito, perché davvero, non aveva avuto paura. Per niente. L’altro stiracchiò il viso in un sorrisino storto, chiaramente poco convinto.
- Sospiri dici? Beh… se lo dici tu. Non sono molto bravo a capire le persone. Mi eri sembrato sulle spine, diciamo, come se essere qui da solo ti mettesse a disagio. -
John si alzò finalmente in piedi, spazzolandosi i pantaloni con le mani. Da quella prospettiva risultava ancora più chiaro che avesse davanti a sé un bambino a tutti gli effetti: era un quindicina di centimetri più basso di lui e John era, con suo grande scorno, piuttosto basso per essere un tredicenne.
- Ho tredici anni, non sono a disagio a stare da solo, ma se vogliamo parlare di questo: tu cosa ci fai qui? Mi sembri decisamente troppo piccolo per andartene a zonzo da solo di notte. -
Questa volta il viso del bambino assunse un’espressione corrucciata e scontenta, era evidente che si fosse sentito punto sul vivo.
- Per prima cosa: io non vado a zonzo, so benissimo dove mi trovo e come fare per arrivare dove devo andare. Secondo: l'età è qualcosa di relativo e si può essere sprovveduti anche a cinquant’anni. Comunque tecnicamente non sono da solo, mio fratello è da qualche parte qui dentro.-
- E come mai non sei con lui? -
Sul viso dell’altro a quel punto si dipinse una commistione di noia e velato disgusto, nonostante si fosse mosso appena. John si domandò come fosse possibile comunicare tanto solo con semplici e limitati movimenti dei muscoli facciali: era quasi certo di non esserne in grado nemmeno muovendone più del doppio.
- E’ insopportabile e a tratti anche repellente, per cui tutte le volte che mi trascina qui mi allontano non appena si distrae guardando i dolci. –
Lo osservò per un momento, aspettandosi che ritrattasse o che ammettesse di aver scherzato, cosa che naturalmente non avvenne.
- Abbandoni in mezzo al luna park il tuo fratellino? Ma sei pazzo??? – esclamò quindi, scioccato. Il bambino sbuffò, a metà fra il divertito e l’esasperato.
- Ma quale fratellino, Mycroft ha diciassette anni, sa badare a sé stesso; è solo patologicamente goloso. -
John, arrivato a quel punto della conversazione, si sentiva decisamente confuso.
- Ma se è più grande di te perché ti trascina al Luna Park? -
- Pare che rispetto ai bambini della mia età io sia troppo poco socievole. I nostri genitori l'hanno incaricato di far sì che io impari a svagarmi in maniera normale, per così dire, ignorando il fatto che la maggior parte degli svaghi comuni a me non interessano e preferirei stare in biblioteca o nel laboratorio di scienze della scuola. Poi, come un adolescente che sfoga la propria ansia mangiando due tavolette di cioccolato intere ogni pomeriggio dovrebbe insegnarmi ad essere normale, ancora non mi è chiaro, rimane il fatto che questa solfa mi tocca una volta al mese: la sala giochi, il cinema, il nuoto... stavolta è toccato al Lunapark. -
Aveva recitato la prima parte di quel discorso come se l’avesse imparata a memoria, sembrava una sorta di formula preconfezionata da utilizzare all’occorrenza. John si chiese quanto spesso quel bambino si trovasse costretto a spiegare perché veniva trascinato in giro, platealmente infelice, dal fratello. Probabilmente troppe.
- E tu scappi ogni volta? –
Stavolta l’altro gli rivolse uno sguardo sottilmente divertito e fintamente meditabondo.
- Può davvero essere definito scappare se mi allontano tranquillamente solo nei momenti in cui si distrae? -
- Sì. - rispose lui immediatamente, non riuscendo a trattenere una risata. L’altro rispose con un sorrisino e un’alzata di spalle, come a voler dire “ok, mi hai beccato”.
- Beh, allora sì, scappo tutte le volte. Ma oramai Mycroft se lo aspetta, penso quasi che ci conti in modo da potersi fare i fatti suoi in pace per un paio d'ore senza avere i nostri genitori o la domestica con il fiato sul collo. È una specie di mutuo accordo: lui non racconta delle mie fughe, io non racconto di tutto quello che mangia. Conveniente per entrambi. -
- Non hai paura di perderti? Sei, insomma, sembri solamente un bambino. Magari … semi-geniale? Ma sempre un bambino. – domandò, lievemente sulle spine all’idea di infastidirlo di nuovo con la questione dell’età. Era evidente che quello non fosse un bambinetto come tutti gli altri, a partire dal modo in cui parlava per arrivare a come si muoveva e a quello che diceva. Eppure John non riusciva a non pensare che fosse comunque troppo piccolo per stare da solo in un posto così grande e caotico.
Come era prevedibile, quello sbuffò e si lasciò andare a sua volta con le spalle contro la recinzione con un gesto plateale, tuttavia non sembrava davvero arrabbiato; pensò che forse fosse abituato a discorsi di quel genere.
- Ho dieci anni, non sono così piccolo, lo sembro di più perché sono magro. E no, non sono un genio nel vero senso del termine, ho solo una memoria piuttosto sviluppata e mi piace semplicemente osservare e capire per bene le cose, tutto qui. Per questo ho un buon senso dell'orientamento, ho memorizzato la pianta di questo posto puzzolente nel primo quarto d'ora. Se ti serve, a proposito, posso indicarti l'uscita. Mi pare di capire da come ti ho trovato che ti sei perso. –
Fu il turno di John di sbuffare e scoccare all’altro un’occhiataccia.
- So benissimo dov'è l'uscita, non serve essere un genio per questo! -
- E allora che cavolo fai qui fermo a sospirare da quasi tre quarti d'ora? – rispose il bambino in tono canzonatorio, guardandolo come se stesse valutando se fosse cretino o solo un po’ lento.
