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Autore: alessandroago_94    05/07/2018    14 recensioni
Storia di un anziano senzatetto e del bambino che gli donò un ultimo barlume di felicità.
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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storia barboni

STORIA DI UNA PROFONDA AMICIZIA

 

 

 

 

 

 

 

 

“Essere sé stessi è una virtù esclusiva dei bambini,

dei matti e dei solitari”.

Fabrizio de André.

 

“A volte perdere quello che si voleva salvare

può essere la vera salvezza.

perché se dall’altra parte

trovi un muro e delle persone che volevano vedere

solo quello che gli faceva comodo distorcendo la realtà,

la verità,

allora non ha più senso salvare nulla.

Ma salvare sé stessi…”.

Roberta Pace, Quello che vorresti dire.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un altro giorno qualsiasi, su un marciapiede qualsiasi, in una metropoli qualsiasi. Erano tutti dannatamente uguali i giorni, come lo scorrere del tempo, e come le persone che lo circondavano.

Angelo, sessantacinque anni, languiva ormai da un decennio abbondante ai margini delle strade, nell’indifferenza generale.

Il suo era il corpo di un vecchio; la barba che era diventata candida troppo presto, lunga fino all’ombelico, quasi. Le mani erano arrossate per via del freddo, e i geloni ne affliggevano le nocche. La carne era rattrappita, sotto i miseri vestiti che indossava, per via dei pasti sempre consumati saltuariamente, forse troppo, in certi periodi. I suoi abiti erano logori, resi lordi dal tempo inclemente e tutti chiazzati di chissà quali schifezze con cui erano venuti a contatto.

La vita del senzatetto l’aveva sfiancato sia nel corpo e sia nella mente. Non riusciva più a vedere nulla oltre la coltre di rassegnazione che si era arroccata dentro di lui, una sorta di muraglia invalicabile, un muro che lo distanziava non solo dalla sua vera essenza interiore, ma anche dagli altri.

Così, il marciapiede era diventato il suo più fedele compagno di vita.

Da oltre dieci anni, aveva trascorso ogni momento della sua vita in quel modo, all’addiaccio più completo, isolato.

A cinquantaquattro anni aveva perso il lavoro, e per una persona già di una certa età, senza alcun requisito particolare, trovare un’altra occupazione era stata un’impresa impossibile. La fabbrica metallurgica in cui lavorava l’aveva lasciato a casa, e ben presto si era ritrovato a provare in tutti i modi di cercare un nuovo posto di lavoro, pure molto umile o socialmente utile. Niente.

Sua moglie l’aveva lasciato, e dato che la casa era la sua, lei era rimasta con i loro due figli, ancora minorenni; di conseguenza, a lui la scelta di risollevarsi di nuovo e di provare a mantenere la sua famiglia in frantumi. Ce l’aveva messa tutta, ne andava del suo onore.

Comunque, infine si era trovato sommerso dai debiti, con un mutuo che aleggiava su di lui come una ghigliottina pronta a farlo fuori in qualsiasi momento, e impossibilitato a pagare l’affitto del monolocale in cui aveva condotto per diversi mesi la sua vita da uomo solo. La moglie aveva richiesto incessantemente gli alimenti per i figli, ma nulla aveva potuto versare.

In quel momento era notte fonda, e Angelo ringraziava il Cielo per essere riuscito a trovare di nuovo un posto dove poter dormire, dove il gelo dell’inverno non avrebbe avvinghiato le sue carni già fragili.

Aveva sistemato il suo cartone sotto un loggiato, tra due possenti colonne le cui basi erano state insozzate dall’urina dei cani, ma poco importava. Quella era come se fosse diventata la sua tana, il suo unico rifugio.

Avrebbe lottato anche con gli altri senzatetto, pur di poter continuare a conservare quel posticino che poteva essere scaldato facilmente.

In quella nicchia, in pieno centro storico, conviveva l’essenza dei più nobili e famosi artisti, a fianco di quella dei poveretti nullatenenti. Molti altri suoi simili infatti erano disseminati in qua e in là, anime anch’esse in pena, già pronte all’alba a recarsi a fare la fila di fronte ai battenti del vicino centro Caritas, presso il quale tanti volontari cercavano di fare del loro meglio per servire i pasti ai bisognosi.

Anche Angelo dipendeva dal volontariato, e tutte le mattine era pronto a fare a cazzotti con gli altri suoi compagni di sventura per poter usufruire prima del servizio. Ultimamente, però, si era accorto che aveva cominciato a perdere quella grinta che l’aveva a lungo aiutato a sopravvivere ai margini della strada.

All’inizio, senza più nulla, vivere in quel modo gli era parso qualcosa di davvero sgradevole, ma anche di unico e di libero. Non aveva più nessuno a dirgli quel che doveva fare, o altro; insomma, non aveva più legami con un mondo che l’aveva ferito, con il quale non desiderava avere più rapporti. Così, aveva imparato in fretta tutte le strategie di sopravvivenza, e anche come riuscire a lavarsi in uno dei tanti bagni pubblici, seppur fossero sporchi come non mai.

Era stata tutta una scoperta, al di là del solito modo di vivere abitudinario che per tanto tempo la società gli aveva imposto. Forse era ammattito.

Chi lo conosceva gli aveva tolto il saluto, e se lo incontrava casualmente faceva finta di non averlo visto, o di non conoscerlo proprio. Anche gli stessi amici del bar, con i quali aveva condiviso tanti problemi e tantissime bevute, avevano decisamente preso le distanze da lui. Ma, in fondo, era ciò che si aspettava.

