Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: PerseoeAndromeda    03/07/2018    0 recensioni
La guerra contro Arago è giunta al termine, ma ha lasciato strascichi a livello psicologico con cui i cinque ragazzi dovranno fare i conti. Ryo è costretto a cercare uno dei compagni nella notte e lo troverà sconvolto.
[Fanfic partecipante alla challenge #26promptchallenge indetta dal gruppo facebook Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Cye Mouri, Ryo Sanada, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome
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Questa fanfic partecipa alla challenge #26promptchallenge indetta dal gruppo facebook Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart
#26promptschallenge
- prompt 8/26

Sfogo:
Definizione: 1. Manifestare con atti o parole o sentimenti o stati d'animo precedentemente repressi o controllati...
Fandom: Yoroiden Samurai Troopers
Ship: RyoxShin, ma poi anche TuttiXTutti :P
Warnings: angst, contenuti forti, attacchi di panico, scenario di guerra.

 
“Quando vi ho chiesto di uccidermi”


“Prendi la mia mano!”.
“Non posso!”.
O non voleva?
L'idea che trasmetteva a Ryo era quella.
“Non è una richiesta, Shin! È un ordine!”.
Non era suo solito utilizzare con i nakama la propria influenza di leader, non gli piaceva, non gli sarebbe mai piaciuto, ma in quel caso non sapeva che altro fare.
“Ryo... non posso... non chiedermi ancora di obbedirti... ti prego...”.
L'espressione di Ryo si fece attonita: Shin che diceva una cosa del genere, Shin che viveva per assecondare ciascuno di loro...
Adesso, il viso rigato di lacrime andava sempre più giù in quell'acqua torbida e faticava persino a guardarlo.
Ryo si sarebbe tuffato, lo avrebbe stretto a sé e condotto fuori da quella melma vischiosa, ma lui stesso non riusciva a muoversi, le sue gambe non rispondevano alla sua volontà. Riusciva solo a tendere le mani e a sperare che Shin le prendesse.
“Maledizione, non piangere e fai come ti dico!”.
I flutti inghiottivano il compagno che non faceva nulla per tentare di salvarsi, lasciava che lo invischiassero, che lo trascinassero giù. Si vedeva che era esausto e, soprattutto, completamente passivo; le sue braccia e le sue gambe, che di solito fendevano l'acqua con sicurezza, la dominavano, la plasmavano a proprio piacimento, rimanevano inerti in quella melma, che era acqua e al tempo stesso non lo era...
Era qualcos'altro, una creatura viva e oscura che voleva divorare il suo nakama.
Ryo non capiva.
Perché Shin non ascoltava i suoi richiami?
Lo aveva sempre fatto, non aveva neanche mai preso in considerazione il solo pensiero di non fare ciò che lui gli diceva.
Restava immobile, sempre più debole, e non lo guardava, faceva di tutto per non guardarlo e Ryo non poteva accettare un simile atteggiamento. Shin lo ascoltava sempre, per Shin ogni parola dei nakama era fondamentale, era legge.
Se non funzionavano gli ordini, allora, c'era una cosa che Shin non sopportava: vederli star male, vederli soffrire...
E Ryo adesso soffriva, non poteva accettare di perdere un nakama così, dopo che tutto era finito, dopo che avrebbero potuto essere in pace e amarsi a vicenda, senza il rischio di venire strappati gli uni agli altri.
“Ti supplico, Shin, non pensarci neanche, non puoi abbandonarmi adesso!”.
Era sempre un ordine, emesso con rabbia, ma con tanta disperazione, con le sue stesse lacrime che, come quelle di Shin, non potevano più essere trattenute.
E finalmente quel tono spinse il guerriero dell'acqua a sollevare il viso, permise ai loro sguardi di incontrarsi e Ryo non aveva mai visto quegli occhi così: erano l'espressione stessa del dolore, del conflitto, di tutto ciò che era rimasto celato nell'anima più recondita per esplodere tutto insieme in quegli occhi nei quali si specchiava la sconfitta.
Erano gli occhi di chi non voleva vivere...
Ma perché?
Le labbra del ragazzo si aprirono, la sua supplica giunse alle orecchie del samurai del fuoco in un soffio leggero:
“Ryo... perdonami...”.
“SHIIIIIN!”.
L'ultima cosa che vide fu un'onda gigantesca, nera, che si innalzò al di sopra del coetaneo, per poi ricadere su di lui con tutta la propria distruttiva potenza: Ryo urlò, mantenne i propri occhi fissi in quelli di Shin e neanche in quel momento terribile riuscì a muoversi.
Tutto intorno calò un silenzio irreale e, nel buio, Ryo si trovò seduto, un grande muso bianco che lo fissava, con occhi fin troppo umani e preoccupati.
“Byakuen?”.
La tigre bianca sollevò una zampa e gliela posò sul petto, accompagnando il gesto con una strusciata del naso contro quello del ragazzo.
Una mano di Ryo si posò sul collo del suo fedele custode, mentre l'altra salì alla propria fronte.
“Era... un sogno?”.
Gli rispose un gorgoglio della tigre seguito da una leccata leggera sul naso, che gli fece scuotere il capo con una risatina.
“Scusami per averti fatto preoccupare... ma sembrava così...”.
La tigre rumoreggiò ancora e gli diede una piccola testata prima di scendere dal letto, rimanendo però vigile, il muso sul grembo dell'amico umano.
Ryo lasciò ricadere la mano che ancora teneva sul capo e si guardò mestamente le dita che si tormentavano le une con le altre.
“Perché un sogno simile? Perché adesso?”.
Ripensò alla giornata trascorsa: dal mattino fino al momento in cui ciascuno di loro era andato a dormire, era aleggiata un'aura di malinconia, dovuta alla consapevolezza che presto sarebbero dovuti tornare alle proprie case e quindi separarsi.
Proprio adesso che la guerra era finita e che, amandosi così tanto, avrebbero potuto coltivare fino in fondo l'affetto che avevano scoperto gli uni nei confronti degli altri...
Era forse dovuto a quello il nervosismo che aveva ammantato ogni istante di quelle ultime ore?
Ryo si concentrò su Shin: qualcosa in lui, più che in tutti loro, era sicuramente cambiato man mano che il tempo era passato dalla battaglia finale contro Arago. Era come un malessere cresciuto dentro di lui, un'ombra che aveva visto formarsi e poi espandersi dentro i suoi occhi.
Suggestione, forse, perché non voleva lasciarlo.
Non voleva lasciare nessuno di loro, ma Shin...
Aveva la sensazione che allontanarsi da lui avrebbe significato perdere il controllo su qualcosa di importante: non avrebbe più potuto proteggerlo.
Si rivolse alla tigre, sempre pronta ad ascoltare le sue parole e persino i suoi pensieri:
“Perché sono così morboso con lui, Byakuen?”.
Lo spirito guardiano mosse la coda da una parte all'altra e le sue labbra si piegarono verso l'alto.
“Mi stai prendendo in giro?” sbottò il ragazzo.