- Ho perso i miei amici. O meglio, loro hanno perso me. L'accordo in casi così era di trovarci qui, ma non si sono presentati. E fra aspettare le 10 e mezza da solo in un parcheggio buio e farlo qui... beh, ho preferito così. - tagliò corto, poco desideroso di soffermarsi sulle sue ridicole inquietudini di poco prima.
- Non hai pensato che la cosa migliore da fare fosse cercare di ritrovarli? -
- La fai facile tu, come diamine dovrei fare? Questo posto è enorme. – commentò, allargando le braccia in un gesto di stizza e rassegnazione. L’altro alzò gli occhi al cielo come fanno gli adulti quando i bambini si comportano in modo assolutamente irrazionale.
- In realtà mi vengono in mente almeno cinque modi in cui avresti potuto farlo. -
- Beh sono felice di sapere che sei così tanto più intelligente di me, comunque ormai non ha molta importanza, fra poco meno di un'ora dobbiamo ritrovarci tutti al cancello. Devo solo trovare un modo per non annoiarmi a morte. –
Il bambino assunse di colpo un’espressione sfuggente, gli occhi che guardavano ovunque tranne che verso John, lo sguardo lievemente ma inequivocabilmente contrito.
- Ti sto annoiando? Ti ho notato lì da solo e sembravi in difficoltà quindi sono venuto qui pensando che avessi bisogno di una mano… ma dato che non è così e che ti stai annoiando posso sempre andarmene. -
John si sentì immediatamente in colpa, come quando urtava per sbaglio Peter, il fratellino di Steve,  mentre lo facevano giocare al parco. Il viso dell’altro, fra le varie emozioni, non mostrava alcun cenno di sorpresa e il cuore di John si strinse al pensiero che per lui fosse comune sentirsi dire “mi stai annoiando”. Si sentiva mortificato ogni volta che i genitori non avevano tempo per ascoltarlo, non riusciva nemmeno ad immaginare come sarebbe stato se non avessero voluto farlo.
- Ma no, tu non mi stai annoiando, intendevo che prima mi stavo annoiando, ma parlare con te non è poi così male. Se non hai altro da fare, ovvio. – chiarì velocemente, agitando le mani in avanti come a voler cancellare quel pensiero negativo.
L’altro parve rasserenato dalla precisazione, tuttavia sembrava restio ad alzare lo sguardo e a guardarlo negli occhi.
- Oh, ok. No, ho ancora tempo da passare e non vado matto per i Lunapark. Cosa vuoi fare? –
John fece vagare lo sguardo di qua e di là, pensando a cosa avrebbe potuto fare che fosse adatto anche ad un bambino, anche se prodigio. Di colpo gli giunse alle narici un odore familiare, dolce, caldo e caramellato, che lo fece sorridere automaticamente.
- In realtà ho fame. -
- Ci sono almeno quattro chioschi nelle vicinanze, perché non ti sei ancora preso nulla? – chiese l’altro con un sopracciglio alzato, perplesso da quella sua uscita. Lui si strinse nelle spalle, fingendo di guardare con molto interesse una ragazzina che partecipava ad un gioco a premi poco più in là.
- Non mi andava molto di… muovermi da qui. – mugugnò, scatenando immediatamente uno sguardo di estrema superiorità da parte dell’altro, oltre che l’ennesimo ghigno.
- Avevi paura di perderti, è chiaro. Non ti preoccupare, ti accompagno io. – disse, deciso, come se non avesse alcun dubbio sulla cosa, prendendo la sua mano e cominciando a trascinarlo via con sé senza pensarci due volte. John per poco non inciampò per la sorpresa, tuttavia si lasciò condurre in mezzo alla folla di persone che affollava le viuzze del parco, troppo stupito del fatto che uno sconosciuto di nove o dieci anni lo stesse tenendo per mano per poter protestare. Ritrovò la voce solo qualche momento dopo, quando si fermarono di fronte ad uno dei tanti chioschi che vendeva le tipiche leccornie da Lunapark: mele caramellate, hot-dogs, churros, caramelle gommose e ogni altra delizia supercalorica che si potesse desiderare.
- Non sono preoccupato! E non avevo paura di perdermi, semplicemente non mi andava molto di muovermi. - tentò di difendersi, ma l’altro non sembrò dargli minimamente ascolto.
- Certo, certo. Dai, mettiti in fila...uuuh…come ti chiami? Potrei fare una ragionevole supposizione ma perderemmo solo tempo. -
- Una sup… cosa? Sono John, comunque. -
Il bambino gli scoccò un’occhiata il cui significato, John avrebbe potuto scommetterci, era qualcosa tipo “avrei dovuto immaginare che avessi un nome del genere”.
- Sherlock. Il tuo linguaggio a dir poco scadente mi fa dubitare della qualità del servizio scolastico nazionale, comunque. - commentò, acido, spingendo l’irritato ragazzo in avanti come ad invitarlo a scegliere cosa preferisse.
- Oh scusa tanto se a tredici anni non conosco ancora tutto il dizionario come le grandi menti come te! E poi, tu dove studi scusa? -
- In un istituto privato. Nulla di incredibile in realtà ma almeno ci insegnano a parlare correttamente. - spiegò Sherlock, ignorando il roteare di occhi di John che, francamente, non si era aspettato nulla di diverso da una scuola privata per ricchi snob.
