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Autore: Kara    16/07/2018    10 recensioni
Come cazzo gli era venuta in mente, lo sapeva solo Kamisama. Eppure lì per lì gli era sembrata l'idea del secolo, il gesto eclatante che non ci si sarebbe aspettati da lui.
Sì, come no!
A quanto pare, invece, l'idea del secolo si era rivelata la cagata del secolo, roba che neppure un Ryo Ishizaki al massimo della forma sarebbe riuscito a fare la sua stessa figura di merda.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hajime Taki/Ted Carter, Teppei Kisugi/Johnny Mason
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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titolo storia

Come il cioccolato bianco

 

 

 

Stronzo.

Coglione.

Testa di cazzo.

Grandissima testa di cazzo.

E avrebbe potuto continuare all'infinito: quanto a volgarità il suo vocabolario era così vasto e comprendeva talmente tante parolacce in tutte le lingue conosciute e non, che entrare nel Guinness dei primati, snocciolando oscenità come grani di un rosario, sarebbe stato più facile che infilare un goal a porta vuota.

Come cazzo gli era venuta in mente, lo sapeva solo Kamisama. Eppure lì per lì gli era sembrata l'idea del secolo, il gesto eclatante che non ci si sarebbe aspettati da lui, quello che l'avrebbe proiettato direttamente nell'alto dei cieli, così in alto da scalzare Tentei dal suo trono di stelle. Si era persino complimentato con se stesso, con tanto di sorriso a trentadue denti e vigorosa stretta di mano, attirandosi l'attenzione di due kohai della squadra che l'avevano fissato con lo stesso sguardo allarmato con cui avrebbero guardato un esercito di oni materializzarsi in pieno centro città. Aveva ricambiato le loro occhiate dubbiose con una carica di compatimento ‒ cosa ne potevano sapere quei ragazzini delle sue idee geniali? ‒ e si era precipitato a procurarsi l'occorrente per mettere in pratica il suo progetto, lasciando uno sbraitante Mamoru a supervisionare l'allenamento delle nuove leve che li avrebbero sostituiti come titolari della squadra.

Sì, come no!

A quanto pare, invece, l'idea del secolo si era rivelata la cagata del secolo, roba che neppure un Ryo Ishizaki al massimo della forma sarebbe riuscito a fare la sua stessa figura di merda.

Arricciò le labbra con disgusto e si passò una mano tra i capelli, lasciandola poi ricadere mollemente sul materasso, gli occhi fissi al soffitto sul quale si riverberavano i sottili fasci di luce che sfuggivano alla morsa ferrea delle tende a pannello. Ce l'aveva a morte con se stesso, con il carattere di merda che si ritrovava e con quell'incapacità di leggere l'aria, di non afferrare le sfumature nell'umore degli altri, che gli avrebbe evitato disastrosi passi falsi.

Cioè, proprio quello che aveva fatto.

Kamisama! Era stato cieco e stupido e ora annaspava come una carpa koi fuori dall’acqua, non sapendo come risolvere quella situazione del cazzo in cui si era cacciato.

Masticando un'imprecazione tra i denti allungò il braccio e afferrò il cellulare sul comodino: il display segnava le dodici e trenta. Archiviò quell'informazione senza soffermarcisi troppo, aveva dormito fino a tardi e poi era rimasto a letto a rimuginare, senza risolversi ad alzarsi. Era sabato, non aveva scuola e nessun impegno in programma: poteva prendersela con calma.

Si sistemò meglio il cuscino sotto la testa e controllò sia WhatsApp che le chat di Messenger. Sul gruppo "Squadra" trovò alcuni messaggi che scorse rapidamente: uno scambio di battute degenerato in un mezzo litigio tra Ryo e Hanji e l'intervento laconico ma deciso di Shingo per farli smettere e non intasare la chat con le loro stronzate; una perculata in vocale di Mamoru ai danni di Ryo e l'immagine di un dito medio alzato in risposta; Takeshi che lanciava l'idea di un cinema e l'adesione di Yuzo, Taro e Shun; Mamoru che si chiamava fuori, in quanto impegnato con la ragazza di turno e il forse di Kenichi. Il gruppo "Shutetsu", invece, era fermo a tre giorni prima.

Nessun cenno di vita da parte di Teppei, né nelle chat comuni né in quella singola. Soprattutto in quella singola, quando di solito, tra di loro, era un continuo botta e risposta tra stronzate e discorsi seri.

Corrugò la fronte nel ricordare la risposta evasiva che il giorno prima il compagno aveva dato a Mamoru sui suoi programmi per quel sabato, prima di girarsi verso di lui con lo sguardo imperscrutabile con cui aveva iniziato a guardarlo nell'ultimo mese, da quando, cioè, lui aveva fatto la più grossa cazzata della sua vita, quella che l'aveva scaraventato nel purgatorio in cui viveva da allora.

Con uno sbuffo gettò lo smartphone tra le coperte e si mise seduto, tastando il pavimento con i piedi nudi alla ricerca delle pantofole, gettate la sera prima alla rinfusa accanto al letto. Attraversò la stanza ciabattando e aprì la porta, conscio per la prima volta del silenzio che pervadeva la casa. Si diresse in cucina, sicuro di trovare la madre intenta a preparare il pranzo, ma la stanza era vuota e la sua perplessità aumentò. Fece per tornare indietro e solo allora si accorse del foglietto attaccato al frigorifero con una calamita a forma di sakura. Lo prese, staccando il piccolo fiore metallico, e lo lesse mentre imboccava il corridoio. Con la sua grafia minuta e aggraziata la madre gli ricordava che quel giorno, insieme al padre e al fratello, si sarebbe recata a Shizuoka per una visita ai nonni. Socchiuse le palpebre, ricordando soltanto in quel momento che il giorno prima, a colazione, i genitori avevano accennato a un regalo da comprare ma lui non li aveva ascoltati, troppo preso dai suoi problemi per badare ad altro. La sera, poi, era uscito a mangiare il ramen con Teppei, Mamoru e Shingo ed era tornato a casa quando il resto della famiglia era già a letto.

Lasciò il messaggio su un mobile basso ed entrò nel piccolo bagno che divideva con il fratello, meditando sul da farsi senza riuscire a prendere una vera decisione. Il problema era che non sapeva che pesci pigliare, temeva di compiere l’ulteriore passo falso che avrebbe definitivamente compromesso quella situazione che, pur in un frustrante stallo, non era ancora precipitata verso l'irreparabile.

Si avvicinò al lavandino e posò le mani sul bordo del lavabo, fissando intensamente la propria immagine nel riflesso dello specchio, come a cercare una risposta ai suoi dubbi in quella sorta di alter ego che lo guardava con espressione seria e corrucciata.

La scuola era ormai alle battute finali, soltanto una manciata di giorni lo dividevano dalla fine del liceo. Una fase della sua vita stava per finire e un'altra per iniziare.

La strada che portava al professionismo sarebbe passata per il campionato mondiale giovanile: le convocazioni erano già arrivate e il primo raduno dei selezionati fissato. Si augurò che la decisione di rinviare l'ingresso in J League per dedicarsi al campionato mondiale fosse quella giusta. Di sicuro era stato un grosso azzardo, ma quando Taro Misaki lo aveva proposto, inizialmente al gruppo Nankatsu e successivamente al resto della Generazione d'oro sparsa per il paese, nessuno si era tirato indietro. Tutti, persino Kojiro Hyouga, si erano dichiarati d'accordo con Misaki e avevano delegato proprio l'artista del campo ad annunciare la decisione ai giornali, nel corso della conferenza stampa che si era tenuta qualche settimana prima e alla quale il centrocampista aveva partecipato insieme a Hyouga e all'allenatore della nazionale giovanile, Tatsuo Mikami.

E se dal punto di vista calcistico il percorso da seguire era già delineato, lo stesso non poteva dirsi per altri aspetti della sua vita. Sicuramente non per quello che, al momento, lo stava facendo dannare come nient'altro. Forse perché nessun'altra cosa, a parte il calcio, aveva la stessa importanza.

Con un gesto carico di frustrazione aprì il miscelatore della doccia e si spogliò, gettando pigiama e boxer nel cesto dei panni sporchi. Si infilò nel box di vetro trasparente e lasciò che il getto dell'acqua calda spazzasse via lo sporco della notte, la mente che non riusciva a staccarsi dal problema che lo angosciava e continuava ad avvitarsi su se stessa, in un fottuto loop che non riusciva a stoppare.

La fine della scuola non avrebbe dato una svolta soltanto la sua vita professionale ma avrebbe causato uno stravolgimento totale a tutta la sua esistenza. Entrare in una squadra di J League lo avrebbe portato via da Nankatsu, proiettandolo, sì, nel mondo del professionismo ma anche lontano dalla sua famiglia e dai suoi amici.

Da Teppei.

