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Autore: Alicat_Barbix    21/07/2018    3 recensioni
“Mi hanno congedato dal servizio… Una volta in Gran Bretagna sarò costretto a rintanarmi in casa come un ladro e a rispondere dei miei errori… Chissà, forse un giorno tutto questo finirà e potrò tornare da te senza rischiare di compromettere la tua vita. Sarai lì quando tornerò?”
John lo accarezzò delicatamente, lasciandogli una scia di baci umidi su tutto il volto. “Certo che ci sarò. Ti aspetterò.”
“Ti amo, John.”
“… Anche io, James.”
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“John, se questa fosse l’ultima notte insieme, l’ultimo momento insieme, che cosa faresti?” chiese il detective con voce flebile.
John ridacchiò, sporgendosi appena verso di lui. “Probabilmente una sciocchezza.”
“Perché una sciocchezza?”
“Perché ho troppa paura di perderti per fare quello che voglio.”
“Ma mi perderesti comunque: sarebbe l’ultima notte, ricordi?”
Gli occhi del medico si inumidirono appena a quella prospettiva. “Ma questa non è la nostra ultima notte, vero?”
Il coinquilino esitò e rafforzò maggiormente la presa sulla sua mano. “No, John. Ti prometto che non sarà la nostra ultima notte.”
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C’era una lacrima. John la raccolse con le labbra, ne saggiò il sapore e con la punta del naso accarezzò quella palpebra dolcemente socchiusa. “Non piangere, amore mio."
/Sholto/John/Sherlock/
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Maggiore Sholto, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dunque, premessa piccina piccina. In questa one-shot ho voluto ricostruire il rapporto sicuramente ambiguo che nella serie hanno introdotto con la presentazione del maggiore Sholto al matrimonio di John (Dai, non ditemi che non avete notato anche voi come si guardavano!). Ad ogni modo, per libera scelta e interpretazione, ho deciso di dare un'impostazione romantica alla loro storia, anche perché non sono della sponda che sostiene che John sia stato il primo amore di Sherlock e che Sherlock sia stato il primo uomo da cui John si è sentito attratto. Quindi, ho cercato di rimanere fedele alla serie e di concentrarmi su quelli che potrebbero essere stati alcuni missing moments, ma poi, ovviamente, ho dovuto rimaneggiare. E niente, scusate la lunghezza della premessa. Vi lascio alla storia! Non dimenticate di recensire per farmi sapere tutto quello che ne pensate! Buona lettura!

 

DO NOT CRY, MY LOVE
 
La notte era nera, le tenebre corpose, la luna spenta. In quella terra dilaniata da una guerra che pareva infinita, un pigro e assonnato via vai notturno animava l’accampamento militare britannico. Alcune sentinelle si muovevano con passi esausti e a tratti zoppicanti, gli occhi che vagavano faticosamente per i tendoni avvolti dal buio. Attraverso quel buio, un’ombra sgattaiolò lesta per le vie secondarie e non sorvegliate, avanzando furtivamente verso l’ala ricoveri. Una volta di fronte al tendone ospedaliero, la figura si guardò rapidamente intorno, infine sgusciò dentro silenziosamente. L’ambiente era vasto, puntellato di tanti lettini dismessi e cigolanti, sempre meglio delle brande su cui ogni soldato era ormai abituato a riposare, ma i materassi laceri e maleodoranti erano vuoti, fatta eccezione per uno, in fondo allo stanzone, su cui era seduta la sagoma di un ometto non troppo alto, incurvata in avanti.
“Credevo dormissi ancora.”
La figura seduta si voltò lentamente, comportamento inusuale per un soldato abituato com’era ad agguati e pallottole volanti.
“Maggiore.”
Il Maggiore James Sholto, ufficiale superiore dell’esercito britannico stanziato in Afghanistan, si avvicinò a quell’ometto ricurvo su se stesso come schiacciato da un qualche peso ineluttabile. Prese posto a sedere su una sedia malmessa e mezza pericolante, ma non osò proferir parola, conscio del fatto che in certe situazioni le parole non servono o forse non bastano. Attese.
“Mi hanno congedato dal servizio, vero?”