Tornò però subito pensieroso, concentrato sulla propria principale preoccupazione.
“Io non resisto, quel sogno non mi dà pace!”.
Gettò di lato le coperte e mise i piedi a terra, muovendosi con una tale foga che Byakuen si spostò per non venire travolto ed emise un ringhio di protesta, o forse un richiamo, per impedirgli avventatezze.
“Vado solo a sincerarmi che sia tutto a posto, devo vederlo!”.
Byakuen rinunciò ad ogni tentativo e si accucciò, con uno sbadiglio, osservando la porta che si chiudeva alle spalle di Ryo: forse, dopotutto, era la cosa giusta. I due cuccioli dovevano vedersi, c'era qualcosa da sistemare e lei, tigre millenaria che li aveva adottati e alla quale nulla sfuggiva, i tumulti dello spirito giungevano forse più chiari di quanto li percepissero coloro che li vivevano.


***

Ryo si fermò per qualche istante davanti alla porta oltre la quale dormivano due dei suoi nakama... o almeno così sperava.
Nonostante tutto, nonostante la tranquillità che regnava in casa, non riusciva a non sentirsi inquieto: quel sogno, quel maledetto sogno...
E quell'ombra negli occhi di Shin...
E la tristezza generale di cui l'atmosfera si era impregnata in tutte le attività quotidiane del gruppo.
Respirò a fondo e spinse la porta; non la trovò chiusa, ma semplicemente accostata.
Scivolò all'interno. Il buio era totale, i due occupanti si erano preoccupati di serrare le persiane la sera prima e all'interno non filtrava alcuna luce.
Gli sembrò strano: una cosa che aveva notato in tutti loro, da quando avevano imparato a conoscersi e a condividere una guerra comune, era la tendenza a non voler mai rimanere del tutto al buio. Uno spiraglio, anche minimo, di luce, doveva penetrare nelle stanze, soprattutto quando dormivano.
Questo particolare, quest'altra seppur minima variazione rispetto alle abitudini, non contribuì a farlo stare meglio, sembrava che ogni cosa, intorno a lui, gli lanciasse un messaggio davvero troppo poco piacevole da sopportare: qualcosa sta cambiando, irrimediabilmente... sta accadendo qualcosa di brutto.
Si morse il labbro, scosse il capo e tentò di concentrarsi, più in silenzio che poté, per non correre il rischio di svegliare qualcuno.
Alle sue orecchie giunse subito il respiro regolare e un po' rumoroso di Shu: stava dormendo profondamente.
Ancora non aveva percepito la presenza di Shin, ma era normale: il respiro di Shin era leggero, delicato; aveva un sonno un po' nervoso, ma quando era tranquillo si rivelava talmente silenzioso da dare l'idea che non esistesse. A volte sembrava quasi voler cancellare la propria presenza, farla dimenticare agli altri.
Scosse il capo: che razza di pensiero gli era venuto?
Fece qualche passo per avvicinarsi al letto di Shin, ascoltò e corrugò la fronte: nulla.
Il cuore balzò in gola e sentì mancare il terreno sotto i piedi, mentre allungava una mano, a tastare delicatamente davanti a sé...
Piano, pianissimo...
Se dormiva tranquillo non voleva assolutamente svegliarlo e turbare quella tranquillità.
Toccò il materasso, un groviglio di coperte sfatte e nient'altro.
Spostò le dita più in là e ogni illusione svanì: su quel letto non vi era alcun corpo umano.
Sobbalzò e venne assalito dalla paura: la memoria andò ai suoi tre nakama catturati da Arago, alle torture che avevano subito, mentre lui non era lì, a proteggerli.
“Merda!”.
Perché Shin non era nel suo letto?
Chi era entrato in quella stanza per portarlo via di nuovo, strapparlo a loro e perché Shu non aveva sentito nulla? Shu che era sempre al fianco di Shin come un angelo custode?
Non poteva non aver sentito nulla se qualcuno era venuto a far del male a Shin!
Il primo istinto di Ryo fu quello di gettarsi verso il letto di Shu e svegliarlo, ma lo represse. Troppo spesso aveva mancato di lucidità, rischiando di mettere nei guai se stesso e i nakama anziché essere utile; troppo spesso non si era dimostrato un leader all'altezza e doveva imparare, dovevano poter contare su di lui.
“Stai calmo, Ryo” ordinò a se stesso, “non lo sai, non sai nulla, Shin non è in camera... va bene... prima di allarmare tutti...”.
Cercarlo...
Uscire da quella stanza e agire in maniera riflessiva, non correre alle conclusioni, cancellare il velo di confusione dalla propria testa e mostrarsi saldo.
Lanciò un'ultima occhiata a Shu e deglutì, resistette ad ogni tentazione, sia quella di chiamarlo al proprio fianco che quella di andare a sfiorarlo, anche solo con una carezza.
Sarebbe riuscito a tornare alla propria esistenza normale, senza rivedere i loro volti ogni mattina al risveglio?
Le sue ricerche lo condussero fuori, nella notte fredda, l'inquietudine che si rifaceva pressante: in casa non aveva trovato nulla di anomalo, ma neanche Shin.
Cosa poteva aver spinto il suo nakama ad uscire in piena notte, al freddo, lui che invitava sempre tutti alla prudenza?
Era vero che non dovevano più temere Arago, ma come potevano essere certi di essere totalmente al sicuro, che nuovi pericoli sovrannaturali non sarebbero giunti, ancora, a turbarli?
Respirò a pieni polmoni l'aria delle montagne di Kanagawa, sperando che tutto quell'ossigeno lo aiutasse a calmarsi, perché di nuovo faticava a mantenere il controllo: quella che era cominciata come una vaga paura si stava mutando in terrore, perché non trovava spiegazioni sufficienti al fatto che Shin, a quell'ora, non si trovasse in casa.
Si fermò dopo essersi distanziato di qualche metro dalla casa di Nasty e puntò lo sguardo sulle sagome scure dei monti delineate dalla luce della luna.
“Dove sei, Shin?”.
Si arruffò i capelli sulle tempie e ringhiò:
“Calma, Ryo, calma!”.
L'acqua...
Trattandosi di Shin, forse l'acqua avrebbe potuto dargli qualche risposta.
Stavolta però non controllò i propri passi e spiccò una corsa decisa: aveva una meta, quella che era la sua ultima speranza prima di poter dare il via ad un panico davvero giustificato.
Durante l'estate a Shin piacevano i bagni notturni, ma non era estate e l'aria primaverile, lì tra i monti, era ancora rigida: Shin amava l'acqua, ma odiava il freddo.
Poteva, il loro pesciolino, essere abbastanza matto da cedere al bisogno dell'acqua nonostante il freddo?
Forse aveva solo bisogno di vedere l'acqua, di stare vicino al proprio elemento, per vincere la malinconia.
Si fermò sulla riva del lago e si guardò attorno: la luna era grande, illuminava, ma non a giorno, e non sarebbe stato facile cogliere una sagoma umana nella notte. Fu subito certo che sul pontile non c'era nessuno e deglutì.
Niente panico...
