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Autore: PerseoeAndromeda    08/07/2018    4 recensioni
Non c'era dolore mentre il suo corpo si disfaceva nel fuoco.
Shun aveva smesso di urlare dal momento in cui le sue braccia lo avevano circondato, forse perché non ci riusciva più. Si abbandonava a lui, il corpo che andava in pezzi sotto le sue mani.
“Verrò con te” sussurrò Hyoga.
Insieme…
Non l'avrebbe mai più lasciato.
[Fanfic partecipante alla challenge #26promptchallenge indetta dal gruppo facebook Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Andromeda Shun, Cygnus Hyoga
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
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Prompt 9/26: #FIAMMA

 

/fiàm·ma/
sostantivo femminile

 

1.Fonte di calore e di luce originata dalla combustione di una sostanza solida, liquida o gassosa e costituita da masse gassose incandescenti.

 

Titolo: “Bruceremo insieme”

Fandom: Saint Seiya

Rating: Giallo

Ship: leggerissima HyogaxShun (leggera perché volendo può essere letto solo come amore fraterno... non nel mio caso, ma vi lascio liberi :P)

Warnings: qualche descrizione un po' cruenta di corpi in fiamme, ma niente di che :P Prendo spunto dal manga, nel quale tutti i bronze sono fratelli e Hyoga ha ricevuto l'ordine di ucciderli.

 

 

“Bruceremo insieme”

 

 

“Shun, è pericoloso, non puoi restare lì!”.

Hyoga gridava, ma era inutile: il santo di Andromeda rimaneva immobile, a contemplare colui che aveva atteso e che adesso, negli occhi, nutriva solo odio nei confronti di quel fratellino con le braccia protese in una supplica.

Phoenix era fuoco, la sua anima era plasmata nelle fiamme dell'odio e del risentimento e in quel fuoco Shun si sarebbe consumato, perché non era in grado di allontanarsene… non voleva farlo.

“Shun… Shun...”.

Era impossibile, per Hyoga, stare a guardare, si lanciò in avanti nel momento in cui le fiamme della Fenice, ampie ali di fuoco, spiccarono il volo dal pugno teso di Ikki. Neanche in quel momento Shun riuscì a muoversi e venne avvolto dal loro abbraccio fatale.

Le orecchie di Hyoga vennero ferite dalle sue urla, una pugnalata dopo l'altra nel cuore di Cygnus.

Perché Hyoga ne soffriva così tanto? Perché il dolore di Shun entrava, in maniera tanto cocente, nelle sue viscere?

Lui stesso era lì per ucciderlo, per uccidere tutti loro, i santi di bronzo che prendevano parte alle Galaxian Wars.

Fare giustizia… massacrarli senza pietà… i suoi fratelli…

Shun… il suo Shun…

Come?

Come, se vederlo soffrire faceva vacillare a tal punto la scorza di ghiaccio che aveva eretto intorno al proprio cuore?

Si rese conto che stava correndo, si gettò nelle fiamme, sentì la sua pelle che sfrigolava e che cominciava a cedere, strato dopo strato, nelle orecchie il crepitio del fuoco, la risata crudele di Phoenix e le grida strazianti di Shun.

Raggiunse il piccolo santo in armatura rosa, ormai irriconoscibile in quel rogo che non dava scampo, lo abbracciò da dietro, lo strinse a sé e, nelle fiamme, i loro corpi che bruciavano diventavano una sola entità. Le loro carni si sarebbero fuse insieme, le loro ceneri si sarebbero mischiate, perché loro dovevano stare insieme.

Non c'era dolore mentre il suo corpo si disfaceva nel fuoco.

Shun aveva smesso di urlare dal momento in cui le sue braccia lo avevano circondato, forse perché non ci riusciva più. Si abbandonava a lui, il corpo che andava in pezzi sotto le sue mani.

“Verrò con te” sussurrò Hyoga.

