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Autore: Ghostclimber    14/07/2018    2 recensioni
Sakuragi Hanamichi è cresciuto, ma non è diventato il genio del basket come desiderava.
Si trascina giorno per giorno, un uomo apparentemente di successo ma che non riesce ad accontentarsi.
Ma una luce rischiarerà le ombre della quotidianità.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I've walked too long in this lonely lane,
I've had enough of this same old game.
I'm a man of the world and they say that I'm strong,
but my heart is heavy and my hope is gone.
Queen - Mother Love

(Ho camminato troppo a lungo su questa strada solitaria,
ne ho avuto abbastanza del solito vecchio gioco.
Sono un uomo di mondo, e dicono che io sia forte,
ma il mio cuore è pesante e la mia speranza è morta.)



Sakuragi Hanamichi era uno dei migliori allenatori di basket del Giappone.

Aveva portato la squadra dello Shohoku nell'Olimpo che fino ad allora era appartenuto solo al Kainan, accompagnando i ragazzi per cinque volte consecutive al campionato nazionale, che l'anno precedente avevano addirittura vinto.

Sakuragi Hanamichi era il miglior barbiere di Kanagawa.

Le persone arrivavano da tutta la prefettura, e anche da fuori, per farsi tagliare e acconciare i capelli da lui; si era occupato del taglio dei capelli di grandi imprenditori, importanti star del cinema e della musica e di semplici fashion addicts.

Sakuragi Hanamichi era un giovane uomo molto solo.

 

Dopo il diploma, i suoi compagni di squadra si erano iscritti a varie università prestigiose, Rukawa era addirittura volato in America per iscriversi alla Vanderbilt con una borsa di studio per il basket, ma lui non aveva potuto proseguire gli studi: l'università costava troppo, e lui era uno studente troppo mediocre per aspirare ad avere qualche incentivo. I contatti con i vecchi compagni si erano rapidamente diradati, fino a cessare quasi del tutto.

I suoi amici, invece, avevano cominciato a lavorare, e i loro orari erano così male arrangiati che riuscivano a vedersi solo per le feste comandate, e ormai sembrava quasi un obbligo più che un piacere a lungo atteso.

Hanamichi, che non aveva alcun tipo di esperienza lavorativa, per un paio d'anni si era arrabattato qui e là, con contratti da stagionale che rasentavano lo schiavismo, fin quando non era passato per caso davanti alla bottega di barbiere dove aveva lavorato suo padre e aveva visto il cartello “Cercasi apprendista”. Aprendo la porta, era stato accolto dal tintinnio di un campanello che l'aveva riportato di peso alla propria infanzia, quando dopo la scuola andava a trovare il papà al lavoro, e i suoi colleghi lo intrattenevano, acconciandogli i capelli nelle più assurde pettinature e facendogli fare piccole commissioni, come spazzare il pavimento o andare a comprare del caffè.

Il signor Tadashi, il vecchio capo di suo padre, si girò per accogliere il nuovo arrivato con il suo solito “Buongiorno”, ma la parola gli si era mozzata in gola.

-Ha... Hanamichi?

-Buongiorno, signor Tadashi.

-Santo cielo, figliolo, guardati! Quanto sei cresciuto! E quanto somigli al tuo caro papà, per un attimo mi è sembrato di vedere un fantasma! Che bello rivederti, ragazzo mio!

-Signor Tadashi, io... ho visto il cartello qui fuori e... insomma, sto cercando lavoro e...- Hanamichi si rendeva conto di non essere in grado di presentarsi in maniera decente. Con quella sua aria da teppista, e la tendenza a borbottare quando si sentiva in imbarazzo, si era giocato una lunghissima serie di colloqui per posti promettenti.

-Ma certo, caro, come vedi siamo davvero impegnati! Abbiamo proprio bisogno di un paio di braccia in più. Dimmi, hai mai tagliato i capelli a qualcuno?- chiese, mentre con gesti esperti riprendeva a radere le guance di un cliente.

-Beh, ecco... tagliavo sempre i capelli a papà, e anche alla mamma... e i miei, li taglio da solo.- Tadashi si fermò e lo osservò con uno sguardo curioso.

-Davvero? Beh, vale la pena di farti provare. Comincerai con piccole cose, piano piano imparerai. Purtroppo la paga non è altissima, ma se diventi bravo potremo riparlarne. Comincia col dare una passata a questo pavimento, ti ricordi come si fa, vero?- Hanamichi aveva sorriso e aveva subito impugnato una scopa: aveva fatto lavori ben peggiori.

