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Autore: laNill    20/06/2018    1 recensioni
Il suo corpo poteva essere cambiato, i suoi capelli schiariti, la stanchezza a tirargli la pelle del viso, i lineamenti scheggiati dall’asprezza degli eventi; ma la sua essenza, la sua anima brillante e immensa come le galassie, iridescente come gli astri, non era mutata.
E niente, in ogni universo attraversato, in ogni lacrima versata, in ogni ferita a spaccargli il petto; nulla di tutto questo era stato vano.
Ti ho ritrovato.
[post s6 - warning spoiler | Sheith]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Takashi Shirogane
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Note: Io ancora devo riprendermi dalla s6. Dire che è stata meravigliosa, adrenalinica e struggente è altamente limitativo. 
La Sheith mi ha investito come un treno dell'alta velocità e questo è il risultato - io che cerco di riunire i pezzettini della mia anima rivedendomi in loop l'ep 5 a cui si aggiunge una notte insonne con gli occhi sgranati a riversare tutto l'angst e i feels nero su bianco. 
Scusatemi. 
Buona lettura. 

 
I found you
 

 
La terra si era mostrata loro nei suoi colori più accesi, col bagliore del sole in bilico sul bordo del continente asiatico a baciarne le sponde.
I contorni, dapprima abbozzati in linee incerte e approssimative, assunsero marcature più nette. Si plasmarono fino ad assumere forma, consistenze ruvide e spigolose.
Ma non era ancora casa.
Riuscì a catturarne il sentore dopo aver superato la stratosfera in una cometa di un rosso livido sfrangiato di bianco. Il verde dei prati, dei platani e della foresta di conifere si srotolava in lembi sempre più concreti seppur informi, la terra compatta e bruciata dal sole, nera, in una spianata graffiata da spuntoni di roccia e alture frastagliate.
Tutti colori che non aveva dimenticato, ma che gli aprirono il petto in una zaffata di nostalgia.
Atterrando, nella confusione generale di riorganizzare otto persone più il proprio lupo nella propria casa, Keith si era preso un istante per passare una mano sulla polvere dei suoi ricordi e osservarli di nuova luce.
Il rosso carminio e l’ocra di un alba in boccio, l’arancio liquido il cui riverbero smussava l’orizzonte montuoso di quella terra aspra, il bagliore del primo azzurro ad illuminare il cielo, limpido e puro come vetro di mercurio. E poi c’era casa sua, solitaria, nel silenzio quieto in cui era rimasta per tutti quegli anni, il singolo albero di tiglio come unico compagno a condividere l’attesa del suo ritorno.
Era casa.
Aggrottò la fronte, cogliendo un coagulo incerto appena quel pensiero salì a galla, subito soffocato dal richiamo di Lance in una richiesta accusatoria di aiuto.
Allontanò quel pensiero mentre si dirigeva ad organizzare la situazione, assieme all’incertezza che per un istante gli ombreggiò lo sguardo. 
 
La chiave inglese produsse un attrito ovattato quando girò il bullone d’entrata. La posizione non ottimale gli fece perdere più tempo del previsto su quella manodopera che si era prefissato. Il tempo prolungato che l’aveva visto assente da casa aveva avuto ripercussioni anche sul veicolo parcheggiato accanto al lato sinistro. Il serbatoio era in parte incrostato: l’aveva ripulito, scrostato della benzina attecchita sul fondo e riposizionato; i freni avevano mantenuto una buona tenuta, le eliche per l’atterraggio avevano bisogno di una oliata ma giravano lisce. Il problema era sorto con la valvola del variatore di fase: il tempo di apertura era sballato, l’aveva percepito quando si era alzato in un giro di prova nella zona nel primo pomeriggio.
Ci era voluto un po’ per cambiarlo, più per ritrovare il pezzo di ricambio che non per la reale complessità in sé. Era abituato ad aggiustarlo.
Gli piaceva, invero, silenziare la mente e rivolgerla solo e soltanto a quella che definiva una missione. Era un modo per tenersi occupato, e da tempo a questa parte poteva dire di non riuscire più a stare con le mani in tasca e aspettare che qualcosa accadesse.
Un istinto naturale, poteva definirlo, un prurito elettrico che portava il corpo a muoversi per stare bene; in quel caso poteva dire, però, di non avere i nervi in allerta, di non essere sempre sul ciglio della porta a scattare al minimo lampo estraneo e saltare sul proprio leone.
Passare le mani sulla vernice usurata ma lucida della carrozzeria rossa fiammante gli piaceva. Era qualcosa che era suo da tempo, la dimostrazione del suo legame con un affetto che aveva avuto timore di perdere.