- Lo insegnano anche a noi, è solo che certe parole non si usano di solito. -
- Non si usano in certi ambienti, forse. Comunque potresti usare il metodo che ho provato io per imparare più vocaboli in francese: ogni giorno scegli una parola dal dizionario, ne impari il significato e ti sforzi di utilizzarla. E’ un utile esercizio. -
Sherlock aveva parlato con la stessa tranquillità e casualità che si avrebbe nel parlare del tempo, cosa che lasciò John ancora più stupefatto. Quel bambino parlava il francese? Lui a malapena conosceva cinque parole, tre delle quali inadatte al pubblico e insegnategli da Antony, che in quanto a ricerche su internet si stava rivelando incredibilmente precoce. Scosse la testa per allontanare il pensiero, ordinando e pagando finalmente il proprio spuntino e fissando il bambino accanto a lui come suo padre a volte fissava i vecchi rompicapo in legno che ritrovava in cantina.
- Tu sei davvero strano, sai? - commentò, senza pensare.
Le labbra di Sherlock si stirarono in un sottilissimo sorriso amaro, quel genere di sorriso che, John ne era certo, non dovrebbe trovarsi sul viso di un bambino. Quello che hanno le persone che vengono maltrattate così spesso da aver imparato a fare buon viso a cattivo gioco.
- Me l'hanno detto in parecchi. Credo però che la definizione di “strano” sia poco precisa perché si fa riferimento ad una norma che non è chiaramente riconoscibile. Ad esempio, come puoi dire di essere normale se stai sbavando su quella cosa? – domandò, osservando con malcelato disgusto la porzione extra large di zucchero filato rosa che la ragazza del chiosco stava porgendo a John.
- Intendi lo zucchero filato? Perché, non ti piace? – chiese lui, stranito. A quale bambino non piace lo zucchero filato?
- L’idea che sia zucchero allo stato puro mi ha sempre fatto passare la tentazione di provarlo. E poi puzza sempre di bruciato. –
John lo guardò ad occhi sgranati, a quel punto quasi sconvolto.
- Non hai mai mangiato zucchero filato??? -
- No e non credo di essermi perso qualcosa. – rispose Sherlock, allargando le braccia in un gesto plateale e alzando gli occhi al cielo. Il ragazzo non ci poteva credere.
- Non vuoi nemmeno assaggiarlo? -
- Sto bene così, grazie tante. –
John continuava ad essere stupefatto, cominciava però anche a capire che quello che era tipico e normale per un generico bambino di una decina d’anni non si applicasse a Sherlock. Alzò le spalle e cominciò a staccare pezzi di quella nuvola rosa e a ficcarseli in bocca con gioia.
- Contento tu! –
Sherlock agitò una mano spazientito, come a dirgli di piantarla, quindi lo agguantò nuovamente per la mano libera e prese a muoversi nella direzione da cui erano venuti.
- Dai, andiamo. -
- E dove? -
- Sulla ruota panoramica, ovviamente. -
John si bloccò di colpo, rischiando di far piantare il naso a terra al bambino per il contraccolpo, guadagnandosi uno sguardo di fuoco puro.
- Eh? E perché? -
- Perché - cominciò a spiegare Sherlock con il tono di chi sta spiegando qualcosa di molto semplice ad una persona molto stupida - è uno dei cinque possibili modi per trovare i tuoi amici. Prima che tu dica qualsiasi cosa: so che hai detto che tanto ormai puoi benissimo aspettare, ma hai questo sguardo sempre lievemente depresso che mi ricorda il mio cane quando piove e mia madre gli impedisce di uscire a giocare; non posso sopportarlo un secondo di più. Troviamo i tuoi amici alla svelta così che tu possa tornare ad avere un’espressione normale mentre socializzi con altre persone con un vocabolario di circa venti parole come il tuo. –
John per un momento rimase interdetto. Davvero sembrava un cane bastonato? Non ne aveva idea. Certo, gli era dispiaciuto che i suoi amici non si fossero fatti vivi, come non gli era piaciuto stare mezz’ora da solo seduto per terra, ma non pensava che gli si leggesse in faccia. Poi si rese conto di essere appena stato insultato.
- Ma razza di … vabbè, lasciamo perdere, non ce n’è davvero bisogno, li troverò all’uscita. E comunque il parco è grande, non penso che li vedremmo, senza contare che tu sei un bambino e non ci faranno salire senza un adulto. -
- Legalmente, anche tu sei un bambino, hai solo tre anni più di me. E comunque smettila di agitarti e lascia fare me, limitati a chiedere due biglietti, poi ci penserò io e tu dovrai solo reggermi il gioco. - dichiarò, così deciso e categorico che a John non rimase che sospirare e lasciarsi accompagnare fino alla ruota panoramica.
Il disagio che aveva avvertito poco prima era assolutamente scemato; la mano di Sherlock era calda e lievemente sudata, forse perché aveva l’abitudine di tenerle in tasca quando non stava facendo nulla, e gli ricordava i momenti passati con Steve a far dondolare in due Peter. Era una sensazione quasi tenera e rassicurante, per quanto potesse essere ridicolo sentirsi rassicurati dalla presenza di un bambino.
In poco tempo si ritrovarono di nuovo nei pressi della piccola biglietteria. Sherlock strappò repentinamente lo zucchero filato dalla mano di John e gli fece un cenno con la testa in direzione dell’uomo seduto all’interno. Lui alzò gli occhi al cielo, ancora convinto che non avrebbe funzionato, avvicinandosi però alla struttura e sporgendosi verso la parete di plexiglass per assecondarlo.
- Salve, due biglietti per favore. –
Come previsto, l’uomo li squadrò un po’ perplesso e decisamente poco convinto.
- Quanti anni avete? - domandò, e mentire era fuori discussione dato che John dimostrava a malapena la propria età.
- Tredici e dieci -
- Mi spiace, devi averne almeno sedici per portare un bambino con te, è il regolamento. -
John, per nulla sorpreso, stava quasi per ringraziare e voltarsi quando si sentì di colpo strattonare per la manica: Sherlock ci si era aggrappato con una mano e la tirava ripetutamente, con un broncio scontento a distorcergli il viso e gli occhi sgranati e lucidi.