Quello era stato il momento in cui tutto era cambiato.

Il posto di apprendista si era trasformato ben presto in un posto fisso, e arrivavano persone da tutta la prefettura per farsi tagliare i capelli da quel ragazzone che sembrava un dio greco; ben presto, si era diffusa la voce che un vero genio dell'hair-style era all'opera, in quella piccola bottega di Kanagawa. Anche i suoi vecchi amici erano andati da lui, e dopo due anni Youhei ancora sosteneva che era solo grazie al taglio di capelli avuto quella volta che aveva conquistato la ragazza che ora stava per diventare sua moglie. Uno stranissimo giorno, addirittura Shinichi Maki era entrato per farsi tagliare i capelli, e quella forse era stata la svolta; Maki aveva lasciato campo libero ad Hanamichi, chiedendogli solo un taglio di capelli accattivante che lo facesse sembrare più giovane per un photoset a cui avrebbe partecipato l'indomani. Sotto pressione, Hanamichi aveva consultato un grosso volume con le ultime acconciature alla moda e aveva optato per un taglio corto e disordinato ad arte, senza basette, di cui Maki era stato entusiasta: pochi giorni dopo, Hanamichi era stato contattato da un importante fotografo di moda, e da lì aveva cominciato a guadagnare fior di quattrini, fino a ritrovarsi sulla copertina di Privilege Coiffeur, una rinomata rivista del settore.

Non aveva tuttavia lasciato il posto alla bottega di Takeshi, perché quello era l'unico luogo in cui si sentiva a casa: i vecchi colleghi di suo padre lo ammiravano, ma soprattutto si ricordavano di lui ancora come il piccolo Hana-chan, il portatore di caffè più veloce del mondo, e lo facevano sentire coccolato e amato; una sensazione a lungo anelata da quel grosso ragazzone.

Il posto di allenatore dello Shohoku era anch'esso entrato dalla porta della bottega, con il solito, amabile tintinnio della campanella. Il signor Anzai, ormai parecchio in là con gli anni, era venuto a farsi tagliare i capelli dalla sua arma segreta, e chiacchierando gli aveva confidato di avere in squadra un paio di ragazzi difficili; come se niente fosse, gli aveva chiesto se poteva trovare un pomeriggio o due per andare allo Shohoku e aiutarlo nell'arduo compito di domare quei talenti in erba. Hanamichi aveva accettato con gioia, e pochi mesi dopo, quando Anzai si era ritirato per godersi finalmente la pensione, aveva preso il suo posto.

La sua vita era così composta: al mattino, sveglia presto e colazione massiccia prima di recarsi alla bottega, ormai celebre, per tagliare e acconciare capelli; al pomeriggio, un panino al volo in metropolitana e lunghi, estenuanti allenamenti di basket. Spesso restava in palestra, dopo che i ragazzi se n'erano andati, a tirare a canestro in memoria dei vecchi tempi, quando tutto era più facile, quando ancora poteva raccontarsi che sarebbe diventato il migliore.

Ricordava ancora il bimbo esuberante che era stato, con un obiettivo diverso per ogni giorno: voleva diventare un collezionista di farfalle, poi un regista da premio oscar, poi avrebbe arrampicato montagne, poi sarebbe diventato un campione di basket...

E ora, eccolo qui: infilando un canestro da tra punti degno del suo vecchio rivale Rukawa, rifletté che non doveva più decidere che cosa avrebbe fatto da grande, perché era già grande. Era scivolato nell'età adulta in maniera così dolce e impercettibile che se n'era reso conto solo a cose fatte.

Pensò ai suoi vecchi amici.

Youhei era un uomo in carriera, che presto si sarebbe sposato.

Takamiya, Noma e Ohkusu avevano aperto un chiosco sulla spiaggia, facevano affari d'oro e spesso riuscivano a portarsi a casa qualche bella ragazza.

Akagi era entrato nella nazionale di basket giapponese.

Kogure era diventato un fisico teorico di notevole importanza, e aveva addirittura partecipato a dei convegni in America assieme a Stephen Hawkins.

Mitsui era diventato un meccanico di quelli in stile “Pimp My Ride”, e i bikers arrivavano da tutto il Giappone per fargli customizzare le proprie moto.

