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Autore: _Lightning_    28/06/2018    6 recensioni
La Mark 46 pendeva dai suoi sostegni come la pelle di un animale ucciso, disarticolata, inerte e con l'elmo sfigurato ciondoloni sul petto in una tacita ammissione di sconfitta. Al centro della placca frontale, attraverso il reattore, spiccava la netta e slabbrata frattura orizzontale che non riusciva a fissare per più di qualche secondo senza che il dolore allo sterno si acuisse improvvisamente. Si portò davanti all'armatura, con lo sguardo proprio a livello del reattore in frantumi, costringendosi a fissare quella ferita sul suo secondo corpo di ferro.
Prese atto ancora una volta con un senso di smarrimento di quanto fosse profonda.

[post-Civil War // Introspettivo // Angst // PoV Tony // Missing Moments]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Schegge'
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"A simple lucky feel
Or just a mere illusion
A chilling disconnection
How much time have we spent
So closely
So alone"


[Flow – About Wayne]


Un mese dopo, NY, Long Island

«Ancora uno?»

«No, sto a posto. Tieni il resto.»

Tony allungò un centone al barman, che ringraziò sentitamente e intascò la banconota con un sorriso a trentadue denti.

Riprese a sorseggiare dubbiosamente il suo drink un po' annacquato, senza dispiacersene troppo e giocherellando in modo distratto con l'ombrellino di carta che lo ornava. Non aveva mai bevuto un Blue Angel più insapore di quello che aveva finito poco prima, e il Long Island si stava rivelando anche peggio. E dire che avrebbe dovuto essere la specialità di quella zona. Finì il bicchiere più per sete che per gusto e abbandonò il bancone, intuendo dagli inservienti indaffarati che il locale era sul punto di chiudere, anche se forse speravano in qualche altra generosa mancia dall'unico avventore delle ultime due ore.

Uscendo si calcò di nuovo in testa il cappuccio della felpa. Venne accolto da una brezza umida e carica di ozono che preannunciava pioggia, e dalla visione desolata di una via residenziale mal illuminata, costeggiata da villette a schiera tutte uguali. Tirò appena su col naso, esitando sul ciglio della strada con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni da lavoro.

Si stava convincendo sempre più che quella si sarebbe rivelata una pessima idea, ma d'altra parte non era mai stato bravo a ignorare gli input sconclusionati che gli inviava il suo cervello quando si annoiava. Anche se quella che l'aveva colpito nei tre giorni d'assenza di Pepper, costretta a partire d'urgenza per L.A. in vista di una qualche riunione delle Industries di cui non aveva colto l'argomento, non poteva esattamente definirsi noia. Era più un misto di irrequietezza, energia nervosa e pensieri imbizzarriti che l'avevano spinto a passare molto poco tempo nell'attico della Tower con annesso laboratorio e molto più per le strade gremite di New York, vagando alla cieca dove lo portavano i suoi piedi fino a tarda notte, arrivando spesso così lontano da dover chiamare la Mark per tornare a Manhattan.

In fondo aveva sempre saputo che prima o poi si sarebbe ritrovato lì. Non capiva neanche come ci fosse arrivato: gli sembrava che il suo corpo avesse impostato il pilota automatico. Sapeva solo che, dopo ore passate a girovagare nel Queens nei dintorni di Flushing Meadows [1], aveva iniziato a prendere treni e autobus a caso; a un certo punto era uscito da una stazione, aveva distolto lo sguardo dal marciapiede e, invece di grattacieli illuminati e strade invase di taxi, si era ritrovato a fissare i quieti viali fiancheggiati da giardini e basse villette di Oyster Bay.

Non si era stupito più di tanto a quella vista familiare e si era rifugiato nel primo nightclub che gli era capitato a tiro. Era abbastanza sicuro di non essere stato riconosciuto, nonostante non si fosse curato di camuffarsi più di tanto. Il fatto di indossare quegli abiti invece dei suoi soliti completi firmati lo accomunava più a un membro di qualche gang che a un miliardario supereroe al centro del mirino mediatico. Gli occhiali da sole rossastri appuntati sul suo volto a quell'ora improbabile potevano essere un indizio sufficiente anche per un osservatore poco attento, ma era anche vero che non si incontrava molta gente alle due di notte, per di più da quelle parti. E a lui stava bene così.

Dieci anni prima si sarebbe quasi risentito per il fatto di non aver attirato l'attenzione dei paparazzi. Magari avrebbe finito per fare qualcosa di eclatante solo per il gusto di farlo. Si trovò a chiedersi quando, esattamente, quel genere di bravate avesse perso ogni attrattiva, se non per mantenere un'apparenza coerente con la propria immagine pubblica ormai iconica.