- Joooooohn e adesso che facciamo??? La mamma ha detto che tornerà fra un’ora! Io sono stanco di camminare! – esclamò, con voce molto più acuta di quanto non fosse realmente. John ci mise qualche secondo per elaborare che quello era l’inizio di una messa in scena con i fiocchi, quindi si risolse a tentare di stare al gioco.
- Mi d-dispiace Sherlock, come vedi non ci si può far niente. -
Il bambino picchiò il piede a terra in un gesto di stizza infantile così realistico che, se John non avesse saputo come stavano le cose, avrebbe creduto davvero in un capriccio in corso.
- Ma non è giuuuuusto! La mamma ci lascia sempre qui da soli mentre va nella casa degli specchi con il signore della pizzeria! Perché non ci porta con lei, John??? -
“Oddio.”
Nel sentire ciò che Sherlock aveva detto John non poté impedirsi di arrossire, sentì distintamente il calore che gli invadeva il collo e le guance. Si strofinò una mano sul retro della testa, lanciando un’occhiata mortificata al bigliettaio. La scena, però, doveva essere servita allo scopo perché quello gli rivolse uno sguardo imbarazzato e impietosito. Mandò giù un grumo di saliva e si fece forza per continuare.
- Dai, non fare così, lo sai che non possiamo entrare, sono…co-cose da grandi. Su, non è colpa del signore qui se proprio non si può, andiamo, troveremo altro da fare, credo... -
Non fece in tempo a muovere un passo verso una direzione qualsiasi che la voce del bigliettaio lo raggiunse e lo fece fermare.
- Ehi, ragazzo, aspetta. Dai, per stavolta vi faccio salire, ma non ditelo in giro! Non dovrei infrangere le regole sulla sicurezza, ma in questo caso posso fare un’eccezione. -
Aveva davvero funzionato? Non ci poteva credere. Guardò Sherlock, che sorrideva con gli occhioni sgranati, come se gli avessero detto che il Natale era arrivato in anticipo. Che attore.
- Beh grazie, grazie tante. – disse, affrettandosi a pagare e a prendere i biglietti, mentre il bambino lo seguiva, sempre angelico.
- Sì, grazie mille signore! - trillò anche, salutando l’uomo con la mano mentre si dirigevano verso la ruota, guadagnandosi una leggera ginocchiata da parte di John.
 
***
 
L’addetto alla sicurezza li fece entrare in una cabina vuota, dove si accomodarono dal lato che permetteva una buona visuale sulla maggior parte del parco. Sherlock si era accucciato all’angolo del sedile e John fece altrettanto, recuperando a quel punto lo zucchero filato e sbocconcellandolo in attesa che la ruota partisse.
- Descrivimeli. -
La voce di Sherlock lo raggiunse qualche minuto dopo, non appena i meccanismi della giostra cominciarono a scricchiolare mettendosi in moto.
- Eh?
- I tuoi amici, per poterli trovare. - spiegò, guardandolo ancora una volta come se avesse una specie di ritardo mentale - Non i capelli, non penso si distingueranno, ma il colore dei vestiti potrebbe essere riconoscibile. Ho una vista acuta. -
“Una cosa fra le tante” pensò John, ma si trattenne dal dirlo: cominciare a fare complimenti che non fossero “ma come sei braaaaavo” ai bambini gli sembrava vagamente inquietante.
- Ah sì, giusto! Beh, sono in tre: Steve ha una felpa blu elettrico, Bruce se non sbaglio ha una maglia nera e … non mi ricordo come era vestito Anthony, ma indossa un cappellino rosso scuro. -
Il bambino sbuffò, come se non potesse credere al pressapochismo di John, il quale si chiese se per Sherlock fosse normale ricordare ogni tipo di particolare. Nel caso la risposta fosse stata “sì”, si disse che vivere con così tante cose nella testa a dieci anni doveva essere ben poco rilassante.
- Non è granché, ma con un po’ di fortuna potrei farcela. -
- Scusa, in genere non faccio molto caso a queste cose. -
- Quasi nessuno lo fa. – dichiarò Sherlock distrattamente, come a volerlo rassicurare sul fatto di non essere un idiota isolato, voltandosi poi a guardare il terreno che si allontanava sempre di più sotto di loro.
Stettero in silenzio per quasi mezzo giro, osservando la folla di persone che si assiepavano intorno ai chioschi e alle attrazioni. John non si faceva illusioni sul fatto di riuscire a trovare qui tre cretini dei suoi amici, però non era male starsene lì, nella calma totale, con la compagnia di qualcuno, per quanto questo qualcuno fosse uno scocciante bambino superdotato.
D’un tratto, una domanda gli risuonò nel cervello più delle altre mille che avrebbe voluto porgli ma che sarebbero sicuramente risultate fastidiose, così decise di lanciarsi con quella.
- Fai spesso cose del genere? -
- Quali cose? - domandò quello, sempre scrutando il parco con attenzione, concentrato in quel compito titanico che nessuno gli aveva chiesto di assumersi.
- Far credere alla gente di essere come gli altri bambini. -
Sherlock, per la prima volta da quando l’aveva incontrato, rise, emettendo una frequenza che era cristallina e graffiante al tempo stesso; un ossimoro che nella testa di John si tradusse in un’impressione stranissima, una commistione di innocenza infantile e adulta consapevolezza. Era un suono bello e spaventoso.