“Shin, maledizione!”.
Si portò una mano tra i capelli, era difficile, sempre più difficile...
“Giuro che appena ti ritrovo...”.
Cosa avrebbe fatto?
Gli avrebbe urlato contro, lo avrebbe preso a pugni per averlo fatto così preoccupare...
Lo avrebbe afferrato e stretto a sé, senza trattenere il sollievo.
Il suo piede inciampò in qualcosa. Quando abbassò lo sguardo intravvide, nel buio, quelle che sembravano un paio di scarpe e una massa indistinta che riconobbe come vestiti... un pigiama.
“Ma lo ha fatto davvero?” borbottò, sbattendo le palpebre, incredulo.
I suoi occhi si sollevarono poi sulla distesa d'acqua e scrutarono ogni angolo in cui arrivava la vista, nella speranza di scorgere una sagoma umana. Era una parola: se Shin aveva deciso di nuotare, poteva essere dovunque.
Incrociò le braccia sul petto: persino lui aveva freddo e Shin era nudo in acqua.
La prima tentazione fu quella di tuffarsi e nuotare fino a trovarlo, ma era davvero troppo buio.
Si concentrò sulla scia di luce lunare riflessa nell'acqua: ben poca cosa data la vastità che aveva davanti.
L'inquietudine non era svanita: non vederlo spuntare da nessuna parte, pensare che lui era lì sotto, che lì sotto c'erano freddo e buio...
Sapeva che il suo nakama aveva un'autonomia molto lunga sott'acqua, con la yoroi addirittura infinita, ma adesso la yoroi non c'era e gli venne spontaneo chiedersi da quanto tempo fosse immerso, perché non udiva alcun rumore in superficie. Un corpo che si muoveva in superficie avrebbe smosso l'acqua quel tanto da far udire qualche guizzo.
Invece nulla, il silenzio era quasi irreale per una notte in montagna, persino gli animali notturni sembravano aver deciso di tacere.
O forse erano i sensi di Ryo, troppo obnubilati dalla paura, a non percepire nulla?
Non poteva negare a se stesso che, per quanto avesse ormai avuto la prova che Shin aveva semplicemente deciso di immergersi nel suo elemento, non si era affatto tranquillizzato.
Perché quella notte era strana, perché comunque era, appunto, notte, faceva freddo e Shin aveva deciso di uscire...
Per quale motivo?
Cosa aveva in testa quando si era alzato dal letto, era sceso al piano di sotto, aveva aperto la porta ed era uscito, per camminare fino al lago, spogliarsi e poi tuffarsi in acqua?
Di sicuro uno Shin in condizioni emotive normali non avrebbe agito così.
L'acqua sotto di lui emise un suono, appena sotto il pontile si materializzò un'increspatura e poi spuntarono un ciuffo di capelli castani dorati dalla luna, un visetto bagnato...
Ryo assunse un'espressione incredula e furiosa, incrociò le braccia sul petto e attese. Shin non sembrava essersi ancora accorto di lui.
Rimase immobile, in assoluto silenzio, finché vide le mani del giovane Mori aggrappate al pontile. Prima ancora che cominciasse ad issarsi, Ryo si inginocchiò e intrappolò i polsi del nakama, strappandogli un'esclamazione e un sussulto che riconobbe come autentica paura.
Si sentì un po' in colpa, sapeva perfettamente quanto i nervi di tutti loro, e quelli di Shin in particolare, fossero provati, così lo tirò su, perché vedesse subito che non si trattava dell'assalto di qualche nuovo nemico.
Shin lo guardava, il corpo ancora immerso per metà nell'acqua, le braccia intrappolate nelle mani di Ryo, il terrore che sfumava, lentamente, in stupore e in un po' di inquietudine, perché l'espressione di Ryo non era proprio rassicurante: era quella di un capo pronto a rimproverare.
Di solito quegli occhi grandi, quando erano così incerti, come sperduti, lo disarmavano subito, non riusciva ad arrabbiarsi con Shin, non gli era possibile, anche perché Shin non dava molti motivi: d'abitudine era assennato, prudente, riflessivo. Erano lui e Shu gli avventati del gruppo, i più propensi a correre rischi inutili.
Eppure, per una volta, Ryo non riuscì a stemperare del tutto la rabbia: proprio perché erano tesi, ancora traumatizzati e nervosi, proprio perché persino lui e Shu si sarebbero guardati bene dal compiere sciocchezze, che proprio Shin lo facesse preoccupare così lo mandava su tutte le furie.
Diede uno strattone più forte, l'acqua spruzzò tutto intorno e giunse fino a lui.
Shin, colto alla sprovvista, emise un urletto.
“Vieni su, baka!”.
Ostacolato da quella stretta poderosa, le ginocchia di Shin risalirono un po' goffamente e strisciarono sul legno, gli occhi grandi fissi sul nakama, la bocca aperta per una protesta che non sarebbe mai uscita, non contro Ryo.
Ryo fremette. Eccolo il contrasto di emozioni: picchiarlo e stringerlo forte...
Non fece né una cosa né l'altra. Lo liberò dalla morsa delle sue dita e si alzò, aspettandosi che il compagno facesse altrettanto.
Invece Shin rimase in ginocchio, si limitò a seguire i suoi movimenti con lo sguardo, senza mutare quell'espressione che, in quel momento, era di un'innocenza tale da rendere difficile sopportarlo senza perdere la testa.
Almeno per Ryo...
Ma era così per tutti davanti a certe espressioni di Shin... il più grande tra loro, il più dolce, il più fragile...
Quello da proteggere...
Anche se nessuno avrebbe mai osato dirglielo, per non ferirlo.
Ryo lo guardò dall'alto della sua posizione, consapevole che quella scena, vista da occhi esterni, sarebbe stata interpretata come sottomissione totale di uno dei due all'altro. Non era quello che Ryo voleva, ma a Shin, troppo spesso, veniva spontaneo, soprattutto con lui.
Se almeno avesse smesso di guardarlo in quel modo, senza dire una parola...
“Ti alzi?”.
Glielo stava chiedendo o ordinando? Perché non riusciva a mostrarsi meno duro?
“Ryo... io...”.
Il samurai del fuoco si chinò e gli prese di nuovo le braccia, ma questa volta fu più gentile nel sollevarlo, fino a che entrambi si ritrovarono in piedi, l'uno di fronte all'altro; anche i tratti prima rigidi del suo viso si ammorbidirono.
“Sono arrabbiato, Shin: hai idea di come mi sono sentito, quando...”, non riuscì a continuare subito, dovette deglutire il nodo che si era formato nella sua gola, “quando sono venuto in camera tua e tu non c'eri? Quando non ti ho trovato in casa?”.
“Ryo...”.
“Smettila di dire il mio nome!”.
Di nuovo durezza, sentì sotto i polpastrelli il brivido che attraversò il corpo di Shin, un brivido che non cessava, la sua pelle era fredda.