Si ritrovò a sbuffare piano mentre si guardava intorno nel tentativo di raccapezzarsi, per poi imboccare a passo spedito il viale alberato dinanzi a sé. Dieci anni prima a quell'ora, tra un party alcolico e l'altro, era stato probabilmente assillato da problemi ben più banali e mondani che girovagare per Oyster Bay in una sorta di ridicolo pellegrinaggio alla propria vecchia casa. Problemi come l'approvazione dell'ennesimo rifornimento d'armi all'esercito.


Già. Magari una partita di missili diretta in Sokovia. O in Gulmira.

Si strappò quei pensieri dalla testa, ripiombando nella realtà quasi di schianto e impedendo a ricordi non poi così lontani di fare capolino nella sua mente ancora sorprendentemente calma, considerando ciò che si apprestava a fare. Percepiva solo un lieve formicolio allo stomaco, che assomigliava più ad aspettativa che a paura, e che lo spingeva a mantenere un'andatura sostenuta. Continuò a camminare, imboccando a colpo sicuro ogni strada, senza esitare di fronte a bivi o diramazioni e finendo persino per ricordare e usare un paio di scorciatoie che tagliavano attraverso i vasti giardini pubblici. Qua e là scorgeva case nuove, villette ristrutturate e irriconoscibili, locali scomparsi al posto dei quali si aprivano ingressi di garage, un paio di parchi giochi asfaltati per far posto a parcheggi.

Gli era tutto familiare, eppure allo stesso tempo estraneo. Non era mai stato tipo da bighellonare troppo in giro: da ragazzo aveva sempre preferito serrarsi in camera sua o in laboratorio, e il suo ideale di divertimento erano stati i party studenteschi e le feste private, non certo starsene a ciondolare nel parchetto dietro casa con i suoi coetanei. Anche quel suo vagabondare senza meta degli ultimi giorni aveva un sapore nuovo, di qualcosa che si fa per la prima volta senza ben capire se piaccia o meno, ma che in fin dei conti non si rivela poi così sgradevole. Almeno era sempre abbastanza esausto da crollare addormentato senza passare ore a fissare il soffitto o la schiena di Pepper.

Non incontrò nessuno e l'unico suono era lo scalpiccio delle sue scarpe da ginnastica sull'asfalto e il frinire di qualche grillo isolato. In lontananza, affinando l'orecchio, poteva captare il mormorio della risacca che lambiva i moli del porticciolo, poco più di un bisbiglio gentile rispetto al rombo delle onde che si abbattevano contro la scogliera a Malibu, ma egualmente rassicurante. Un tuono brontolò lontano.


Oh, eccola. Ivy Street.

Aumentò il passo, superò il cartello e svoltò rapido l'angolo, coi polpacci che iniziavano a bruciargli per lo sforzo.

Ivy Street 42, terza casa sulla...

Si bloccò in mezzo alla strada, la bocca semiaperta e lo sguardo fisso davanti a sé. Uno spiazzo di terra spianata, recintato da transenne metalliche, occupava l'appezzamento della sua vecchia casa. Anche un'altra mezza dozzina di villette aveva subito la stessa sorte, lasciando dei visibili vuoti ai lati della strada che trasmettevano una viva sensazione di incompletezza, come se qualcuno avesse cancellato in modo grossolano dei dettagli fondamentali di un disegno. La sigla Wilder Constructions [2] spiccava sui cartelli appesi alle recinzioni, ma erano tanto sbiaditi e arrugginiti che era difficile leggerne la data. Aveva svuotato la casa e l'aveva venduta d'impulso subito dopo la morte dei suoi. Non si era mai soffermato a cercare di capire se si fosse mai pentito di quella scelta avventata, una sorta di rivincita tardiva e inutile ai danni di qualcuno che non era più in grado di opporlo o criticarlo.

Il formicolio allo stomaco trasformò in una morsa, una chiara esortazione a fare dietrofront e tornarsene a Manhattan prima che la situazione precipitasse. Ma non era mai stato bravo a tirarsi indietro in tempo [3].