Insieme…

Non l'avrebbe mai più lasciato.

 

 

Quando si svegliò, il suo corpo ancora bruciava, nonostante fosse disteso sull'erba, in una notte d'autunno.

Si era trattato di un incubo?

Tutto era sembrato così reale…

Tutto sarebbe diventato fin troppo reale, le fiamme della Fenice avrebbero cancellato Shun dal mondo, non vi era alcuna possibilità che il santo di Andromeda uscisse vivo da una situazione del genere: se non lo avesse ucciso Ikki, forse sarebbe morto di dolore.

“Ma cosa dovrebbe importarmi?” sbottò, mettendosi seduto e scostando un ciuffo biondo che gli era caduto davanti agli occhi.

Gettò indietro la testa e il suo sguardo incontrò il cielo stellato.

Da quando era giunto a Tokyo non aveva mai dormito alla villa, non avrebbe mai accettato l'ospitalità di Saori Kido, per orgoglio e per onore: dormire sotto lo stesso tetto delle persone che avrebbe dovuto giustiziare?

Non se ne parlava neanche.

Non aveva soldi per permettersi una stanza d'albergo, così il suo giaciglio era diventato il manto di terra ed erba di un parco di Shitamachi, non lontano dalla villa, ma neanche troppo vicino: aveva bisogno di pensare, di stare da solo, lontano dai suoi pari.

Si chiedeva cosa ci fosse da pensare: gli era giunto l'ordine dal Santuario, scritto di suo pugno da Camus e l'unica cosa che poteva fare era obbedire, non importava quanto gli costasse.

Non credeva neanche che gli sarebbe costato, finché non li aveva rivisti: non si era soffermato a chiedersi cosa avrebbe significato uccidere dei fratelli… uccidere Shun…

Era un sacro guerriero, il Santuario era legge, quella era la sua prima missione e doveva eseguirla, non vi erano molte altre questioni su cui soffermarsi…

Almeno aveva creduto, finché non era giunto a Tokyo.

Si alzò, ormai non sarebbe più riuscito a dormire. Nonostante tentasse di imporsi la più completa freddezza, non poteva togliersi dalla mente quel sogno, il fuoco che bruciava...

E le grida di Shun.

Quel maledetto nome...

Quel bellissimo, amatissimo nome...

Un suono dolcissimo, un viso, un cuore dolcissimi...

Il viso e il cuore del suo fratellino.

Le mani in tasca si mise a passeggiare tra gli alberi, nel silenzio della notte. La città era vicina, ma in quel punto del parco nessun suono, per il momento, giungeva a turbare la serenità della natura, una serenità che, tuttavia, non riusciva a contagiare il cuore di Hyoga.

Troppi pensieri si agitavano in lui: la missione del Santuario, Phoenix, la cloth di Sagittarius, i pezzi mancanti, i suoi fratelli... Shun...

Shun... Shun...

Strinse i denti in una smorfia.

Forse avrebbe dovuto ucciderlo prima di tutti gli altri: era lui che bloccava i suoi intenti, se si fosse liberato di lui, il resto sarebbe stato in discesa.

Sbuffò.

Quel sogno, quel maledetto sogno!

Sapeva che non avrebbe dovuto mostrarsi così sconvolto, che avrebbe dovuto pensare da guerriero e saper cogliere il vantaggio che l'arrivo e le palesi intenzioni di Phoenix gli offrivano: anche lui era tornato per uccidere i fratelli, nonostante le motivazioni differenti, nonostante non ci fosse niente di onorevole nell'alibi di Ikki, comunque avrebbe potuto facilitargli le cose. Tutto avrebbe potuto rivelarsi molto più semplice: lasciare che Ikki facesse il lavoro sporco e poi...

“Poi resteremmo lui ed io... la sfida finale...”.

Lasciare che li uccidesse, quindi?

Restare a guardare mentre Ikki compiva la propria vendetta...