Gli occhi di Ryo corsero lungo le membra completamente nude: in un altro momento quella vista, quelle forme lisce e morbide da sirena priva di veli e di difese, gli avrebbe provocato pensieri ben poco innocenti, ma non adesso. C'erano questioni più urgenti cui pensare e c'era da capire...
Capire cosa stava succedendo a Shin, perché era così evidente che non stava bene.
Per la seconda volta si staccò da lui e fece un passo indietro, imponendosi di ignorare il rossore che scorgeva su quel viso amatissimo illuminato dalla luna.
“Almeno copriti, risparmiaci di doverti portare all'ospedale per una polmonite!”.
Il viso di Shin si abbassò, ancora più rosso, ancora più disarmante e adorabile.
“Ryo, mi... passeresti... l'asciugamano?”.
Il guerriero del fuoco si guardò intorno.
“Dove...?”.
“Sotto i tuoi piedi”.
Rekka abbassò lo sguardo e vide il grande telo da bagno che Shin doveva aver portato fuori con sé quando era uscito: le sue scarpe da ginnastica lo stavano calpestando.
Sbuffò e si chinò a raccoglierlo, poi, anziché passarglielo, con ancora la mano intorno al polso diede un altro strattone e, appena gli fu vicino, tanto che i loro corpi si sfioravano, lo avvolse completamente nel tessuto di spugna bianca. Era così grande che in esso Shin scompariva, come inghiottito da tutto quel candore.
Glielo passò tutto intorno e sui capelli, che prese a sfregare vigorosamente.
Shin fu scosso da nuovi brividi, ma questa volta non erano di freddo o di timore reverenziale nei confronti di un leader che mai si mostrava così severo con lui: questa volta era piacere, tenerezza, gratitudine per quella coccola inattesa che trasmetteva interessamento e tepore.
Ryo non resistette oltre a quell'abbandono, a quella totale fiducia che Shin concedeva sempre, a lui e a tutti loro, non importava quale fosse la situazione, quale l'attitudine dei nakama: lui era fiducia, era dedizione, era un donarsi, sempre e comunque, e questo a Ryo faceva sciogliere il cuore, ma lo terrorizzava al tempo stesso.
Per questo vedeva Shin tanto indifeso a volte, tanto vulnerabile?
Era giusto vederlo così?
Con uno slancio che non poté trattenere lo abbracciò e lo strinse a sé; era stato un impulso così violento che Shin non poté reprimere un moto di sorpresa, forse un po' di spavento, e una piccola esclamazione sfuggì alle sue labbra, con quella voce così sottile, così armoniosa...
Una voce da cucciolo, da piccolo mammifero marino, pensò Ryo.
Era talmente intenso l'abbraccio, talmente disperato il bisogno di tenerlo accanto a sé e non lasciarlo andare mai lontano, che Shin, ricettacolo delle emozioni altrui, percepì ogni cosa e la assorbì come una spugna: tutta la disperazione di Ryo divenne sua.
“Ry... Ryo...”.
Con timidezza le sue braccia si sollevarono e intrecciò le dita sulla schiena del compagno e i suoi occhi lo scrutarono, altrettanto timidi, un po' ansiosi.
“Hai idea di come mi sono sentito?”.

Ryo era sull'orlo delle lacrime e, questo, Shin non poteva sopportarlo, che uno dei suoi nakama potesse piangere per colpa sua...
Impensabile, inaccettabile.
E certo che ne aveva idea... lui si sentiva sempre così, ogni istante da quando li aveva incontrati e l'incubo della guerra aveva avuto inizio.
“Perdonami...”.
Che altro poteva dire? Che fare?
Si sarebbe gettato tra le fiamme per Ryo, si sarebbe lasciato consumare fino all'ultimo granello di cenere se ciò fosse bastato per cancellare ogni tristezza dal suo cuore, e invece...
Invece aveva fatto la cosa più terribile che si potesse fare a un nakama, perché quel nakama, che era anche il loro capo, glielo aveva ordinato.
Non gli era possibile sopravvivere con quel ricordo senza impazzire, senza morire un poco dentro: per questo era uscito nella notte, per questo si era messo a fare cose irrazionali, sempre di più da quando il dovere di samurai gli chiedeva di annullarsi nella lotta, di annullare il suo bisogno di vita per fronteggiare quotidianamente la morte.
Più il tempo passava e meno si riconosceva; più si riscopriva guerriero più aveva paura di sé e della propria capacità di combattere e di dare la morte. Lui non desiderava avere tale capacità, eppure l'aveva acquisita, fino a giungere all'atto estremo: colpire a morte un leader che si sacrificava per la vittoria finale.
Capiva perché Ryo si sentisse così: lui stesso, non trovando uno di loro in casa a quell'ora della notte, senza che ci fossero spiegazioni razionali apparenti, sarebbe stato colto dal panico; così non sapeva come giustificare se stesso senza causare ulteriori preoccupazioni.
Fece un passo indietro e sciolse l'abbraccio, lasciando però le mani sul petto di Ryo che, invece, era più riluttante al distacco.
“Come mai... ti sei svegliato?” osò chiedere, il viso basso, sui propri piedi nudi e sulle scarpe di Ryo.
“Shin... ti ho sognato”.
Dalla voce di Ryo era svanita ogni rabbia, ma non per questo il suo tono era più rassicurante; vi era in esso una tale cupezza che il cuore di Shin, già propenso a battere sempre troppo veloce, si precipitò in una serie di pulsazioni dolorose.
“Hai sognato me?” chiese con morbidezza, il viso reclinato su una spalla, pronto a trasformarsi nel confidente, nel latore di conforto... ma gli era difficile quella sera.
Anche lui si era svegliato a causa di un sogno e in quel sogno l'ultima battaglia non finiva bene, non per Ryo e quindi per nessuno di loro.
In quel sogno non c'era il magatama, nessun miracolo giungeva a impedire l'estremo sacrificio di Ryo e l'eterna dannazione di loro quattro.
In quel sogno la sua yari, che era stata l'ultima a colpire, quella che avrebbe dato il colpo di grazia, affondava nel corpo di Ryo e il sangue del suo amico... del suo amore... schizzava sul suo volto, bruciava la sua pelle come acido, mentre la lama della sua arma letale riduceva a brandelli il corpo di Ryo e Shin vedeva, cercava di chiudere gli occhi, ma era condannato a vedere...
Il corpo smembrato, il sangue, tutto quel sangue...
Quello di Ryo... versato dalla sua yari, da tutta l'energia che lui, proprio lui, aveva infuso in quell'ultimo colpo.
Non aveva trattenuto nulla, non si era tirato indietro, non aveva cercato di rendere l'affondo meno violento, anzi: forse non aveva mai infuso una tale violenza in un attacco, una tale rabbia...
Adesso le immagini del sogno tornarono, dettagliate, senza risparmiargli nulla.
Non voleva, non di nuovo...
“Ho sognato che affogavi, Shin...”.
Le parole di Ryo gli arrivavano da una dimensione lontana, la testa gli vorticava troppo, ma si sforzava di ascoltare, per quanto fosse difficile distogliere l'attenzione da se stesso.
