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Autore: saramermaid    24/06/2018    0 recensioni
Saphael | Human!AU
'La pioggia continuava a colpire i vetri della finestra, appannando la superficie lucida e trasparente e rendendola opaca. Era rimasto a fissare le scie bagnate quasi incantato, vedendole susseguirsi ad ogni suo battito di ciglia.
In un certo senso quel tempo era la manifestazione del suo stato d’animo.
Gli sembrava che ogni giorno lui annegasse sempre di più, che l’ossigeno non fosse sufficiente per tenerlo a galla.'
[Partecipa alla "26 Prompts Challenge" indetta dal gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Raphael Santiago, Simon Lewis
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note: Questa storia partecipa alla 26 Prompts Challenge indetta dal gruppo Facebook ‘Hurt/Comfort Italia’.
Il prompt di questa settimana è Sfogo. Il resto delle note si trova a pié pagina. (Prompt 8/26)
Coppia: Saphael (Simon x Raphael)
Tipo di storia: Human!AU





Sfogo





Aprile… Maggio… Giugno…

Il tempo sembrava continuare a scorrere inesorabile, giorno dopo giorno, ora dopo ora, minuto dopo minuto. Le stagioni si alternavano senza sosta e così pure la pioggia e il sole.
Ma per lui tutto era un unico riflesso indefinito.

Se ne stava seduto sulla sedia a dondolo vicino la finestra, le ginocchia strette al petto e lo sguardo distante. I suoi occhi nocciola parevano osservare senza davvero farlo, notavano gli stormi di uccelli in volo, le foglie che iniziavano a verdeggiare, i fiori che sbocciavano, i bambini che giocavano in strada.

Erano un brusio lontano, un cambiamento del tutto indifferente.
Il suo corpo sembrava immobile come una statua scavata nel marmo, statico nella sua posa e quasi estraneo persino a sè stesso. Ogni giorno compiva sempre i soliti gesti meccanici, si alzava, andava a scuola, seguiva le lezioni e ritornava a sedersi su quella sedia nella sua stanza fissando ancora una volta il vuoto di fronte a sé.

La sua mente, al contrario, continuava a urlare senza sosta, a provare un dolore sordo e continuo che non era in grado di lasciar andare. Portava con sé il colore e lo strascico del lutto, della depressione, della solitudine. Aveva la strana sensazione che da quel momento in poi nulla avrebbe avuto più un senso.

Le serate trascorse a parlare di musica, del college da scegliere, con in sottofondo le partite di football che nessuno seguiva davvero. Tutto si era ben presto dissolto nel momento in cui suo padre era venuto a mancare tre mesi fa.

Se si concentrava abbastanza, Simon poteva ancora sentire il timbro della sua voce e la sua risata allegra. Poteva ancora vederlo preparare la carne sul barbecue, sporgersi per lasciare un bacio sulla guancia a sua madre mentre lui e Rebecca emettevano finti versi di disgusto.

Era sempre così.
Si ripeteva ogni giorno, costantemente.
Ricordava e sovrapponeva quelle immagini, nel timore che avrebbe potuto dimenticarle.

Se le lasciava andare, prima o poi sarebbero sparite per sempre.
Non avrebbe più ricordato la sua voce, il suo profumo, il suo viso, il colore degli occhi e il calore dei suoi abbracci. Simon ci si aggrappava con tutte le forze, si rifiutava di reagire, lottare, andare avanti.

Non ricordava nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che aveva parlato.
Si era chiuso nel proprio silenzio, nel proprio dolore, lontano dalla realtà che faceva male e che riapriva la ferita sul cuore. A volte le sue dita si stringevano spasmodicamente attorno ai braccioli in legno del dondolo, le unghie ne scavavano la superficie fin quasi a sanguinare, nel tentativo di trattenere il primo sentore di ribellione a quell’apatia.

Spesso era costretto ad andare alle sedute del dottor Ramirez.
Per tutto il tempo osservava le cuciture della poltroncina di pelle o la bottiglia di vetro piena d’acqua che si trovava sul tavolino. Cambiava il paesaggio fuori dalla finestra, il colore delle pareti e la stanza ma non la sua apatia.

Simon continuava a non parlare, a non muoversi, a non reagire.

«Tesoro? Raphael è venuto a trovarti.»

La voce di sua madre gli sembrava stanca, come se anche lei si fosse alla fine arresa dei continui ed inutili tentativi di scuoterlo. Più il tempo passava, più la speranza di sua madre si affievoliva e dentro di sé Simon si sentiva annegare.

«¡Hola! ¿Còmo estàs hoy?»

Al contrario, Raphael non sembrava fargli pressioni né si aspettava che lui iniziasse a parlare all’improvviso. Lo faceva l’altro per entrambi, raccontando per ore di quello che era successo durante la giornata, dei nuovi film al multiplex, dei libri a cui era interessato e che ogni tanto leggeva ad alta voce.

Raphael era il suo migliore amico, sapeva quando lasciargli i suoi spazi e quando irrompere nella sua stanza come aveva fatto in quel preciso istante. Simon percepì chiaramente il fruscio dei vestiti mentre l’altro si sedeva a gambe incrociate sulla moquette ai piedi del dondolo.