Senza accorgersene era giunto all'uscita del parco e aveva cominciato a camminare per le strade: incrociò alcune persone, sussultò al passaggio di auto e biciclette, gente che, evidentemente, viveva la notte.

Lui non era abituato a una tale massa di presenze umane, non di giorno, tanto meno di notte; catapultato in un mondo di cui non conosceva nulla, gli mancava la Siberia, gli mancava Cristal sensei e anche Camus...

E Isaac che non c'era più...

E la mama, addormentata sul fondo dell'oceano.

Cosa aveva lì, in quell'universo di modernità che non gli apparteneva?

Shun...

Scosse il capo con un ringhio silenzioso: basta!

Nulla, non aveva nulla, ogni legame con i possessori del suo stesso sangue era stato reciso, anzi, non c'era mai stato, neanche quando, durante quel breve periodo trascorso a Villa Kido da bambino, passava ore a parlare con Shun di tutto, di qualunque cosa passasse nella loro mente di piccoli orfani.

E Shun non sapeva...

Hyoga ebbe una fugace visione: vide la propria mano intorno al collo di Shun, in punto di morte in seguito al suo attacco, vide la propria bocca che gli confessava tutto, che gli diceva “anche io sono tuo fratello”.

Cosa avrebbe fatto o detto, Shun, a quel punto, prima di esalare l'ultimo respiro?

Forse nulla, si sarebbe spento con un peso ed un'angoscia in più sul suo cuore delicato.

E cosa avrebbe provato lui, Hyoga?

Doveva smetterla di chiederselo, doveva smettere di immaginare se stesso che uccideva Shun: era un modo morboso per farsi coraggio, per convincersi che sarebbe stato in grado di farlo, non vi era altra spiegazione.

Il sogno... le fiamme che avvolgevano Shun... il corpo di Shun che si disfaceva tra le sue braccia...

Chinò il capo: se stava così male a ricordare il suo dolore in quel sogno, come avrebbe potuto fargli del male, lui?

Se era stato così male nel vedere Ikki che, alle Galaxian Wars, lo colpiva con quella ferocia, se le lacrime e la disperazione di Shun erano scivolate dentro di lui fino a scalfire il ghiaccio intorno al suo cuore, come poteva pensare...?

Abbassò il capo a terra, diede un calcio nel vuoto, evitò per un pelo la colluttazione con un ciclista nottambulo ed imprecò.

Era inutile tormentarsi, si sarebbe occupato Ikki di Shun e poi lui...

Se Ikki torcerà un solo capello di Shun, io...”.

Si immobilizzò nel mezzo di un marciapiede, non si accorse di aver invaso nuovamente il percorso dedicato ai ciclisti e una ragazza dovette girargli intorno rischiando di cadere. Lui non si rese conto di nulla, se non di quel maledetto pensiero che gli era giunto così naturale, così ovvio...

Maledizione, Shun, perché sei tornato?!”.

Sarebbe stato tutto così facile se non avesse trovato lui, se...

Se fosse morto durante l'addestramento...

Scosse il capo...

Non capiva più nulla di se stesso, cosa voleva, cosa desiderava, cosa si auspicava!

Riprese a camminare, i suoi passi lo portavano avanti senza scopo, eppure sembravano avere una meta.

Tale meta si palesò quando si ritrovò davanti al cancello di Villa Kido. Non era stata la sua volontà, ma l'inconscio a condurlo lì.

In realtà era la meta più logica, l'unica che conosceva a Tokyo, a parte il palazzo dei tornei e la stazione alla quale era giunto.

Se l'era detto più volte: perché aspettare di incontrare i suoi avversari al torneo quando avrebbe potuto coglierli così, durante la notte, maggiormente indifesi e stanchi per gli scontri, in questo momento provati dall'arrivo inatteso di Phoenix, dalla lotta con i suoi scagnozzi...

Alla quale lui, Hyoga, aveva partecipato, a fianco dei suoi fratelli.