- Ogni tanto è utile, no? E poi a volte è semplicemente più facile dare alla gente quello che si aspetta. Meno problemi. -
Nella mente di John si formò immediatamente un’immagine di sua sorella Harry, la fantastica, divertente, intelligente, irriverente Harriet, che da anni ormai fingeva con tutti tranne che con lui di essere qualcuno che non era. Il suo ultimo ragazzo si chiamava Brody e John lo odiava. Anche Harry lo odiava e tuttavia quel tizio si trovava costantemente a casa loro. A lui veniva da vomitare ogni volta che andava ad aprire e se lo ritrovava sulla soglia, con quel sorriso strafottente, il suo modo paternalistico di chiamarlo “campione” nonostante avesse solo diciotto anni e quelle mani callose da sportivo che molte volte avevano malmenato qualche ragazzino più piccolo o debole. Quelle mani erano troppo sporche per stare addosso a sua sorella. Erano troppo grandi per stare addosso ad Harry. Ma per lei erano un “male necessario”.
- Già. - commentò solamente, troppo schiacciato dai propri pensieri per articolare meglio. Sherlock gli rivolse una risatina di scherno.
- Non penso che una persona normale capisca. -
- Capisco eccome, credimi. - ribatté John, osservandosi le mani per non alzare lo sguardo e rendere palese il proprio turbamento. - Avevi ragione: è difficile capire cosa è normale e cosa no. In realtà non sono nemmeno sicuro che esista la normalità. E penso che sia un bene. Essere tutti uguali sarebbe noioso e anche un po’…triste. -
Rimasero in silenzio per qualche secondo, fino a che non riuscì a ricomporsi e ad alzare il viso. Sherlock stava sorridendo in modo solo minimamente ironico e lo osservava in modo strano, come se avesse appena scoperto qualcosa che non si aspettava minimamente di trovare.
- Wow, allora un cervello che funziona ce l’hai sotto tutti quei capelli biondi. –
John all’ennesima provocazione si sporse verso di lui e gli assestò una spintarella leggera alla spalla, in modo più che altro scherzoso.
- Vacci piano “fratellino”, non tirare troppo la corda! -
- Scherzavo, dai. Ti conosco troppo poco per sapere se sei stupido o meno. – rincarò l’altro, ghignando spudoratamente.
- Oh beh, grazie per la fiducia! - esclamò, imbronciandosi, più che altro per darsi un tono e non dargliela vinta senza combattere.
- Non te la prendere: ho un QI molto superiore alla media, è normale che per me siano tutti un po’ scemi. -
John, suo malgrado, non poté fare a meno di ridere. Alzò le mani davanti al petto, come a dire che si arrendeva e di non continuare a “sparare sulla croce rossa”.
- In questo caso, spero solo di non esserlo troppo. -
Il bambino gli lanciò un’occhiata enigmatica, ma un mezzo sorriso persisteva ancora nel curvargli le labbra, facendo pensare a John che, dopotutto, il suo giudizio su di lui non dovesse essere poi così negativo.
- Non penso. – commentò infatti, scatenando il lui una risatina liberatoria. Per qualche motivo, l’idea che una persona così intelligente potesse pensare che fosse un cretino completo non lo faceva impazzire.
- Ottimo, mi sento sollevato! - esclamò, staccando l’ennesimo pezzo di zucchero filato dalla sua generosa porzione che cominciava finalmente a diminuire. Sherlock contemplò quella matassa rosa per qualche secondo, pensoso.
- Che sapore ha? -
Il ragazzo ghignò e gli pungolò il braccio con un dito, ottenendo in risposta un mugolio infastidito.
- Ma come, non avevi detto che è solo zucchero? -
- Tecnicamente è quasi solo zucchero. -
- Beh, il sapore è esattamente quello, con in più l’aroma alla ciliegia. Ma non è per quello che si compra, è per la consistenza. -
Sherlock sembrava ascoltarlo con più attenzione ora e a John venne da ridere all’idea che quel bambino sapesse riconoscere i sintomi degli attacchi di panico e non avesse al contempo alcuna idea di come fosse mangiare un pezzo di zucchero filato.
- Sì? -
- Sì! Appena ne strappi un pezzo è morbidissimo, non sembra quasi cibo, ha la consistenza del cotone o dell’ovatta; poi appena si bagna di saliva si sgonfia di colpo, assumendo una consistenza quasi croccantina ma appiccicosa che si attacca spesso al palato. E’ divertente da mangiare. Sicuro di non volerne un pezzetto? -
- Ci sto pensando. – rispose allora lui, l’espressione ancora dubbiosa che strappò l’ennesima risata al ragazzo.
- Pensa in fretta, non durerà per sempre! -
Ripresero a fissare il parco all’interno della cabina mentre la ruota compiva l’ultimo terzo di giro, un silenzio rilassato e sereno fra loro, fino a quando, cinque minuti dopo, Sherlock non puntò un dito verso un punto preciso non troppo lontano dalla posizione della ruota.
- Trovati. -
- Sul serio??? – esclamò John sbalordito, spostandosi sul sedile per ritrovarsi spalla contro spalla con il bambino, cercando di seguire la direzione del suo braccio.
- Certo. Laggiù, a due traverse da qui. Sono in coda al chiosco delle patatine. Ci sono parecchie persone prima di loro, penso che una vola scesi da qui potrai raggiungerli tranquillamente. – spiegò, una punta di asprezza nella voce. Il ragazzo non poté che sorridere allungando una mano a scompigliargli i ricci. A quanto pare a nessuno dei due piaceva stare da solo.
- Grazie, ma … preferisco di no. -
Sherlock si ritrasse dalla carezza, come un gatto che di colpo decide di non avere più voglia delle coccole e scatta lontano, osservandolo poi con un sopracciglio alzato ed un’espressione perplessa.
- Perché mai? -
- Non sono da solo, aspettare le dieci e mezza non è più un problema. – spiegò con delicatezza, gustandosi il viso di Sherlock che si trasfigurava nel transitare dalla confusione all’incredulità. Si sentì male nel pensare a quanto dovesse essere solo un bambino che si stupiva del fatto che qualcuno volesse passare del tempo con lui.