Era stato questo pensiero a dargli la spinta finale verso il famoso passo, l'idea geniale che si era rivelata un boomerang megagalattico, la piccola pietra che aveva causato la valanga che l’aveva travolto.

Ma cos'altro avrebbe potuto fare?

Quando aveva realizzato quanto i margini del suo mondo avessero cambiato dimensione, estendendosi oltre quelli consueti e familiari, si era reso conto che il tempo a sua disposizione stava finendo e che se non avesse agito al più presto se ne sarebbe pentito amaramente. Non avrebbe avuto un'altra occasione.

Con l'accappatoio indosso tornò in camera e aprì le tende, lasciando che la luce del giorno inondasse la stanza. Pescò una t-shirt e dei boxer neri dal cassetto della biancheria e li indossò sotto a una vecchia tuta, dato che, per il momento, non aveva intenzione di uscire.

Nel passare accanto alla scrivania il suo sguardo si appuntò sulle fotografie che ornavano la parete.

Ricordava ancora il momento in cui aveva attaccato la prima, dando vita a quel collage che riassumeva una grossa fetta della sua vita. Si sedette e la prese tra le dita, staccandola dalla puntina che la inchiodava al muro. Sulla lucida carta patinata cinque ragazzini sorridevano con aria spensierata, il pallone sotto ai piedi e la porta da calcio alle spalle. Li fissò uno a uno tendendo le labbra in un lieve sorriso. Non aveva bisogno di girare la foto e leggere la data per sapere quando era stata scattata: scuola elementare Shutetsu, club di calcio, primo anno. Già allora Genzo portava l'immancabile cappellino che sarebbe diventato il suo segno distintivo, Shingo prometteva di diventare il gigante che era adesso, Mamoru aveva ancora i capelli corti e lui sfoggiava un'espressione spavalda mentre stringeva il braccio intorno al collo di Teppei, che mostrava le dita in segno di vittoria. Il sorriso si colorò di una nota dolce nel guardare gli occhi ridenti sotto i morbidi riccioli scuri e il modo arrendevole con cui si lasciava stringere. Quella con l'altra metà della futura Coppia d'argento era stata subito amicizia: intesa profonda, in campo e fuori.

Rimise la foto al suo posto e ne prese un'altra: stavolta l'istantanea ritraeva tutta la Shutetsu dopo la qualificazione quale rappresentante di Shizuoka ai campionati nazionali.

La curva delle labbra si approfondì nello staccare l'ultima della fila. Stavolta l'uniforme che vestivano non era più quella turchese e rossa della Shutetsu, ma la bianca e blu della Nankatsu; con quella maglia addosso avevano battuto campioni del calibro di Kojiro Hyouga, Jun Misugi e Hikaru Matsuyama, portando la rappresentativa della città alla vittoria nazionale. Tra i volti familiari cercò quello di Teppei già da diversi anni suo migliore amico e metà consolidata di quella coppia che si era guadagnata l'appellativo di Silver Combi. Gli occhi neri percorsero con sguardo carezzevole la minuscola figura: dodici anni; sulla soglia dell'adolescenza, ma ancora legati al mondo dell'infanzia, non riuscivano a pensare ad altro che scuola, manga e calcio, calcio, calcio. L'ultimo blockbuster, un nuovo videogioco, gli allenamenti per le eliminatorie e per il campionato nazionale erano gli argomenti più gettonati, anche se l'interesse per le ragazzine e i primi batticuori avevano già iniziato a fare breccia nel loro mondo.

Quando i suoi sentimenti per l’amico avevano cominciato a cambiare?

Scorse velocemente la seconda fila: ancora campi da calcio, ancora l'uniforme bianca, stavolta profilata in rosso, ancora la Nankatsu. Ma tra le immagini calcistiche spuntava qualcosa di diverso: accanto alle foto della squadra ce n’erano parecchie in cui i soggetti ritratti erano soltanto lui e Teppei. Immortalati durante un'azione combinata di gioco, il suo braccio steso verso Teppei pronto a crossare; a centrocampo in attesa del fischio d'inizio, le espressioni serie e lo sguardo pieno di grinta; Teppei che esultava dopo aver segnato un goal, pugni in alto e viso al cielo e lui che lo stringeva tra le braccia ridendo felice. Indizi sui reali sentimenti che aveva sempre avuto sotto gli occhi e che rivelavano qualcos’altro nascosto sotto il sicuro paravento dell’amicizia, se solo si fosse sforzato di guardare nella giusta direzione.

L'ultima fila era dedicata agli anni del liceo. Gli scatti in divisa calcistica non mancavano, ma la maggior parte raccontava una storia diversa, più personale. Intima. Pomeriggi a casa dell'uno o dell'altro, persi tra chiacchiere e musica, i libri di scuola abbandonati in terra accanto alla porta; uscite a due, tra un Burger King e il chioschetto all'imbocco del quartiere antico che faceva i ramen più buoni della città; levatacce mattutine per allenamenti extra al parco Hikarigaoka. Momenti catturati non più da sguardi esterni ma dai selfie che aveva sempre insistito a fare, nonostante le proteste di Teppei per quel suo continuo obbligarlo a mettersi in posa.

E se scoprirsi innamorato del suo migliore amico da un lato non lo aveva sorpreso più di tanto, dall’altro lo aveva mandato in crisi, mettendolo davanti a una nuova definizione di se stesso con la quale confrontarsi. Non sapendo come affrontare quei nuovi sentimenti e pulsioni che avevano preso possesso del suo cuore e del suo corpo e temendo di perdere il legame più prezioso che aveva ‒ quello che, ne era sicuro, sarebbe durato per una vita intera e al quale non avrebbe mai potuto rinunciare ‒, inizialmente aveva fatto finta di nulla. Aveva sperato che fosse solo una fase transitoria, un momento di defaillance da lasciarsi alle spalle, e aveva continuato a uscire con le ragazze come aveva sempre fatto.

Era stato un periodo di tormento e confusione. Di frustrazione, di fronte a quelle strane reazioni che non riusciva in alcun modo a gestire. E più aveva cercato di togliersi Teppei dalla testa e più la sua presenza si era radicata a fondo, finché si era ritrovato a pensare a lui in continuazione, anche mentre faceva sesso – soprattutto mentre faceva sesso ‒ immaginando di avere il suo corpo inarcato sotto al proprio e non quello della ragazza che si era portato a letto. Alla fine, non riuscendo più a dominare i sentimenti né tantomeno il desiderio, aveva dovuto capitolare, venire a patti con se stesso e prendere atto che la situazione era cambiata e nulla sarebbe stato come prima.

Tornò a guardare le immagini e le iridi nere si appuntarono su una in particolare, la sua preferita.

A differenza della maggior parte delle altre, la foto non era sua ma di Mamoru e ritraeva lui e Teppei, entrambi di profilo, mentre si sorridevano con aria complice dopo aver appeso dei tanzaku ai corti rami di un bambù. Allungò la mano e la staccò, attento a non sciuparla.

Ricordava bene quel momento: insieme ad alcuni compagni della squadra e alle manager erano usciti per festeggiare Tanabata. Alcuni di loro, tra cui Teppei, Ryo e Mamoru erano vestiti con il tradizionale yukata, mentre altri, come lui, Yuzo e Shingo, avevano optato per un abbigliamento più informale. Avevano girovagato per le bancarelle, mangiando yakitori, takoyaki e dango, e avevano assistito a un'agguerrita sfida tra Hanji e Ryo a chi pescava più kingyo, quindi, su insistenza delle ragazze, si erano allungati fino al Tempio. Qui, tra battute, risate e punte di serietà, avevano scritto i loro desideri sulle strisce di carta washi.

Dopo aver affidato le sue speranze a un tanzaku verde e oro, si era avvicinato all’amico di sempre con l'intenzione di sbirciare cosa stesse scrivendo, ma il compagno lo aveva tenuto a distanza con una mano mentre finiva di vergare gli ultimi kanji, prima di sollevare lo sguardo su di lui.

‒ Perché non vuoi farmi leggere? ­‒ aveva chiesto con le sopracciglia inarcate e la sorpresa negli occhi.

Teppei aveva studiato la sua espressione per qualche secondo, le palpebre socchiuse e la testa inclinata di lato. ‒ Se non resta segreto non si avvera, ‒ aveva risposto a mezza voce, ‒ e io non voglio perdere la speranza ‒ . Con un vago sorriso sulle labbra si era allontanato per appendere il suo foglietto blu e argento e le ultime parole gli erano giunte in un mormorio sommesso. ‒ Anche se so che il mio è un desiderio irrealizzabile.

‒ Così… me lo nascondi? ‒ aveva borbottato contrariato, le braccia lungo i fianchi. ‒ Che sono tutti questi segreti? Perché non vuoi dirmelo?