Cosa avrebbe pensato Camus se lo avesse saputo?

E soprattutto, perché aveva preso quella decisione?

Per il gold cloth, ovvio, la priorità era recuperarlo.

Continuava a raccontarsi bugie, ad illudersi che stava agendo per il meglio, come il Santuario si sarebbe aspettato da lui e, invece, si sentiva un fallito, perché continuava a compiere atti al di fuori di ogni logica, andava avanti giorno per giorno, istante per istante, senza comprendere davvero i significati delle proprie azioni.

Guardò a lungo quel cancello.

Quanti suoi fratelli dormivano tra quelle mura?

Solo Shun probabilmente: Shiryu era partito per cercare il riparatore di cloth, i bronze saint sconfitti al torneo o colpiti da Ikki erano ricoverati all'ospedale della fondazione, Seiya aveva la propria casa, questo gli era stato detto.

Quindi rimaneva Shun.

Sembrava che il destino lo mettesse di fronte ad occasioni favorevoli che lui non sapeva... non voleva cogliere: Shun era solo, nessuno sarebbe potuto giungere in suo soccorso se fosse stato attaccato.

Hyoga non l'avrebbe colto di sorpresa, lo avrebbe invitato a battersi, la lealtà e l'onore prima di ogni altra cosa. Ma Shun? Come si sarebbe comportato?

Posò una mano sul cancello: sapeva che non sarebbe servito a niente spingere, di sicuro era chiuso a chiave, allora fece quello che avrebbe fatto un intruso, un aggressore: si arrampicò, silenzioso come un felino e scese dall'altra parte, atterrando sul prato senza fare alcun rumore.

Di sicuro la villa era sorvegliata, ma sembrava non esistessero più quegli assurdi sistemi utili a tenere dentro i bambini prigionieri: non vide filo spinato, non udì sirene di allarme...

Forse la nipote di Kido... di suo padre... non raggiungeva i suoi stessi livelli di follia?

Peggio per lei in questo caso: la sua imprudenza poteva costarle cara.

Si guardò intorno: quel parco e quella villa erano come una città nella città. Ne ricordava la grandezza, gli alberi abbastanza fitti da formare un bosco, il laghetto, la fontana sotto il palazzo... e ricordava il clima di prigionia che vi regnava quando loro erano bambini ed intorno a loro era stato ricreato un bunker con il solo scopo di terrorizzarli ed inibire ogni tentativo di fuga.

Ma dall'esterno sembrava tutt'altro: un luogo caritatevole dove poveri orfani venivano accolti, curati ed istruiti.

Le sue labbra si piegarono in un ghigno ironico: dove poteva giungere l'ipocrisia umana!

Rimase lì, immobile, per qualche istante, senza che nessuna risoluzione lo spingesse a proseguire o a tornare indietro: non sapeva neanche perché fosse entrato a dire il vero.

Era inutile che continuasse a ripetersi: per uccidere Shun.

Un fruscio tra i cespugli attirò la sua attenzione. Poteva trattarsi di un animale, ma gli ricordavano più i passi di un essere umano.

Si addossò contro il tronco di un albero, sporse il viso e attese, finché un'ombra si materializzò a pochi passi, una silhouette elegante che camminava, come uno spettro, nella notte, tra gli alberi. Un barlume di luce generato dalla luna si riflesse sui capelli castani e su una guancia pallida e bagnata...

Lacrime?

Era lì a due passi, poteva scorgere nitidamente i suoi lineamenti e quel piccolo sciocco, immerso nel suo mondo di sogni infranti, non si avvedeva di una presenza minacciosa a così poca distanza da lui: un qualunque nemico avrebbe potuto saltare fuori dal suo nascondiglio ed aggredirlo senza che lui facesse in tempo ad opporre la minima resistenza.

“Stupido” mormorò Cygnus, “piccolo, incosciente stupido”.