Miyagi aveva sposato Ayako, e ora vivevano in una villetta in periferia. Ayako aspettava il loro secondo figlio.

Haruko... beh, Haruko aveva seguito Rukawa in America. Inizialmente restio alla sua presenza, per un po' Rukawa l'aveva ignorata, ma di recente erano stati paparazzati insieme e sembrava avessero una storia. La foto di loro due abbracciati fuori da un pub, vecchia ormai di sei mesi, ancora tormentava Hanamichi: lei con la solita aria da studentessa innocente, e lui sempre il solito bello e dannato, stretti l'uno all'altra come se non esistesse nient'altro al mondo.

La cosa che più aveva scioccato Hanamichi, però, era stato accorgersi che sempre più spesso il suo sguardo vagava sui lineamenti del suo antico rivale, invece che su quelli di Haruko. Era bello, molto bello. L'età adulta aveva indurito il suo viso efebico, rendendolo un po' più mascolino senza per questo cancellare l'eleganza ellenica che caratterizzava i suoi tratti. E i suoi occhi... Kami, quegli occhi, così blu che anche nella foto sfocata e sgranata sembravano fosse oceaniche che per qualche incantesimo fossero state incastonate nel viso più attraente che mai sia esistito, al solo scopo di attirare un ammiratore disattento fino a catturarlo e soffocarlo. Si era lasciato crescere i capelli, che nella foto portava raccolti in una coda bassa, e senza la frangetta a coprirgli la fronte si notava l'attaccatura a cuore; non gli donavano particolarmente, sembravano quasi una parrucca da metallaro glam degli anni Ottanta, ma neanche questo offuscava la sua indiscutibile avvenenza. Hanamichi aveva evitato per anni di sollevare l'argomento Rukawa, perché non era mai riuscito a superarlo in bravura, questione che, una volta archiviata la cotta per Haruko, era diventato il carburante prioritario del suo astio verso il compagno di squadra. Durante il loro ultimo anno avevano imparato finalmente a collaborare, e sapere che se ne sarebbe andato alla Vanderbilt aveva amareggiato Hanamichi; si sentiva in qualche modo tradito, anche se a livello razionale si rendeva conto che Rukawa non gli doveva niente.

Aveva evitato di comprare qualunque rivista in cui avrebbe potuto trovare il suo nome, anche scritto in piccolo sotto ad una foto di gruppo, ma quel particolare giornale gli era stato recapitato a casa da Mika Ninagawa, una famosa fotografa di moda con cui Hanamichi aveva collaborato come hair-stylist per un photoset. Il suo nome e cognome figurava sotto la fotografia di un modello di cui aveva curato l'acconciatura, e la fotografa aveva pensato che gli avrebbe fatto piacere averla.

 

Hanamichi chiuse a chiave la palestra e si diresse alla stazione.

Sentendo il mondo chiudersi attorno a sé come uno strato di melassa, combattendo contro l'idea che sarebbe rimasto solo per il resto della vita, rimase seduto sulla panchina, evitato dai pendolari che probabilmente lo consideravano un ubriacone, forse persino pericoloso, a guardare i treni che passavano e a fumare una sigaretta dopo l'altra.

Un treno si accostò alla banchina, e una folla scese, invadendo la stazione, circondando Hanamichi con la loro trafelata freddezza, lasciandolo solo come una nuvola in un giorno sereno a meditare su quanto stupido sia, da bambini, non vedere l'ora di crescere: era come aspettarsi un regalo magnifico per Natale e poi trovare una brutta sciarpa. Utile, certo, ma non quello che si era desiderato, neanche lontanamente.

Hanamichi sospirò, fermo a guardare il treno che lasciava la stazione, un treno che non avrebbe mai preso, troppo spaventato all'idea di uscire nel “mondo vero”, quello abitato da gente come Paul Mitchell o Franck Provost, dove lui sarebbe stato sempre il numero due. O neanche quello.

Di colpo, lo investì una potente nostalgia per suo padre, che lo colpì come un'onda anomala di amarezza e rimpianto che lo incatenò sul posto, precludendogli ogni possibilità di alzarsi dalla fredda panchina di metallo, lasciandolo solo a combattere contro le ondate di caldo cordoglio che gli percorrevano le vene.

 

Dormì male, quella notte, i suoi sogni tormentati da visioni irrazionali di cui al mattino non serbava che un ricordo confuso.