L’inizio era quindi stata una sorta di avventura al di là di ogni previsione; era vero che la vita di strada era dura, ma quando faceva più caldo, in fondo, dormire a cielo aperto non dispiaceva e i marciapiedi erano sempre freschi, a notte fonda. Nessuno lo cercava più, nessuno esigeva più nulla da lui.

Sembrava che un capitolo della sua vita, quello più ordinario, fosse concluso.

Era stata girata la pagina, ora si poteva solo improvvisare, ma l’importante era non tornare tra le grinfie della vita quotidiana, quella che aveva conosciuto fin da quando era nato, poiché essa l’aveva spinto ad un punto in cui pensare al suicidio poteva essere qualcosa di piacevole.

Non voleva togliersi la vita per i problemi che una società malsana gli imponeva, a lui e a tantissimi altri individui… oppure, forse, l’umanità intera era vittima del sistema. D’altronde, la gente voleva bene al prossimo solo quand’esso guadagnava, s’impegnava. E quando si verificava la disgrazia di fallire in qualcosa, tutti fuggivano al largo e le grane restavano da affrontare al singolo.

La vita di ogni giorno, quella che il sistema imponeva, era diventata quindi una gabbia claustrofobica da evitare ad ogni costo.

Era presto giunto anche il primo inverno, ma non era stato rigido, per fortuna, e così lo furono anche quelli degli anni successivi, relativamente miti.

Angelo a volte si soffermava a pochi passi dagli ingressi dei locali e dei bar, con il cappello lercio che lasciava a terra davanti a sé, in attesa di qualche spicciolo che difficilmente cascava al suo interno, ed origliava ciò che trasmettevano alla tv.

I tg spesso trattavano il problema dei cambiamenti climatici, che aveva compromesso l’ecosistema italiano, per via delle piogge sempre più scarse e delle ondate di freddo latitanti, a favore di anticicloni africani più possenti e duraturi.

Quando udiva quelle notizie, in modo soffuso, socchiudeva gli occhi e pensava che forse quello era un segnale divino, poiché il freddo e la pioggia erano i suoi unici nemici. Fin quando essi non si sarebbero presentati con troppa insistenza, lui sarebbe stato al sicuro.

Aveva saputo cavarsela per anni, lottando contro gli altri senzatetto che infestavano la grande città, alla ricerca costante di un posto relativamente sicuro in cui lasciarsi andare al sonno, volendo evitare le panchine. Non aveva mai desiderato che qualcuno lo aiutasse materialmente, non voleva rivivere l’incubo che l’aveva gettato nel baratro in cui ancora continuava a vivere, a sopravvivere. Ormai si era abituato così, quella era la sua nuova esistenza.

Erano passati in fretta cinque, sei, sette, otto, nove anni, e il tempo scorreva senza sosta. Il corpo suo ne aveva risentito eccessivamente solo negli anni più recenti, quando gli animi caritatevoli erano diminuiti e poteva dipendere solo dal servizio della Caritas. Il suo berretto era sempre lo stesso, e sempre più vuoto.

Aveva digiunato più spesso, e perso molte forze. Forse, la vita di strada aveva cominciato a fiaccarlo.

Il suo stesso cuore non funzionava più come qualche mese prima, e a volte sembrava volesse scoppiargli nel petto; di notte, si svegliava di soprassalto e si spaventava. La tosse era diventata una sua fedele compagna, assieme ad un pressante catarro che sembrava aver messo le radici nei suoi polmoni. Quando tossiva forte, anche il suo cuore aumentava i battiti.

Il decimo anno di strada era stato quello più duro, Angelo lo percepiva. Capiva anche che poteva essere l’ultimo della sua vita.

A volte le mani gli tremavano, puzzava come non mai e non riusciva più ad avere un minimo di cura nei suoi confronti. Il suo corpo invecchiato troppo in fretta non gli obbediva, e a volte era incontinente e si bagnava con la sua stessa urina. La tosse era violenta, eccessiva, a tratti, e il cuore a volte sembrava sul punto di esplodere nel petto.

Tutto sommato, provava comunque a reggere come poteva.

Fu durante quella decima estate trascorsa in strada che accadde una sorta di miracolo, che gli avrebbe permesso di tornare, seppur solo per una breve frazione della sua esistenza, ad avere un contatto con il resto dell’umanità.

A mandare in frantumi l’alto muro che lo separava dal resto dei suoi simili fu, incredibilmente, un bambino.

Era infatti una calda giornata di metà luglio quando un bimbo, tenendo la mano della mamma, transitò a solo due passi da Angelo.

L’uomo non degnò i due neppure di uno sguardo, come suo solito. Eppure, il piccolo parve restare molto colpito da lui.

Da lì a qualche istante, tornò indietro assieme alla madre, e lasciò cadere una monetina nel berretto sudicio e vuoto. Solo allora Angelo alzò il suo sguardo e fissò il piccolo; era un bambino esile e castano, non doveva avere più di otto anni. Era stato proprio lui a donare la moneta da cinquanta centesimi, che in quel momento riluceva nel fondo del cappello.

“Grazie, piccolo”, gli sussurrò, guardandolo con i suoi occhi opachi. Aveva perso leggermente anche la vista, ormai faticava a mettere a fuoco con precisione le cose più vicine a lui. Non era nemmeno più abituato ad udire così distintamente il suono della sua voce, così che essa uscì dalle sue labbra in un modo che gli parve molto roco, forse troppo.