L'ultima parola la pronunciò ad alta voce, balzando fuori dal suo nascondiglio e piazzandosi davanti a Shun, la cui prima reazione fu quella di sgranare gli occhi e indietreggiare, preparandosi a qualunque cosa: almeno aveva imparato ad aspettarsi il male dalle sorprese e a non essere sempre così fiducioso. La vita aveva ferito tanto anche lui dopotutto ed era destinata a farlo ancora.

Quando lo riconobbe, l'espressione di paura svanì dal suo volto, il corpo si rilassò e sulle labbra comparve un sorriso.

“Hyoga!”.

Il santo del Cigno strinse le labbra e corrugò la fronte: si era illuso troppo presto, Shun si fidava ancora troppo, anche di chi aveva già chiaramente esposto le proprie intenzioni.

Fece un passo verso di lui, fino a far sì che i loro corpi si sfiorassero e anche a quel punto Shun non si mosse e non assunse alcun atteggiamento difensivo. Solo, vedendo l'espressione truce del suo volto, il sorriso scomparve dalle labbra del ragazzino.

“Che succede, Hyoga?”.

Il russo fremette, forse era rabbia per quell'atteggiamento così passivo, così pieno solo di abbandono nei confronti di chi non riusciva a considerare come un nemico.

Maledizione, Shun, pensò Hyoga, non sei stato già abbastanza toccato dal tradimento di Ikki?

Come poteva attaccare una creatura così sprovveduta?

“Non hai paura?”.

Shun sbatté le palpebre e reclinò il capo su una spalla: era come un bambino curioso attratto da una belva feroce senza conoscerne la pericolosità.

Lo sguardo di Hyoga venne calamitato da quel movimento, dal leggero boccolo che andò ad adagiarsi sulla spalla del ragazzino per poi sciogliersi e allungarsi come se fosse vivo. La sua mano si mosse e le dita catturarono quella ciocca fuggitiva, la lisciò un attimo tra i polpastrelli poi, come scottato da quel che aveva fatto, ritrasse la mano e fu lui a fare un balzo indietro, sul punto di fuggire.

Tutto questo senza che Shun facesse un movimento, senza che provasse a ritrarsi o mostrasse repulsione per quel gesto che avrebbe dovuto sembrare, pure a lui, incomprensibile.

“Paura?” si limitò a chiedere, con la sua voce tranquilla, resa solo un po' malferma dal pianto. Perché Hyoga li vedeva ancora i segni delle lacrime che sicuramente aveva versato fino a un attimo prima. “Di cosa?”.

Nel chiederlo, Shun fece un passo verso di lui e un solco di rabbia e incomprensione comparve tra le sopracciglia di Hyoga, una furia cieca risalì lungo le sue viscere:

“Non ti avvicinare!”.

Shun si immobilizzò, con un sussulto.

“Scusa” mormorò e chinò il capo.

Hyoga si morse le labbra: che succedeva? Cos'era quel modo di fare, come se fosse lui ad avere paura?

Forse era davvero paura...

Non di Shun naturalmente, ma di quello che accadeva alla sua determinazione quando se lo trovava davanti: tutto andava all'aria, niente aveva più senso se non quel ragazzino con gli occhi da cerbiatto, che del cerbiatto aveva anche la dolcezza.

“Mi dispiace, Hyoga... io...”.

A lui dispiaceva...

Cosa gli dispiaceva?

Nel suo territorio era piombato un potenziale nemico e a lui dispiaceva...

Strinse i pugni lungo i fianchi: sarebbe stato facile, troppo facile...

Uno di quei pugni scattò in avanti, si aprì, si richiuse sul colletto della T-shirt di Shun e lo strattonò, fino a sollevarlo da terra. Riuscì così, finalmente, a strappargli un'esclamazione che conteneva almeno un po' di timore...

O era solo sorpresa?