Si guardò allo specchio, dopo aver lavato i denti, e la sua immagine trasandata lo fissò di rimando con uno sguardo spaurito e deluso che lo invecchiava, disegnandogli solchi di amarezza sulla fronte e ai lati della bocca.

Rifletté che essere un sognatore era la sua unica rovina: chiunque altro, al suo posto, sarebbe stato orgoglioso di essere un hair-stylist di pregio, di collaborare con grandi fotografi e importanti riviste, ma non lui. Innanzitutto, non voleva essere un hair-stylist, bensì un campione di basket; e inoltre, neanche come parrucchiere era il numero uno, se non in quella piccola bottega di periferia. Arrabbiato per la propria mancanza di senso pratico, sferrò un pugno allo specchio, frantumandolo.

Si acconciò i capelli nel solito tirabaci che tanto piaceva ai clienti, senza bisogno di cercare un altro specchio perché ormai i movimenti erano così familiari che poteva farne a meno. Guardò il tavolo apparecchiato per la colazione e rinunciò, lo stomaco chiuso; la vista di una sola tazza, di un solo piatto, di un solo bicchiere sembrava una sineddoche di quanto fosse scialba e solitaria la sua vita.

E fu allora che Hanamichi si concesse di piangere. Pianse per i suoi amici di un tempo, così vicini eppure così lontani, pianse per i suoi sogni di gloria, soffocati giorno per giorno dal cappio sempre più stretto della quotidianità. Pianse per se stesso, nient'altro che un orfano, figlio di un barbiere, che mai avrebbe arrampicato montagne, mai avrebbe visitato tutte le isole del mondo, mai sarebbe diventato un regista, o un collezionista di farfalle, o un campione di basket.

 

-Hanamichi, sei in ritardo! Stai bene? Cominciavo a preoccuparmi!- così lo accolse il signor Takeshi alle nove e ventitrè, -Santo cielo, che faccia... di là c'è un cliente che chiede di te, preferisci che gli dica di tornare domani?

-Chiedo scusa, signor Takeshi, non ho dormito bene... ma ce la faccio, non si preoccupi. Mi scusi per il ritardo, non ho sentito la sveglia.

-Nh... Do'aho.- una voce ben nota, un po' più roca di com'era stata, penetrò tra le nebbie della cupezza di Hanamichi, che si voltò.

Sul divanetto, faceva bella mostra di sé Rukawa Kaede. Un paio di pantaloni neri gli fasciavano le gambe muscolose, lunghe e accavallate in una posa sicuramente casuale ma che non poteva che risultare sensuale. Una t-shirt stretta ma non aderente, bianca come la sua pelle lattea, gli fasciava il torace muscoloso. Hanamichi sentì qualcosa torcersi dietro alle proprie costole.

-Ru... Rukawa?

-Posso avere quel taglio di capelli che ho chiesto?

-Ah... certo.- con gesti esitanti, Hanamichi lo fece accomodare davanti al lavabo e lo guardò sciogliersi la coda mentre apriva il doccino e controllava la temperatura dell'acqua. Lasciando che l'esperienza guidasse le mani, gli lavò i capelli, guardando le palpebre chiuse che nascondevano misericordiose quegli occhi di oceano, massaggiò il suo cuoio capelluto e pettinò il balsamo lungo le ciocche corvine. Gli parve di vedere l'espressione di Rukawa rilassarsi un istante dopo l'altro; imbarazzato dal silenzio, disse: -Ehi, volpaccia, non ti starai mica addormentando, eh?

-Nh?- ribatté Rukawa, aprendo un occhio, -Sono sveglio.

-Bene, perché qui ho finito, vatti a sedere laggiù.- gli indicò una poltroncina di fronte ad uno specchio, dove Rukawa si accomodò. Hanamichi, con gesto plateale, lo coprì con un grembiule che recava il logo Schwarzkopf. -Allora,- chiese, -Come li vuoi?

-Fai tu, mi fido.- Hanamichi lasciò fare alle proprie mani. Concentrato sul lavoro, non si accorse dello sguardo di Rukawa, che lo seguiva attento dallo specchio; con un sonoro “E... voilà!” annunciò di aver finito. Gli aveva tagliato i capelli in un caschetto più lungo e sfilato di quello che aveva al liceo, con la frangia che si apriva morbida a mostrare un lato della fronte. -Così farai svenire Haruko, entra con delicatezza nelle stanze e annunciati, se no fai vittime.