Era un lenitivo, un palliativo, l’ancora che l’aveva tenuto a galla.
“La tratti bene.”
La voce giunse vicina, sfiorandogli le orecchie in un sussulto di lieve stupore. Si diede una spinta con le gambe, il carrello che lo sosteneva dietro la schiena sgusciò fuori dall’abitacolo.
La figura di Shiro riempì il proprio campo visivo con la luce del primo pomeriggio a sfiorargli il profilo severo. Uno spasmo tenue gli strinse il petto mentre osservava la sua mano, l’unica ancora che gli era rimasta, percorrere la lamiera rossa. “Meglio di quanto avrei potuto trattarla io, sapevo di lasciarla in buone mani.”
“Si bhè, l’ho sbattuta un po' l’ultima volta che l’abbiamo usata. Ma è un carro armato; sopravvivrà anche contro i leoni di Allura.” Si soffermò sulla vernice sfregiata sotto agli appoggi delle elice e nella pancia inferiore, l’olio quasi a secco, il manubrio quasi usurato là sull’impugnatura.
Anche se Shiro non era cosciente, quando l’avevano liberato dalla garrison e portato via, gli avevano raccontato la corsa spericolata – cinque persone su una moto che ne poteva portare al massimo due – e ne aveva sorriso; e sorrise anche in quell’istante nel ricordarlo. Una sfumatura calda nello sguardo d’onice, la durezza degli spigoli smussata dalla gentilezza che riversavano quegli occhi ancora presenti, in cui l’anima ancora batteva, di nuovo.
“E’ rimasta con te anche lei.”
Parole che si riverberarono nelle vene, in un eco a ciò che gli aveva mormorato in quella caverna, la voce metallica proveniente dal casco, la ferita a graffiargli la voce.
La pazienza produce concentrazione.
E’ rimasto con te, eh?
Quella raccomandazione che era solito dirgli durante gli allenamenti, che l’aveva salvato infinite volte, persino da sé stesso e dalla sua solitudine. 
“Molte cose sono rimaste con me, da quel giorno.”
Ogni cosa che tu mi hai insegnato, si disse in un pensiero inespresso che tenne per sè, in piedi, lo sguardo basso, indugiante, ritraendosi da qualcosa con cui ancora non era venuto a patti. Le mani erano sporche d’olio. Se le sfregò con il panno.
“Gli altri?”
“Sono andati in paese; Allura era curiosa della nostra cultura e Lance si è proposto di accompagnarla. A loro si è aggiunto Coran, Pidge ha fatto un salto da sua madre e Hunk a fare la spesa per stasera. Mia madre sta perlustrano la zona.”
La Garrison era un problema che avrebbero dovuto affrontare appena atterrati ma che era rimasto sospeso dalla valanga che avrebbe potuto travolgerli; erano appena usciti indenni dallo scontro con Lotor e con ogni probabilità Sendak aveva sguinzagliato i suoi cani rivoltosi per scovarli in ogni anfratto degli universi. Usare la capacità del Green Lion dell’invisibilità era stato utile per non farsi identificare dai radar dell’accademia e dalla difesa di stato.
Un singolo giorno, solo uno per mettere in ordine ciò che i problemi con la Garrison avrebbe potuto provocare loro nella speranza di un loro appoggio.
“L’unico che si sta rendendo inutile sono io.”
Keith gli lanciò uno sguardo di morbido monito. “Devi riposare ancora, non hai ancora recuperato le forze.”
“Sto bene,” quel conforto gli lenì per un istante l’animo. “Ho dormito abbastanza da far fare tutto il lavoro di scarico a voi. Anche se, con un solo braccio, non sarei stato molto utile..”
Lo sguardo, inevitabilmente, corse sull’arto mancante. Un susseguirsi di frammenti di una bobbina cinematografica srotolata all’inverso gli rimandò l’impatto delle lame, lo sfrigolio di metallo bruciato, la bocca che si muoveva senza suono in quella preghiera muta che deviò in una dichiarazione istintiva, in una necessità dolorosa; poi la reazione, la lotta che si concludeva con la lama della spada di Marmora a tranciare il braccio metallico.
Abbassò lo sguardo, non osando ricordare oltre.
“Mi dispiace..”
Con stupore, udì uno sbuffo e poi un gorgoglio basso simile ad una breve risata vibrargli in petto. Alzò lo sguardo, Keith, e vide quello di Shiro che, accorto e melanconico, lo ricambiava.