Si riscosse dalla sua paralisi e si intimò di mettere un piede davanti all'altro per avvicinarsi al suo spiazzo vuoto. Era arrivato fin lì, tanto valeva dare un senso a quell'Odissea notturna da un capo all'altro di New York. Si fermò davanti alla colonnina dove un tempo era fissato il cancelletto d'ingresso, unica superstite del basso muro di recinzione. Sui mattoncini rossicci scuriti dall'umidità e dallo smog, venati da tralci di edera rinsecchita, spiccava una zona visibilmente più chiara, a segnare la mancanza della targa
Stark. Era ancora vivida nella sua memoria: nera, lucida, incisa a fini caratteri dorati. Era stata rimossa da relativamente poco. Forse un souvenir, forse uno sfregio, forse semplice manutenzione. Ora quella era una terra di nessuno, priva di qualunque traccia della sua identità.

Allungò la mano a testare la resistenza delle transenne e quelle traballarono instabili: con un po' di forza avrebbe potuto allargarle e entrare. Lasciò andare un lungo, fievole sospiro.


Che idea assurda.

Si allontanò di un paio di passi, facendo altri respiri profondi, mentre la morsa nello stomaco iniziava a contornarsi di filo spinato, doloroso, pungente. La sua vista si era fatta sgranata e faticava a distinguere i colori, quasi il mondo si stesse stingendo a poco a poco. Si stropicciò con forza gli occhi da sotto le lenti e si rivolse di nuovo verso lo spiazzo, scacciando ogni esitazione. Era stanco di sentire freddo, era stanco degli incubi, dei brandelli di ricordi che gli avviluppavano la mente, dell'eco di parole mai dette, dei frammenti slavati di immagini lontane e invadenti.

Ti sei buttato in un portale alieno. È casa tua: cosa sarà mai in confronto?

Varcò il perimetro con un lieve senso di vertigine no ndissimile da quello che aveva provato nel varcare il portale, scostando la recinzione metallica e sbilenca. Si tolse il cappuccio in un gesto che gli venne spontaneo. Fece qualche passo, lasciando dietro di sé impronte profonde nella terra sabbiosa e umida per la recente pioggia. Si fermò al centro dell'appezzamento, nel punto in cui approssimativamente doveva esserci stata la sua camera. Poco più avanti c'era stato lo studio di suo padre. Ebbe una fugace visione della sua schiena curva sul banco di lavoro, con lo scudo a stelle e strisce [4] appeso al muro che incombeva su di lui. Smosse un mucchietto di terra con la punta della scarpa, le mani artigliate alla stoffa nelle tasche della felpa e la bocca irrigidita in una piega amareggiata.

Non c'era niente, lì. Poteva solo illudersi di rivedere davanti a sé le stanze della villa, di poter scorgere suo padre che trafficava nel laboratorio o sua madre che suonava il pianoforte o Jarvis indaffarato in ufficio o se stesso bambino che sfrecciava in cortile con un go-kart improvvisato. Barcollò sul posto, come se l'avessero colpito in testa. Percepiva una marcata pressione allo sterno, quasi il cuore volesse schizzargli via dalla gabbia toracica. Non riusciva a muoversi, impietrito al centro di quello spoglio sacrario, ma si sforzò di continuare a pensare.

Doveva pensare. Doveva distrarsi, prima di cedere, di rimanere intrappolato nei suoi ricordi sbiaditi e incolori. Un appiglio. Gli serviva un appiglio.

Premette rapido un pulsante sulla stanghetta degli occhiali e mormorò un comando vocale; subito apparve sulle lenti una veduta del suo attico alla Tower. Le luci erano spente e i sensori di FRIDAY non registravano alcun suono o movimento. Il suo cuore mandò un battito così forte e doloroso che temette di sentirlo scoppiare. Non era ancora tornata. Magari stavolta non sarebbe tornata.

Scacciò la schermata con un doppio battito di palpebre che lo lasciò con la vista tremolante. Non voleva dare adito a quel timore irrazionale proprio in quel momento, ma sentì un'improvvisa stretta che gli arpionava le viscere. Non riusciva neanche a concepire che l'unica persona che aveva accanto, la sua sola, vera fonte di calma e punto fermo nella sua vita potesse svanire con la stessa rapidità con cui era riapparsa, lasciandolo ad annegare nel suo mare di inquietudini.

Era ancora paralizzato sul posto, intrappolato da mura che erano ormai crollate da tempo; si aggrappò alla sua immagine, nitida come fosse davanti a lui, come quando vi si era aggrappato prima di slanciarsi verso le stelle che l'avrebbero inghiottito per sempre. Pepper rendeva i giorni più sereni e le notti un po' più sopportabili, sia che lo stringesse a sé mentre si arrendeva alle sue debolezze, sia che si ritrovassero intrecciati l'uno all'altra nel tentativo di dimenticarle. Erano solo quegli attimi di quiete che gli permettevano di non accartocciarsi su se stesso come una foglia nella morsa del freddo: fuori dal suo abbraccio era sempre in Siberia, costretto in un'armatura ghiacciata e con una patina congelata di lacrime e sangue sul volto, incapace di muoversi o respirare.