-Siamo solo amici.- ribatté Rukawa, sistemando di qualche millimetro alcune ciocche. -Bel taglio, complimenti.- Hanamichi rimpianse di aver finito così in fretta. Avrebbe voluto trattenerlo ancora, parlargli, chiedergli come mai era tornato, confessargli di essere stato tormentato dal pensiero di lui... no, questo no, mai. Lo guardò pagare Takeshi e uscire dal negozio; la campanella tintinnò, a lutto stavolta: Hanamichi aveva perso un'altra occasione. Fuori dalla porta a vetri, Rukawa si voltò verso il negozio e sollevò una mano in un cenno di saluto prima di incamminarsi verso chissà quale destinazione.

 

-Hanamichi,- lo chiamò Takeshi, distraendolo dal pensiero un po' perverso di conservare una ciocca di quei capelli corvini che erano rimasti sul pavimento, -Il tuo amico ha lasciato questo per te.- Hanamichi si sentì sprofondare, umiliato, di colpo convinto che si trattasse di una mancia, ma alzando gli occhi vide che Takeshi gli stava porgendo un biglietto da visita su cui spiccava il nome di Rukawa seguito da un numero di telefono. Hanamichi lo girò, e trovò una scritta ordinata: “Edosei. Stasera alle otto. Ci sarai?” Edosei era un ristorante molto elegante della prefettura. Hanamichi rimase congelato a leggere e rileggere quell'inaspettato e inequivocabile invito, e ci pensò per tutta la mattina, mentre solo la pratica e l'esperienza gli concedevano di tagliare capelli, ridere, scherzare e fingere di flirtare con i clienti. Sul treno che lo portava allo Shohoku, comprese che non poteva declinare l'invito. Estrasse il cellulare, cercando di non farlo cadere, arrabattandosi per tirarlo fuori dalla tasca sinistra con la mano destra perché l'altra era occupata da un panino; si sedette, appoggiò il telefono sulla coscia ed estrasse anche il biglietto da visita di Rukawa dal taschino della polo. Riuscì in qualche modo a memorizzare il suo numero e a inviare un semplice: “Ci sarò. A dopo.”.

 

L'orologio della palestra era sicuramente rotto: non c'era altra spiegazione per giustificare la lentezza con cui si muovevano le lancette. Interruppe l'allenamento alle sei e mezza, adducendo come scusa l'importanza di riposare in vista della partita che avrebbero disputato di lì a qualche giorno, e sotto gli occhi stupiti dei ragazzi della squadra corse verso la stazione e si fiondò sul treno che l'avrebbe riportato a casa.

Dopo una doccia, una rasata e una tormentosa indecisione di fronte all'acqua di colonia, selezionò una camicia bianca e dei pantaloni color mattone, sperando di essere abbastanza elegante. Cercò su internet il numero dell'Edosei, chiese se era d'obbligo la cravatta e sospirò di sollievo quando gli risposero che no, non era necessaria.

Arrivò in anticipo imbarazzante e rimase sul marciapiede di fronte al ristorante ad aspettare Rukawa, nascosto in un cono d'ombra tra due lampioni; per ingannare l'attesa, si accese una sigaretta e assaporò ogni boccata. Alle otto meno un quarto, una macchina nera si accostò all'entrata del ristorante e ne uscì una figura alta e magra, che si chinò poi per dire qualche parola all'autista; come sempre, Rukawa aveva il potere di far sentire Hanamichi piccolo, insignificante e meschino. Quella vista gli fece perdere il coraggio di attraversare la strada. Rimase lì, nel suo angolo scuro, a guardare Rukawa sul marciapiede che camminava avanti e indietro. Lo vide controllare l'orologio due volte, prendere in mano il cellulare e muovere le dita sulla tastiera per poi esitare e rimetterlo via; lo vide estrarre un pacchetto di sigarette dalla tasca e metterne una tra le labbra, per poi cercare invano l'accendino. -Cazzo.- gli sentì dire, anche dal marciapiede opposto. C'era un tremito, nella sua voce, che lo attrasse come un magnete. Uscì dall'ombra, guardò a destra e sinistra e s'infilò in bocca un'altra sigaretta; avvicinandosi, l'accese, poi accostò la fiamma alla sigaretta di Rukawa, che sussultò. Lo riconobbe e si chinò per avvicinarsi all'accendino, senza una parola.

-Non dovresti fumare, ti riduce la resistenza.- gli disse, rimettendosi l'accendino in tasca.