Shun, in punta di piedi, posò una mano sul suo polso e boccheggiò in quella presa ferrea. Hyoga si trovò a pensare quanto fosse bianca e fine quella mano, quanto grandi quegli occhi, pieni di troppe cose, un universo di domande, di paure... ma anche di sogni e speranze.

Era quello che Hyoga non capiva: cosa sognava ancora, Shun? Cosa gli restava in cui sperare?

Ucciderlo avrebbe significato fargli un favore, dopotutto, perché uno come lui non era fatto per sopportare la realtà dei sacri guerrieri, non era fatto per tutto quel dolore che gli era piovuto addosso.

Alibi, solo alibi per trovare giustificazioni che non lo convincevano affatto, perché adesso che Shun era così abbandonato in sua balia, che percepiva i tremiti che attraversavano il suo corpo in risposta al suo gesto aggressivo, che scorgeva, in quello sguardo, un'incomprensione che tuttavia non cancellava la paura, non poteva pensare di sollevare l'altra mano ed affondare in quel petto così esposto, non poteva pensare di concentrare il proprio cosmo e liberare tutto quel ghiaccio che aveva dentro per congelare la vita di Shun.

La sua mano diede uno strattone più forte, strappando un gemito al santo di Andromeda, l'altra mano si levò, si apprestò a colpire, nonostante tutto.

“Difenditi” ringhiò, “quanto meno provaci!”.

I tremiti adesso non li sentiva solo, li vide, attraversare come una serie di scosse tutta la figura sottile del fratello.

“Da... da te?”.

Che razza di domanda...

Neanche davanti all'evidenza?

Neanche davanti ad un attacco palese si rassegnava?

Le palpebre di Shun si strinsero con l'intento di arginare un'ondata di lacrime, ma ancora in quell'espressione non vi era nulla che annunciasse una reale paura, solo tanta, troppa tristezza.

“Tu non mi stai attaccando, Hyoga... non percepisco il tuo cosmo... non vi è nulla di aggressivo in te”.

Cygnus accompagnò lo sgranarsi incredulo dei propri occhi con una spinta violenta, in seguito alla quale Shun si ritrovò libero; barcollò e a stento si mantenne in piedi, ma non distolse lo sguardo dall'altro ragazzo.

Hyoga non sapeva che pensare. Shun piangeva, ma lo guardava senza timore, senza tentennamenti... e senza smettere di piangere ed aprire a lui tutto ciò che aveva dentro, ogni singolo sprazzo del suo cuore era spalancato per Hyoga, in un invito ad entrare e a guardare, fino in fondo.

Hyoga non voleva farlo, avrebbe significato venire sconfitto del tutto dall'anima incorruttibile del piccolo Andromeda.

Incorruttibile, incomprensibile, lo faceva infuriare, lo irritava, perché davanti a quell'animo nobile era lui il più debole, era lui che aveva perso in partenza.

Rimasero a fissarsi, con le loro espressioni così diverse eppure incapaci di staccarsi l'una dall'altra. Shun si era portato una mano all'altezza del cuore e Hyoga non fu stupito da quell'atto, lo trovo naturale per Shun, quasi logico.

Quanto doveva fargli male, quel cuore?

Quanto quello di Hyoga aveva fatto male un tempo forse, quanto non avrebbe più fatto male, perché lui aveva imparato a difendersi da tutta quella sofferenza, ma Shun non ne sarebbe mai stato in grado, Shun era destinato a morire, in un modo o nell'altro o a logorarsi nella sofferenza...

In quelle fiamme della fenice forse...

Se non lo uccido io... lo farà lui... e per Shun sarà tanto più doloroso”.

Fece un passo avanti, furono di nuovo vicini, troppo vicini, Shun dovette sollevare il viso per continuare a guardarlo: era cresciuto.

Ovvio, aveva... quanto? Sei anni, quando si erano separati?

Da allora ne erano passati sette, erano cresciuti entrambi, ma Shun, di fronte a lui, restava piccolo, tanto piccolo che Hyoga lo sovrastava, si sentiva un gigante di fronte a lui.

