Videogiochi > Life Is Strange
Segui la storia  |       
Autore: Fenio394Sparrow    19/06/2018    1 recensioni
[ Ghost!AU - Amberprice, Pricefield, Amberfield, ma tanto finisce in un'Amberpricefield ]
Il senso di perdita che provava … era la morte. Aveva perso la vita.
Non persa, non persa, rubata, rubata, rubata! Portata via!
Jefferson non l’aveva lasciata nella discarica.
Jefferson l’aveva seppellita nella discarica.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Chloe Price, Max Caulfield, Rachel Amber
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo Uno
 
                                                                             "C’è un suono col quale hai convissuto tutta la vita.
                                                                                                                    Hai imparato ad ignorarlo."

 
 
Rachel giunse a casa quando il sole era già alto.
Ovviamente la porta era chiusa: che fosse per lavorare o denunciare la sua scomparsa, James e Rose Amber non erano all’interno.
Ma non era un problema. Si chinò per prendere le chiavi, nascoste sotto il tappetino, e le sue dita lo attraversarono come fossero fumo.
«Ma che cazzo …»
Riprovò di nuovo, e riprovò ancora, provò un’altra volta, provò quasi all’infinito e ogni volta che, sempre più febbrile, attraversava il tappeto come non esistesse, un verso disperato le sfuggiva dalle labbra.
Ma che sta succedendo?
L’unica cosa che capiva era che non riusciva a prendere le chiavi, ma doveva entrare in casa, doveva, anche a costo di buttare la porta giù a spallate.

Rachel indietreggiò.
Corse verso la porta, pronta all’impatto … che non avvenne. L’attraversò punto e basta, senza alcuna resistenza.
Cadde sul pavimento dell’ingresso per lo slancio, il fiato corto per il terrore.
Com’era possibile attraversare la porta? Era già aperta? Aveva immaginato tutto?
No. Non se l’era immaginato. I suoi singhiozzi la precedettero nella camera da letto, dove c’era un telefono. Si avventò su di esso e le mani lo attraversarono. Non sentì niente: né la superficie fredda della cornetta, né la durezza del tavolo – le mani ci erano sprofondate, nel tavolo – solo l’orrore e un altro gemito che non era riuscita a contenere, mentre il panico la investiva come un treno in corsa.
«Ma com’è possibile …»
Iniziò ad afferrare tutto ciò che era alla sua portata: penne, matite, trucchi, libri … ma le sue mani scivolavano attraverso gli oggetti ogni volta, senza che lei percepisse alcunché, soltanto il panico crescente e le lacrime sulle guance.
Rachel iniziò ad urlare e provò a gettare tutto per terra, la rabbia che guidava i movimenti delle braccia.
«Cadete! Cadete, cazzo, fate qualcosa!»
Si avventò sul riflettore delle stelle, sull’orso di peluche abbandonato a terra, sul cestino rivoltato, sullo specchio vuoto.
I capelli biondi, lo sguardo impertinente, il drago sul polpaccio… non c’erano.

La superficie liscia rifletteva la sua camera perfettamente in ordine con i libri al loro posto sugli scaffali, le penne in riga come soldatini, i poster diligentemente appesi alle pareti.
Non rifletteva nessuno nella stanza. Nemmeno Rachel.
Scivolò a terra come al rallentatore, seppellendo il viso fra le mani e sciogliendosi in lacrime. Non capiva cosa stesse succedendo e forse nemmeno le importava. A cosa sarebbe servito? Non era in grado di controllare niente, nemmeno il proprio pianto, a quale scopo comprendere la realtà delle cose se non aveva potere su di esse?
Il tempo passava molto velocemente o molto lentamente, Rachel non ne aveva idea. Il petto tremava e la gola bruciava, le lacrime che le rigavano le guance quasi facevano il solletico, i singhiozzi che le spezzavano il fiato avevano un qualcosa di diverso difficile da identificare, forse il suono, che percepiva fin troppo nitidamente. Ma non aveva importanza. Essere estremamente emotivi ha il rovescio della medaglia, e quello è il percepire ogni dannatissima cosa il doppio, come graffi sulla pelle. E l’impotenza che provava in quel momento le dilaniava le carni.