-Detto da uno che ha la sigaretta in bocca, è proprio convincente.

-Io sono un parrucchiere, devo resistere solo ai pettegolezzi di cui non mi frega un accidente.- Uno sbuffo di fumo uscì dalla bocca e dal naso di Rukawa.

-Ehi, Kitsune! Era una risata, quella?

-Cazzo, quanto mi sei mancato.- Hanamichi trasecolò, incredulo. Non riusciva a convincersi che quelle parole fossero uscite dalla bocca di Rukawa Kaede, Matricola d'Oro, Best Rookie alla Vanderbilt, MPV per tre anni di seguito nel campionato universitario statunitense, tutte nozioni apprese da quell'indesiderato articolo di giornale.

-Entriamo?- propose Rukawa, gettando la sigaretta fumata a metà in una canaletta di scolo. Hanamichi annuì. Rukawa si diresse dal maître di sala con passo sicuro e si annunciò.

-Tavolo per due, esatto?- chiese il maître.

-Esatto.- con gesto cerimonioso, l'omino in giacca inamidata li condusse verso un tavolo d'angolo e li fece accomodare; si accomiatò con garbo, lasciando i menu sul tavolo e un silenzio imbarazzante. Ordinarono, e nell'attesa che arrivassero i piatti si scambiarono qualche convenevole di circostanza; Hanamichi giocherellava con il proprio calice di vino, e Rukawa continuava a tirare un filo della tovaglia. Di fronte al dolce, un Baked Alaska di fronte al quale nessuno dei due aveva potuto tirarsi indietro, Hanamichi finalmente si fece coraggio e chiese: -Come mai sei tornato?- Rukawa rimase in silenzio per un po', facendogli sospettare di aver toccato un argomento scomodo. I suoi occhi blu saettarono verso quelli di Hanamichi, poi fuggirono; il suo cucchiaino raccolse un po' di gelato, ma si fermò a metà strada verso la sua bocca. -Sono tornato per te.- disse, con un sorriso sghembo, prima di infilarsi in bocca il gelato.

-Cosa? Per me?

-Sì, ecco, io... cazzo.- Rukawa posò il cucchiaino e si pulì le labbra col tovagliolo. Hanamichi lo prese per i polsi e lo fissò negli occhi; quando il suo sguardo venne infine ricambiato, abbassò le mani e disse: -Ti prego, spiegami. È importante.

-Io...- Rukawa sospirò, riportando Hanamichi indietro di parecchi anni: ricordava la sua abitudine di soffiare come un gatto quando veniva costretto a fare un discorso più lungo di due parole. Non poté impedirsi di sorridere, e questo sembrò incoraggiare Rukawa, che proseguì: -Quando me ne sono andato credevo di voler diventare il numero uno del mondo e nient'altro. Gli anni alla Vanderbilt mi hanno portato molto in alto, non so se hai letto qualcosa...

-Solo qualcosina.- ammise Hanamichi.

-Beh, ecco, tre anni fa, quando ho cominciato a giocare con i Bulls, mi sono reso conto che è inutile diventare il numero uno se non hai nessuno con cui condividere la gioia. Qui entra in scena Haruko. Mi ha sempre seguito, non la sopportavo, era peggio di una stalker... ma sapeva di casa. Così ho cominciato a parlare di più con lei, le chiedevo informazioni sui ragazzi della squadra... mi sono...- Rukawa, che fino a quel momento si era guardato attorno, posò gli occhi su Hanamichi: -Cazzo, non puoi dire qualcosa? Sempre a rendere le cose più difficili, tu!

-Ah, ti assicuro che mi sto godendo la sensazione di vedere il grande Rukawa in imbarazzo!

-Sei uno stronzo.

-Eri rimasto che chiedevi ad Haruko informazioni sui ragazzi della squadra.- Rukawa gli lanciò un'occhiataccia.

-Mi sono accorto che non me ne fregava un accidente di Mitsui e delle sue moto, delle teorie incomprensibili di Kogure, di Akagi o di Miyagi che finalmente ha accalappiato Ayako. Volevo sapere di te, ma Haruko ha detto che avevi cambiato numero di telefono e non ha saputo dirmi niente, se non che facevi il parrucchiere.

-Hair-stylist, s'il-vous-plait.

-Pardon, hair-stylist.- ribatté Rukawa, alzando gli occhi al cielo. Hanamichi rise piano.