Non ottenendo risposta ma solo una stretta di spalle e un’occhiata diversa dal solito, quasi di sfida, era rimasto immobile e una leggera curva all’ingiù gli aveva piegato l’angolo della bocca. Al fastidio per quel modo deliberato di sbattergli in faccia una cosa a cui evidentemente teneva molto ma di cui, allo stesso tempo, voleva tenerlo all’oscuro, si era aggiunta la confusione per quel non so che di provocatorio che aveva colto nel suo atteggiamento e che non aveva mai notato in precedenza; soprattutto il modo lento in cui Teppei aveva socchiuso le palpebre, imprigionando le iridi cioccolato tra le lunghe ciglia, come a voler suggerire qualcosa che a lui evidentemente sfuggiva.

Ma cosa? Aveva spalancato gli occhi quando il cuore gli aveva suggerito la risposta più ovvia.

‒ Possibile? ‒ si era chiesto in una domanda sussurrata, fissando il corpo di Teppei che si tendeva per raggiungere uno dei rami più alti, mentre il cervello iniziava a lavorare febbrilmente e il fiato rimaneva imprigionato nei polmoni, incapace di trovare una via d’uscita. Gli era servito più di un lungo respiro per calmare l’agitazione e riprendere un minimo di controllo sulle pulsazioni e si era dato dello stupido per aver equivocato quella che di sicuro era una semplice battuta.

O no?

Si era passato una mano sul viso e poi tra i capelli, cercando di liberarsi di quel pensiero che una volta palesato non voleva saperne di tornare nell’ombra, rendendosi conto non solo di essere davvero fottuto ma anche di non avere la minima idea di come uscirne. A passo lento lo aveva raggiunto per appendere il proprio tanzaku accanto al suo.

‒ Sai che puoi parlarmi di tutto ‒. Aveva mormorato quelle parole con aria mesta, lo sguardo fisso alle due strisce colorate che ondeggiavano alla fresca brezza estiva, sfiorandosi e allontanandosi in un miscuglio di azzurro e verde che disperdeva ovunque bagliori d’oro e d’argento.

‒ Se arriverà il momento sarai il primo a saperlo, ‒ era stata la risposta sussurrata.

‒ Lo sai che per te ci sarò sempre, ‒ aveva assicurato con un tono insolitamente serio, attirandosi lo sguardo del compagno che si era illuminato di quella luce calda che riservava solo a lui.

Ed era il sorriso che Teppei gli aveva rivolto e l’occhiata adorante con cui lo aveva ricambiato che Mamoru aveva rubato con il suo cellulare.

Quella era stata la prima volta che si era accorto di un qualcosa di diverso nel comportamento dell’altro e, ogni volta che il suo sguardo si soffermava su quella fotografia, il ricordo delle parole di Teppei sul non voler perdere la speranza gli tornavano in mente.

I giorni erano passati, le stagioni erano mutate e nulla era cambiato.

Fino a un mese prima, quando, lasciando da parte ogni indugio, aveva deciso di agire e provare a smuovere le cose.

Scosse piano la testa e lasciò che il passato tornasse a ornare la parete. Si alzò e si diresse in cucina, più per dare sfogo all’inquietudine che per vera fame. A dirla tutta, di fame ne aveva davvero poca.

Aprì il frigorifero e ne studiò il contenuto, alla ricerca di qualcosa che lo stuzzicasse ma non trovò nulla di interessante. Storcendo la bocca lo richiuse per poi passare a ispezionare il contenuto dei pensili bianchi. Subito i suoi occhi furono attratti da una confezione di cioccolata fondente in blocchi e in un attimo si ritrovò proiettato indietro di un mese, durante la realizzazione del suo famoso piano.

Nessuno si sarebbe aspettato che il giorno di San Valentino un ragazzo regalasse cioccolata alla ragazza di cui era innamorato, non è così che si usa, ed era proprio sulla rottura di quella tradizione che aveva contato per dichiararsi a Teppei. Un gesto inconsueto per lui, che tutto era tranne che un paladino del romanticismo. E benché il suo primo impulso fosse sempre quello di inchiodarlo al muro e baciarlo fino a strappargli il fiato, come sognava di fare da quando aveva finalmente accettato la natura dei suoi sentimenti, per una volta aveva scelto di seguire le usanze, anche se a modo suo.

Non solo gli avrebbe regalato della cioccolata, ma l’avrebbe preparata lui stesso.

Forte del proprio convincimento, armato di arroganza e di un pizzico di incoscienza, lungo la strada di casa si era fermato a un supermercato e aveva acquistato l’occorrente.

Una volta in cucina aveva allineato sul bancone gli ingredienti, posizionato in modo strategico lo smartphone, aperto YouTube e cercato un video che gli mostrasse come preparare dei deliziosi cioccolatini ripieni.

E lì erano iniziati i guai.

Un passaggio banale come fare a pezzi la cioccolata si era rivelato un problema, quando il coltello con cui aveva provato a spezzare il blocco per staccarne un quadrato si era spezzato di colpo, schizzando in alto e rischiando di infilzargli un occhio.

Aveva fissato con smarrimento la lama di acciaio roteare sul pavimento fino a fermarsi, ringraziando la sua buona sorte per non essersi fatto male, prima di tirare giù dal cielo tutti i kami che conosceva.

Aveva gettato i due pezzi ormai inutilizzabili e preso uno dei grossi coltelli da cucina dal set che sua madre teneva sul bancone. Ne aveva studiato la larga e spessa lama, soppesandola con gli occhi, e aveva ripetuto l’operazione con più cautela, memore di quanto appena successo, riuscendo comunque a ferirsi un dito e a sporcare di sangue il ripiano di quarzo.

Una sfilza di parolacce era risuonata per la casa vuota mentre correva in bagno, dove si era disinfettato il taglio e l’aveva coperto con un cerotto. Era tornato in cucina dove aveva ripulito il piano di lavoro e si era testardamente rimesso all’opera. Non sarebbe certo stato un piccolo inconveniente a fermarlo!

Dopo aver tagliato un quantitativo sufficiente di cioccolata ed aver gettato nella pattumiera anche il tagliere, ormai inutilizzabile, aveva versato il tutto in un pentolino e l’aveva messo sul fuoco, coprendolo con un coperchio.

Mentre aspettava che il cioccolato sciogliesse si era messo a chattare con Mamoru, incazzato nero per essere stato mollato da solo a supervisionare l’allenamento. Impegnato a giustificarsi con l’amico non si era reso conto che il composto aveva iniziato a bruciare finché la puzza non era arrivata alle sue narici. Aveva mollato Mamoru e, sciorinando un kuso dietro l’altro, aveva afferrato il manico in metallo del pentolino, scottandosi le dita. Con un’imprecazione di dolore l’aveva lasciato andare, facendolo cadere sul pavimento. Il coperchio era saltato via e il denso composto marrone era schizzato ovunque, imbrattando i suoi vestiti, i mobili e le mattonelle bianche che sua madre lustrava ogni giorno.

Per qualche istante era piombato in un silenzio stupefatto prima di iniziare a smoccolare come il peggior scaricatore del porto di Tokyo. Aveva impugnato canovaccio e spugna, brandendoli come armi, e aveva tolto ogni macchia che aveva trovato. Aveva anche provato a scrostare il pentolino ma non c’era riuscito e non gli era rimasta altra scelta che buttarlo.

C’era voluta un’altra pentola e due diversi video, oltre a un repentino cambio di piani, degradando il regalo da meravigliosicioccolatiniripieniedecorati a cioccolatoscioltoesolidificatoinanonimeforminedisilicone, per tirare fuori alcune palline rotonde che soltanto con un enorme sforzo di fantasia potevano definirsi cioccolatini, ma si era sentito lo stesso soddisfatto.

Con cura aveva sistemato il risultato dei suoi sforzi dentro una scatolina rossa con il coperchio trasparente, acquistata per l’occasione, e aveva mandato un messaggio a Teppei, dandogli appuntamento al loro solito posto.

Aveva percorso il breve tragitto che separava la sua casa dall’incrocio in cui si incontravano sempre, impaziente ed emozionato, forse anche un po’ impaurito, ma deciso ad andare fino in fondo.

Una serie di trilli lo riportò al presente. Si guardò intorno, spaesato, rendendosi conto di essere rimasto impalato davanti allo stipetto aperto. Con un sospiro chiuse l’anta e afferrò lo smartphone, il pollice che già scivolava sullo schermo per aprire messenger. La speranza che Teppei avesse deciso di farsi vivo morì nel momento in cui si rese conto che i messaggi di notifica provenivano dal gruppo “Squadra”. Scorse rapidamente la conversazione, perdendo subito interesse; i compagni si stavano accordando per il film da vedere.

Sentendo l’inquietudine aumentare tornò in camera sua e si buttò a corpo morto sul letto. Prese il telecomando dello stereo e lo accese, lasciando che la musica risuonasse a tutto volume per la casa e nella testa, nella speranza che prendesse il sopravvento su quei pensieri che non riusciva in alcun modo a domare. Non poteva continuare così o sarebbe impazzito. Che dovesse agire era indubbio, il problema sul quale si dibatteva da un mese, però, era sempre lo stesso e non era ancora riuscito a risolverlo: cosa fare?