Qualcuno entrò in casa. Udì distintamente le chiavi girare nella toppa e dei passi concitati fare la propria entrata, seguiti da parole sconnesse e spaventate.
Rachel voltò la testa di scatto. «Mamma? Papà?»
Si alzò a fatica precipitandosi verso le scale, corse verso l’ingresso urlando a pieni polmoni: «MAMMA! PAPÁ! Sono a casa, aiutatemi!»
Piombò in salotto a braccia aperte, aspettandosi un abbraccio stritolatore – desiderando un abbraccio stritolatore – ma i suoi genitori la ignorarono: James stava accompagnando Rose, in lacrime, a sedersi sul divano, e le passarono accanto, così, senza degnarla di uno sguardo.
«E’ scomparsa da più di ventiquattr’ore, abbiamo già sporto denuncia alla polizia. Lo sai che il commissario è mio amico, sono già sulle sue tracce.»
La donna singhiozzava senza ritegno, probabilmente perché non aveva udito una sola parola del merito.
Anche Rachel era in lacrime, nonostante ciò non riuscì a non domandarsi ancora una volta come potesse essere caduta così tanto a lungo nel loro inganno.

Rose Amber somigliava a Rachel tanto quanto un bruco somiglia ad un corvo. Non v’era rassomiglianza fra i capelli scuri della donna e quelli dorati della ragazza, né fra gli occhi castani e gli occhi verdi, e neanche nella corporatura robusta   e quella sottile della figlia.
Biologicamente, infatti, non aveva alcuna parentela con la ragazza. Legalmente, ed affettivamente, era tutta un’altra storia.
Della madre biologica Rachel sapeva solo il nome, Sera, e che era una tossicodipendente. Chloe non era riuscita a trovare altro su di lei, e suo padre, che era suo padre sia legalmente sia biologicamente, non aveva intenzione di farle sapere altro. Ma una volta che se ne fosse andata da Arcadia Bay… Rachel l’avrebbe cercata.
Trovò stupefacente la portata del proprio disprezzo, anche in quello stato di profonda e totale autocommiserazione. Immagino di aver preso da te, papà. Sono una grandissima traditrice. Una che ti ama per tutta la vita e  che ti mente senza ritegno guardandoti dritta negli occhi.

Suo padre era in cucina adoperandosi per preparare una camomilla e intanto  rassicurava Rose dicendo che Rachel stava bene.
«E se fosse morta?» domandò Rose fra i singhiozzi «E se fosse morta e non ci fosse più niente da fare?»
James prese la tazza di camomilla, la posò sul tavolino davanti a lei e l’abbracciò. «Rachel non è morta. Potrebbero averla rapita per ricattarmi, lo sai che ho tanti nemici. Se vogliono un riscatto sanno che deve essere viva, sana e salva.»
«Che cazzo di sogno di merda» mormorò Rachel. Non le piaceva la piega che stava prendendo. La rabbia stava montando dentro senza un motivo particolare, ma le mani strette a pugno parlavano chiaro. Vaffanculo.
Quel sogno – perché non poteva essere altro che un sogno, un incubo – la stava facendo incazzare sul serio.
Soffriva nel vedere sua madre in quelle condizioni, ma soffriva ancora di più nel vederla al sicuro fra le braccia di suo padre, perché nonostante tutto il disprezzo che provava per lui,  nonostante tutte le bugie e le parole non dette, lui era comunque suo padre, l’uomo che l’aveva protetta per tutta la vita e accompagnata dai primi passi fino ad allora, rendendola la persona che era.
Se questa fosse una cosa buona, Rachel non avrebbe saputo dirlo.
Che stesse sognando per un motivo?
Per combattere ed estirpare il risentimento che talvolta l’assaliva solo al pensiero delle bugie del padre?
 