Dopotutto, erano cresciuti entrambi.

“Cosa preferisci, Shun?” cominciò a parlare, lentamente, con un tono che non riuscì a rendere aggressivo, a dispetto di quello che stava per dire “Che sia Ikki ad ucciderti...”.

Si fermò quando lo vide scosso da un brivido più forte, le labbra delicate che si schiudevano come per dire qualcosa, ma alle quali sfuggì solo un muto singhiozzo.

Ancora una volta la mano di Hyoga si mosse per posarsi, questa volta, sulla guancia del fratello, il pollice accanto a quelle labbra, a sfiorarle e lasciare una carezza.

“O preferisci che sia io?”.

C'era qualcosa di morboso in quel che stava dicendo unito al tono, all'atteggiamento: affetto e ostilità... odio e amore...

Ma quale odio? Shun non lo si poteva odiare, neanche a saperlo proprio nemico: si poteva semplicemente obbedire a un ordine e ingoiare la pena e tutto quell'amore, metterli a tacere.

“Hyoga... perché mi fai questo?”.

La mano di Cygnus scivolò via dal viso di Andromeda, che si abbassò insieme ad essa, gli occhi non erano più riusciti a trattenere il pianto e le lacrime, adesso, scorrevano copiose.

“Smettila di giocare con me in questo modo, perché io non ci capisco nulla, mi confondi, non so... non so più...”.

Si fermò, il corpo scosso dai singhiozzi e si portò le mani al volto.

Scosse il capo.

“Se sei venuto con lo scopo di uccidermi... eccomi... sono qui... ma smettila di girarci intorno...”.

Hyoga rimase immobile, impassibile all'apparenza, ma dilaniato nell'anima.

Aveva ragione, povero piccolo, prima Ikki, adesso lui che non sapeva cosa voleva, che un po' lo minacciava, un po' lo irretiva, quanto sadismo stava dimostrando?

La realtà era che non poteva agire diversamente, perché era lui stesso confuso, voleva e non voleva quello che il Santuario aveva ordinato, si imponeva di obbedire e faceva di tutto per rimandare il momento.

Afferrò i polsi del ragazzino e lo costrinse ad abbassarli; Shun si dibatté, ma senza troppa convinzione, mentre gli occhi continuarono a fuggire verso terra. Ogni residuo di lucidità lo stava abbandonando, era palese, aveva retto fin troppo, era stato fin troppo forte, Hyoga non poteva più negare quella forza.

Sono io ad essere un debole e un vigliacco” si disse.

Lo strattonò, strappandogli un lamento.

“Ti batteresti con me, santo di Andromeda, se adesso ti attaccassi?”.

Il viso di Shun si sollevò di scatto e di nuovo quegli occhi lo trafissero fino in fondo all'anima, i capelli lunghi ricadevano, scarmigliati, sui lineamenti stravolti: in quel momento era talmente bello da fare male.

“Hyoga...”.

Il suo nome uscì in un leggero squittio, un piccolo gemito di agonia.

Hyoga scosse il capo, emise un suono di disappunto e lo lasciò libero, senza rabbia questa volta, anzi, fu quasi gentile.

“Scusami, non ho il diritto di fare così, lo so...”.

Gli diede le spalle e mosse i primi passi, ma la voce di Shun lo richiamò, sconvolta:

“Hyoga, dove vai?!”.

Si fermò, un piede davanti all'altro, pronto a riprendere subito il cammino:

“Rimandiamo le ostilità per il momento...”.

Ancora una volta...

Quante volte ormai? Tre? Quattro?

Un altro passo e, l'istante successivo, altri passi dietro ai suoi, veloci, poi due braccia che lo avvolsero, da dietro.

Si irrigidì nel momento in cui sentì il viso di Shun appoggiato alla propria schiena e la sua voce, non più quella acuta del bambino, ma melodia vellutata di un adolescente gentile, gli lambì le orecchie:

“Resta qui...”.