- Sei simpatico Sherlock. A tratti sei un po’ irritante e anche un po’ inquietante, ma mi hai dato una mano praticamente senza motivo e non sono dovuto rimanere da solo per tutto quel tempo. E poi non mi piace l’idea di lasciarti da solo, mi sentirei una persona terribile. -
Sherlock emise quel suo caratteristico suono a metà fra uno sbuffo e un lamento, tipico di quando credeva che il suo interlocutore stesse dicendo qualcosa di assurdo.
- Passo da solo la maggior parte del mio tempo, non ho paura. -
- Un conto è essere soli quando non ci sono alternative, un altro è esserlo quando delle possibilità ci sono. Preferisco stare con te fino alle dieci e mezza, se non ti rompe. -
Il bambino scosse la testa lentamente, come se stesse ancora elaborando la notizia.
- No, non mi dà fastidio. -
- Bene, allora è deciso. -
 
***
 
Un volta scesi dalla ruota si diressero verso l’uscita facendo quello che Sherlock definì “il giro lungo”, per lasciar passare quei quindici minuti che avevano ancora a disposizione. Chiacchierarono soprattutto di esperienze scolastiche, cosa piuttosto inconsueta per John, specialmente durante le vacanze estive. Sherlock gli parlò in particolare del suo amore per le scienze e per le applicazioni pratiche in laboratorio, lasciando John ancora una volta esterrefatto di fronte alla mole di nozioni che aveva memorizzato, la stragrande maggioranza ben oltre quelle che sono le capacità standard di un bambino della sua età; ma gli parlò anche del suo cane, cosa che strappò un sorriso al ragazzo.
Giunti al cancello il silenzio era calato, ed era un silenzio teso e carico di rammarico. A John sembrava di aver appena sfiorato il mare in tumulto che era la mente di Sherlock, eppure sentiva di aver colto piuttosto precisamente la profonda solitudine che sembrava albergare dentro di lui, e se ne dispiaceva. E d’altro canto, cosa avrebbe potuto fare? Sherlock non era un bambino come Peter, non poteva proporgli di accompagnarlo al parco a giocare, avrebbe fatto esattamente ciò che faceva suo fratello, ovvero qualcosa di inadatto a lui. Ma come avrebbero reagito i suoi genitori se uno sconosciuto, adolescente, si fosse presentato alla porta chiedendo di portare il loro figlio al museo di storia naturale? No, non si poteva fare.
- Tra poco arriveranno i tuoi amici, credo di dover andare.- affermò Sherlock, il viso una maschera totalmente inespressiva, così come l’aveva visto la prima volta poche ore prima.
- Non sei obbligato, non è un problema se aspetti tuo fratello qui.-
- Non ho bisogno di aspettarlo da qualche parte, mi trova lui quando è il momento di andare. E non preoccuparti: come ho già detto, sono abituato ad arrangiarmi.-
John sospirò, chiedendosi per quale motivo si sentisse comunque così in colpa all’idea di lasciarlo solo, anche se per pochi minuti.
- Tuo fratello non si rende conto di quanto ti scoccia fare queste cose?-
- Certo che sì. Mycroft ha molti difetti ma non è uno stupido. Semplicemente, ha anche lui i suoi pesi da portare. Non sarebbe nemmeno giusto fargli combattere le mie battaglie al posto mio.- spiegò Sherlock, una durezza nello sguardo che fece intuire a John che la questione fosse molto più complicata di quanto sembrasse e che fosse il caso di lasciar perdere.
- Quindi, fra quattro domeniche dove sarai?-
Sherlock fece spallucce, l’espressione sempre indifferente e lo sguardo che vagava un po’ ovunque senza soffermarsi su niente.
- Chi lo sa? Mycroft chiede sempre se ho una preferenza, cosa che io ovviamente non ho mai, quindi alla fine decide sempre mio padre. –
John lo guardò, chiedendosi se fosse il caso di fare un azzardo. Magari Sherlock stava davvero meglio da solo, magari non gli interessava minimamente la sua compagnia e l’aveva sopportato per l’ultima ora solo perché gli faceva pietà. Continuò ad arrovellarsi per qualche momento, poi decise che, onestamente, non gliene fregava niente di nulla. Sentiva che quel bambino aveva bisogno della compagnia di qualcuno, gli sembrava che il senso di “assenza” che percepiva intorno a Sherlock lo soffocasse. Forse la persona giusta non era lui, pensò però che valesse la pena tentare.
- Io sarò al Queens, la sala da bowling vicino ai giardini di Kensington. Nel caso ti servissero idee. - buttò lì con un tono casuale che di casuale non aveva un bel nulla. L’espressione così costruita di Sherlock crollò e per pochi secondi John poté rivedere quello sconvolgimento che l’aveva colto anche poco prima sulla ruota panoramica, misto ad uno sguardo negli occhi che poté definire solo come speranzoso. Poi Sherlock si ricompose, sollevando un sopracciglio con fare scettico.
- Bowling? -
- Meglio del Lunapark, non credi? -
Il bambino assunse un’espressione pensosa incredibilmente plateale, con tanto di mano sollevata a sfregarsi il mento.
- Mmh. Potrei stimare la traiettoria corretta per lo strike, se non altro. Ci penserò. –
John gli sorrise apertamente, conscio che più che un “ci penserò” quello fosse un “ci proverò”. Lui la sua parte l’aveva fatta, ora toccava a Sherlock.
- Bene. -
Staccò l’ultimo pezzo di zucchero filato dal supporto che buttò nel cestino dei rifiuti lì accanto, quindi lo sventolò davanti al viso dell’altro con un ghigno divertito.
- Peccato, stai per perdere la tua ultima chance di assaggiare lo zucchero filato. - dichiarò, stringendo il pezzo oblungo fra i denti e puntandoglielo contro, come fosse una gigantesca linguaccia rosa.