Per rendersi conto che a James importava veramente di lei e che tutto quello che aveva fatto lo aveva fatto solo per proteggerla?
Rachel osservò i propri genitori cercando di fare ordine fra i propri pensieri.
Cosa avevano fatto, se non cercare di proteggerla da ciò che consideravano un pericolo?
Cosa avevano fatto, se non quello che faceva lei stessa ogni giorno, mentire guardando dritto negli occhi, sorridere ed occultare la verità, senza rimorso alcuno e per motivi molto più futili?
Non avevano mica provato ad uccidere Sera, no?
La situazione in famiglia non era male. Non era affatto male.
L’affetto non le era mai mancato: l’amore e il supporto reciproco erano stati il pane quotidiano a casa Amber; forse era per quello che quando la verità le era stata sbattuta in faccia aveva sentito il suo cuore andare in  pezzi come uno specchio rotto. Nonostante ciò credeva di essersi messa il cuore in pace perché era … felice? Serena? Poteva affermare di non aver sofferto così tanto … o almeno così si ripeteva.
Ma odiava quella città. Odiava Arcadia Bay con tutto il cuore. Odiava quella città sperduta dell’Oregon che non aveva niente da offrirle e che le andava stretta.
Sospirò. Era ora di svegliarsi.
Lanciò un’ultima occhiata ai genitori, incerta sul da farsi.
Chiuse gli occhi e iniziò a contare fino a tre.
“Se ti renderai conto di essere in un incubo, non aver paura.”
Uno.
“Basta contare fino a tre e dire «Svegliati»”
Due.
“Ti sveglierai al sicuro nel tuo letto”
Tre.
Aprì gli occhi.
I suoi genitori erano ancora lì, e lei non era nel suo letto.

Non entrare nel panico.
(Panico panico panico panico)
Indietreggiò spinta dall’orrore e attraversò le pareti senza sforzo, il sole pomeridiano che non gettava ombra sulle pareti, nemmeno la sua.
Rachel non riusciva a respirare. L’aria non entrava nei polmoni, la gola bruciava come d’inferno, era come se avesse un macigno sul petto, i respiri che si obbligava a fare non erano di alcun conforto…
E all’improvviso, così com’era cominciato finì. Cadde in ginocchio con le mani alla gola, tossendo con forza. Respirare non faceva differenza, ma la crisi, a qualsiasi cosa fosse dovuta – e Rachel sospettava fosse un attacco di panico – passò.
Notò che il luogo in cui si trovava era cambiato.
Era sul limitare della foresta, una delle tante zone verdi di Arcadia Bay, appena fuori città. Era lì che lei e Frank andavano per passare un po’ di tempo da soli.
I pini crescevano alti e rigogliosi, tanto da rendere quasi impossibile vederne la punta, ma fra le fronde si poteva intravedere qualche batuffolo di nuvola o un picchio nascosto nel proprio nido, al sicuro.
Prestando attenzione si riusciva a udire le macchine che passavano, intervallato dal lungo silenzio ricco di suoni del bosco. I cinguettii delle ghiandaie, le strida dei gabbiani e le onde che si infrangevano sulla scogliera, metri e metri più giù.
Addentrandosi nella foresta l’odore salmastro anticipava la veduta immensa e specchiata dell’oceano, dai riflessi dei flutti tanto luminosi da sembrare finti. Da quell’altezza le onde parevano statiche e dipinte da una mano esperta ma pretenziosa, che aveva deciso di aggiungere qui e là delle barchette di carta.
Il panorama da cartolina era completato dal faro rampante sulla scogliera.

Il camper di Frank era parcheggiato alla sua sinistra. Rachel bussò con forza alla porta chiusa, ma la mano vi passava attraverso, perciò si fece forza e attraversò volontariamente la soglia, entrando nel domicilio dello spacciatore.
Perché sì, Frank era uno spacciatore.
Un uomo di buon cuore che si nascondeva sotto una facciata di burbero pragmatismo, ma bastava avere degli occhi per capire che tipo di persona fosse davvero. E gli occhi di Rachel avevano la vista acuta.
Erano anni che Frank abbonava l’erba a Chloe – ed ormai il debito della ragazza era molto alto – e c’era molta gente che gli doveva più di qualche spicciolo, ma lui continuava a fornire a tutti roba di prima qualità.
Per non parlare di come avesse sistemato le cose quando, tre anni prima, lei e Chloe si erano invischiate in affari che non le riguardavano con Damon e Rachel ci aveva quasi rimesso il braccio, se non la vita.
E poi … aveva salvato Pompidou dai combattimenti ed ora il cane era il suo inseparabile compagno, fedele a lui, e, ovviamente, a Rachel.