Si voltò come una furia e Shun si spostò appena in tempo per non venire travolto, ma non smise di guardarlo con la supplica nello sguardo.

“Dannazione, Shun, cosa ti salta in mente? Hai capito cosa voglio?!”.

L'espressione di Shun cambiò in un modo che sconvolse Hyoga: si fece ferma, volitiva... testarda.

“Tu vuoi... capire cosa è giusto fare... sei confuso, come me, come tutti noi... lo so...”.

“Sono tuo nemico, Shun!”.

Shun scosse il capo.

“No che non lo sei... non sei mio nemico, non lo sei degli altri... continui a dirlo, ma non ti sei ancora comportato come un nemico”.

“Ho fatto quello che mi conveniva... ogni momento...”.

Perché gli rispondeva con tutta quell'incertezza? Perché all'improvviso era lui a parlare con il tono di un bambino smarrito?

Shun si avvicinò, adesso era lui a sfiorare volontariamente il suo corpo ed era ancora piccolo, eppure questa volta fu Hyoga a sentirsi sovrastato da quel viso che era volontà pura.

“Hyoga... se vuoi batterti... se è davvero quello che vuoi... io...”.

“Piantala!”.

Al suo grido rispose il silenzio e Hyoga fu improvvisamente consapevole del rischio di aver attirato l'attenzione di qualcuno, ma in quel momento poco importava.

“Piantala” ripeté, questa volta in un soffio.

“Perdonami” rispose Shun, con lo stesso tono e gli occhi che di nuovo fuggivano.

“Shun... smettiamola... per questa notte smettiamola... per questa notte limitiamoci ad essere...”.

Ammutolì.

Stava per dirlo: “Fratelli...”.

E una volta detto, tutto sarebbe definitivamente crollato.

Shun tornò a guardarlo:

“Quelli di un tempo?” completò al suo posto, in una domanda che era anche una preghiera, un desiderio, un sogno che Hyoga sapeva irrealizzabile.

Scosse il capo:

“Lo sai che non è possibile”.

“Se solo lo volessimo...”.

“Shun...”.

Stava per aggredirlo di nuovo a parole: sapeva, Shun, cos'erano diventati? Sapeva cosa volesse dire essere un guerriero di Athena?

Sapeva cosa volesse dire...

Certo che lo sapeva, non sarebbe stato lì, davanti a lui, altrimenti, sarebbe scomparso molti anni prima.

Eppure era lì, aveva un cloth e lo sapeva usare maledettamente bene...

E sapeva anche mostrarsi sicuro nella lotta...

Eppure...

Quelle fiamme...

Le fiamme di Phoenix che lo avvolgevano, il suo corpo che bruciava...

Non erano solo le fiamme della fenice, era tutta la sofferenza che quel ragazzino avrebbe dovuto sopportare se fosse rimasto in vita, era quella fiamma sempre accesa nel suo cuore che, lentamente, si sarebbe ridotto in cenere, perché non era abbastanza duro per costruire intorno a sé una scorza, come Hyoga e tanti altri guerrieri avevano fatto.

Quel cuore non sarebbe mai cambiato come erano cambiati tutti loro, ma sarebbe stato arso da tutto quel dolore, fino a sciogliersi e a spegnersi in un mucchio di cenere... e avrebbe smesso di battere per sempre.

Hyoga non riusciva a scorgere nessun'altra via d'uscita per Shun.

“Vorrei tanto poterti salvare” mormorò e Shun ebbe di nuovo quell'espressione curiosa, un po' infantile, la testa reclinata su un lato.

Hyoga scosse il capo, rassegnato alla propria impotenza.

Prese la propria decisione, che il sogno stesso gli aveva suggerito:

Se Shun sarà destinato a venire ucciso dalle fiamme di Phoenix, io brucerò insieme a lui”.

 

   
 
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