“Dovrei essere io a dirlo.” Il sorriso che lentamente andava a spezzarsi, il sapore amaro a piegarlo. “Ti ho quasi ucciso, laggiù, non sono la persona più giusta a cui rivolgere delle scuse.”
“Non eri tu. Era Haggar a controllare quel corpo.”
“Potevo ucciderti.. Quel corpo, con la mia faccia e la mia voce, poteva ucciderti.” La mano si portò sulla tempia in una ruga d’espressione di teso rammarico, tra quei capelli ora bianchi come la luna.
Keith gli si fece vicino, lo sguardo duro che invero veniva smussato dall’ansietà e dall’indolenza nello scorgergli quell’afflizione negli occhi e la stanchezza ad indurirgli gli angoli.
“Non eri tu quello che mi ha puntato la spada contro. So che non l’avresti fatto, so che non lo faresti, mai.”
Shiro levò su di lui lo sguardo. Bello e coraggioso Keith, aveva fiamme indomite nelle profondità delle iridi scure che era riuscito a imbrigliare, plasmare, domare con la sua sola volontà e sacrificio.
Alzò una mano, gli occhi che percorrevano la linea del naso e poi deviavano verso quel segno sulla gota che le dita, ruvide, percorsero; come una carezza tenue.
“Non avrei voluto che ti accadesse tutto questo.”
Le ciglia scure del minore fremettero, impalpabili, e così fece il proprio cuore, tremando instabile all’interno dell’esile cassa toracica, pulsando rapido il sangue contro le gote. E come un daino che ascolta nel vento, Keith chinò il capo a rispondere a quel gesto, le palpebre dischiuse, la fronte stropicciata per una premura solida benché dolorosa.
“Tu hai passato più di quanto ti meritassi di provare. Ora è tutto ok, siamo tornati a casa; risolveremo qualsiasi cosa.” La voce sicura, forte di fiducia, che si incrinava appena.
Non era paura, né qualsiasi altro sentimento che potesse richiamare una fine imminente.
Era calore ardente, tanto da morirne. Tanto da sentire il petto gonfiarsi e le lacrime premere contro gli occhi.
La sua mano, più piccola, andò a posarsi contro il dorso di quella del maggiore, stringendo appena solo per sentirlo, per imprimersi il calore contro la pelle, la gentilezza al di là dei calli, al di là delle cicatrici, delle ferite che non si sarebbero più rimarginate fino a scomparire.
Ma non importava, nulla aveva più importanza se non la sua presenza lì vicino.
La consapevolezza di averlo di nuovo con sé, di percepire il calore delle sue mani contro il viso, l’odore della sua pelle a pungergli il naso, la sua immagine a riempirgli il campo visivo e l’anima; di sentirlo, dopo tutto quel tempo.
Un sorriso indulgente piegò le labbra di Shiro a confortarlo, lo sguardo pieno del viso parzialmente celato del giovane che era diventato un ragazzo tanto da trasformarsi in un uomo.
Il petto gli si riempì di lui, della sua risolutezza d’animo, del suo viso dagli angoli smussati, dalla ruga che spesso gli sporcava la bellezza degli occhi fieri e animati.
“Vorrei tanto abbracciarti in questo momento.” Mormorò in un accenno di lamento che Keith accolse con uno sbuffo a camuffare un sorriso.
Era ancora difficile gestire quella mancanza, anche se aveva già avuto modo di provarla, tempo addietro. Solo in quel momento la pativa più della sua stessa assenza, in quel suo non potere ciò che il suo corpo desiderava fare, nel tenerlo stretto tra le braccia e sentirlo contro il petto, il suo lasciarsi andare al sostegno che poteva dare e che gli avrebbe sempre dato.
“Posso farlo io per te.” Rispose Keith, gli occhi che si alzavano e lo guardavano al di sotto del ventaglio di ciglia.
Le braccia gli circondarono le spalle, le mani si alzarono e Shiro gli andò incontro.
Poi furono labbra contro labbra, un gesto gentile, titubato, indugiato e vergognosamente atteso. Keith tremò contro il suo petto, in quello sfiorarsi di labbra di un bacio dolce come lo sono le prime albe, come lo fu la sfumatura cremisi a colorargli le gote. Si lasciò andare, baciandolo con il medesimo trasporto, con disperata dolcezza e titubante vergogna, seppur con una mitezza tenue data dall’inesperienza; l’ultima volta che ne aveva sfiorato il bordo delle labbra era stato la notte prima della partenza di Shiro per la missione a Kerberos.