In un certo senso era rassicurante percepire quella vicinanza, quel calore.
Avrebbe voluto ringraziarlo, muoversi per poterlo abbracciare o anche solo sorridergli.

Fallo. Fallo, Simon! URLA! PARLA!

Quelle parole ronzavano nella sua testa, gli attraversavano il cervello e premevano contro le terminazioni nervose. Si concesse solo di arricciare le labbra in una linea retta, quasi priva di espressione e calore, prima di conficcare nuovamente le unghie nel legno scuro.

«Ehi… ehi… calma, Simon. Va tutto bene, lascia la presa adesso...», la voce di Raphael era uno strano misto di apprensione e abitudine mentre le dita dell’altro si sovrapponevano alle sue permettendogli di lasciare la presa sulla sedia, «Ecco… così va bene… sono qui, Simmy, sono qui con te...»

Le dita di Raphael si intrecciarono a quelle di Simon, i polpastrelli ne accarezzavano lentamente le nocche prima di tornare a stringere la presa. Spesso l’altro gli impediva di compiere gesti inconsueti, all’apparenza quasi folli e autodistruttivi, come farsi sanguinare le unghie. Era l’unico che riusciva a farlo, l’unico che poteva toccare Simon senza che quest’ultimo iniziasse a rannicchiarsi su sé stesso.

Raphael gli strinse la mano per un tempo indefinito.
Il sole era ormai al tramonto e il silenzio regnava ancora sovrano.
E una minuscola crepa solitaria si aprì nel muro invisibile intorno a lui.







Il cielo piangeva quel giorno.
Fulmini, lampi e tuoni si rincorrevano continuamente, creando rivoli d’acqua agli angoli delle strade. Il temporale sembrava squarciare il silenzio all’improvviso, ritirarsi per poi ruggire più forte di prima.

La pioggia continuava a colpire i vetri della finestra, appannando la superficie lucida e trasparente e rendendola opaca. Era rimasto a fissare le scie bagnate quasi incantato, vedendole susseguirsi ad ogni suo battito di ciglia.

In un certo senso quel tempo era la manifestazione del suo stato d’animo.
Gli sembrava che ogni giorno lui annegasse sempre di più, che l’ossigeno non fosse sufficiente per tenerlo a galla.

Quando quella sensazione era diventata insopportabile, e quasi dolorosa, Simon si era ritrovato fuori in cortile nel bel mezzo dell’acquazzone. Non ricordava nemmeno di essersi alzato o di aver percorso i gradini delle scale. La pioggia ora gli inzuppava i vestiti, solcava il viso spento, si raggruppava in una pozzanghera fangosa sotto le sue Converse ormai sporche.

Non gli importava.

Continuava ad osservare il cielo scuro, sollevando il volto e reclinando la testa di lato.
Seguiva la traiettoria dei lampi, la loro luce accecante, strizzando gli occhi quando la vista diventava sfuocata.

All’ennesimo rimbombo dei tuoni allargò le braccia e chiuse del tutto le iridi nocciola.
Sentiva lo strano impulso di restarsene lì al centro della tempesta.
E altre minuscole crepe iniziarono ad aprirsi attorno alla sua corazza di apatia.

Un tuono.
Un altro minuscolo frammento che cadeva in pezzi.

Fu quando iniziò a tremare dal freddo e il vento prese a soffiare forte che l’argine di emozioni represse si ruppe del tutto. Simon cadde in ginocchio sull’erba fradicia, i palmi delle mani scavavano nella terra, e i singhiozzi a lungo trattenuti fluirono in gola.

Calde lacrime presero a scorrergli lungo le guance, mischiandosi alla pioggia e arrossandogli gli occhi. Il suo era un pianto straziante, in un certo senso liberatorio. Per la prima volta dalla morte di suo padre aveva permesso a sé stesso di sfogare il dolore.

Rimase in quella posizione per minuti interi, i capelli castani gli si erano appiccicati alla fronte e gli occhiali da vista rischiavano di scivolare dal naso in ogni istante. Le orecchie gli fischiavano a causa del rumore sordo prodotto dal temporale e due braccia muscolose e familiari gli si erano strette attorno al busto.

Raphael si era inginocchiato di fronte a lui sull’erba, nel bel mezzo di quella tempesta e incurante di sporcarsi anch’egli i vestiti. Le dita dell’altro si erano fatte strada lungo il braccio sinistro, avevano raggiunto la spalla e proseguito fino ad accarezzargli una guancia prima di immergersi del tutto nei suoi capelli.

«Simon? Simon dobbiamo tornare dentro... Riesci a farlo? Per me?»

Il timbro di voce di Raphael era tremolante, per la prima volta quasi terrorizzato.
I singhiozzi frattanto continuavano a scuoterlo, non accennavano a placarsi, e lui si aggrappò con tutte le forze ai lembi della giacca di pelle nera di Raphael lasciandosi scortare in casa.

Stavano rovinando la moquette e il parquet lucido a causa degli abiti gocciolanti e Raphael si mosse senza esitazione per recuperare alcuni asciugamani puliti, iniziando a tamponargli il viso e i capelli con movimenti delicati e veloci.