Proprio Pompidou le saltò addosso, ma sbattè il muso sulla porta chiusa.
Questo non lo fermò: si voltò verso di lei e le abbaiò festoso e scodinzolante.
«Pompidou?» esclamò Rachel. «Puoi vedermi?»
Pompidou abbaiò eccitato.
Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si chinava per abbracciare il cane che aveva visto crescere e che sembrava l’unico in grado di vederla. Non riuscirono a toccarsi, ma fra le parole sconnesse della ragazza e i versi del cane riuscirono a comunicare.
Il fatto che solo Pompidou potesse vederla la inquietava. La terribile sensazione di perdita – perdita di cosa – che fino a quel momento aveva ignorato si stava facendo strada dentro di lei ancora una volta, come una lunghissima ombra che le accarezzava malignamente la schiena.
Quel sogno era durato fin troppo. Ma era davvero un sogno? A  Rachel venne in mente solo un modo per esserne sicura.
Negli specchi non c’era riflesso e quindi non poteva controllare una seconda volta, ma Frank aveva un orologio appeso sopra il letto.
A volte capita di essere quasi se non addirittura del tutto consapevoli di trovarsi in un sogno; nel caso sorgesse il dubbio le cose da fare per confutarlo sono due. Studiare il proprio riflesso allo specchio e trovare le incongruenze – cosa non fattibile per lei – o controllare l’ora due volte.
E’ scientificamente provato che la seconda volta l’ora sarà completamente diversa rispetto alla prima, e quella è la conferma dello stato onirico in cui ci si trova.
Rachel si alzò, lo sguardo fisso sulla porta chiusa che conduceva alla camera da letto improvvisata. Avanzò a pugni stretti, Pompidou alle spalle. Attraversò la porta con gli occhi fissi davanti a sé. Pompidou raschiava le zampe sul legno senza poterla raggiungere.
Le quindici e quarantacinque.
Rachel chiuse gli occhi e contò fino a tre.
Uno, due, tre.
Le quindici e quarantacinque.
 
Scivolò lungo la porta, improvvisamente senza forze.
Quando le succedevano cose del genere – quando le dicevano sei stata adottata, ti hanno violentata, nessuno può vederti e non sei in un sogno – tutti i suoni si facevano vacui e non vedeva più nulla.
L’unica cosa che percepiva era il battito frenetico del proprio cuore che rimbombava senza posa.
Ma quella tachicardia non c’era.
Il suono con il quale aveva vissuto tutta la vita, il suono che aveva dato così per scontato e al quale era così abituata da ignorarlo … non c’era.
Non c’è battito, Rachel.
Prese il polso destro, poi il polso sinistro, anche il collo – so prendere il battito, so prendere il battito – ma non percepiva pulsazioni.
Morta.
Il senso di perdita che provava …  era la morte. Aveva perso la vita.
Non persa, non persa, rubata, rubata, rubata! Portata via!
Jefferson non l’aveva lasciata nella discarica.
Jefferson l’aveva seppellita nella discarica.
Inutile dire che urlò e scoppiò a piangere.
Pompidou raschiava le zampe e abbaiava nel tentativo di raggiungerla, ma Rachel restò lì, a lasciare che i singhiozzi compensassero le pulsazioni mancanti.
 
All’improvviso Frank entrò nel camper.
«Pompidou! Che problema c’è? Perché tutto questo casino?»
Ovviamente il cane non rispose, ma Rachel si asciugò le lacrime e si alzò per andargli incontro.
Frank era un uomo giovane segnato dalla droga, eppure la sua faccia era sorprendentemente tranquilla per uno spacciatore, quasi pacifica.
Pompidou stava ancora abbaiando nonostante l’uomo si fosse abbassato ad accarezzarlo. Ovviamente abbaiava in direzione di Rachel.
«E dai, stai buono! Non c’è niente là!»
«Ci sono io» mormorò la ragazza. Allungò la mano tremante in sua direzione, sperando in un miracolo. Le sue dita attraversarono la guancia di Frank, invece di accarezzarla.
«Mi dispiace» sussurrò lei senza sapere a cosa si riferisse in particolare.
C’erano molte cose per cui essere dispiaciuta.
L’ultima volta che aveva parlato con Frank aveva aspramente discusso con lui. Per usare un eufemismo.
 