Anche adesso era in Siberia, di nuovo davanti a quel piccolo schermo sporco che aveva fatto silenziosamente crollare il suo mondo in un minuto e mezzo, un fotogramma alla volta. Percepiva la vecchia bobina di pellicola che veniva proiettata senza sosta sulla parete di fondo della sua mente, ripetendosi all'infinito anche quando non ne era del tutto consapevole. Una parte di lui era sempre costretta a sedere in quel teatrino buio e stantio, a guardare la stessa successione di immagini all'infinito. A volte ne emergeva una più vivida: allora il mondo intorno a lui sprofondava in un tetro, opprimente bianco e nero e solo un rosso ramato e un azzurro ceruleo riuscivano a riportare il tutto alla consueta tonalità e a strapparlo da quel limbo spento. Quando coglieva uno scorcio familiare attorno a sé era invece il mondo monocromatico che si dipanava nella sua testa a tingersi di riflesso di tinte cupe e intense, cremisi. Succedeva fin troppo spesso, e in quei momenti si sentiva fisicamente ai margini di quella strada solitaria, in attesa dello schianto, col cuore in gola e l'infantile speranza di poterlo evitare.

Si strinse nella felpa, le braccia avvolte attorno al proprio corpo quasi a impedirgli di sfaldarsi per i tremiti che lo scuotevano. Era stata davvero una pessima, idea, si ripeté ancora, inspirando bruscamente. Ma sentiva comunque di essere nel posto giusto. Forse aveva solo sbagliato momento, ma sarebbe comunque sempre stato troppo tardi. Quindi, perché non ora? Aveva già trascorso più di vent'anni a fingere di non aver mai avuto dei genitori, ma dopo la Siberia ogni cosa che vedeva o sentiva sembrava richiamarli: una canzone alla radio, un completo elegante in una vetrina, un mazzo di calendule in un vaso, una fragranza estiva, una penna stilografica d'epoca, le note di una ballata... dettagli, sbavature di contorno a cui non aveva mai fatto caso, ma che adesso gli si palesavano davanti in modo ineluttabile, come portali spalancati nel vuoto punteggiato da stelle e galassie lontane.

Si sentì cadere in ginocchio da molto lontano, come se qualcuno avesse tagliato i fili a una marionetta inerte. Era in ginocchio come lo era stato in Afghanistan davanti a un uomo morente, come quando si era svegliato da quello che era sembrato un incubo in una strada devastata di New York, come quando era crollato al rientro dalla Sokovia, come quando aveva pregato che il suo migliore amico fosse ancora vivo, come quando uno scudo aveva spezzato ogni sua corazza per lasciarlo alla mercé del gelo. Ogni volta si era rialzato, con la speranza e la convinzione di poter porre rimedio ai suoi errori. Quella speranza adesso gli si affievoliva tra i palmi, ma pulsava ancora flebilmente.

Sfiorò la terra con la punta delle dita, dove un tempo si era trovato il tappeto su cui aveva passato ore della sua infanzia a giocare con circuiti e saldatori, nella stessa posizione in cui si trovava in quel momento quarant'anni dopo. Non c'era niente, lì. Solo terra morta, erbacce e un freddo che gli penetrava nelle ossa. Rimanevano i ricordi, quei pochi che contavano, quelli veri e non contraffatti da una tecnologia illusoria. Forse, potevano bastare.

Tirò un sospiro tremolante, realizzando solo allora di avere le guance bagnate, due scie sottili e appena palpabili. Rimase a fissare la spianata attorno a sé con un senso di stremato distacco. In quel momento avrebbe solo voluto rifugiarsi sotto le coperte, abbracciare Pepper e addormentarsi nel profumo dei suoi capelli con la speranza di un sonno sereno. Ma non sarebbe tornata prima di quella mattina.

Lanciò un'occhiata al cielo ancora nero e carico di nuvole, poi all'orologio da polso, faticando a leggerlo tanto il suo braccio sinistro stava tremando. Doveva resistere solo un altro paio d'ore, ma non era abituato alle attese. Di solito era lui a farsi aspettare, a volte per mesi. Ma per una volta avrebbe potuto aspettare. Dopotutto, c'erano cose per cui aveva aspettato più di vent'anni.