“Domani arriverà la notizia ufficiale, ma sì.” si limitò a rispondere, omettendo la parte che i suoi superiori si erano – a quanto pareva – divertiti a ripetere: siamo stati clementi, abbiamo pazientato, ma la sua zoppia non è migliorata e non è in grado né di combattere né di medicare i feriti. Inutile, l’avevano definito. Avevano avuto la faccia tosta di chiamare il Capitano del Quinto Fucilieri Northumberland inutile.
“Immaginavo.” sospirò il capitano passandosi una mano sul volto prima che una risatina amara gli lasciasse le labbra. “Ecco che cosa ottengo dopo aver salvato la vita di un ragazzo: una gamba inutile, un disturbo post traumatico e un congedo dal servizio.”
James ebbe la tentazione di allungare la mano per prendere la sua, ma si trattenne e si limitò a sporgersi lievemente più avanti, gli occhi che sondavano l’oscurità alla ricerca di quelli dell’altro. “Sei stato un eroe.”
“Gli eroi non esistono.”
“Lo credevo anch’io, prima di conoscerti.”
Il capitano scosse tristemente la testa, lo sguardo mesto. “Una volta agli eroi spettava un riconoscimento, mentre io me ne ritorno in Gran Bretagna senza lavoro, con un bastone e una vita senza futuro.”
“Watson, ti ordino di smettere di parlare in questo modo di te stesso.” ribatté James, stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche. L’altro, finalmente, alzò gli occhi su di lui e Sholto vi trovò smarrimento, confusione, disperazione, paura… Emozioni che avrebbe potuto incontrare negli occhi di un gattino sperduto, abbandonato in strada. Un moto d’affetto lo pervase completamente col suo abbraccio gentile e l’istinto di cercare con lui un contatto si affacciò di nuovo alla soglia dei suoi pensieri. Quando realizzò quanto fosse forte il potere che quel capitano all’apparenza così piccolo e fragile esercitava su di lui, lasciò che il suo sguardo si colmasse di dolcezza. “Una volta a casa, ti rifarai una vita lontano da tutto questo, dimenticherai la fame, il dolore, la stanchezza, la morte… Ricomincerai a vivere davvero e troverai una persona con cui condividere l’immenso peso che ora sei costretto a sopportare.” Le sue stesse parole, unite all’immagine di un John Watson felice e spensierato con una famiglia e un partner al suo fianco, gli provocarono dolorosi stiletti al petto.
Gli sembrò che John si fosse aperto in un sorriso triste. “Chi mai vorrebbe uno come me? Che cosa sono? Niente di più che un fallito, un rottame ordinario che non vale nulla. Ce ne sono a centinaia come me…”
E forse la valanga di parole sarebbe continuata a fluire con i suoi flutti spumosi di tristezza se la sua mano non fosse stata improvvisamente ghermita da quella grande e forte di James che si era inginocchiato di fronte a lui, gli occhi incatenati ai suoi. “Non dirlo.” disse in un soffio portandosi il dorso della mano dell’altro ad un centimetro di distanza dalle labbra, tutto d’un tratto incapace di controllare i sentimenti che era riuscito ad imprigionare dentro di sé per tutti quei mesi. “Non dirlo.” ripeté, prendendo a muovere il pollice avanti e indietro sulla pelle lievemente screpolata del medico militare. “Tu sei… meraviglioso. John.”
Era la prima volta che pronunciava il suo nome. Nonostante ormai potessero considerarsi amici, non aveva mai ardito articolare quelle poche lettere che in esse contenevano il mondo. Si trovò a sorridere nel sentire quel suono così bello e così rassicurante.
“John.” disse allora di nuovo mentre, per la gioia, depositava un bacio caldo e morbido sulla mano dell’altro, gli occhi dolcemente chiusi come catturati da un sogno nella veglia. Sapeva che era questione di secondi prima che John si ritraesse, inorridito, e riferisse ai suoi superiori che il Maggiore Sholto voleva portarsi a letto i suoi sottoposti. Eppure, con sua immensa sorpresa, l’altra mano del medico intrecciò le dita con le sue, formando un groviglio indistricabile. Riaprì gli occhi, incontrando lo sguardo incantevole dell’altro, e avvertì il desiderio di baciarlo ancora e ancora, perché quella era la loro ultima notte insieme, l’ultima occasione che avevano per dar voce a tutte quelle emozioni che fino ad allora avevano taciuto.
