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Autore: dienolf    07/07/2018    2 recensioni
La civiltà, per come la intendiamo oggi, è scomparsa da tempo. Il mondo è stato infatti attaccato da una specie aliena ipertecnologica. I risvolti del conflitto sono stati del tutto inaspettati; l’appropriarsi di una tecnologia avveniristica ha portato alla progressiva sostituzione della specie umana. Coloro che sono sopravvissuti a questo processo, continuano a nascondersi nelle antiche vestigia di una vita trapassata, sfuggendo allo sguardo pervasivo dell’entità che tutto controlla: Maelstrom.
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il mondo sta svanendo. Sento il riverbero degli altoparlanti, mormorano qualcosa di indefinito. Risuonano in perenne ritardo rispetto alla tabella di marcia. Il mondo è già finito, ma loro continuano a diffondere l’allarme, a dispensare consigli alla popolazione. Le strade sono piene di polvere, ad animarle solo qualche accattone in cerca di provviste. Io sono uno di loro e mi ritrovo a scrivere queste brevi parole. Guardo la finestra e riesco solo a forza a ricordare i vecchi fasti della civiltà; ora di quel vetro limpido rimane solo un strato solido e compatto che non lascia trasparire più nulla. Passo le giornate in mezzo alla cenere, vagando fra le macerie; mi nascondo, sono l’ombra sbiadita di quello che ero. Provo con lo sguardo ad inseguire la traiettoria dei cavi elettrici sospesi fra le palazzine, a immortalare con gli occhi i momenti salienti del loro percorso, le loro svolte, ma non mi portano da nessuna parte. Mi capita di scorgere un’insegna pubblicitaria un tempo illuminata: “libertà”. E’ un presagio spettrale che sfida continuamente i miei sogni, dissipandosi brevemente nel sussulto che annuncia il risveglio. Libertà.
Il giorno successivo – chi può dire che fosse davvero un altro giorno? – sento un brusio di voci provenire giù dalla strada. Subito intuisco cosa sta per accadere e provo nuovamente a nascondermi: stavolta non sono gli altoparlanti. Stanno rastrellando le case o ciò che ne rimane, cercano “volontari” per il mausoleo, li portano là. Stavolta fanno sul serio, chissà cosa è successo. Penso in fretta e afferro lo zaino, abbandono velocemente la stanza, non prima di aver dato una sbirciata attraverso la finestra. Intravedo delle figure scure, hanno già preso per le braccia uno degli importuni che infestano le strade e lo portano da qualche parte. Lo trascinano a forza e se trovano me, farò anche io quella fine. Non voglio finire al mausoleo, farò di tutto per non finirci. Qualcuno deve avermi intercettato, perché apro lentamente la porta dilaniata dai colpi di un’ascia e le voci si fanno sempre più distinte. Stanno salendo le scale, penso. Usano delle maschere a distorsione vocale, cosicchèogni suono rassomigli ad un ronzio metallico. Le loro tute sono ermetiche e scure, così come le armi che imbracciano, e in ogni centimetro di tessuto emettono un orribile riflesso cangiante. Non saprei dire con esattezza se la loro natura umana sia stata contaminata o intaccata in un qualche processo di metamorfosi. Sembrano alieni, ma li combattono. Da quando la minaccia esterna si è abbattuta sulle nostre città, la resistenza si è riorganizzata a partire dalle armi del nemico. Ci siamo appropriati della loro tecnologia e da quel momento le cose sono cambiate. Armi e veicoli di ogni tipo e dimensione sono stati trafugati durante gli innumerevoli conflitti e le fulminee incursioni notturne, in un tempo che si perde ormai nella memoria dei giorni e degli anni. La guerra è cambiata, l’uomo è cambiato. Uno schiocco di dita è bastato a ribaltare le prospettive: ora gli “alieni” siamo noi.
Comincio a correre come un forsennato fra i cunicoli della casa in rovina, angolo dopo angolo sento quelle voci sempre più concrete, mi stanno fiaccando e ogni volta che quel rumore magnetico raggiunge un nuovo tono di intensità le mie probabilità di sopravvivere si assottigliano precipitosamente. Improvvisamente il silenzio. Tutto diventa spaventosamente vivo; le pareti, i tavoli impolverati, i quadretti di famiglia che sopravvivono all’usura, i fornelli della cucina ridotti ad un grumo di ruggine: tutto mi guarda e mi sento al centro di una convergenza di occhiate maldestre. Non li sento più, dove sono? Sudo freddo e poi il calcio di un fucile raggiunge il mio volto. Cado a terra esanime.