Ebbe timore di aver spaventato il bambino gentile, ma egli invece gli sorrise e lo salutò con un cenno della manina libera dalla stretta materna. Madre che poi lo trascinò via in fretta.

Angelo non perse di vista la sagoma del bambino, finché poté, e percepì che il piccolo lo stava fissando, anche mentre si allontanava. Sorrise, per la prima volta dopo tanto tempo.

Raccolse allora i cinquanta centesimi e se li rigirò tra le mani, prima di muoversi subito verso un qualche negozio in cui avrebbe potuto comprare qualcosa.

 

In realtà, i cinquanta centesimi non bastarono per comprare nulla; si arrese, Angelo, ma conservò con sé la monetina.

Finì a frugare in uno dei tanti cassonetti dell’organico, stando attento a non farsi pescare dagli abitanti dei condomini limitrofi.

Trovò qualche avanzo e lo mangiò. Il cibo della Caritas non sempre bastava a fargli passare i morsi della fame, come quella volta.

Sazio, tornò piano e quasi arrancando alla postazione che aveva abbandonato poco prima, credendo gli portasse fortuna, e si rimise in posizione.

Nessun altro, per quella giornata, gli lasciò uno spicciolo.

 

Nel pomeriggio del giorno successivo, il bimbo tornò. Anche quella volta teneva la mano della mamma, e ancora, una volta che gli giunse di fronte, lasciò cadere una monetina. Erano altri cinquanta centesimi.

Angelo si lasciò spingere dall’istinto e afferrò subito la moneta, stringendola alle dita e portandosela alle labbra, dandole un leggero bacio.

“Grazie”, disse, cercando di mantenere una nota dolce nella sua voce da vecchio. “Grazie, signora”, ringraziò anche la madre, riconoscendo che era la scelta giusta da fare.

Guardò i due; il bambino gli sorrideva, e lui tornò a ricambiare il suo sorriso, poi alzò ulteriormente gli occhi ed incrociò lo sguardo della signora, che invece non trasmetteva alcuna emozione. Nessuno rispose, e il bambino fu allontanato in fretta.

Angelo ritrovò gli altri cinquanta centesimi, e le due monetine assieme giungevano alla piccola cifra di un euro. Poteva finalmente comprarsi un panino.

Si recò in panetteria, comprò un euro di pane, con lo sguardo astioso e innervosito della commessa che quasi ebbe ribrezzo ad afferrare le due monetine che la mano dell’uomo le porgeva, per pagarla. In vita sua, non aveva mai rubato nulla, neppure quando era più disperato che mai.

Senza lasciarsi intimorire da un mondo che lo ripudiava e che voleva tenerlo lontano dai luoghi ritenuti puliti e per bene, Angelo tornò nel suo angolino, nella sua piccola nicchia, dove poté mangiare in santa pace il suo pasto. Era pane leggero, e con un solo euro era riuscito a comprare ben una mezza baguette.

La divise in due parti, e una la mangiò subito. E con quanto gusto! Erano anni che non si comprava nulla.

Con quel breve pasto, fu come se gli fosse tornata anche la voglia di reinserirsi nella società, di sanare quella frattura dalla parvenza incolmabile.

Quella notte dormì serenamente, e il suo cuore non gli diede problemi, così come la tosse.

 

Il mattino successivo, sempre nella sua nicchia, consumò il pane che gli era rimasto, e che aveva custodito gelosamente tra le braccia anche quando dormiva, come se fosse un tesoro. Poi, tornò al centro Caritas, dove mangiò la sua razione.

Di solito, non riusciva mai a saziarsi davvero, essendo serviti pasti molto semplici e frugali, ma quella volta sì. Si sentiva meglio, aveva ritrovato un po’ di energie, e l’artrite, il cuore e la tosse sembravano più a posto del solito.

Andò alla fontana pubblica a bere e se ne andò ad elemosinare di buon’ora.

Pure quel giorno, restò immerso nell’indifferenza totale. Gli altri barboni erano nelle loro postazioni, sembrava che andassero molto meglio rispetto a lui. Forse, era diventato davvero troppo reietto per poter attirare la carità di qualcuno.

Si fece pomeriggio, e con l’uscita dalle scuole, tornò di nuovo il bambino dei due giorni precedenti. Questa volta, l’uomo avvertì e riconobbe con chiarezza i suoi piccoli passi, mentre si avvicinavano in fretta. Aveva lasciato la mano della mamma, ed era corso verso di lui.

Gli sorrise, e per la prima volta si vergognò della sua bocca parzialmente sdentata; per quella creatura così giovane, innocente e dal cuore nobile, serviva un vero sorriso, di quelli brillanti e perfetti, senza irregolarità. Era tuttavia certo che al bimbo bastasse anche quello.

Si avvicinò e si allungò verso il barbone seduto, e gli mise tra le mani scure e sporche una moneta da un euro.

“Grazie, mio piccolo amico. Che Dio ti benedica”, gli sussurrò, senza smettere di sorridere. Il suo cuore così freddo ed indurito come la pietra parve tornare ad essere pervaso da un calore che lo faceva ritornare a funzionare come doveva, in tutti i sensi.

“Mamma ha detto che, se rinunciavo al gelato, potevo darti il soldino”, disse. Poi, si ritrasse e corse di nuovo verso la madre, tornando a prenderla per mano e salutando da lontano.

Colmo di gratitudine, Angelo andò a prendere altro pane. Gli bastò anche quella volta per andare a dormire sereno.

 

I giorni di quella calda estate si susseguirono in fretta, e il piccolo si ripresentava con costanza.