«Se mi amassi veramente molleresti tutto e tutti e mi porteresti a Los Angeles!»
«Non è così semplice, Rachel! Sto cercando di chiudere il giro e riabilitarmi!»
«NON ME NE FREGA UN CAZZO!» Con una mossa del braccio buttò giù piatti, bicchieri e posate dal tavolo.
«Sono anni che vivi in questa topaia e che non ti curi di niente se non del tuo cane!»
«Lascia stare Pompidou!»
Rachel rise sguaiatamente, senza gioia, quanto più falsamente possibile, perché voleva fargli del male.
Voleva farlo sentire di merda, proprio come si sentiva lei.
«Lo vedi? Perfino il tuo cane è più importante di me!»
Frank stava quasi balbettando: «Rachel, lo sai che no-»
«Non so nemmeno perché io continui a frequentarti.»  
Era rimasto a bocca aperta, le parole perse nel vuoto e gli occhi lucidi, e una parte di lei si odiò per averlo colpito così nel vivo.
L’altra si congratulò.
«Allora … forse dovresti andartene.»
Rachel lo guardò dritta negli occhi, con l’espressione più truce che potesse avere, e sbattè la porta del camper dietro di sé, ma fece in modo che Frank potesse udirla.
«Vaffanculo.»
 
Era stata proprio una stronza.
Però aveva scritto una lettera in cui si scusava, per fare ammenda, l’aveva nascosta nel camper, Frank l’avrebbe trovata, ne era certa …
«Mi dispiace …» mormorò ancora una volta.
Frank alzò gli occhi, non più concentrato su Pompidou. Tremava appena lì dove le dita di Rachel tentavano di sfiorargli la guancia: aveva la pelle d’oca.
«Frank?»
«BOWERS, APRI LA PORTA!»
L’attimo sospeso nel tempo scoppiò come una bolla di sapone. E la corrente fredda che l’aveva investita  si chiamava Chloe Price.
Rachel osservò desolata l’uomo che amava andare ad aprire la porta alla donna che amava.
Chloe fece la sua entrata come faceva ogni cosa nella vita: con impeto, incurante delle conseguenze, dritta per la sua strada.
«Dove cazzo sta Rachel!?»
«Stai calma, Price! Non lo so nemmeno io, capito? Levami le mani di dosso!»
Spinse Chloe fuori dal camper, chiudendo dentro Pompidou che abbaiava rabbioso. «Buono, Pompidou.» Rachel accarezzò la testa al cane ed uscì anche lei, improvvisamente più spaventata che mai.
Omettere parte della verità a Frank – e non metterlo al corrente della relazione con Jefferson – era una cosa … mentire a Chloe era un’altra.
Non che lo avesse fatto, sia chiaro – non ancora, e probabilmente mai più – ma Chloe non sapeva di lei e Frank, sebbene sospettasse qualcosa. Averli entrambi davanti a sé, le due metà del suo cuore, che si guardavano in cagnesco e che sembravano pronti a saltarsi alla gola… le fece desiderare di sprofondare.
Ops, sei sprofondata. Nella discarica. Che burla.
Non stava prestando attenzione alle parolacce che i due si stavano scambiando, si era estraniata. La luce era così aranciata e il cielo così terso e la visuale così libera … allora perché Chloe non la stava guardando?
Chloe era la persona che la amava più al mondo, Chloe dipendeva da lei, e se anche Frank avesse fatto parte alla Congiura-Fingiamo-Che-Rachel-Sia-Morta, Chloe non l’avrebbe mai, mai, mai fatto. Non le avrebbe mai fatto questo.
Se davvero Chloe non la vedeva, allora era la conferma. L’ennesima.
La ragazza dai capelli azzurri gesticolava febbrilmente, nera in viso come una tempesta, mentre Frank le rispondeva altrettanto animatamente, agitando i pugni e scoprendo i denti come un predatore …
 
Un flash.
«Non ti azzardare a toccarmi, porco!»
Mark Jefferson rideva. «Ieri non eri di questo avviso, vero, puttanella?»
Un bruciore sul collo, la voce che le moriva in gola, poi più nulla.
 
Rachel tornò in sé barcollando, la terra che le mancava sotto i piedi. «Chloe, aiutami …» Chloe diede una spinta a Frank e gli intimò qualcosa di incomprensibile. Rachel si diresse verso di lei, senza forze, tendendole le braccia, e Chloe passò attraverso di lei senza degnarla di uno sguardo. Un gelo glaciale si impossessò della ragazza – fantasma – che cadde a terra, tremante, e diede voce a tutto il suo dolore.




 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Life Is Strange / Vai alla pagina dell'autore: Fenio394Sparrow