“Ho sognato che ti lasciavi trascinare dall'acqua, che non reagivi... e mi respingevi...”.
“Ti respingevo?” chiese, come assente.
Lui respingere Ryo?
Eppure, in quel momento, nessuna parola lo stupiva troppo, forse perché non recepiva davvero ciò che giungeva alle sue orecchie.
“Volevo che prendessi la mia mano, per tirarti su, come ho fatto poco fa, ma tu non volevi, tu volevi-”.
Ryo si bloccò, perché quel che stava per dire doveva essere troppo duro.
Fu Shin ad aiutarlo:
“Volevo affogare?”.
Lo disse con una freddezza che, lo sapeva, turbò Ryo, ma lasciò lui del tutto indifferente... indifferente a se stesso.
“Sembrava... di sì, Shin...”.
Ryo tacque, forse si aspettava un commento da parte sua, che non giunse; semplicemente, Shin non sapeva cosa dire. Era stranito dal fatto che Ryo gli stesse raccontando di un se stesso nel quale si rispecchiava completamente: era come se avesse sognato la sua anima. Di sicuro, non osava dirglielo.
Allora fu Ryo a riprendere:
“Tu volevi restare in quell'acqua, ma a me quell'acqua non piaceva... voleva portarti via da me... da noi e... non era limpida... non era la tua acqua...”.
Le orecchie di Shin, infine, si tesero, inquiete.
“Era nera... era viscida... acqua sporca...”.
Il samurai dell'acqua sussultò, le sue mani agirono seguendo il puro istinto, diedero una spinta e Ryo barcollò all'indietro, trovandosi costretto a interrompere definitivamente l'abbraccio. Anche Shin indietreggiò, i suoi piedi sporsero un po' oltre l'orlo del pontile.
Stava per cadere, voleva cadere, voleva realizzare quel sogno...
La sua mente andava ormai per i fatti suoi...
La sua mente gli diceva che Ryo aveva visto il vero...
Il guerriero del fuoco fu veloce, ancora una volta Shin si sentì trascinare in avanti, di nuovo in piedi di fronte a Ryo.
“Sta attento!”.
Ryo si era spaventato, aveva temuto che cadesse, ma non sapeva che lui desiderava cadere.
“Acqua sporca...” balbettò.
Certo che era la sua acqua, Ryo aveva visto quello che lui era diventato, quello che probabilmente era sempre stato.
Si divincolò, Ryo doveva stargli lontano, era pericoloso, lui poteva contaminarlo, come era stato capace di colpirlo per ucciderlo, avrebbe potuto-
“Shin, che fai?!”.
Non c'era modo di sottrarsi alle mani di Ryo, dal punto di vista fisico era più forte, lo sarebbe sempre stato, Ryo avrebbe potuto ucciderlo se avesse voluto...
Ryo avrebbe dovuto farlo.
Si portò al viso la mano libera dalla stretta e smise di agitarsi, ma voleva ancora scappare.
“Dovevo essere io...”.
“Cosa?”.
Colto alla sprovvista da quella frase, Ryo allentò la stretta e Shin si ritrovò libero, ma non commise atti sconsiderati.
Si limitò a camminare lungo il pontile, oltrepassò Ryo e raggiunse il prato, sentendo sulla propria schiena gli occhi indagatori del nakama.
“Shin!”.
L'ascendente era troppo forte, l'istinto all'obbedienza superava il desiderio di scappare via: fermò i propri passi e si strinse maggiormente nell'asciugamano.
Ryo lo raggiunse e Shin poté di nuovo vedere i contorni vaghi della sua figura, accarezzata appena da un raggio di luna. Si accorse che aveva raccolto il suo pigiama e lo teneva contro il petto.
“Grazie... lo stavo dimenticando...”.
“A me sembra che tu stia dimenticando persino te stesso...”.
Che frase triste da pronunciare per una persona come Ryo...
A Shin dispiaceva costringerlo a certe considerazioni.
Sentì la mano del nakama sfiorargli una spalla e istintivamente si ritrasse.
“Ma che cos'hai?” mormorò Rekka, senza insistere nel volerlo toccare.
Shin si limitò a scuotere il capo, un tentativo di minimizzare quando in realtà si sentiva morire dentro.
Magari fosse accaduto, magari morire.
“Dovevi essere tu... cosa?”.
“Ryo... lascia stare...”.

Quel volto basso, quel continuo ritrarsi, quella voce così piccola... piccola come lui... che faticava ad uscire...
Come poteva pretendere che lasciasse stare?
A Ryo sembrava che, dal momento in cui aveva raccontato a Shin il proprio sogno, la situazione fosse, in qualche modo, precipitata, che l'umore già strano del nakama fosse definitivamente crollato in un baratro oscuro, come l'acqua del suo sogno.
Acqua nera e sporca, che voleva inghiottire Shin.
Dopo istanti che parvero secoli, il viso di Shin si sollevò, Ryo poté vedere i suoi occhi, così liquidi, di cui, pur nella notte, si scorgeva tutto il lucore: la bocca di Shin sorrideva, gli occhi piangevano.
“Ryo... torniamo dentro? Andiamo a dormire?”.
Quanto era falso quel sorriso...
Non falso...
Non era giusto definirlo falso, ma era triste: Shin voleva sorridere a lui, a Ryo, voleva trasmettergli positività, come sempre aveva fatto e Ryo lo sapeva. Cosa sarebbe stato di loro, durante quell'anno terribile, senza quel sorriso, senza le delicate premure di quella persona che era solo amore... amore che riversava su di loro con piccoli gesti e parole giuste al momento opportuno?
Ryo tese una mano verso di lui: non era possibile che Shin non volesse farsi toccare, non lui. Lasciò la mano lì, aperta, in un invito.
“Pesciolino... vieni qui?”.
Shin guardò quella mano, qualche stella in più si accese nei suoi occhi, esitò.
“Per favore” insisté Ryo.
Anche lui era capace di dolcezza, di rendere morbida la propria voce, di trasmettere amore.
Ai suoi nakama più che a chiunque altro, a quel nakama in particolare che avrebbe volentieri rinchiuso nella torre più alta e irraggiungibile del mondo, dove solo il bene avrebbe potuto raggiungerlo, dove il male non sarebbe mai potuto arrivare.

Shin ne aveva tanta voglia...
Voglia di essere libero e di rispondere a quell'invito, voglia che tutto tornasse come prima tra loro, che fosse tutto perfetto, che il legame significasse solo collaborazione...
E amore...
Ma non era più possibile, non dopo quello che era accaduto, non dopo quello che Ryo aveva chiesto e che loro avevano fatto, che lui, soprattutto, aveva fatto.
Era diventato faticoso persino guardarlo in faccia, dovette di nuovo distogliere gli occhi, perché guardarlo significava ricordare quel sogno che non era sogno.
Lui lo aveva fatto davvero, aveva impugnato la yari, aveva visto la yari tagliare in due il corpo di Ryo e, se non fosse stato per il magatama...
Non prese la mano di Ryo, indietreggiò ancora, si portò le mani agli occhi, il suo cuore era impazzito, faceva troppo male.