Ogni giorno, lasciava una monetina, quasi sempre da un euro, o in altri rari casi da cinquanta cent. Per le prime quattro volte, Angelo comprò pane o qualche fetta di mortadella, eppure, alla quinta, si accorse che aveva bisogno di togliersi uno sfizio, che gli parve molto aristocratico. Una vera e propria tentazione.

Erano dieci anni che beveva l’acqua della fontanella pubblica che il comune offriva alla cittadinanza e ai nullatenenti come lui, ed aveva però decisamente voglia di assaggiare di nuovo il gusto dell’acqua minerale di bottiglia. Ricordava che la Levissima gli piaceva molto, in quella che era stata una sua sorta di vita precedente.

Con il suo euro, ne comprò una bottiglietta da mezzo litro, e poté gustarsela e sorseggiarla fresca, il che riuscì a dargli anche ristoro dal caldo.

Il sesto giorno il piccolo tornò a lasciare una monetina, ancora da un euro. Fu sfuggevole, non rispose al saluto né al ringraziamento.

Angelo, che si era abituato al suono della sua voce, l’unica che si rivolgeva a lui, ne rimase colpito e ferito. Temeva che si stesse stancando, e che molto presto si sarebbe dimenticato di lui, come era accaduto per il resto dell’umanità.

Fu allora che si accorse di quanto fosse stato egoista; la vita non era solo un ricevere, ma anche un dare, e ciò era la base per la formazione di ogni rapporto duraturo. Il bambino d’altronde gli donava una monetina che i suoi stessi genitori dovevano aver faticato a guadagnare, e ben sapeva che il lavoro era un rischio e un impegno di proporzioni madornali, in una società dove i soldi erano tutto e sancivano l’appartenenza sociale ad un gruppo di individui o ad un altro.

Il piccolo stesso dava dimostrazione della sua grande bontà interiore, sacrificando un gelato o una partitella alle macchinette delle biglie colorate per donare a lui la moneta che otteneva quotidianamente. Non era da tutti una scelta del genere, e Angelo se ne accorgeva in modo così limpido solo in quel momento.

Spinto dai sensi di colpa, abbandonò l’angolo di marciapiede in cui elemosinava e decise che quel giorno toccava proprio a lui un piccolo sacrificio, in nome dell’affetto e della gratitudine che provava per quello che ormai nel suo immaginario era diventato un piccolo eroe.

Si recò presso una delle tante bancarelle di ambulanti che infestavano la metropoli, e comprò una minuscola macchinina Made in China, l’unico giocattolo che gli diedero per un solo misero euro.

Conservò il suo dono nella tasca lisa dei suoi calzoni, fino al giorno successivo, quando il piccolo si ripresentò, ancora più triste delle volte precedenti. Il sorriso felice però tornò a illuminare il suo visetto paffuto quando l’uomo si alzò da terra, e chinandosi su di lui, gli porse il giocattolino.

“E’ per te”, gli disse.

Il bimbo lasciò cadere l’euro nel berretto, e afferrò subito la macchinina.

“Grazie!”, affermò, euforico, per poi voltarsi verso la madre e correre da lei, molto felice. Angelo udì che, mentre si allontanavano, le raccontava come aveva ricevuto quel piccolo dono.

Provò ad avvicinare la mamma del bambino, nel tentativo di ringraziarla, ma essa si allontanava in fretta, e non poteva raggiungerla con il suo passo traballante e a tratti malfermo.

Gli faceva male la gamba destra, sempre indolenzita a causa delle posizioni innaturali che doveva assumere durante la giornata.

Lasciò perdere, nella speranza di poterla ringraziare a breve, di nuovo e con maggior calore.

 

Un grave imprevisto capitò quando Angelo meno se l’aspettava.

Il giorno successivo alla consegna del piccolo regalo, si stava preparando a occupare la sua solita postazione dove elemosinava. Era tra l’altro ancora mattina, il mezzogiorno era distante.

Tutt’a un tratto avvertì un piagnucolare disperato, e pure in avvicinamento; volgendosi verso la fonte di quel lamento, riconobbe il bambino, il suo piccolo amico, colui che ogni giorno nell’ultima settimana aveva sacrificato una monetina per donargliela.

Il bimbo lo vide e lo fissò per un istante.

Angelo fu subito molto turbato da quel che stava accadendo; come mai era lì a quell’ora, il suo piccolo amico? E perché era tutto solo, e piangeva in modo disperato? Saranno state le dieci del mattino, forse anche prima, e doveva essere a scuola un piccolo della sua età, e non in giro per la strada.

Il bambino a quel punto gli corse incontro. L’uomo smise di pensare ad ogni cosa, quando con le sue piccole braccia lo cinsero alla vita, in una stretta disperata.

Si sciolse in un attimo, e gli accarezzò con dolcezza la nuca, tutta spettinata.

“Cosa c’è, piccolino?”, gli domandò, cercando come ogni volta di mantenere un tono di voce dolce.

“E’ successa una cosa brutta… bruttissima!”, borbottò, in lacrime. Angelo sospirò, non sapendo bene come comportarsi.

“Mi… dispiace”, riuscì a dire, uniche parole che la sua mente riuscì a formulare, dopo tanti anni di profonda solitudine, in cui aveva parlato solo per infamare gli altri poveretti che, come lui, si litigavano il posto migliore sul marciapiede.

“Ma… mamma e il babbo… hanno buttato via la macchinina che mi hai regalato ieri, sai?”, bisbigliò di nuovo il bambino. Il senzatetto ci rimase di stucco, di fronte a quell’affermazione, e non riuscì a pronunciarsi.