Eppure a San Valentino non aveva avuto dubbi. Si coprì il volto con un braccio, tornando con la mente a quel giorno…

 

Svoltato l’angolo vide Teppei fermo sul marciapiede, in attesa. Era appoggiato al muro, con le mani sprofondate nelle tasche del giubbotto nero e l’aria infreddolita. Sembrava assorto in chissà quali malinconici pensieri. La luce del lampione ne illuminava in pieno il viso che teneva rivolto verso il cielo di madreperla.

Si fermò a osservarlo, indugiando sul posto, la scatola con i cioccolatini stretta forte nella mano improvvisamente sudata nonostante il freddo; la infilò in tasca e strofinò più volte il palmo sul tessuto ruvido dei jeans, cercando di dominare l’impazienza e l’emozione. Quando fu sicuro di aver ripreso un minimo di controllo sulle pulsazioni e sul respiro, lo chiamò.

Subito gli occhi color cioccolato scesero su di lui e un largo sorriso si aprì sulle labbra morbide. Ciao, Hajime.

Lo osservò per qualche frazione di secondo ma non trovò traccia di quella tristezza che gli era sembrato aleggiasse sui suoi tratti e forse dovuta alla luce artificiale. Ricambiò il sorriso e lo raggiunse. Ehi! Hai fatto presto.

Lo faccio sempre, anche se abito più lontano di te, rise Teppei, riferendosi al suo essere sempre in perenne ritardo.

Hajime ridacchiò senza il minimo imbarazzo. Non poteva farci nulla, era più forte di lui, anche se provava a essere puntuale, per un motivo o per un altro, finiva sempre per fare tardi.

Avevo appena aperto la porta di casa quando ho ricevuto il tuo messaggio, non ho nemmeno dovuto rivestirmi ‒. Teppei si raddrizzò, scostandosi dal muro ma senza sfilare le mani dalle tasche, le guance arrossate dal freddo pungente della sera.

Non dirmi che hai finito adesso.

L’altro si strinse nelle spalle. La veterinaria era in ritardo e Yuki ci ha dato del filo da torcere, non ne voleva sapere di stare ferma; lo sai com’è fatta. Fortunatamente con Sakura e BIfur è andata meglio. Ecocardiogrammi perfetti e se ne riparla tra un anno.

Quindi non c’è speranza di liberarsi del Sacco di pulci?

No! E smettila di chiamarlo così. Il compagno scosse la testa, divertito e per nulla impressionato dall’antipatia che nutriva per il suo gatto.

Non è colpa mia se è un insopportabile sacco di pulci. E poi morde! puntualizzò Hajime con una smorfia, nel ripensare al grosso maine coon rosso. Gli era andato in antipatia fin da subito, da quando, poco dopo il suo arrivo a casa Kisugi, Teppei glielo aveva fatto conoscere e il micio gli aveva morso una mano quando l’aveva accarezzato. Da allora lo chiamava Mordillo, quando non l’apostrofava con spregio Sacco di pulci, e lo evitava come la peste.

Teppei scosse di nuovo la testa, senza smettere di sorridere, e cambiò discorso. E tu? Non dovevi allenare i kohai con Mamoru oggi?

Sì.

E come è andata?

Bene ­‒. Liquidò la questione con una smorfia indifferente. Il club di calcio al momento non trovava posto nella lista delle sue priorità.

Ah, ok… L’altro si grattò un sopracciglio con aria confusa. Come mai hai voluto vedermi a quest’ora?

Senza rispondere spostò lo sguardo lungo il marciapiede, dove diverse persone si muovevano in fretta prese dalle proprie incombenze, stringendosi nei cappotti per proteggersi dal freddo della sera. Ti va di fare due passi? propose, sentendo la necessità di muoversi per allentare la tensione che, lungi dallo scemare come si era augurato, aveva iniziato a stringergli lo stomaco in una morsa ferrea.

Ok… Teppei lo guardò con perplessità ma assentì. Però non posso restare a lungo. Gli zii e Sayuri ripartono domani per Tokyo e stasera ceniamo tutti insieme.

Arriviamo fino al parchetto vicino al kombini e torniamo indietro. Ok?

Per qualche istante camminarono in silenzio, l’uno accanto all’altro, il suono dei passi che riecheggiava ritmico sull’asfalto, coperto a tratti dal rumore delle macchine che sfrecciavano sulla strada.

Hajime sentiva la bocca secca; impegnato com’era stato a mettere in pratica il suo progetto, non aveva pensato a come affrontare il discorso e si ritrovava con il cuore che martellava con furia nel petto e la mente vuota.

Stanotte farà una bella nevicata.

Eh? Rivolse all’altro uno sguardo interrogativo.

Ho detto che stanotte nevicherà.

Ah, sì ‒. Alzò lo sguardo al cielo e ne osservò il colore opalescente. Non credo manchi molto ‒. Le nuvole avevano assunto quella particolare e inconfondibile tonalità rosata che preannunciava una nevicata con i fiocchi. Domattina sarà tutto bianco.

Si aprirono per far passare due ragazzine avvolte in piumini colorati, che ridacchiavano e si mostravano a vicenda piccoli pacchetti argentati di una nota cioccolateria della zona.

Sentendosi come chiamato in causa Hajime infilò la mano in tasca e strinse la scatola, cercando di racimolare il coraggio per tirarla fuori ma la lasciò andare come se scottasse quando il compagno ruppe di nuovo il silenzio.

Stasera qualcuno riceverà della cioccolata.

Eh?

Teppei si fermò di colpo e lo fissò con sconcerto. Le due ragazzine... Provò a spiegare davanti al suo sguardo vacuo. Hajime, ma stai bene?

Annuì con un gesto brusco e abbassò gli occhi a terra, tormentandosi il labbro inferiore con i denti, d’un tratto preda di un’improvvisa insicurezza che lo fece dubitare di star compiendo la mossa giusta. E se si fosse sbagliato? Se avesse interpretato male? Se, spinto dai suoi stessi desideri, avesse visto in Teppei quello che in realtà non c’era? Ma poi accantonò quel pensiero con decisione, aveva aspettato anche troppo; non c’era più spazio per i tentennamenti, presto sarebbero partiti ed era arrivato il momento di agire e di lasciarsi alle spalle i se, i ma e i forse.

Sicuro? Mi sembri distratto.

Sì, sì, tutto a posto ‒. Fece spallucce e lo superò, attraversando la strada per dirigersi verso l’entrata del giardinetto, poco distante dal 7 Eleven, il grosso konbini dall’insegna rossa e verde che serviva quella parte del quartiere.

Seguito a ruota da Teppei si inoltrò all’interno del parco, percorrendo uno dei viali deserti fino a raggiungere l’area giochi dove si avvicinò a una delle strutture metalliche per arrampicata. Con un sospiro poggiò la schiena contro i ferri verniciati di rosso, sedendosi in quel po’ di spazio che le barre concedevano. Un altro sospiro gli sfuggì dalle labbra quando l’altro si sedette al suo fianco, nella stessa identica posizione, le mani ancora in tasca e gli occhi al cielo, dal quale stavano iniziando a scendere i primi, minuscoli fiocchi di neve.

Che succede, Hajime?

Si strinse nelle spalle senza rispondere, lo sguardo che vagava nervoso tra gli scivoli e le altalene illuminati dalla luce metallica dei lampioni, cercando di districarsi dalle linee piatte delle proprie onde cerebrali che non volevano saperne di dare cenni di vita.

Problemi di cuore?

Centro. Subito. Nemmeno fosse un cecchino. O forse sì? Nascose lo sguardo sotto la lunga frangia e lo guardò di sottecchi. Cosa te lo fa pensare? chiese cauto per tastare il terreno, chiedendosi se quella domanda non ne nascondesse in realtà un’altra. Che avesse finalmente deciso di abbandonare quell’atteggiamento ambiguo che aveva notato in lui dalla notte di Tanabata e uscire allo scoperto?

Beh… oggi è San Valentino. Non hai ricevuto la cioccolata dalla ragazza che speravi?

Scuotendo la testa corrugò la fronte, girandosi verso di lui per cercare di carpire, attraverso la sua espressione, un indizio sui suoi reali pensieri, ma Teppei continuava a tenere gli occhi fissi al cielo e un fugace sorriso sulle labbra.

Non c’è nessuna, assicurò senza togliergli lo sguardo di dosso, lo sapresti se fosse così ribadì, deciso a mettere le cose in chiaro per sgombrare il campo da possibili equivoci. L’ultima cosa che voleva era che pensasse che ci fosse di mezzo una ragazza; come se fosse possibile, come se nel suo cuore ci fosse spazio per qualcun altro, a parte lui. Sentendo una punta di irritazione aggiungersi al marasma di sentimenti che gli si agitava tra cuore e stomaco, portò le mani ai fianchi e si alzò, piazzandoglisi davanti.