“No, no no no no...”.
Scosse il capo con foga, le lacrime sgorgarono e sentì il loro calore scorrere tra le dita serrate sul volto, le unghie che affondavano nella carne.
Aveva trafitto Ryo, aveva fatto sgorgare il suo sangue, il minimo che poteva fare era donargli il proprio, tutto quanto, fino all'ultima goccia.
Pensarlo e affondare le unghie nella carne viva del viso fu tutt'uno.
“NO!”.
Al grido accompagnò i graffi delle sue dita, sentì la propria pelle aprirsi in un'ondata di sollievo.
Il grido era stato suo?
O non era la voce di Ryo, quella?
“Maledizione, Shin!”.
Quello era sicuramente Ryo, che adesso gli strappava le mani dal volto e posava le proprie sulle sue guance.
“Shin, Shin, sei impazzito?!”.
Sì, era impazzito, non poteva essere altrimenti e non voleva vedere Ryo piangere, non voleva che si preoccupasse per quei graffi da nulla, per quel poco sangue che lui stava perdendo.
“Non piangere per me, ti prego, Ryo...”.
“Perché lo hai fatto?!”.
Ryo non lo ascoltava, passava le dita sui graffi, lo scuoteva, pretendeva una spiegazione e Shin non capiva più nulla, il buio si era fatto più intenso, davanti ai suoi occhi solo tenebre e il corpo di Ryo che andava in pezzi, smembrato dalla sua yari.
Scosse il capo, si portò le mani alle orecchie.
“Basta, basta!”.
“Shin!”.
Ryo era spaventato quanto lui, lo sapeva, doveva allontanarlo, non doveva vederlo così.
Gli diede una spinta così violenta che Ryo fu sbalzato all'indietro, non cadde, ma barcollò vistosamente.
“Stammi lontano!”.
Gli occhi di Ryo diventavano così grandi solo quando erano spaventati o perplessi; erano così belli, quegli occhi, così morbide quelle labbra dalle quali era stato baciato tante volte ormai e così dolce il suono che da esse usciva, soprattutto quando parlava a lui, a Shin, che non lo meritava.
“Perché, Shin? Perché fai così?!”.
“Perché sono acqua sporca!”.

Seguirono istanti di silenzio assoluto, durante i quali Ryo si trovò, smarrito, a cercare di capire cosa si agitasse in quella testolina così complicata e sensibile. Non l'avrebbe mai detto, ma in quel momento Shin gli faceva paura...
Paura concreta e angosciante che potesse far del male a se stesso in una maniera che i suoi nakama non sarebbero mai riusciti ad immaginare.
Che cosa gli era successo?
Raccontargli il sogno si era rivelato un errore: se solo avesse potuto si sarebbe morso la lingua prima di cominciare a parlare.
“Non eri tu l'acqua sporca, Shin... era il sogno... tu eri in pericolo”.
Shin scosse il capo.
Ryo cercava i suoi occhi, ma adesso erano nascosti, bassi, quel viso tanto amato sembrava incapace di sollevarsi da terra.
Osò un passo verso di lui, ma si mosse cautamente: aveva la sensazione che Shin potesse fuggire via, sgusciare come un pesciolino spaventato a ogni tentativo di contatto.
Infatti, al solo percepire quel passo, le gambe del samurai dell'acqua si mossero all'indietro, nella direzione opposta, un piccolo passo, per fermarsi nella posizione della preda che, all'erta, si preparava alla fuga.
“Ma... Shin...”.
Ryo non sapeva cosa dire, né cosa fare. Ormai tutti loro avevano assistito a qualche momento in cui Shin metteva in evidenza la propria fragilità, ma fino a questo punto mai.
Forse Shu avrebbe saputo cosa fare. Shu era tra loro il confidente di Shin, colui che più spesso aveva raccolto le sue lacrime, i suoi crolli, solo a lui Shin si era mostrato del tutto, si era concesso di mettere a nudo le proprie debolezze.
Quando Shin cadde in ginocchio, ripiegato su se stesso, il viso affondato nelle mani, Ryo temette che avrebbe ricominciato a farsi del male e il desiderio di chiedere aiuto, di chiamare Shu, si fece preponderante.
Quando era uscito alla ricerca di Shin, mai si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte ad un nakama ridotto in quelle condizioni: forse sarebbe stato pronto a combattere per salvarlo da un nuovo nemico, per proteggerlo da un'aggressione esterna... ma come comportarsi se era Shin l'aggressore di se stesso, se era irriconoscibile... e spaventoso?
“Mi dispiace, Ryo... mi dispiace...”.
Il samurai era scomparso: adesso era un ragazzino singhiozzante, che si faceva del male e si tormentava per chissà quale motivo, accucciato a terra, simile a un cucciolo privo di difese contro il mondo e in questo caso si trattava del suo mondo interiore.
Ryo si avvicinò: se Shin avesse tentato ancora di sottrarsi, lui sarebbe stato più veloce, non era possibile continuare in quella situazione di stallo senza tentare nulla e non avrebbe neanche chiamato Shu. Lui era il leader, lui era responsabile dei suoi quattro nakama che tanto avevano sempre fatto per lui e sentiva che, qualunque cosa si agitasse nello spirito di Shin, in quel momento riguardava loro due; non sapeva da cosa giungesse tale consapevolezza, ma era certo che fosse così.
Si inginocchiò davanti a lui e, per l'ennesima volta in quella notte di tempeste emotive, cercò le sue mani, le forzò a staccarsi dal viso, poi inseguì i suoi occhi e li trovò, troppo grandi per non fare male al cuore, troppo pieni di dolori inimmaginabili e ferite dell'anima impossibili da rimarginare.
“Ascoltami... guardami, pesciolino...”.
“Ry... Ryo...”.
C'era supplica ora in quel pigolio sottile, ma cosa supplicasse esattamente il samurai del fuoco non poteva ancora saperlo.
Riportò le mani sul suo volto, i pollici asciugarono lacrime e sangue.
“Guarda cosa ti sei fatto...”.
Il suo viso bellissimo, deturpato da troppa sofferenza.
“Non... non sarà mai abbastanza”.
Le carezze di Ryo si bloccarono. Per l'ennesima volta udiva, da quella bocca dolcissima, solo parole terribili verso se stesso: quanta angoscia mai rivelata poteva significare una tale denigrazione della propria persona?
“Cosa?!”.
Le mani sul viso si fecero più energiche e la voce più dura, perché Ryo lo sapeva: estorcere a Shin confessioni e confidenze significava fargli un poco di violenza, perché chiudersi in se stesso a soffrire da solo era prerogativa imprescindibile del loro pesciolino...
Caratteristica che condivideva con Seiji, ma di Seiji non aveva la forza; nessuno di loro andava lasciato solo nel proprio dolore, tanto meno Shin che in quel dolore avrebbe finito per languire, consumarsi e perdere se stesso, lo avevano compreso tutti.