«Simmy...», iniziò a dire in modo cauto il suo migliore amico salvo poi interrompersi e sospirare, «hai bisogno di abiti asciutti e anch’io...» Concluse guardandolo con espressione preoccupata.

Simon si strinse di più nell’abbraccio, lasciò che le ultime lacrime scivolassero via e tornò a respirare lentamente, tremando da capo a piedi e lasciandosi sfuggire alcuni bassi piagnucolii.

Non oppose resistenza quando salirono i gradini per tornare nella sua stanza né lo fece quando Raphael lo aiutò a cambiarsi per poi farlo distendere al caldo sotto le coperte. Un mugolio strozzato gli rimbombò in gola quando l’altro fu costretto a staccarsi da lui per potersi cambiare a sua volta e Simon se ne vergognò appena.

La presenza di Raphael era sempre stata una costante della sua vita e negli ultimi mesi era diventata un’ancora di salvataggio che in qualche modo riusciva a tenerlo con i piedi piantati nel terreno. Era la sola cosa che riusciva a farlo respirare.

«Ehi… sono qui, pequeño, non vado da nessuna parte...»

Le dita di Raphael erano tornate ad inoltrarsi lungo la sua nuca, sistemando alcune ciocche spettinate e annodate tra loro, massaggiandogli la cute in un gesto rassicurante. Il corpo dell’altro si stese accanto al suo sotto le coperte, tirandolo a sé e abbracciandolo stretto.

«R-Raphie...», sussurrò a bassa voce nel silenzio della stanza tornando a parlare per la prima volta dopo tanto tempo e ignorando la raucedine a causa di quel prolungato mutismo, «R-Raphie…»

La voce gli si spezzò ancora, lasciando morire quelle poche sillabe, mentre gli occhi tornavano a diventare lucidi e arrossati. Simon nascose il volto contro la spalla di Raphael, tirò su col naso e artigliò all’altezza dei fianchi la stoffa della maglietta che l’altro indossava.

I ricordi dei mesi passati tornarono prepotentemente a ronzargli in testa, la risata di suo padre si confuse con il rumore del vento all’esterno e poi con le risatine sue e di Rebecca quando avevano cinque anni. Le immagini iniziarono a sovrapporsi, facendogli girare la testa e strizzare forte le palpebre, finché non si fermarono al giorno del funerale.

Rivide sé stesso di fronte allo specchio mentre indossava il completo nero, il corpo di sua madre afflosciarsi contro la bara chiusa mentre il sacerdote celebrava la funzione e la faccia stravolta di Rebecca. Ricordò la sensazione della pala stretta tra le mani prima che prendesse una manciata di terra per lanciarla sulla bara e il rinfresco una volta tornati a casa. In quel frangente la mano di Raphael si era stretta alla sua e non l’aveva lasciata andare finché non era rimasta solo la famiglia Santiago a dare una mano nel sistemare la casa.

Rimembrare tutto fu come un pugno in pieno stomaco.
La realizzazione che suo padre era morto e non sarebbe tornato lo investì a pieno.

«Lui… l-lui non c’è più...», si lasciò sfuggire singhiozzando di nuovo rumorosamente, «non s-sono pronto a l-lasciarlo a-andare… h-ho ancora b-bisogno di lui...»

Le braccia di Raphael lo strinsero un pò più forte, le dita si fecero più gentili, le labbra rosee si posarono sulla sua fronte lasciandoci sopra un bacio delicato.

«Lo so Simmy... lo so...»

Fu la risposta sussurrata da Raphael mentre Simon riusciva finalmente a sfogare la tristezza, la rabbia e il lutto. Fuori il temporale continuava a imperversare e a fare rumore. Per una volta anche il cielo sembrava partecipare al dolore di una perdita.












A/N
Sara’s Corner


Credevo di non farcela a finire e pubblicare la storia per il tema di questa settimana. Sono state giornate frenetiche e impegnative, complice anche il fatto che ho iniziato a lavorare di pomeriggio e le ore libere si sono ridotte notevolmente. Volevo da tempo scrivere una storia che trattasse dei sentimenti di Simon di fronte alla perdita del padre. Mi sono sempre chiesta come si possa superare e soprattutto affrontare una perdita simile, per di più in giovane età. Ho quindi colto l’occasione di inserire questa idea sfruttando il prompt assegnato e mi sono permessa di modellare un pò il rapporto Simon/Raphael. Spero di aver fatto un buon lavoro anche se so che stavolta il testo è più corto del solito. Sarei felice se qualcuno volesse darmi la sua opinione e il suo parere (:
Come sempre il vocabolario spagnolo è a pié pagina in caso di bisogno!

Piccola precisazione: ‘Simmy’ è il nomignolo affettuoso con cui Raphael chiama Simon. Nella mia visione della storia i due sono migliori amici fin da piccoli e perciò entrambi usano dei particolari nomignoli per chiamare l’altro.


Vocabolario spagnolo:

- ¡Hola! ¿Còmo estàs hoy?.
(Ciao! Come stai oggi?)
-Pequeño.
(Piccolo)
  
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