Piuttosto, di te che mi dici?

Teppei abbassò lo sguardo per posarlo su di lui, l’espressione seria e le labbra improvvisamente orfane del sorriso.

Ho solo amiche, e le conosci tutte.

E Hajime dovette dargli atto che fosse proprio così. Negli anni lo aveva visto uscire con diverse ragazze ma non ne aveva mai frequentata davvero nessuna e l’impressione che ne aveva sempre tratto era che fossero più rapporti di amicizia che d’amore. Aveva provato diverse volte ad affrontare l’argomento ma l’amico non si era mai sbottonato più di tanto e lui, nonostante le sue insistenze, non aveva mai saputo quanto si fosse spinto lontano con ciascuna di loro. Sulla questione sesso erano come il giorno e la notte; mentre lui non faceva mistero delle sue acrobazie a letto, Teppei non riteneva giusto parlare di qualcosa che coinvolgeva altre persone oltre a se stesso. Eppure sapeva che aveva esperienza al riguardo, per come ne parlava e per il suo non sottrarsi mai alle battutacce da spogliatoio.

Fino a quando non aveva realizzato quali fossero i reali sentimenti che provava per l’amico, non si era interrogato più di tanto sul perché Teppei fosse così restio a parlare delle ragazze con cui andava a letto come facevano tutti, alla fine aveva smesso di fargli domande più per un incomprensibile fastidio che per le sue argomentazioni, fastidio di cui ora si spiegava la ragione. Quando le cose erano cambiate, spinto dalla necessità di capire quante fossero le chance a suo favore, aveva iniziato a guardare la faccenda da un altro punto di vista e si era chiesto se quella sbandierata riservatezza in realtà non nascondesse altro, soprattutto alla luce di quelle strane sfumature nel modo di fare di Teppei di cui prima non si era mai reso conto: la mano che gli si soffermava sulla spalla più del necessario, mezze frasi che alludevano, sguardi prolungati quando credeva di non essere visto. Nulla di eclatante, certo, ma abbastanza per fargli porre una serie di interrogativi le cui risposte da una parte gli davano speranza ma dall’altra gli facevano storcere la bocca, perché gettavano più di un’ombra sulla loro lunga amicizia.

Che Teppei Kisugi facesse sesso non era un mistero, il dubbio rimaneva sul chi si fosse realmente portato a letto e quel pensiero era un tarlo che gli rosicchiava la mente, suscitando in lui una feroce gelosia mai provata prima.

Ed era arrivato il momento di chiarire anche questo aspetto e mettere tutte le carte in tavola.

E non c’è nessun altro?

Da come Teppei distolse lo sguardo, prima di riportarlo su di lui, capì di aver colto nel segno.

Beccato.

Lo fissò con decisione e vide il disagio crescere in quegli occhi che gli erano familiari quanto e più dei suoi. Conoscendolo, sapeva che avrebbe glissato sull’argomento se ne avesse avuto modo ma non gli avrebbe mai mentito se messo con le spalle al muro. Aprì la bocca per incalzarlo ma una musica rock proveniente dal giubbotto del compagno lo bloccò.

Subito Teppei ne approfittò per sottrarsi alle sue iridi indagatrici ed estrasse mano e smartphone dalla tasca, non prima che lui riuscisse a cogliere un lampo di quello che gli sembrò sollievo attraversare quel morbido velluto color cioccolato.

Scusami, devo rispondere, è Sayuri.

Stringendo le labbra con stizza, Hajime gli voltò le spalle, ascoltando con tensione crescente le scuse e le indicazioni che l’amico stava rivolgendo alla cugina all’altro capo del telefono. Mosse qualche passo, maledicendo quell’inopportuna interruzione che gli aveva impedito di chiarire le cose e mettere finalmente un punto a quello strano gioco fatto di passi avanti e indietro che andava avanti dall’estate precedente.

Si passò una mano tra i capelli, seguendo la linea completa della testa, fino ad arrivare alla nuca. Percependo l’ umidità sotto le dita diede una rapida occhiata al cielo e si guardò intorno con uno sbuffo spazientito. I fiocchi si erano fatti più grossi e fitti e la neve stava iniziando ad attecchire al suolo, a breve ogni cosa sarebbe stata ricoperta di bianco. Non avrebbero potuto rimanere lì a lungo se non volevano ritrovarsi zuppi dalla testa ai piedi, senza contare che il freddo si era fatto troppo intenso per rimanere ancora all’aperto e nessuno dei due aveva sciarpe e cappelli.

Devo proprio scappare.

Si voltò mentre l’altro faceva scivolare il telefono in tasca e lo guardava con un misto di imbarazzo e senso di colpa. Sayuri sta venendo a prendermi; i nostri genitori sono andati direttamente al ristorante. Mi spiace, Hajime.

Si strinse nelle spalle ostentando indifferenza ma la smorfia che gli arricciò le labbra non riuscì a nascondere la delusione per l’occasione sfumata. Certo, avrebbe potuto crearsene un’altra se ne sarebbe creato un’altra ma non sarebbe stata la stessa cosa.

Da quand’è che sono diventato così romantico? Si chiese con incredulità e un pizzico di amara ironia. In un altro momento avrebbe riso di se stesso. Lui che si considerava l’antitesi del romanticismo e che aveva sempre guardato con sufficienza a quella festa, utilizzandola solo per rimorchiare le ragazze, ora si sentiva agitato come una di loro.

Non fa niente.

Non è vero ‒. Teppei gli si avvicinò e gli mise una mano sul polso.

Subito i suoi occhi neri scesero sulle dita magre che spiccavano chiare sul tessuto grigio del piumino, prima di tornare sul viso dell’altro che lo stava fissando a sua volta con espressione grave.

Lo so che hai qualcosa, ti conosco bene e non mi avresti fatto venire fin qui per nulla ‒. Teppei emise un breve sospiro e Hajime sentì il suo pollice insinuarsi sotto il polsino di maglia per cercargli la pelle in una carezza che durò una frazione di secondo, tanto da fargli pensare che se la fosse immaginata.

Corrugò la fronte, reprimendo l’impulso di abbassare gli occhi sul polso, lì dove sentiva ancora l’eco del tocco delle sue dita e fissò le sue labbra piegate in un mesto sorriso che sembrava dirgli scusami se non posso esserci per te, scusami se sono costretto ad andarmene.

Non credo che ci metteremo più di un paio d’ore. Come arrivo a casa ti chiamo, ok? E parleremo tutta la notte, se vorrai.

Non fa niente, non preoccuparti ‒. Con l’altra mano gli scompigliò la massa riccia e tirò gli angoli della bocca verso l’alto, in un sorriso che doveva essere di rassicurazione ma che uscì più stiracchiato di quanto avrebbe voluto. Per quanto si stesse sforzando, e ci stava provando, non riuscì del tutto a mascherare i suoi reali sentimenti. Non era nulla di davvero importante, ne parleremo un’altra volta.

La presa sul suo polso si allentò e poi si strinse di nuovo prima di sciogliersi definitivamente, rivelando la riluttanza del suo proprietario a lasciarlo andare.

Hajime vide lo sguardo di Teppei guizzare in direzione dell’uscita del parco ma i suoi piedi non si mossero e rimasero ben piantati a terra. Prima che la sua mano si allontanasse del tutto l’afferrò e la strinse forte nella propria. Le sue dita erano fredde, gelide quasi, e gli provocarono un brivido che gli percorse l’intera spina dorsale, ma il sorriso che il compagno gli rivolse per quel gesto spontaneo e inaspettato aveva un calore che non mancò di scaldargli il cuore.

E Hajime sentì che il momento giusto, nonostante tutto, non era ancora sfumato.

Ignorò la neve che cadeva sempre più copiosa, posandosi sulle loro spalle e i loro capelli, ignorò il telefono che aveva ripreso a martellare con la sua musica rock rompendo il silenzio che avvolgeva il parco, ignorò la delusione per non avergli potuto parlare come avrebbe voluto, ignorò ogni altra cosa che non fosse il ragazzo in piedi davanti a lui e che amava come nessun altro al mondo.

Prima che te ne vada… Gli girò la mano, in modo da rivolgere il palmo verso l’alto ed estrasse la scatola dalla tasca. Questa è per te ‒ sussurrò, posandogliela tra le dita, lo sguardo trepidante nascosto sotto la lunga frangia, la gola stretta dalla stessa emozione che sentiva fargli correre forte il cuore.

Gli occhi di Teppei si socchiusero interrogativi prima di posarsi sul piccolo quadrato di cartone e sgranarsi con evidente sorpresa. Sotto il coperchietto trasparente, i cioccolatini che gli erano costati tanta fatica e bestemmie facevano bella mostra di sé.