Le spalle di Shin sussultavano a intervalli regolari, il periodo intercorso tra i singhiozzi, non più così persistenti, ma accompagnati sempre da quello sguardo di chi non era davvero lì: Shin non era in sé, era immerso in un incubo di cui Ryo pretendeva di conoscere l'origine.
“È stata la prigionia, Shin? Ti hanno fatto del male i Masho?”.
Il capo del samurai dell'acqua crollò, si scosse con mestizia, rassegnazione.
“Non abbastanza, non abbastanza...”.
Quelle frasi assurde di odio verso se stesso erano come tanti mantra ripetuti uno dopo l'altro e a Ryo facevano troppo male.
La presa sul suo viso si fece più salda, lo risollevò.
“Guardami!”.
Un altro ordine, misto a supplica, ma Shin opponeva sempre più resistenza.
“Mi fa troppo male...”.
A quel punto, le mani di Ryo scivolarono via dalle guance di Shin e gli ricaddero in grembo.
“Ti fa male... guardarmi?”.
Shin approfittò della libertà concessa per rifuggire di nuovo con lo sguardo e indietreggiare di qualche centimetro; dalla posizione in ginocchio si mise seduto, raccolse le ginocchia contro il petto e in esse nascose il viso. Riprese a parlare, con quel tono afflitto che dava forma a parole altrettanto struggenti, rivolte a nessuno, come se il suo leader non fosse lì:
“Non voglio più fargli del male... non voglio più vedere Ryo morire... non voglio più...”.
Parlava al nulla, a ciò che accadeva dentro di lui, dimenticando che lo stesso Ryo era lì, dimenticando ogni cosa che non fosse quello che solo lui vedeva.
Un frammento nell'enigma che era la mente di Shin si mosse nel cuore di Ryo, prese un posto in cui era destinato ad acquisire maggiore chiarezza, il samurai del fuoco cominciava a intravvedere qualcosa. I suoi occhi si ingrandirono.
“Io... morire? Farmi del male? Ma... Shin...”.
Sussultò.
Di colpo tornò alla memoria tutto, ogni cosa.
Quello che lui riteneva fosse a posto non era affatto a posto.
Lui non aveva più riflettuto su quella questione, non si era più soffermato... certo, aveva avuto paura, ma era vivo, tutti loro lo erano: ma quanto dovevano essersi soffermati loro, i suoi nakama? Quanto dovevano averci pensato... dopo?
Aver ripensato al suo ordine, a quello che stavano per fare, a quello che lui aveva chiesto loro di fare...
Fu lui a portarsi le mani al volto, perché improvvisamente comprese.
“Oh, no... no... non può essere quello...”.
Quando riabbassò le mani, Shin era ancora come l'aveva lasciato, nella stessa posizione: si dondolava avanti e indietro, era simile a un bambino in cerca di conforto e ormai Ryo aveva capito tutto. Lui, chiedendo, anzi, ordinando ai suoi nakama di ucciderlo per sconfiggere Arago, aveva preteso troppo. Ora se ne rendeva conto, si ricordava come si era sentito quando erano stati loro quattro a implorarlo di colpire Arago senza preoccuparsi di loro... e allora c'erano speranze di salvarli.
Lui quale speranza aveva lasciato ai suoi nakama?
Le aveva viste, le loro lacrime, mentre, guidati da un Seiji dilaniato e sconvolto, si erano precipitati contro lui e Arago, armi alla mano. Aveva percepito lo strazio dei loro cuori, in quel momento aveva sentito che i loro cuori sanguinavano, andavano in pezzi...
L'avevano colpito davvero, Seiji, Touma, Shu...
La yari di Shin era stata l'ultima...
Significava che Shin aveva esitato più di tutti, ma proprio per quello il suo colpo era destinato ad essere l'ultimo, quello finale...
Quello fatale...
E la disperazione di Shin era tutta infusa in quel colpo rabbioso, violento, che Ryo non aveva mai pensato rivolto a se stesso, ma all'anima di Shin, perché in quell'istante il loro dolore era stato uno, in quell'istante Ryo aveva sentito, aveva saputo cosa aveva fatto ai suoi nakama, cosa aveva fatto all'anima di Shin, del suo Shin che avrebbe desiderato solo proteggere.
Lui aveva messo in pericolo l'equilibrio delle loro anime, forse le aveva rovinate per sempre.
Come aveva potuto pretendere che dopo sarebbe stato tutto normale, che loro avrebbero fatto finta di nulla?
Che razza di leader era stato: avrebbe dovuto chiamarli attorno a sé, parlarne con loro, chiedere loro perdono e rassicurarli, invece li aveva lasciati soli, a fare i conti con le proprie coscienze.
Forse gli altri potevano farcela, forse erano abbastanza forti, ma Shin...
Ne avrebbe parlato, avrebbe parlato con tutti loro: sperava solo che non fosse troppo tardi.
Strisciò carponi fino al nakama, ancora prima di raggiungerlo cominciò a parlare, con tutta la dolcezza di cui era capace, piccoli sussurri come carezze:
“Pesciolino... Shin... lo so... ho capito...”.
Giunto accanto a lui allungò le mani e, con delicatezza, lo toccò, piano, gli posò una mano sulla spalla, con l'altra lo accarezzò tra i capelli.
“Va tutto bene... io sto bene... non mi hai fatto male... nessuno di voi mi ha fatto male...”.
Lo sentì tremare come mai prima, e anche lui tremava.
“Ryo... Ryo... l'ho colpito... c'è così tanto sangue... è il sangue di Ryo... non mi sono fermato... non ho voluto fermarmi... perché non mi sono voluto fermare?”.
Ryo spinse delicatamente, ma con decisione, le proprie mani nel groviglio in apparenza inestricabile formato dal corpo di Shin ripiegato su se stesso e, in qualche modo, riuscì a sciogliere il viso da quell'intrico e a farglielo sollevare. In quei lineamenti gentili, ora stravolti, non vide tornare alcuna consapevolezza: in apparenza Shin lo guardava, gli occhi spauriti e vitrei erano fissi nei suoi, ma non vedevano nulla o, più probabilmente, vedevano quello che sarebbe potuto accadere e che, nella sua realtà distorta, era accaduto.
Gli prese le mani e se le portò al volto, le guidò lungo i contorni di esso, gli fece tastare la sua pelle con i polpastrelli un poco induriti dall'utilizzo della yari, da tutti gli esercizi che fin da piccolo eseguiva per temprare lo spirito.
Shin non sarebbe mai riuscito a indurire il proprio spirito, non sarebbe mai stato, nel cuore, rigido come un samurai, anche se dei samurai possedeva tutta l'abnegazione e il coraggio.
Quanto avrebbe voluto, Ryo, risparmiargli tutto ciò cui il destino li aveva costretti.
“Mi senti? Sono qui, non sono ferito, sto bene... Shin... sono reale...”.
Vide gli occhi del nakama farsi più grandi, il respiro accelerare.
L'asciugamano era scivolato fino a terra e la pelle del ragazzo era ancora bagnata, le gocce gli colavano addosso e Ryo non distingueva più acqua e lacrime: in fondo erano costituite della stessa essenza, che era poi l'essenza di Shin.