Sherlock fece un passo in avanti, posandogli una mano sulla spalla, e John non fece in tempo a chiedersi che cosa stesse cercando di fare prima che il bambino aprisse la bocca e staccasse un generoso boccone di zucchero filato, graffiandogli l’angolo della bocca con i denti nel processo.
Il ragazzo si ritrovò senza parole, ancora scioccato, ad osservare l’altro masticare in modo concentrato e fare una smorfia di difficile interpretazione.
- Uhm. Dolce. Ma non è poi così male, anche se odora di bruciato. Hai ragione, la consistenza è interessante. - commentò sorridendo, prima di voltarsi e prendere a camminare verso l’interno del parco.
- Ora di andare. Ci vediamo in giro John. – lo salutò, agitando lentamente una mano verso l’alto. Il ragazzo parve riscuotersi solo in quel momento dallo shock e affrettò a gridare un saluto, prima che il bambino sparisse dietro l’angolo del tiro al bersaglio.
- Ci conto! -
 
***
 
- Ehi amico, ma dove ti eri cacciato? -
Questa fu la prima domanda che Anthony gli rivolse quando pochi minuti dopo lui, Steve e Bruce comparvero nel cono di luce donato dal lampione sotto cui si trovava. John dovette frenare l’impulso di prenderlo a calci
- Dove mi ero cacciato io? Vi ho aspettato ore alla ruota panoramica! -
Gli occhi di Bruce mandarono fiamme e di colpò la sua mano si avventò sul retro del collo di Anthony in un sonoro sciack, provocando una serie di piagnucolii da parte della sua vittima.
- Razza di cretino, te l’avevo detto che il posto di ritrovo non era la casa stregata! -
Mentre i due cominciavano a litigare su chi avesse ragione e chi avesse torto, Steve si avvicinò a John e gli posò una mano sulla spalla, lo sguardo colpevole.
- Scusaci John, Anthony sosteneva di essere sicuro che fosse quello, abbiamo aspettato un’ora. Poi Bruce aveva fame e allora … -
- …avete preso le patatine. - completò John per lui, rendendosi conto solo in seguito di quanto sarebbe sembrato strano se avessero saputo che li aveva trovati ma aveva preferito non raggiungerli.
- Eh? -
- No, nulla. Non importa comunque, non sono arrabbiato. Non più, almeno. - specificò con uno sbuffo divertito, mettendo una mano sopra a quella di Steve e scuotendola, in un gesto rassicurante.
- Che hai fatto per tutto questo tempo? Ti sarai annoiato a morte. -
John vagò per un attimo con lo sguardo verso il punto in cui Sherlock era sparito poco prima e sorrise. Sperava intensamente che quello non fosse stato un addio ma solo un arrivederci.   
- In realtà… no, per niente. -
 
***
 
 
- Puoi anche uscire Mycroft, so che sei lì. Respiri così forte che posso sentirti anche con tutto il baccano delle giostre. – dichiarò ad alta voce Sherlock non appena ebbe girato l’angolo, il tono più infastidito che mai. Dopo due ore passate, incredibilmente, a non annoiarsi completamente l’idea di ritornare alla routine fatta di domande inutili e battibecchi lo metteva a dir poco di cattivo umore. Dall’ombra, puntuale come un orologio, si levò una risatina soffocata e il suo sgradevole fratello maggiore fece capolino da dietro il tendone più vicino. Sfoggiava una polo verde scuro che non riusciva del tutto a nascondere la pancetta che si sforzava tanto di dissimulare e un sorrisetto saputo ed altezzoso che fece subito uscire Sherlock dai gangheri.
- Delicato come sempre, noto. Allora, come hai passato la serata? Novità? – domandò con un tono così costruitamene soave che il ragazzino si chiese, non per la prima volta, se facesse le prove allo specchio ogni mattina per risultare così insopportabile o fosse un dono di natura. Con buone probabilità, valutò alzando gli occhi al cielo, doveva trattarsi di una commistione di entrambe le cose.
- Risparmiami la recita, so benissimo che ci stavi osservando. Puoi fingere disinteresse quanto ti pare ma è evidente anche ad un cieco che in realtà non mi molli mai per più di cinque minuti consecutivi quando siamo fuori di casa. In effetti, la cosa è piuttosto fastidiosa, giusto perché tu lo sappia. –
Mycroft abbandonò velocemente qualunque accenno di ironia e si dipinse in volto un’espressione seria e quasi impercettibilmente rattristata, gli occhi fissi in quelli del fratello minore.
- E’ ovvio che non ti mollo, Sherlock. Sei un ragazzino, sei il mio fratellino e i nostri genitori ti affidano a me: devo essere certo che non ti accada nulla. – constatò con un tono che, se possibile, lo infastidiva più di quello più tipico e derisorio, forse perché gli faceva provare in fondo alla gola il vago retrogusto del senso di colpa.
Sherlock non era un stupido e per quanto potesse non essere molto ferrato nel connettersi con le emozioni altrui era consapevole che suo fratello si occupasse di lui per qualcosa che andava oltre il semplice senso del dovere. Gli voleva bene e lui, nonostante tutto, ovviamente lo ricambiava; normalmente però quello non era che un pensiero astratto, bidimensionale, relegato in un angolo della sua mente. Una cosa scontata, meccanica, una sorta di rumore di sottofondo in una stanza piena di gente che grida. Era solo in momenti come quello, in cui Mycroft faceva vacillare per qualche secondo la maschera di superiorità e compostezza che l’alta società gli stava cucendo addosso anno dopo anno, che Sherlock riusciva a sentire davvero il suo affetto.