Li ho fatti io lo informò, nel breve silenzio concesso loro dalla suoneria del cellulare che aveva momentaneamente messo di squillare. Per due volte lo smartphone aveva fatto udire la sua voce senza che Teppei facesse nulla per rispondere.

Le iridi color cioccolato balzarono sul suo viso, rivelando tutto lo stupore del loro proprietario, prima di tornare ad appuntarsi sul regalo e Hajime sorrise per aver ottenuto la reazione che si era aspettato.

Lo so che non ci credi ma è così. E non hai idea di che cazzo di casino ho combinato ‒. Rise forte, grattandosi una tempia con un gesto a metà tra il divertito e l’imbarazzato nel ripensare al pomeriggio appena trascorso. Mi sono scottato con il pentolino e ho fatto cadere la cioccolata, Kamisama!, è volata ovunque, sui mobili, sul pavimento, sui miei vestiti. Ovunque. Se solo ci fosse stata mia madre a casa ora sarei all’obitorio, sicuro come la morte. E poi mi sono anche tagliato un dito. Ah! E ho pure rotto un coltello, momenti mi cavo un occhio. Si cinse la fronte con due dita e portò l’altra mano al fianco. Eppure non sembrava così difficile vedendo i filmati sul tubo ‒. Scosse la testa, continuando a ridacchiare. Una cosa è certa, la cucina proprio non fa per me. Quando sarò un calciatore professionista e guadagnerò un sacco di soldi la prima cosa che farò sarà di cercarmi un cuoco.

Quando tornò a posare lo sguardo sul compagno, gli morì il sorriso sulle labbra nel notare l’espressione accigliata che gli alterava i lineamenti, prima che gliela nascondesse, distogliendo il viso per girarlo di nuovo verso l’entrata. E quella no, non era la reazione che si era aspettato. Nel film che si era girato mentre sfaccendava in cucina, Teppei avrebbe dovuto guardare sorpreso il suo regalo, ascoltare il suo racconto con incredulità, ridere delle sue disavventure, anche chiedergli un paio di volte se davvero li avesse fatti lui e poi saltargli addosso. E la parte finale, in cui l’avrebbe stretto tra le braccia e baciato era stata la parte migliore di quel sogno a occhi aperti, perché sapeva che sarebbe stato fantastico, così come fantastica era la sua bocca, di cui non vedeva l’ora di conoscerne il sapore, e il suo corpo, che desiderava sentire inarcare contro il proprio.

Spostò il peso del corpo da un piede all’altro, sentendo il disagio crescere di fronte a quel silenzio prolungato che non seppe come interpretare. Aprì la bocca per parlare ma la richiuse subito non sapendo cosa dire, gelato dal pensiero di aver completamente travisato i comportamenti e le reazioni dell’amico.

Davvero li hai fatti tu? Finalmente Teppei ruppe il silenzio tornando a posare lo sguardo su di lui, sulle labbra il solito sorriso affettuoso e un po’ indulgente con cui lo aveva sempre guardato e nel quale non riuscì a cogliere nulla di più di quel che mostrava. Sentendo lo sconfortò crescere infilò le mani in tasca chiedendosi se ci fosse mai stato davvero qualcosa o se avesse solo visto quello che aveva voluto vedere. Kamisama, che cantonata che aveva preso. Come avrebbe fatto a recuperare, ora?

Sì.

Perché?

E quella era una domanda alla quale non avrebbe potuto dare la risposta che aveva sperato, quella che avrebbe voluto dare con tutto se stesso. Lasciò correre lo sguardo d’intorno per un lungo istante cercando di assumere un’espressione indifferente davanti alla crepa che gli aveva appena spezzato il cuore a metà. Ingoiò più volte, cercando di eliminare quella sensazione di soffocamento che gli stringeva la gola mentre la sofferenza era diventata così tangibile da essere diventata una parte del suo corpo. Parlargli di quello che sentiva ormai era escluso, perciò fece appello all’unica cosa che avrebbe potuto dire, perché poteva omettere qualcosa ma non gli avrebbe mai mentito volontariamente.

Perché sei il mio miglior amico ‒. Quella era una cosa che non sarebbe mai cambiata; fosse campato mille anni, per lui Teppei sarebbe rimasto sempre l’altra metà della loro coppia indissolubile.

Ah! Allora… grazie ‒. Teppei abbassò di nuovo lo sguardo sul pacchetto, pulendolo con le dita dalla neve che continuava a posarvisi sopra, la piega delle labbra che prendeva una linea più rigida, mentre un’espressione impenetrabile sembrava calargli sul viso. Ora, però, devo proprio andare.

Teppei! Lo fermò che era ancora a pochi passi di distanza. Ci vediamo domani? Anche se non poteva avere il suo amore non avrebbe mai rinunciato a lui e pur di averlo vicino sarebbe stato disposto a essere il migliore amico del mondo.

Certo! Che ne dici di un cinema?Sul viso di Teppei si aprì il solito sorriso, anche se un po’ tirato.

Ok, ma il film lo scelgo io. Ci vediamo alla solita ora?

Perfetto. Sentiamoci domattina per metterci d’accordo.

Annuì, ricambiando il suo sorriso, e senza aggiungere altro lo guardò allontanarsi sotto un cielo che lentamente si sbriciolava in minuscoli frammenti di perla. Il suo passo sembrava più pesante del solito.

 

Il cicalino di quello che gli sembrò il citofono lo strappò da quei ricordi. Si mise a sedere e spense lo stereo, chiedendosi se avesse sentito bene o se lo fosse immaginato. Quando il suono si ripeté saltò giù dal letto e si recò nell’ingresso.

‒ Sì? Chi è? ‒ chiese, portando la cornetta all’orecchio.

‒ Hajime?

Riconoscendo la voce di Teppei premette il pulsante di apertura del cancello e aprì subito la porta di casa, notando a malapena la ventata di aria gelida che lo investì prima di dissolversi in piccoli mulinelli alle sue spalle. Benché mancassero pochi giorni all’arrivo della primavera, il freddo continuava a rimanere pungente e non sembrava avere intenzione di abbandonare l’isola. Nonostante ciò, il cielo era di un azzurro così intenso da sembrare smaltato.

Si fece da parte per lasciar entrare l’amico e ricambiò con un sorriso il suo saluto.

‒ Immaginavo di trovarti a casa.

‒ Non avevo impegni e mi sono alzato tardi ‒ rispose con una stretta di spalle, aspettando che si togliesse il giubbotto e le scarpe per precederlo in camera sua.

‒ Sei solo? ‒ Teppei lo chiese dopo aver imboccato il corridoio ed essersi guardato intorno.

‒ Sì, i miei sono andati a Shizuoka a trovare i nonni ‒. Si lasciò cadere sul letto e si sdraiò, le mani dietro la testa e le caviglie incrociate, gli occhi fissi sul compagno di squadra che girava la sedia della scrivania e si sedeva di fronte a lui, come aveva fatto tante volte negli anni.

‒ Quindi… non sei uscito a comprare… nulla?

‒ No, perché? Avrei dovuto?

Il numero nove della Nankatsu scosse la testa e lo guardò con lo sguardo imperscrutabile degli ultimi tempi. ‒ No… forse no ‒ sussurrò poi a bassa voce, come rivolto a se stesso, e si alzò dalla sedia, muovendo qualche passo nella stanza.

Hajime ne seguì i movimenti con la fronte corrugata. Lo vide avvicinarsi alla finestra e gettare uno sguardo distratto all’esterno. L’espressione impenetrabile era sparita, sostituita da una palese agitazione, visibile dal modo in cui le iridi cioccolato guizzavano nervosamente nella sua direzione.

Poi Teppei si fermò, le mani sui fianchi e gli occhi a terra. Gli sembrò che traesse un profondo respiro, come a prendere coraggio, prima di rialzare lo sguardo e puntarglielo addosso.

‒ Ho qualcosa per te ‒ gli disse e lasciò la stanza.

‒ Cosa? ‒ Senza nascondere la curiosità lo seguì fino all’ingresso, dove gli vide estrarre un pacchetto dalla busta che aveva con sé quando era arrivato. ‒ Per me?

‒ Sì.

Afferrò la scatola rettangolare e la rigirò tra le mani. Sull’elegante confezione bianca e celeste spiccava l’etichetta della più costosa e rinomata pasticceria della città. Alzò lo sguardo con perplessità e fissò il sorriso teso con cui il compagno di squadra stava spiando le sue reazioni.

‒ Aprila.

Rapidamente sciolse il fiocco di raso e scostò il coperchio. Le sue palpebre si spalancarono nello scorgere i cioccolatini bianchi finemente decorati nei loro scomparti dorati. Il profumo del cioccolato lo investì, solleticandogli piacevolmente le narici e ricordandogli che non aveva ancora mangiato nulla.

‒ E questi… ‒ mormorò sorpreso, riportando le iridi nere sull’amico.