Fa freddo. Mi risveglio in preda agli spasmi e mi basta poco per riprendere coscienza e capire che sono stato fatto prigioniero. Sono stipato in una camionetta insieme ad altra gente, tutti hanno lo sguardo abbassato, tranne uno col grugno di un folle. E’ un folle, difficile non esserlo in questo momento, i suoi occhi sono disidratati quanto la sua faccia solcata dalle nodosità e scavata nelle impervietà. Sta cominciando ad urlare con una voce secca e stridula, ma sembra non disturbare lo stato di sopore apparente in cui versano tutti gli altri nella camionetta. “Ci portano al mausoleo! Ci vogliono là dentro!”
Il veicolo su cui viaggiamo è uno degli ultimi ritrovati in fatto di tecnologia. E’ grigio e le sue forme esagonali e spigolose tradiscono una provenienza aliene. Prima era alieno, ora lo siamo noi. Quegli umanoidi dalle maschere opalescenti ci guardano, sono in tre e sorvegliano la piattaforma dove ci hanno legati. Difficile dire se da dietro quei visori ci stiano osservando con occhi umani. Nessuno li ha mai visti realmente, nessuno sa se la resistenza è davvero rappresentata da loro. Alla guida del mezzo, dentro l’abitacolo,  si intravede un uomo – stavolta è davvero un essere umano – probabilmente anche lui assoggettato al volere della resistenza. “Ci faranno giocare, giocare e ancora giocare! Ogni secondo di ogni ora della nostra vita!” Il veicolo continua a muoversi silenzioso, il cargo è aperto e ci consente di ammirare la sconfinata radura di neve in cui ci siamo inoltrati. Le folate di vento mi hanno quasi distratto dalle farneticazioni del pazzo. “Il mausoleo! Aaah! Ve lo dico io, meglio morire in pasto ai cani!”
“Cos’è il mausoleo?” cerco di rendere utili quei tempi morti.
“Spera di morire prima, amico mio! Quel posto è immenso, nessuno ne è mai uscito vivo… ma nessuno vi è mai morto davvero.” La voce si era fatta tremebonda. “ti prendono, ti collegano ad un display e ti obbligano a giocare un videogame che dura un’eternità, finchè non ti si frigge il cervello! Sembra che molti abbiano trascorso l’intera vita dentro quel videogame. Loro – indicando gli esseri scuri con un’inclinazione della testa – lo fanno per combattere. E’ un sistema creato per combattere gli invasori, non so in che modo, ma è quello che so.” Sono ancora sopraffatto dal colpo ricevuto sul muso e dal freddo penetrante.
“Come fai a sapere queste cose?”
“Un tempo lavoravo là dentro. Ero più che altro un prigioniero, ma a quelli come me erano concessi alcuni privilegi, come la possibilità di non prendere parte al gioco. Riuscii a fuggire grazie ad un guasto nel sistema centrale”.
Continuo a non capire cosa stia esattamente succedendo e do per buone tutte quelle informazioni, se non altro perché il gelo lambisce i miei occhi e mi distrae dal fulcro della questione. Intanto il  viso scuro e levigato degli umanoidi continua ad essere rivolto nella nostra direzione, privo di segni vitali e immobile. Il pazzo ha smesso di blaterare, ora mormora qualcosa a bassa voce, sembrano note di disappunto, mentre il gelido spirare del vento forma concrezioni di ghiaccio sulla sua barba.
Non so quanto tempo sia passato, ma scorgo nella lontananza una sagoma nera: è il mausoleo. Ha una forma vagamente triangolare e si staglia nitida nell’orrore bianco che si estende tutto intorno a perdita d’occhio. Una volta giunti più vicini, il vecchio pazzo comincia ad emettere dei suoni con la bocca, sembrano dei rantoli strozzati dalla paura, forse ricorda cosa ha visto dentro quella follia architettonica. E’ una enorme piramide di basalto, puntellata da finissimi luci bianche, che sovrasta la radura. Al vertice risalta una immensa scritta in caratteri riecheggianti lo stile romanico: “Maelstrom”. E’ quello il principio di tutto, l’organo elettrico riunificatore e aggregatore di ogni strategia.
Il nostro veicolo si avvicina ai piedi dell’enorme complesso monolitico. E’ maestoso e da vicino lo è ancora più di ogni previsione, come se sfuggisse alle regole della prospettiva. Ci conducono ad un’entrata che ricorda un hangar, attorno a noi luci di tutti i tipi tolgono il fiato e amplificano ogni sensazione. E’ un tripudio di colori scintillanti, di variazioni tonali di verde e verde-rame, arancione-ambrato e viola-turchese, ma nell’insieme, quella deflagrazione di luci non toglie solennità al clima austero che si respira in ogni istante. Non c’è traccia di guardie o di misure di sorveglianza, ma sono certo che in quel momento io stia osservando il luogo più sicuro del mondo.