“Ha detto che l’ha fatto… perché sei una persona sporca, quello che mi hai dato era… cacca, da buttare via. Ha detto che non devo più venire qui… perché…”.

Si interruppe, il piccolo. Il suo sfogo era divorato dalle lacrime incresciose che scivolavano lungo le sue gote.

Angelo era mortificato; ferito nel suo orgoglio, o in quel poco di esso che gli era rimasto dopo tutto il tempo trascorso sul marciapiede, a beccarsi gli insulti di tutti, e a sedersi sugli sputacchi dei fumatori e sulle chiazze di piscio di cane.

Aprì la bocca, poi la richiuse. Non esistevano parole che potessero venirgli in aiuto.

Poté solo fare una cosa, una sola. Si chinò e abbracciò il suo piccolo amico.

Lui era l’unico al mondo che ancora lo vedeva, che lo trattava come un essere umano. Aveva accettato il suo regalo, e probabilmente era entrato in conflitto con i suoi stessi genitori per quella faccenda. Non voleva che andasse a finire così, proprio no, ma che poteva fare? Nulla, lui era una nullità, la faccia repressa e tenuta nascosta dell’umanità. Rappresentava la classe sociale più bassa, quella dei derelitti, solamente odiati e infamati, poiché visti come sommersi di debiti, come falliti. E la società per bene non ammetteva né sbagli, né falliti, tra le sue fila.

“Ehi”, si sbloccò infine, quando meno se l’aspettava, “te ne ricomprerò un’altra, va bene? Appena riesco a trovare racimolare qualche centesimo”. Il piccolo parve quietarsi, ed alzò finalmente lo sguardo verso il faccione barbuto del vecchio.

“I miei genitori non vogliono più che io dia i miei soldini a te”, affermò. Era incredibile quanto fosse vasta la sincerità dei bambini.

Angelo non si fece infatti più sorprendere, dalle sue affermazioni sincere.

“Se i tuoi non vogliono, non devi farlo”.

“Ma quella è la mia paghetta. Mi hanno sempre dato una monetina ogni volta che mi comportavo bene a scuola e a casa, così da poterla spendere come preferivo. Se io la voglio dare a te, la do! Non mi importa dei gelati, o delle caramelle… tu… ne hai bisogno”, si spiegò, con grande maturità.

Angelo gli sorrise, molto commosso. Stava per piangere a sua volta.

“Assomigli molto a Babbo Natale, sai?”, tornò a dire, allungando poi una manina e sfiorando la barba dell’uomo. “Io voglio darti il mio soldino perché so che sei tanto buono. Mi hai fatto anche un regalo! Vorrei che tu stessi meglio, e che tu facessi un regalino anche agli altri bambini come me, quelli che sono tristi e piangono perché con i loro genitori litigano”.

Ad Angelo, a quel punto, veniva davvero da piangere per la commozione estrema. Ritrasse il viso, in modo da divincolare la peluria dalle mani del bambino, e si volse verso il muro retrostante, a nascondere le lacrime che stavano per bagnargli le gote.

Si vergognò all’improvviso per il fatto che stesse per nascondere il suo pianto al suo piccolo amico, quando egli invece si era lasciato andare di fronte a lui. Si chinò di nuovo, quindi, e si lasciò sfuggire qualche lacrima. Il bambino allungò le dita, e con l’indice ne sfiorò una.

“Anche tu piangi? Non devi! Tu devi essere forte per noi, per me…”.

L’adulto lasciò che le parole del piccolo scivolassero su di lui, senza sosta, come pioggia battente.

Il bambino ora era sereno, non si disperava più e interagiva come nessuno aveva mai fatto con il poveretto. Un uomo che aveva pianto, otto o nove anni prima, quando la sera di Natale gli erano tornati in mente i suoi figli, coloro che non l’avevano cercato mai più. Che fossero stati meglio senza di lui? Che lo ritenessero un fallito? Forse, istigati dalla madre, lo odiavano anche e l’avevano ripudiato.

Ormai dovevano essere grandi, tutti oltre i venticinque anni, ma non si erano mai sprecati neppure a tentare di allungargli una mano. Forse addirittura non sapevano neppure se fosse ancora vivo… non gliene importava, semplicemente.

Così, non era abituato ad una benevolenza come quella che il piccolo gli stava riservando; si vedeva che, a modo suo, gli voleva davvero bene e si era affezionato. Una dimostrazione di affetto così grande valeva più di una banconota da cinquanta euro, per Angelo.

La commozione lasciò comunque presto spazio alla razionalità.

“Ma tu non devi essere a scuola, a quest’ora? O a casa, con i tuoi genitori?”, domandò, indurendo la voce. Il bambino scosse con vigore la testa.

“Non mi andava. Volevo venire a trovarti, perché il babbo mi ha fatto male quando ha buttato via la macchinina. Io volevo solo giocarci!”. I suoi occhi tornarono ad adombrarsi, di nuovo pronti al pianto.

Angelo, immaginando che fosse scappato in qualche modo e che avesse commesso una marachella spinta dal forte senso di angoscia che attanagliava la sua giovanissima mente, davvero troppo giovane per comprendere alcune delle reazioni spontanee tipiche del mondo degli adulti, si rese conto che doveva fare qualcosa.

Come poteva far sì che il piccolo non finisse in pasticci maggiori? D’altronde, con lui non poteva restarci, o sarebbero stati guai per tutti.