‒ Perdonami se non sono stato bravo come te e li ho comprati ‒. Teppei inclinò la testa di lato, il sorriso nervoso che virava in uno di scuse. Sembrava sinceramente dispiaciuto, come se gli avesse fatto un vero e proprio torto.

‒ Ma… perché?

‒ Perché… ‒ All’improvviso il compagno sembrò a corto di parole; aprì e chiuse la bocca un paio di volte con evidente imbarazzo. ‒ Hajime… sai che giorno è oggi?

‒ Sabato.

‒ Non il giorno, il numero.

‒ Boh! 12? 13?

L’altro si passò una mano tra i corti riccioli scuri e sospirò, per nulla meravigliato da quel suo palese disinteresse. ‒ Oggi è il 14 marzo ‒ si limitò a dire, come se bastasse a spiegare l’ovvio.

‒ E allora? Dovrebbe cambiare qualcosa? ‒ Hajime fece spallucce, non riuscendo a capire dove l’altro volesse andare a parare.

‒ No, no, certo che no. Non cambia nulla…

Nonostante Teppei avesse pronunciato quelle parole con un tono indifferente, colse lo stesso una nota stonata. Non sempre l’amico era un libro aperto per lui, anzi, a volte faticava a capirlo del tutto, ma si rese conto lo stesso che qualcosa lo turbava nel profondo. E la sensazione che stesse facendo un grosso sforzo per dare alla sua riposta una parvenza disinteressata, divenne certezza quando lo vide girare il viso per nascondere l’espressione delusa e la piega amara delle labbra.

‒ Aspetta! ‒ Lo trattenne con la mano libera, attirandosi di nuovo il suo sguardo, la mente che iniziava a catalogare e riordinare le informazioni per dare loro un senso compiuto.

‒ Vuoi dire che… ‒ Spalancò le palpebre con stupore, affondandogli le dita nel braccio e rifiutandosi di credere a quell’idea che era appena esplosa nel suo cervello. Perché non era possibile.

Non era possibile che Teppei provasse davvero qualcosa per lui.

Di questo ormai era convinto, dopo aver atteso inutilmente che l’amico riprendesse il discorso lasciato in sospeso la sera di San Valentino, cosa che Teppei non aveva mai fatto, nemmeno una volta. E a lui non era rimasto altro che cercare un modo per uscire dal vicolo cieco in cui si era cacciato e rimettere il loro rapporto sullo stretto binario dell’amicizia. Perché se quella era l’unica strada che poteva percorrere per continuare ad averlo vicino, allora lo avrebbe fatto, anche se avesse dovuto ridursi a brandelli per strapparselo via dall’anima. Non sarebbe stato facile imbavagliare quel suo cuore riottoso che non voleva saperne di collaborare ma ci sarebbe riuscito.

Ora, la sabbia sembrava aver invertito il moto, risalendo la clessidra e riportando il tempo indietro di un mese.

Ingoiò a vuoto ed espirò piano l’aria che aveva trattenuto insieme a tutti i dubbi che lo avevano tormentato. Ogni pezzo del puzzle sembrava aver trovato la giusta collocazione e si sentì di nuovo se stesso, finalmente libero dalle pastoie mentali che lo avevano intrappolato nelle ultime settimane.

Appoggiò la scatola sulla scarpiera e fece un passo avanti, costringendo Teppei a farne uno indietro e a trovarsi intrappolato contro il muro.

Osservò il modo nervoso in cui le iridi cioccolato fecero un paio di volte la spola tra il suo viso e il corridoio prima di tornare a incrociare le sue.

Socchiuse le palpebre con fare rassicurante mentre il cuore prendeva un ritmo più veloce e il respiro tornava a morire un po’ alla volta.

Continuando a stringergli il polso con una mano posò l’altra sul muro, accanto alla sua testa, e adagio si sporse verso di lui, fermandosi a un soffio di distanza, talmente vicino da percepire il lungo brivido che lo attraversò da capo a piedi.

Sorrise con soddisfazione di fronte alla sua agitazione e al brusco contrarsi del suo respiro quando gli lasciò andare il polso per cingergli il fianco. I segnali che una volta gli apparivano ambigui e contraddittori erano così nitidi che si diede dello stupido per averli confusi con le proprie paure.

Osservò le mille sfumature dei suoi occhi, quel velluto color cioccolato reso cangiante dall’emozione che lo animava e lo faceva risplendere di pagliuzze dorate. Vi si immerse, sentendosene incantato e sedotto, mentre catene invisibili lo imprigionavano senza via di scampo; le accolse con gioia, assoggettandosi volontariamente al loro giogo, schiavo zelante agli ordini del padrone.

Si avventò su quelle labbra con un trasporto che lo avrebbe meravigliato se fosse stato in sé, ma il mondo della razionalità e del pensiero ero sparito, cancellato, sostituito da una nuova realtà dove i sensi erano gli unici padroni e dettavano regole che la mente non conosceva ma alle quali il corpo si sottomise subito.

Senza staccarsi da Teppei ma continuando a baciarlo con passione crescente, tolse la mano dal muro e la fece scivolare dietro la sua schiena per poterlo stringere con entrambe le braccia. Voleva sentirsi addosso ogni singola parte di lui, non soltanto le labbra e le mani che gli avevano circondato il collo. Ansimò con approvazione quando quel corpo maschio e robusto aderì totalmente al suo. Ed era così diverso da quelli morbidi e femminili ai quali era abituato che l’eccitazione lo attraversò come una scarica, percorrendogli ogni singolo nervo e riversandosi nel sesso, che si risvegliò chiedendo soddisfazione.

Intensificò la stretta con violenza, senza preoccuparsi di dosare la forza per non fargli male come aveva sempre dovuto fare con le ragazze, e sentire che Teppei non si sottraeva ma lo ricambiava allo stesso modo lo eccitò come non mai. Smise di lambire le sue labbra e insinuò la lingua nella sua bocca, alla ricerca di un contatto più intimo che l’altro non solo gli concesse ma che incoraggiò aggrappandosi ai suoi capelli.

Quel dolore misto a piacere gli fece perdere l’ultimo brandello di lucidità che gli era rimasta; continuando a baciarlo come se ne andasse della sua stessa vita lo schiacciò contro il muro e spinse il bacino in avanti, strusciando l’erezione contro quella del compagno, già turgida sotto gli stretti jeans neri.

Il desiderio di toccarla, di toccare tutto il suo corpo, di sollevargli i fianchi e possederlo, come aveva sognato di fare tante volte, si fece incontrollabile.

Svelte le sue mani si insinuarono sotto il maglione di Teppei, alla ricerca della pelle nuda. Accolse nella bocca il gemito che gli sfuggì quando le sue dita fredde gli sfiorarono la pelle calda della schiena e percorsero la spina dorsale con una lunga carezza. Ma quando una mano scivolò sui pantaloni per stringere con possessività uno dei suoi glutei, il compagno si divincolò, mettendo fine a quel lungo bacio.

‒ Hajime, aspetta. Aspetta!

Preso alla sprovvista da quel gesto repentino, tirò indietro il collo, l’espressione che mostrava sorpresa e sconcerto.

Si fissarono in silenzio mentre i cuori continuavano a martellare con furia e il fiato entrava e usciva velocemente da nasi e bocche aperte.

‒ Che c’è? ‒ chiese, il petto che si alzava e abbassava con affanno, avvicinando il viso per cercare di nuovo le sue labbra.

‒ Fermati ‒. Il compagno stoppò il suo gesto circondandogli la guancia con la mano.

‒ Perché? Non ti piace?

‒ Non è questo.

‒ E allora?

‒ Io… non capisco… ‒ Teppei si accigliò, la mano cadde dal viso per scivolare sulla spalla. Lì la fermò, appuntandovi sopra lo sguardo. ‒ Tu sei etero. Io non pensavo che potesse accadere, anzi, fino a un mese fa pensavo fosse impossibile. Cos’è cambiato? ‒ domandò, tornando a guardarlo negli occhi con quell’espressione attenta che, ora Hajime lo capiva, nell’ultimo mese aveva studiato attentamente ogni suo singolo gesto e reazione.

Hajime fissò le sopracciglia corrugate e l’espressione seria del suo viso. Tolse la mano dai glutei per tornare a cingergli la vita. Tirò un lungo sospiro, e si morse le labbra, ponderando la domanda.

‒ Non è cambiato nulla… ‒ si decise a rispondere, dopo una manciata di secondi. ‒ Le ragazze continuano a piacermi. È solo che a un certo punto mi sono reso conto...

‒ Di cosa? ‒ La domanda si tinse della stessa sfumatura calda che si accese nelle iridi cioccolato. E di fronte a quello sguardo che gli aveva mostrato sempre e solo amore, una volta ancora si diede dello sciocco per non averlo capito prima.

‒ Di quanto tu mi sia indispensabile ‒ ammise senza il minimo timore, chiudendogli le labbra con le proprie per assaporarle una volta di più. Morbide e calde, si muovevano in sintonia con le proprie e fu con grande sforzo che se ne separò. ‒ E tu invece? Perché non me lo hai mai detto?