Vedo altri prigionieri scortati dagli androidi, alcuni scendono dai veicoli di trasferimento, altri sono disposti in file ordinate. È una litania di corpi sospesa nel tempo e nello spazio. Tutti sanno dove stanno, nessuno sa dove andrà. Ora tocca a noi. Ci fanno scendere e disporre schierati, percepisco il ronzio vibrante provenire dalle maschere, ma adesso quel rumore mi è familiare. Le luci sono proiettate ad una velocità spropositata e solo ora mi accorgo delle musiche elettroniche che avvolgono l'ambiente in un crescendo inquietante. È un rito in piena regola. Che quel vecchio pazzo avesse ragione? Dove ci portano? 
Attraversiamo un lungo corridoio illuminato da numerosi glifi incisi sul tetto. Non fanno altro che riprodurre la scritta Maelstrom, proiettandola sulle pareti e sulla pavimentazione cinerea. È qui che ho la prima visione agghiacciante. Superato il corridoio, si apre alla vista un’ampia sala longitudinale, percorsa in altezza da piani disposti uno sopra l’altro, in alto e in basso, e visibili grazie alla trasparenza che i materiali conferiscono a ciascuna piattaforma. Sembra di stare sospesi guardando il piano che sta sopra o quello che sta sotto. Non saprei dire quanti livelli mi sovrastano o quanti sprofondano nelle viscere più intime di quella struttura così buia. Ci sono tante persone per ogni livello, tanti uomini soggiogati, legati ad una postazione di realtà virtuale. Maelstrom è il nome del videogioco. Il vecchio aveva ragione, stanno giocando. Cerco di cogliere quanti più dettagli possibili, constato con amarezza che quello è probabilmente uno dei miei ultimi momenti di lucidità. La sala è attraversata a intervalli regolari da strati di granito scuro che separano ai lati molteplici incavi di roccia, ciascuno dotato di un sistema di simulazione. Mi giro e volgo lo sguardo verso ciò che mi sono lasciato alle spalle, ma non vedo più nessuno dei prigionieri con cui sono arrivato. Devono averci smistati. Uno del posto mi prende per il braccio e mi strattona verso uno dei display. Mi osserva attraverso il casco nero come le tenebre e senza preavviso la maschera si solleva dal suo piano di aderenza abituale. Il viso che scorgo mi lascia sgomento, è un volto femminile e capisco subito che non è umano: ha gli occhi blu e indifferenti come l’oceano. Do l’ultima occhiata intorno e capisco tutto. Le persone vengono fatte schiave e qui collegate alla postazione di realtà aumentata; è un circuito iperconnesso, grazie ad un complesso sistema di fibre che satura ogni recettore periferico e porta l’esistenza su un piano non esistente. Ogni uomo è messo nelle condizioni di gestire un androide e tutti gli androidi là presenti- persino il volto femminile che mi accompagna – sono l’estensione virtuale di un videogiocatore che ha perso i contatti con la realtà chissà quando.Uno schermo di grossa taglia riporta su video i progressi del giocatore e un supervisore - probabilmente anch'esso pilotato da un controllo remoto - gestisce e annota tutto su un piccolo dispositivo portatile. Non posso fare a meno di notare come, fra i partecipanti al videogioco, figurino anche persone anziane, uomini costretti a giocare per il resto della loro vita, cresciuti e atrofizzati nelle loro più profonde radici dal videogame. Una sterminata schiera di videogiocatori umani è controllata da un'altrettanto immensa mole di supervisori non umani. È uno spettacolo nauseante. La guerra si è spostata dal piano dellesistenza a quellodella finzione remota. Si combatte su un livello non reale, ma altrettanto intenso. Anche i nemici combattono nello stesso senso, con le stesse armi. Chi sono i nemici? Dove sono tutti? Non riesco a venirne a capo e non capisco cosa possa controllare tutto questo. Qualcuno con un alto grado nella gerarchia controlla androidi che di converso gestiscono altri umanoidi e così via, sino a raggiungere le diramazioni più periferiche del sistema.
Ho la tremenda sensazione che quella non sia l’unica roccaforte esistente. Il mausoleo è solo uno degli illimitati avamposti che compongono l’intricata rete di stazioni, basi di appoggio, banche dati, archivi e istituzioni dove si giocano le sorti del mondo emilioni di esseri vivono in uno stato semivitale di sopore indotto, dove il concetto di vita è ora più che mai prossimo a quello di autodistruzione e ogni slancio all’attività inibito e riportato allo stato di una crisalide cibernetica.
Ho gli occhi congestionati da tutto quello sfavillio, mi fanno male e la testa è come riempita da una spuma che sconquassa tutto in un maremoto. Il volto femminile si è di nuovo barricato dietro la maschera, adesso mi intima con uno strattone di accedere alla mia postazione di gioco. Io mi avvicino. La scritta Maelstrom campeggia in alto, è il portale di accesso ad un’esistenza fatta di vuoto, filtrata attraverso diodi luminosi e rielaborata nel cervello. Spero con tutto il corpo che quello è in realtà un incubo, il mio solito incubo. Libertà. Ma non mi sveglio.
   
 
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