Scelse in fretta di recarsi al limitrofo bar, per chiedere di poter effettuare una chiamata ai carabinieri o alla polizia; d’altronde, si trattava pur sempre di un minore rimasto solo.

“Non mi hai mai detto come ti chiami, piccolo”, disse con rinnovata dolcezza. Ormai, anche il senso di gratitudine verso il bimbo si era tramutato in ansia, e di voglia di riportarlo al sicuro, presso la sua famiglia. Era grato immensamente al fatto che solo lui, con i suoi occhi da bambino, riuscisse a vederlo, e forse gli si era anche sinceramente affezionato, da quel che pareva, però non poteva assolutamente permettere che lo strano legame di amicizia che si era instaurato tra loro potesse diventare pericoloso.

Provò un forte istinto protettivo, quando meno se l’aspettava; quando ormai, dopo un decennio di isolamento, senza mai aver coltivato un rapporto umano, si credeva prosciugato di ogni risorsa interiore.

“Mi chiamo Federico”, affermò, deciso, “Federico Muccioli”.

“E tu?”, domandò, subito dopo una brevissima pausa.

“Angelo”, rispose il vecchio, afferrando una manina del bambino, così come aveva visto fare da sua madre, e spingendolo a camminare verso il bar.

“Angelo, come quelli del Cielo?”, tornò a chiedere il bambino, evidentemente sorpreso.

“Sì”, lo rassicurò l’uomo, rivolgendogli un sorriso affettuoso.

“Il mio babbo invece si chiama Claudio”, proseguì il piccolo.

“E’ un bel nome”.

“Ma dove mi stai portando?! Io voglio restare lì, con te!”, strillò il bambino, strapazzando la mano dell’adulto. Si inalberò, fermandosi ed indicando il punto esatto dove ogni giorno chiedeva l’elemosina, e dove i sue si erano visti per la prima volta.

Angelo allora sospirò, si fermò a sua volta e si mise lentamente in ginocchio, per essere alla stessa altezza del suo piccolo amico.

“Federico, non puoi stare qui con me. Devi tornare dai tuoi genitori, immediatamente”, gli spiegò con sincerità, andando dritto al punto. Il bimbo strabuzzò gli occhi.

“No, loro sono cattivi! Io voglio restare con te…’’. Stava per tornare a piangere.

Il senzatetto non voleva che la gente lo vedesse in compagnia di un bambino solo, tra l’altro in lacrime, poiché immaginava che avrebbero potuto pensare male subito. Ma non poteva non dare qualche spiegazione, sentiva che doveva farlo.

“Questo non è il posto per te”, proseguì, infatti, con l’intento di interrompere ogni reticenza del suo piccolo interlocutore, “vedi, lo vedi come sono io?”, si sfiorò poi i vestiti logori che indossava. Federico seguì i suoi gesti con attenzione.

“Sono tutto sporco. Tu sei un bambino pulito, che ha una vita intera davanti, e che deve studiare per fare del bene a lui e agli altri. Diverrai un grande uomo, un giorno, e non un poveretto come me”.

Il bambino scosse il capo con forza.

“No, non dire altro”, lo fermò l’adulto, prima che riprendesse a lamentarsi e a piagnucolare, “perché immagino che tu non voglia diventare come me, vero? Un vecchio malato, che sta male, e che per vivere deve chiedere l’elemosina a chi passeggia per strada? No, tu vuoi diventare un professore, un medico, un artista… quello che vuoi, perché puoi. Io sono una persona finita, emarginata, non va bene che stai con me. Devi tornare subito dai tuoi”, concluse, con maggior risolutezza.

Federico parve riflettere un attimo sulle parole che aveva appena udito, poi annuì.

“Ci torno, se proprio vuoi. Ma tornerò a trovarti, e non mi piace quello che hai detto su di te”, proferì col suo vocino ridotto ad un sussurro.

“Puoi venire quando vuoi, io sono sempre qui, ma dovrai farlo con i tuoi genitori e se loro lo vorranno”.

Il vecchio tornò a camminare verso il bar, ormai distante pochissimi passi.

Rallentò la sua marcia poiché si sentì fiero di quel piccolo contatto umano, e fu come se, per un istante, fosse nonno. Come tutte le persone della sua età, o anche più anziane, camminava lungo il marciapiede a fianco di una giovane vita che riponeva speranze in lui, e che gli si era verosimilmente affezionata. Era una sensazione bellissima, nel complesso.

Fu un minuto di paradiso, un minuto di quotidianità strappata ad un lunghissimo periodo di assoluta emarginazione.

Sorrise a Federico, mentre stavano per varcare la soglia del bar, dal quale si sarebbe messo in contatto con le forze dell’ordine, al fine di riportare a casa il piccolo fuggitivo. Avrebbe voluto riaccompagnare a casa egli stesso il suo piccolo amico, ma temeva la reazione dei suoi genitori, e non solo; continuava ad essergli sconveniente il girovagare per strada con un bambino, quando tutte le persone che transitavano abitualmente nella zona ben lo conoscevano e sapevano quanto egli fosse in realtà solo.

Aveva paura, in fondo. Aveva paura di loro, degli altri.

Se avesse potuto, si sarebbe isolato con il suo giovanissimo amico nel mondo delle favole, dove tutto era possibile.

Anche che lui divenisse una sorta di nonno, in grado di donare affetto a chi gliene riponeva a sua volta, in modo disinteressato.

Angelo non riuscì mai a varcare la soglia di quel bar; infatti, un uomo gli si parò di fronte, bloccandogli l’accesso, e afferrò la mano del bambino, strappandola malamente dalla sua stretta. Il piccolo gemette di dolore.