Avrebbe voluto continuare a baciarlo ma dal momento che Teppei aveva tirato fuori l’argomento, tanto valeva chiarire ogni cosa. Soprattutto quell’aspetto di sé che l’altro gli aveva accuratamente nascosto.

‒ Pensi che non avrei potuto capire? Che ti avrei giudicato male? ‒ Il tono secco rese evidente quanto si sentisse ferito, e sì, anche arrabbiato, per quella che gli appariva come una palese mancanza di fiducia. ‒ Be’ sappi che non l’avrei fatto! Tu sei il mio migliore amico, lo sei sempre stato e sempre lo sarai! A me puoi dire tutto, devi dirmi tutto! Che cazzo! ‒ Si passò una mano nei capelli con impazienza e imbarazzo, lasciandola poi ricadere stretta a pugno lungo il fianco. ‒ Senti, so di aver fatto delle battutacce sull’argomento ma mi conosci abbastanza per sapere che certe cose non le penso sul serio, come se fossi nella posizione per poterlo fare, poi! Era solo per cazzeggiare un po’ con gli altri…

‒ Questo lo so.

‒ E allora?

Teppei sospirò e distolse lo sguardo, non prima di avergli rivolto un sorriso mesto. ‒ Se ti avessi detto che ero gay avrei anche dovuto parlarti dei miei sentimenti, non avrei potuto stare zitto di fronte alle tue domande… e non me la sono sentita. Avrebbe rovinato quello che avevamo ed era l’ultima cosa che volevo. E poi… sapevo di non avere nessuna possibilità e speravo che mi passasse.

Fece per staccarsi ma Hajime non glielo permise, continuando a tenerlo stretto per la vita. Non lo rassicurò che non avrebbe rovinato niente, perché c’era qualcos’altro che gli premeva chiedere. Gli prese delicatamente il mento tra le dita per avere di nuovo i suoi occhi da guardare. ‒ E ti è passata? ‒ chiese piano, accarezzandogli le labbra con il pollice. Sapeva già la risposta ma voleva sentirlo dalla sua voce, voleva una conferma, o, forse, la rassicurazione che i suoi sentimenti non sarebbero mai cambiati.

Teppei scosse appena la testa. ‒ No, ‒ confessò, calando piano le lunghe ciglia e tornando a cercare la sua bocca. ‒ Sono innamorato di te da sempre.

Hajime lo lasciò fare, abbandonandosi alle sue braccia che erano tornate a stringerlo con forza, come se avessero paura che fosse solo un sogno e potesse scompare se non lo avessero stretto a sufficienza.

E aveva un modo fantastico di baciare, seducente e dolce come il cioccolato bianco, diverso dal suo che si imponeva esigendo sottomissione.

Tornando a infilargli le mani sotto il maglione per saggiare la consistenza dei muscoli, Hajime si staccò dalla sua bocca per scendere a mordicchiargli la pelle sensibile del collo. Negli anni di amicizia e spogliatoi condivisi aveva imparato a conoscere il suo profumo ma il suo sapore era un qualcosa di nuovo e si prese tutto il tempo necessario per gustarlo, tirandogli i riccioli scuri per fargli inarcare la testa all’indietro. Leggeri schiocchi accompagnarono i movimenti della bocca che lambiva ed assaggiava, lasciandosi dietro un rosario di segni rossi di cui non si curò nel tornare verso quelle labbra che lo attiravano come una droga dalla quale non riusciva a fare a meno.

‒ Hajime…

Il suo nome, strozzato in un gemito mentre le loro bocche tornavano a incontrarsi, fu come musica per le sue orecchie, benzina gettata sul fuoco della sua eccitazione.

‒ Si… ‒ rispose allentando la pressione ma senza staccarsi del tutto, continuando ad accarezzare le sue labbra con le proprie.

‒ Hajime…

Di nuovo il suo nome, sussurrato con il tono adorante di chi a lungo non aveva desiderato altri che lui.

‒ Dillo ancora…

‒ Hajime…

E il suo nome non gli era mai sembrato bello come in quel momento.

La sua mano si mosse, scavallò il fianco e strisciò sulla pancia di Teppei, afferrò il bordo del maglione e lo sfilò insieme alla t-shirt per gettarselo con noncuranza alle spalle.

‒ L’hai… l’hai mai fatto? ‒ Il compagno lo ansimò prendendogli la testa tra le mani, mentre le sue dita e le sue labbra percorrevano quelle linee, ora nude, conosciute alla vista ma sconosciute al tatto. E il sapore della sua pelle era meraviglioso, così come aveva sempre immaginato.

‒ No, ‒ rispose a malincuore dopo qualche secondo, ‒ nessuna delle mie ragazze ha mai voluto… ‒ Gli pesava ammettere la propria inesperienza al riguardo, lui che si era sempre vantato di non avere remore o inibizioni dal punto di vista sessuale e si era sempre detto pronto a tutto. Si raddrizzò per incrociare il suo sguardo. ‒ Ma non sono uno sprovveduto.

‒ Non l’ho mai pensato ‒. Il sorriso ironico che affiorò sulle labbra di Teppei gli strappò un verso di sfida.

‒ Potresti sempre mettimi alla prova… ‒ insinuò, agganciandolo alla vita e indietreggiando in direzione della camera da letto, una luce ferina nelle iridi d’onice.

Teppei gli accarezzò piano le guance e rispose con una smorfia divertita. ‒ Potrei… ma prima… ‒ Piantò i piedi, fermando i loro passi. ‒ Ho portato un’altra cosa ‒. Si sciolse dall’abbraccio e tornò a rovistare nella stessa busta da cui aveva estratto i cioccolatini.

‒ Non puoi darmela dopo? ‒ Hajime lo raggiunse e lo cinse da dietro, baciandolo sotto il lobo dell’orecchio. ‒ Abbiamo aspettato così tanto…

Il compagno si raddrizzò e si girò tra le sue braccia, mostrandogli una bottiglia di liquore al cioccolato fondente. ‒ Ho girato tutta la città stamattina, purtroppo bianco non lo fanno. Che ne dici di un brindisi?

‒ Ecco perché non ti sei fatto sentire, ‒ Hajime sollevò un sopracciglio. ‒ Se proprio insisti…

‒ Insisto. Voglio festeggiare un desiderio realizzato.

‒ Un desiderio realizzato… ‒ Il suo pensiero corse alla sera di Tanabata e alle parole pronunciate da Teppei: « sarai il primo a saperlo ». Sorrise e lo baciò con una dolcezza che virò subito in passione. ‒ Vado a prendere i bicchieri, ‒ mormorò con voce soffocata quando si staccarono per riprendere fiato.

‒ Non servono.

Schiuse le labbra interdetto di fronte alla luce inequivocabile che brillava nelle iridi cioccolato. ‒ Cazzo! Tu sì che sei la mia metà! ‒ esclamò con espressione entusiasta, togliendogli la bottiglia di mano e trascinandolo in camera.

E mentre si buttavano sul letto, strappandosi i vestiti di dosso e giocando con i loro corpi e il liquore, un raggio di sole si fece strada attraverso la finestra, illuminando il muro nudo pronto ad accogliere i nuovi ricordi di un luminoso futuro.

 

 

 

Fine…

 

 

 

…e palla al centro.

 

 

Ho avuto l’idea per questa storia e ho iniziato a scriverla intorno a San Valentino, dopo aver letto un articolo che parlava del “White day”.

Il White day si festeggia un mese esatto dopo San Valentino: il 14 marzo. In pratica in quella data spetta ai ragazzi ricambiare il dono ricevuto, regalando cioccolata bianca ‒ da qui il nome ‒ o altro come gioielli, peluche o biancheria intima (l’importante è che sia bianca o di colore chiaro).

Avrei voluto pubblicare la shot per quella data ma, come al solito, il tempo è tiranno e non ce l’ho fatta. Senza contare che ho dovuto cambiare l’impianto tre o quattro volte perché i personaggi hanno la brutta abitudine di voler andare per fatti loro e sospenderne la stesura per dare la precedenza al pezzo sui ciccioli che ho scritto per “Black card”.

 

Ringrazio tantissimo Blackvirgo per il betaggio e per avermi seguito nella mia fissazione di passare al vaglio i vari sinonimi, alla ricerca del più adatto a esprimere quello che ho in mente. Grazie carissima.

 

E un ringraziamento anche a Melantò per avermi passato il codice necessario alla formattazione senza costringermi a sbattermi per recuperarlo LOLLLLL

 

I tre gatti che ho affibbiato a Teppei sono un omaggino ai miei maine coon: Sakura, Yuki e Bifur, soprannominato davvero Mordillo ma non Sacco di pulci LOLLLLLL, quella è tutta farina del sacco di Hajime.

 

  
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