La cosa, come era accaduto qualche volta anche in passato, scatenò in lui un misto di sensazioni che lo lasciò vagamente spaesato; si risparmiò di rispondere in modo troppo acido e si limitò e fare un gesto vago con la mano, come a voler scacciare la serietà del momento che si stava facendo troppo carica perché potesse sopportarla senza cominciare a deglutire a vuoto.
- Ebbene, me la sono cavata e sono ancora vivo e vegeto, ora ce ne torniamo a casa? –
- L’autista si farà trovare pronto all’ingresso fra pochi minuti, non temere. Nel frattempo, fai ancora uso della tua scarsa dose di pazienza e accompagnami al chiosco qui dietro, ho bisogno di bere. – rispose il fratello con un mezzo sorriso volutamente leggero, voltandosi e allontanandosi con passo rilassato, come se non ci fosse appena stato nessun tipo di tensione. Sherlock, suo malgrado, apprezzò il gesto e gli si affiancò, dirigendosi insieme a lui verso il chiosco più vicino.
- Hai bisogno di comprare le caramelle, sii sincero. –
Dopotutto, per quanto affetto inconfessato potesse provare nei suo confronti, Mycroft era Mycroft e punzecchiarlo faceva ormai parte di uno stile di vita consolidato.
- Come ti pare. Andiamo. – lo esortò stizzito l’altro facendo roteare gli occhi, mettendosi in coda dietro ad un paio di persone. Rimasero in silenzio l’uno accanto all’altro finché Mycroft non ebbe pagato la sua spropositata porzione di marshmellow e cominciato a dirigersi con calma verso l’uscita. Sherlock aveva passato quegli ultimi minuti di calma piatta ad attendere il consueto semi interrogatorio che sempre seguiva le sue domeniche sera “da bambino normale”, preparandosi psicologicamente al fatto che questa volta sarebbe stato decuplicato dal fatto che avesse interagito con qualcuno, con John. Tuttavia questo non era arrivato e il fratello maggiore sfoggiava in viso un’espressione completamente serena mentre assaporava i dolciumi che, ne era certo, pregustava da ore.
Frustrato, decise di giocare d’anticipo per passare oltre quel momento inevitabile quanto sgradevole il più velocemente possibile.
- E dunque? Non mi chiedi nulla su quello che hai visto? –
Mycroft per tutta risposta gli lanciò un breve ghigno, di quelli che Sherlock detestava con tutta l’anima, per poi ficcarsi in bocca l’ennesimo dolcetto bianco e masticarlo lentamente, enigmatico.
- Perché dovrei? Non ami parlare dei fatti tuoi, l’hai ribadito più volte. Inoltre, la situazione era piuttosto chiara e le tue azioni parlano da sole. Precoce con i baci come in ogni altro aspetto, eh fratellino? –
Il ragazzino si lasciò sfuggire uno sbuffo derisorio particolarmente drammatico, che aveva coinvolto anche il naso in modo da darvi tutta l’enfasi possibile, evitando però in ogni modo possibile lo sguardo del fratello. Mycroft notò la cosa con sadico divertimento del tutto mal celato.
- Se quello lo chiami bacio ho una brutta notizia per te Myc. – commentò acido Sherlock, strappando all’altro uno sbuffo divertito.
- Touché. Se proprio vuoi una domanda, Sherlock, te la farò. Com’è stato? – si limitò quindi a ribattere, con lo sguardo divertito e consapevole di chi pone una domanda di cui crede di conoscere già la risposta; cosa del tutto ridicola quantomeno secondo il parere di Sherlock. A detta sua, in genere Mycroft non sapeva un bel niente, figurarsi se poteva avere anche solo una vaga idea di ciò che si trovava nella sua testa in quel momento. Non che ci si trovasse qualcosa di specifico o particolare, assolutamente. Aveva soccorso un ragazzino impacciato che stava per cedere al panico, cosa chiara come il sole, aiutandolo a cercare i suoi amici. Certo, aveva finito per fargli compagnia, fare dei mezzi piani per un futuro altro incontro e sgraffignargli l’ultimo boccone di quella cosa appiccicaticcia e rosa, ma non era nulla di eclatante, no?
- Strano. – disse solamente, il viso tiepido che per qualche motivo non voleva saperne di essere rivolto da qualche parte che non fosse il terreno. Bizzarro.
- Ma davvero? E come mai? – rincarò la dose quel concentrato di molestia che si muoveva al suo fianco. Soltanto dalla sua voce Sherlock poteva dedurre che stesse ancora ridacchiando come un cretino, cosa del tutto senza senso, ancora una volta. Ignorandolo, corrugò la fronte e cercò di concentrarsi sulla risposata da dare, tentando di essere il più oggettivo e scientifico possibile per contrastare quell’ondata di strano sentimentalismo che sembrava aver sommerso il fratello maggiore. Ma come descrivere qualcosa che ancora non aveva avuto il tempo materiale di classificare e analizzare? Era stato una sorta di scherzo, un dispetto fatto sul momento senza pensarci troppo. Come descriverlo, in effetti?
- E’ una sensazione dolceamara, pungente ma interessante, come … -
- Come? -
- Come lo zucchero bruciato. -
 
 
 
 
 


Note finali: 
Ci tengo a specificare che il momento in cui Sherlock strappa lo zucchero filato dalla bocca di John non è stato pensato con intento romantico né tantomeno sensuale. Sherlock è un bambino, per quanto intelligente, e come tale non ha un’idea precisa di quello che è lo spazio personale o il contatto fisico intimo. Fa quello che fa in base a come si sente: se ha voglia di contatto fisico lo ricerca senza pensarci troppo, se non lo vuole si allontana da tutti. Si rende conto solo a posteriori di aver fatto qualcosa di potenzialmente imbarazzante e comunque in un modo molto vago che non sa bene come definire. Mi spiace per il pippone, volevo solo essere sicura che nessuno pensasse che sono una folle che sessualizza i bambini o cose simili.
  
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