“Ma… cosa…”, quasi inveì il senzatetto.

“Come ti permetti, eh, a prendere con te mio figlio?! Cosa credevi di fare, mascalzone?!”, cominciò a gridare con rabbia il nuovo arrivato, pure con il fiatone dalla foga con cui era intervenuto. Di fronte alle grida folli e rabbiose, le persone dentro il bar e quelle lungo la strada si volsero a guardare la scena.

“Io…”, tentò di scusarsi Angelo, letteralmente senza parole. Non era più abituato a tali affondi. Un tempo avrebbe saputo rispondere e difendersi, ma dopo tanto isolamento, nulla lo salvava più dall’aggressione verbale.

“Hai portato via mio figlio”, affermò, “mio figlio”, rimarcò, “da scuola. Mia moglie lo aveva appena portato di fronte alle elementari. Poi è sparito! E… lo stavi portando in questo locale”.

Era un fiume in piena, quell’uomo calvo, sulla cinquantina ma ancora con un fisico da trentenne, vestito con abiti firmati e con un piglio nervoso e provocatorio. Infuriato poi com’era, sembrava un vero gradasso, uno dei vincenti abituati da sempre a sottomettere gli altri.

“Il bambino è giunto da me in lacrime. Io stavo solo andando in questo bar per chiedere del telefono, ed avvisare le autorità che il piccolo si era smarrito…”.

“Tutte scuse! So che l’avevi attirato con l’inganno, mia moglie mi ha parlato del regalo, che io ho provveduto a cestinare. Tu a mio figlio devi starci lontano, hai capito? Hai capito? Hai capito?”, continuò a gridare, come un ossesso. Si fece sotto con un vago accento del sud, e quasi spintonò il povero e provato Angelo, che chinò il capo.

La gente lo stava fissando e giudicando, ed aveva fatto la figura del mostro di turno.

Claudio, quindi, gongolante per aver schiacciato il probabile orco e per aver ripreso il figliolo sotto le sue ali protettrici, deviò il senzatetto e si allontanò, con il piccolo Federico che veniva trascinato per un braccio. Il bimbo piangeva come non mai, e allungava la manina libera verso Angelo, travolto ed impotente. Sconfitto, con il volto in fiamme, giacché tutti i passanti lo fissavano come se fosse stato un marziano. Una vergogna che lo marchiava a fuoco.

“Ti farò avere dei problemi grossi se torni ad avvicinare il bambino, capito?”, gli urlò di nuovo il padre del piccolo, a distanza. E mentre tutti gli sguardi ancora aleggiavano sul barbone, Claudio ne approfittò per calare la sua mano destra sul viso del figlio, smollandogli tre o quattro rapidi ceffoni di fila, senza sosta, sussurrandogli parole orrende.

Angelo fuggì via, con tutta la forza che aveva, e si dimenticò del suo cuore traballante, del fiato che gli mancava, del ginocchio dolorante… la vergogna e il senso di impotenza che provava erano superiori ad ogni altra sensazione che riusciva a provare sulla propria pelle.

 

Angelo non vide più il suo piccolo amico, nei giorni a seguire. In cambio, riceveva occhiatacce dalla gente del posto, e pensò presto che sarebbe stato meglio per lui cambiare zona di accattonaggio, dove le persone che bazzicavano in loco non l’avrebbero potuto riconoscere.

Tuttavia, ancora sperava che Federico potesse tornare per donargli un sorriso, e non avrebbe voluto deluderlo, se si fosse accorto della sua assenza. Quindi, continuò come se niente fosse mai accaduto, pregando affinché qualcuno di affettuoso potesse presentarsi al suo cospetto, a donargli ancora un minimo di fiducia.

Era riuscito, nonostante tutto, a ritrovare un minimo di gusto nella vita, e anche a trovare un legame con la società che l’aveva rifiutato.

Infine, qualcuno si presentò al suo cospetto, e si trattava di due carabinieri in divisa. Senza parole, il senzatetto rimase in uno stato di choc tale da lasciarsi condurre in caserma senza neanche riuscire a spiccicar parola.

Là lo attendeva un prevenuto maresciallo, un uomo maturo e dall’aspetto ordinato e severo, che lo fece accomodare per chiarire quella convocazione così rapida, e quella sorta di arresto.

“Immagino sappia perché lei è qui al mio cospetto”, esordì il maresciallo, stuzzicandosi il pizzetto con il pollice e l’indice della mano destra, con fare distante e poco interessato.

Angelo, sempre ammutolito, scosse il capo con un cenno di netto diniego.

“Allora, sarò di poche parole, così da riportarle a mente quello che è accaduto nei giorni scorsi”.

Fece una breve pausa ad effetto, prima di proseguire.

“Lei è stato denunciato per violenza aggravata su minore. Avrebbe allontanato un bambino, Federico Muccioli, dalla sua famiglia, per poi tenerlo sulla strada e condurlo verso un locale pubblico”, finì di spiegarsi, sempre con tono distante e remoto.

“Io…”, provò a borbottare un Angelo sempre più intimorito, mentre il viso s’imporporava e il suo misero corpo tremava tutto. Dopo giorni in cui era sembrato tutto a posto, il suo cuore riprese all’improvviso a fare le bizze, nel suo petto.