Si sollevò in piedi a fatica, scrollò via la terra dai pantaloni e portò una manica ad asciugarsi il volto già ricomposto. Si affrettò a superare di nuovo le transenne, che sbatacchiarono tra loro con un suono metallico assordante nel silenzio notturno. Fu tentato di guardarsi un'ultima volta indietro. Resistette fino all'imbocco della strada; lì si voltò appena, sbirciando da sopra la spalla. Nessuna villa a tre piani dai mattoni anneriti, nessun cancelletto in ferro battuto, nessuna finestra schermata da tende di taffetà, nessun portone in legno laccato. Solo spiazzi vuoti, villette silenziose, cumuli di terra e transenne arrugginite.

Si avviò verso la stazione, rimettendosi il cappuccio quando qualche goccia di pioggia iniziò a picchiettargli la testa. Il suo cuore batteva tranquillo, solo un po' più forte del normale, a ritmo coi propri passi rapidi e decisi.


Solo un paio d'ore.

 
§


Il primo traghetto per Manhattan era in ritardo.

Si strinse nella felpa, troppo leggera per quella frizzante mattina di metà ottobre tempestata da una pioggerella sottile. Inspirò a pieni polmoni l'aria salmastra e satura di odori sulla foce dell'Hudson mentre passeggiava su e giù sulla banchina già popolata di pendolari. Il vento costante che spirava dal mare s'infrangeva contro le sue guance come una lama gelida e affilata, ma ignorò quella sensazione spiacevolmente familiare. Sentì di nuovo freddo, ma adesso era solo il vento, l'aria umida, la pioggia, la felpa di cotone sottile, il fatto che fosse intirizzito da una notte passata a girovagare. Nel petto avvertiva ancora la morsa onnipresente del gelo, ma era come se quel ghiacciaio avesse infine smesso di espandersi e fosse ora immobile, scricchiolante e in attesa del disgelo.

Cercò con lo sguardo il profilo della Tower, scorgendone la forma slanciata. Attivò di nuovo gli occhiali con un tocco leggero, e stavolta un sorriso gli inclinò le labbra.

Sospirò appena, con sollievo. Non avrebbe dovuto aspettare.



 

Note:

[1] Luogo in cui si sono svolte le Stark Expo, sia quella di Howard del '74 che quella di Tony in Iron Man 2.
[2] Ditta che compare nella serie Marvel Runaways.
[3] Ripresa di una battuta di Civil War, in cui è Steve a pronunciarla. E sì, Tony ne è consapevole.
[4] Riferimento alla mia shot Guiding Light, in cui Howard ha conservato una copia dello scudo.

NB. Tutti i luoghi citati sono realmente esistenti. Mi sono presa la libertà di piazzare la vecchia residenza degli Stark a Oyster Bay, zona notoriamente ricca ed elitaria di New York.


Note Dell'Autrice:

Alors, rieccoci qua!
Questo capitolo è partito in un modo per poi finire in un altro. Nel senso che a un certo punto Tony ha preso a "scriversi" un po' come gli pareva e io gli sono andata dietro. Se nel capitolo precedente gli ho fatto affrontare un "viaggio mentale", qui assistiamo a quello fisico e materiale, un tentativo di mettere a tacere almeno una parte di tutto ciò che lo turba (viaggio che mi ha costretto a non poche incursioni su Google Maps). Lascio a voi commenti e interpretazioni, fermo restando che come al solito parlano più i gesti di Tony che i suoi pensieri. Il testo è infarcito di riferimenti, citazioni e rimandi a vari eventi della vita di Tony; nelle note ho segnalato solo quelli fondamentali e l'easter egg.

Ringrazio infinitamente _Atlas_ (ti abbraccio di nuovo, tusaiperché <3), shilyss (grazie per non aver chiamato SWAT e postale :P) e T612 (grazie per aver aggiunto la storia tra le seguite!) per aver commentato gli scorsi capitoli <3
Il prossimo arriverà con un po' di anticipo, probabilmente nel week-end, essendo anch'esso un po' particolare e decisamente breve. È una specie di "extra" che ho voluto inserire per spezzare la raccolta (diventata di 11 e non 10 capitoli). Il prossimo "vero" capitolo arriverà come sempre tra mercoledì e giovedì :)

Auf wiedersehen a todos (?)

-Light-

P.S. Ho evitato di scrivere del ricongiungimento di Tony e Pepper per il semplice fatto che il mio headcanon al riguardo è racchiuso in codesto capitolo di codesta belliffima storia -> With Or Without You della carissima Atlas <3 Si riappacificano a Malibu, il perché siano adesso a NY sarà accennato prossimamente.

   
 
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