-Comunque, l'America non fa per me. Troppi vizi, troppa sregolatezza, troppa maleducazione... non si riesce a fare neanche una cena tranquilla senza che ci sia una scenata da qualche parte nel locale.

-E quindi, in cerca della tranquillità sei tornato a cercare me? Forse non ti ricordi molto bene come sono fatto, signor Best Rookie.

-Mi ricordo. Sei chiassoso, polemico, arrogante...

-Guarda che se continui ad insultarmi, il conto lo paghi tu, eh!

-Sei l'unico che mi abbia mai fatto sentire a casa.

-Come? In che senso?

-Non lo so. Ma stare in tua compagnia è diverso.

-Rukawa... io...

-Lo so, è strano, magari ti fa anche schifo, ma non sono venuto fino a qui per andarmene senza dirti nulla. Ho bisogno che tu lo sappia, anche se...- Rukawa prese un grosso respiro: -Hanamichi, io ti amo.

-Oh, cazzo.- sbottò Hanamichi, prima di poter fermare le parole.

-Scusa. Non volevo rovinarti la giornata.- disse Rukawa, alzandosi. Le sue gambe urtarono il tavolo, facendo ondeggiare il vino nei calici semivuoti. Hanamichi si alzò a sua volta e lo prese di nuovo per i polsi.

-Dove vai?

-Ho bisogno di una sigaretta.

-Anch'io. Ma può aspettare. Siediti, Kitsune.- Rukawa esitava, e ormai gli occhi di tutti gli avventori erano rivolti a loro. -Vedo che ti sei portato più di una brutta abitudine, dall'America. Siediti, ci stanno guardando tutti.- Rukawa eseguì.

-Signori, va tutto bene?- chiese il maître, accorrendo sollecito.

-Tutto bene, una piccola divergenza tra noi.- rispose Hanamichi. La sua mano sinistra non aveva lasciato la destra di Rukawa. Una ragazza si avvicinò al tavolo e disse timidamente: -Scusatemi... lei... lei non è per caso il famoso Sakuragi Hanamichi?

-Io? Ah, sì, sono io!- rispose lui, imbarazzato. Scoccò uno sguardo incredulo a Rukawa, che si coprì la bocca con il dorso della mano libera per nascondere un ghigno.

-Ecco, io... l'ho vista sul giornale, sa, su Vivi, e mi chiedevo... mi chiedevo se...- arrossì.

-Benvenuto nel mio mondo.- bofonchiò Rukawa.

-Cara, quando vuoi puoi passare a farti fare un taglio di capelli. Ma per tutto il resto, come vedi sono già impegnato.- disse Hanamichi. La ragazza si allontanò.

-L'hai detto solo per mandarla via, immagino.- disse Rukawa.

-Sì... e no.- rispose Hanamichi, sibillino. Di fronte allo sguardo interrogativo di Rukawa, dovette spiegare: -Mi cogli un po' alla sprovvista. Giusto ieri pensavo che sarei morto solo come un cane, e adesso spunti fuori tu a dire che mi ami. Ru... Kaede, ho evitato le notizie su di te per anni, perché mi facevano male. Ancora una volta, tu eri il migliore, e io solo un mediocre barbiere di periferia.

-Hair-stylist.- lo corresse Rukawa incoerentemente.

-Sempre uno che taglia i capelli.

-Sei nella lista tra i dieci più influenti hair-stylist del Giappone. E sei il miglior allenatore di basket dell'intero paese.

-Non avevi detto che non sapevi nulla?

-Fin quando non ho trovato il tuo nome su People. Poi mi sono informato.

-Io non ho osato. Mi faceva male vederti con Haruko.- ammise Hanamichi, sapendo che la rivista su cui si erano rincontrati era la stessa per entrambi.

-Sei ancora innamorato di lei?

-No. Ma non so nemmeno se sono innamorato di te. Per me è sempre stato fuori discussione, capisci? Non ho mai preso in considerazione l'idea.

-Capisco.- rispose Rukawa, abbattuto.

-So solo che da quando ho visto quella foto non riesco a smettere di pensare a te, ma non so questo cosa vuol dire. Avrò bisogno di tempo. Quanto tempo puoi darmi?- Rukawa alzò di nuovo gli occhi; Hanamichi gli sorrideva con dolcezza, e le sue dita tessevano garbugli sul dorso della sua mano.

-Tutto il tempo che vuoi.

-Quando torni in America?

-Non torno. Sono a casa, adesso.

   
 
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