La sua mano, grande, ancora gli teneva la guancia. Il suo tocco lo incendiava, come una fiamma inflessibile in mare aperto. Gli porse il cuore, in quel bacio, posandolo sulle labbra e contro le palpebre sottili che fremevano di temerarietà e timidezza. E Shiro lo sfiorava con le proprie, di labbra, in quel silenzio fatto di pesi di quelle parole taciute che non potevano essere misurate. Lo teneva tra le mani come la cosa più preziosa, più del suo stesso cuore. 
Quella bocca, pensò Keith in un pensiero fugace e istintivo, aveva il sapore delle costellazioni, di quelle stelle che bruciano sé stesse per poter risplendere ancora più profondamente e magnificamente.
Aveva il sapore che avevano le sensazioni forti ma benefiche, che ti travolgevano senza far male.
La distanza si riempì di respiri labili, con un riverbero di voce caldo ad accarezzarla.
Yorak.”
Un sussurro dolce.
Keith sussultò, levando il viso in uno sguardo interrogativo. “Cosa?”
“E’ il tuo nome, giusto? O meglio, quello che avrebbero voluto darti.”
Le sopracciglia scure si corrugarono, lo stupore e il dubbio che si trasformavano in disagio.
“Chi te l’ha-”
“Tua madre.”
Un borbottio contrariato gli gorgogliò in gola, lo sguardo che si allontanava in una difesa esile atta a celare il rossore che si era fatto più cupo sul viso; gli occhi sembravano essere fatti di stelle incandescenti quando arrossiva, Shiro l’aveva pensato più volte, ora più di sempre.
Gli sfiorò nuovamente la guancia in una carezza, il pollice a sfregare la pelle sotto l’occhio.
“Mi piace.. Yorak.”
“Sì, ok, smettila di chiamarmi così. E’ imbarazzante.” Smaniò sotto la suo tocco, ma non si scostò. La carrozzeria della moto dietro la propria schiena.
Shiro rise, e la sua risata vibrò contro la cassa toracica facendogli inciampare il cuore due, tre volte. Amava sentirlo ridere, troppe volte aveva patito la mancanza di quella vibrazione bassa ripercuotersi in ogni fibra del proprio corpo.
“Keith.” Il cuore si fermò.
Quel suono, quell’inflessione, quella modulazione bassa, calda, intima di pronunciare il proprio nome.
Il respiro che si assottigliava, frammentato contro la gola e il petto, le iridi che si frastagliavano di vergogna, tremando d’impalpabile commozione.
Non c'era nulla di più dolce e più sicuro, a questo mondo, del suono di qualcuno che ami chiamare il tuo nome con un ardore sotteso e smussato di accorta gentilezza e struggente dolcezza.
Per un istante, un impalpabile inquietudine gli screziò le iridi.
Lo guardò negli occhi, cercando qualcosa che potesse dargli conferme di chi realmente avesse di fronte, mentre un esile paura gli si insinuava sotto pelle.
Non temeva lui; temeva di potere leggere in quei suoi occhi estraneità e vedere che non fosse più la stessa persona.
Ma tutto ciò che vide fu lo specchio d’ossidiana del suo sguardo che rifletteva la sua anima, nuda e cristallina come l’aveva sempre amata. Dello Shiro che aveva sempre amato.
Il suo corpo poteva essere cambiato, i suoi capelli schiariti, la stanchezza a tirargli la pelle del viso, i lineamenti scheggiati dall’asprezza degli eventi; ma la sua essenza, la sua anima brillante e immensa come le galassie, iridescente come gli astri, non era mutata.
E niente, in ogni universo attraversato, in ogni lacrima versata, in ogni ferita a spaccargli il petto; nulla di tutto questo era stato vano.
“Ti ho ritrovato.” La voce che si incrinava di nuovo, le mani a salire sul di lui viso e tenerlo, fronte contro fronte, le ciglia scosse da un lieve tremito come steli d’erba umidi di rugiada sfiorati dal primo soffio del mattino. “Ti ho ritrovato.”
“E’ bello essere ritornati.” Sussurrò mite Shiro, “E’ bello essere ritornate da te.”
Gli occhi, che non lasciavano per un solo istante quel viso tanto amato, si piegarono di commozione. Un bacio contro la palpebra socchiusa, un altro contro la guancia accaldata, ed infine contro le labbra dischiuse del giovane che lo accolsero, attendendo nient’altro che quello.
Come quando torni a casa e tutti i pezzi si riallineano nel momento in cui varchi l’uscio, e lasci fuori dalla porta ogni preoccupazione; e sorridi, sapendo di essere al sicuro.
Per Keith, Shiro era quello.
E l’aveva ritrovato.
 
Era davvero a casa.
  
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