Ryo pensava che avrebbe preso troppo freddo, che la sua condizione psicologica, insieme a tutto il gelo della notte e dell'acqua che gli aggredivano la pelle, lo avrebbero fatto ammalare: il suo istinto sarebbe stato quello di prenderlo tra le braccia e portarlo dentro, al caldo, ma chissà se Shin glielo avrebbe permesso.
“Cucciolo... dobbiamo rientrare... poi parleremo...”.
“Ryo...”.
Rekka sorrise e annuì: nell'espressione sgomenta di Shin sembrò comparire un briciolo di consapevolezza.
“Sei con me, pesciolino?”.
Le palpebre di Suiko si strinsero, tra esse Ryo continuò a scorgere tante gocce tinte di smeraldo.
“Dovevo essere io...”.
Ancora quelle parole... quale tortura stava infliggendo a se stesso il suo povero ragazzino delle acque?
Passò le labbra sulle sue dita, sui polpastrelli, su ogni callosità provocata dal bastone e dalla yari, come a voler cancellare ogni traccia di un passato troppo duro; gli baciò entrambi i palmi, uno per uno, alternativamente.
“Dovevi essere tu... a fare cosa?” chiese infine, ma con il cuore in gola: temeva la risposta, eppure sapeva che Shin avrebbe dovuto buttare fuori anche quello, era l'unica speranza di superare, di lasciare alle spalle... se solo fosse stato possibile.
“Dovevate...” Shin esitò, forse un po' si rendeva conto dell'implicazione di ciò che stava per dire, ma poi proseguì, abbassando di nuovo gli occhi: era chiaro che si vergognava profondamente, “dovevate uccidere me... non te... dovevo essere io...”.
Le dita di Ryo si strinsero su quelle del nakama con tale forza da strappargli un sussulto e un gemito di dolore. Il samurai del fuoco non poté farci nulla, era arrabbiato: quelle parole lo resero furioso, tanto che si trattenne a stento dal colpirlo con un ceffone.
“Nessuno è stato ucciso, maledizione! Nessuno doveva uccidere nessuno e infatti non è successo!”.
Ogni parola era venuta fuori simile a un ruggito: il leader di quel gruppo di ragazzini guerrieri si era mutato in un leone e solo l'infinito amore verso quel suo nakama mitigava la ferocia che sentiva esplodere in petto.
Non era arrabbiato con Shin, tuttavia, forse più con se stesso, perché in fondo lui lo aveva fatto, aveva ordinato di venire ucciso. Come poteva rimproverare a Shin ciò che lui stesso aveva richiesto per sé?
O forse, dopotutto, era furioso con Arago, che li aveva costretti a tanto, con tutta la malvagità che aveva plasmato quel demone fatto solo di odio, paura, ricettacolo di tutti gli orrori del mondo.
La reazione di Shin fu del tutto imprevedibile, strappò le proprie mani da quelle di Ryo e lo afferrò per il colletto del pigiama; se Ryo fosse stato meno resistente si sarebbe sentito soffocare dalla morsa di quelle dita che, a dispetto dell'apparente delicatezza, erano forti. Shin aveva una forza d'acciaio nella sua muscolatura aggraziata e sapeva tirarla fuori all'occorrenza, quando lottava, quando proteggeva... e quando era disperato, come in quel momento.
“Ma io ti ho colpito, Ryo, sarei stato io ad ucciderti, l'avrei fatto... come faccio a sopportarlo? Come posso accettarlo?!”.
Urlava e piangeva: adesso si rivolgeva a lui, lo vedeva, lo sentiva lì, era tornato presente a se stesso, ma non del tutto lucido. La confusione e il terrore di se stesso persistevano ed erano distruttivi per il suo cuore, come uno tsunami che non lascia scampo. Shin non lasciava scampo a se stesso, niente salvezza, niente spiragli per la sua anima.
“Smettila!”.
Tutto ciò che Ryo poté fare per arginare quell'esplosione fu urlare a propria volta e agire, nel modo che aveva fino a quel momento trattenuto, ma che adesso riconosceva come l'unica via.
Il rumore dello schiaffo risuonò nella notte, al di sopra delle grida di Shin, e venne accompagnato da un altro richiamo e da passi che giungevano di corsa verso di loro.
“Ryo!”.
“Shin!”.
Mentre Shin si accasciava contro di lui, ancora scosso dai singhiozzi, ma silenzioso, e Ryo affondava il viso tra i suoi capelli, i tre nakama si raccolsero intorno a loro.
Touma e Seiji restarono in piedi, Shu si lasciò cadere in ginocchio e li abbracciò entrambi, con uno slancio che era puro amore e protezione e con il quale trasmise tutto il vigore del suo bisogno di esserci, per entrambi.
“Ryo...” mormorò Touma.
Il samurai del fuoco che, con l'aiuto di Shu, stava riscaldando Shin con il calore dei loro corpi intrecciati gli uni agli altri, sollevò lo sguardo e incontrò quelli dei due nakama rimasti in piedi. Non sapevano cosa dire, si vedeva, ma i loro sguardi parlavano.
Fu Ryo a esprimere ciò che si agitava, probabilmente, nel cuore di tutti loro:
“Da quanto sta così? Da quanto tutti state così?”.
“Secondo te, Ryo?”.
Fu ancora Touma a rispondere. Seiji insisteva nel suo silenzio, ma Ryo aveva imparato da tempo a leggere nell'algida fierezza di quegli occhi: aveva imparato a sondare nel profondo e a stanare ogni venatura di calma malinconia.
Ryo sapeva che, se non fosse stato per Seiji, nessuno di loro si sarebbe mosso quel giorno, nessuno avrebbe obbedito al suo ordine: significava che Seiji aveva, per una volta, avuto più ascendente di lui e a volte la sua parola, il suo ordine mentale, erano ancora più fondamentali di ogni suo ordine. Seiji li aveva guidati, aveva sferrato il primo colpo, aveva ordinato tra le lacrime di fare altrettanto.
Adesso Ryo sapeva come si sentiva Shin: era necessario sapere come si sentivano tutti, era necessario parlare.
Tra le sue braccia Shin non si muoveva più. Shu richiamò la sua attenzione:
“È svenuto... o si è addormentato?”.
Ryo era certo che il loro Suiko si era semplicemente spento, l'accumulo di emozioni esplose tutte in una volta era stato troppo. Lo strinse con una possessività che stupì lui stesso e, imitato da Shu, si alzò in piedi, tenendolo in braccio. Shu raccolse l'asciugamano e lo avvolse attorno a Shin, aiutato da Touma, mentre Seiji accarezzò una tempia del ragazzo privo di sensi.
“Andiamo a casa” intimò Ryo. Era un ordine che andava eseguito, ma fatto solo di sfumature affettuose, “domani parliamo... e ognuno di voi” fissò il proprio sguardo soprattutto su Seiji, che lo sostenne con composta dolcezza “mi dirà tutto quello che ha provato quando io vi ho chiesto di uccidermi”.
   
 
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