“Non è nelle condizioni per trattare, o comunque per dire la sua; potrà far richiesta di un avvocato d’ufficio, che la difenderà da tale accusa. Il padre del bambino ha sporto denuncia e sarà un tribunale a decidere chi dei due ha torto o ragione, mentre io e i miei uomini ci occuperemo di trovare prove che possano accusarla o scagionarla”.

Il pover’uomo si lasciò crollare sulla sedia, quasi sciogliendosi su di essa. Le sue ossa scricchiolavano, come se avesse perso decine d’anni di vita.

Avrebbe tanto voluto dire la sua versione dei fatti, ma a cosa sarebbe servito? Era stato denunciato per un reato gravissimo e diffamante, riguardante tra l’altro un minore, e tutti già lo giudicavano un colpevole. D’altronde, quelli come lui erano così, agli occhi del mondo; erano dei marci dentro, pronti a compiere ogni genere di vergognosa azione, solo perché non avevano nulla da perdere.

“Non conosciamo bene la gravità dell’accaduto, per questa è stata aperta una veloce indagine su di lei. Non si dovrà allontanare dalla città e dovrà essere sempre reperibile, per non aggravare la sua situazione”, lo congedò poi il maresciallo, alzandosi per primo ed andandosene.

Altri due carabinieri lo identificarono.

“Non ho un telefono”, riuscì a mormorare, quando si stava per concedere di nuovo al pianto.

Alla fine, precisò che l’avrebbero sempre trovato lì, a loro completa disposizione, proprio nel punto in cui l’avevano trovato. Non provò neppure a dire che era innocente, che lui a quel bimbo si era affezionato come se fosse un nipotino; non aveva senso parlare a persone che erano come un muro.

I due militari furono anche loro impassibili nel trattarlo, davvero freddi, e probabilmente già lo vedevano colpevole. Con il cuore che gli batteva forte nel petto, fu portato da una pattuglia nel luogo dove era stato quasi arrestato.

Non fu trattenuto ulteriormente solo perché non c’erano prove schiaccianti nei suoi confronti, tuttavia pareva quasi sicuro che presto ne sarebbero saltate fuori di quelle davvero incatenanti e chiare. Lui avrebbe solo dovuto aspettare il verdetto della giustizia…

 

Ma la giustizia, in Italia, purtroppo era già ben conosciuta per la lentezza delle sue procedure.

Angelo era innocente, lo sapeva, ma non riponeva grandi speranze in essa. D’altronde, era un soggetto molto vulnerabile, e quello che Claudio stava facendo era probabilmente frutto del fatto che lui stesso picchiasse suo figlio, e questo il senzatetto l’aveva visto, quindi voleva anche scaricare il frutto delle sue violenze su qualcun altro.

Gli dispiaceva che il piccolo Federico, il suo unico vero amico, avesse dovuto affrontare poi quella belva anche tra le mura domestiche; se era stato picchiato e schiaffeggiato in una strada pubblica, chissà quante altre sberle gli venivano riservate a casa. Ma nessuno aveva notato il padre che malmenava il suo bambino, poiché tutti si erano limitati a guardare con sdegno il nullatenente che era stato infangato con delle accuse gravissime.

Angelo avrebbe tanto voluto essere aiutato, in modo serio quella volta. Non tanto dagli esseri umani, poiché aveva perso ogni fiducia in loro, soprattutto negli adulti, ma almeno da Dio, che aveva ricominciato a pregare durante le lunghe notti in cui stava poco bene. Qualcuno avrebbe dovuto avere misericordia di lui, e riuscire a lavare l’onta che lo devastava.

Nessuno tese mai una mano, anzi, era evitato come la peste.

Per lunghi mesi, Angelo restò a disposizione della giustizia, senza mai lasciare il punto dove mendicava e dove le forze dell’ordine avrebbero potuto rintracciarlo.

Restò all’addiaccio, e digiunò perché faticava a raggiungere il centro Caritas e nessuno più gli faceva l’elemosina.

Giunse l’autunno, e il suo corpo fu bagnato più volte dalle piogge incessanti, senza che nessuno poi l’asciugasse.

Giunse infine un inverno molto più rigido di tutti quelli precedenti, e il povero vecchio, prossimo all’undicesimo anno trascorso sulla strada, non vide mai nessuno venirgli incontro. Non seppe più nulla delle indagini in corso su di lui, e della denuncia gravissima che pesava sulle sue spalle, poiché durante una notte gelidissima morì.

Fu ritrovato morto la mattina successiva dai passanti, e il poveretto era tutto raggomitolato in posizione fetale, entrambe le mani poste all’altezza dei polmoni.

Nessuno pianse per lui, né s’interessò; ben presto fu dimenticato anche da chi l’aveva visto elemosinare, e il suo corpo fu seppellito in una tomba anonima, in periferia.

Federico crebbe, e lasciò che la sua mente venisse plasmata dai desideri della società; tuttavia, non dimenticò mai quel poveretto che suo padre aveva ulteriormente rovinato, portandolo alla morte per stenti.

Un giorno, compiuta la maggior età, si arrischiò in solitaria a cercare la sua tomba, ma non la trovò mai. Angelo non riposava in città, ma lontano da essa, ancora una volta emarginato dalla società, e ripudiato in eterno dalla memoria collettiva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

 

Questa storiella è nata grazie ad un suggerimento e ad un invito posto da Innominetuo, che ringrazio profondamente per il suo impegno in ogni ambito sociale e per il desiderio di giustizia che la spinge sempre a lottare e ad affrontare una realtà spesso molto dura.

Grazie anche a Kim, come al solito.

Spero che il raccontino sia stato di vostro gradimento, e… a presto ^^

   
 
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