Perché James lo amava. Eccome se lo amava. Non ricordava quand’era iniziato tutto, se in quel primo momento in cui il colonnello Hawkins glielo aveva presentato come neo-capitano, o se quando, durante la loro prima battaglia, lui era stato ferito e John si era precipitato su di lui, senza preoccuparsi dei proiettili sotto a cui giocava a nascondino, o se invece quando, una sera lontana, si erano ritrovati al fronte, con due bottiglie in mano, ad ubriacarsi insieme per dimenticare le disfatte e festeggiare le vittorie.
James lo amava e la sola idea di averlo lontano da sé lo dilaniava e al contempo beava: in patria, almeno, sarebbe stato al sicuro da mine antiuomo e terroristi. Ed era disposto anche ad accettare l’idea di non vederlo mai più pur di saperlo sano e salvo.
“Non voglio andarmene.” biascicò John stringendogli più saldamente la mano. “Non voglio lasciarmi alle spalle tutto questo, il campo da battaglia, i miei compagni… te.” L’ultima parola era stato un bisbiglio appena udibile, ma c’era stata. “Non permettere che mi allontanino.”
“Anche se ne avessi il potere, non lo farei. Non potrei sopportare di portare in spalla, un’altra volta, il tuo corpo ferito, o magari anche…”
“Egoista.” Ma non c’era rimprovero nella voce del medico, solo un sarcasmo nero e forzato che ostentava una normalità che in realtà non c’era. Non più. “Egoista, anche perché ora che me ne vado tu…” Le parole gli morirono in bocca e fu costretto a distogliere lo sguardo.
Era sull’orlo delle lacrime, James poteva percepirlo nitidamente. Gli lasciò andare le mani e invece circondò il suo viso con le dita, i pollici che catturarono due lacrime silenziose. “Lo so, John, lo so. Sono un’egoista: preferisco saperti lontano da me, magari infelice, ma vivo, piuttosto che doverti rivedere a terra, privo di sensi. Ma io non potrei mai continuare sapendo che tu sei da qualche parte in mezzo a mine e a spari, bisognoso del mio aiuto mentre io sono impegnato, lontano.”
“E perché non puoi?” sussurrò John, accostando appena il suo viso a quello del maggiore.
“Perché sei il mio punto debole, capitano Watson.” rispose James appoggiando la sua fronte a quella dell’altro. “Perché ti amo.”
Le loro labbra si unirono senza che davvero qualcuno avesse preso l’iniziativa. Le parole avevano lasciato spazio alle carezze, la tristezza ad una fragile e temporanea felicità e il domani… il domani era lì, sopra le loro teste, che li opprimeva e che punzecchiava il sole affinché sorgesse e li strappasse l’uno dalle braccia dell’altro. Il ritrovarsi abbracciati assieme, sopra l’instabile lettino, nudi, fu solo l’ultimo passo di una marcia lenta e sofferta, che di glorioso aveva solo quei minuti e niente più. Pochi minuti e nessun trofeo di vittoria. Pochi minuti d’amore e poi il vuoto di una separazione forzata.
Fecero l’amore come se fosse stato l’ultimo giorno della Terra, come se una qualche apocalisse si stesse apprestando a giungere, si baciarono come due amanti destinati ad un addio bruciante, si tennero stretti l’uno fra le braccia dell’altro come zattere legate assieme in una tempesta, e quando John si assopì beatamente sul suo petto, James seppe che era tempo, per lui, di andarsene. Gli accarezzò i capelli dorati piangendo silenziosamente, poiché era l’ultimo istante che condivideva da solo con lui prima di salutarlo per sempre assieme ad un intero reggimento. Le labbra depositarono un bacio infinitamente lungo sul suo capo e aspirò il suo profumo con avidità.
“Addio, John.”
E sparì.
 
 
Ancora se le ricordava quelle parole appena mormorate al suo orecchio, quella dolcezza nelle carezze risolutive, quell’amore nell’ultimo bacio. Cercava di non pensarci, di non pensare a quella notte, perché il pensiero lo straziava. Ma stava diventando sempre più difficile, sempre più doloroso tenersi lontano da quella sorta di droga, durante le sessioni con Ella, di fronte a quella schermata aperta su un blog che – sapeva – non avrebbe mai scritto, in quel letto freddo e ostile della sua squallida pensione.
Camminava per Russell Square Park mentre con la memoria accarezzava l’immagine di James Sholto che gli prendeva la mano, si chinava di fronte a lui e lo baciava.
Perché sei il mio punto debole, capitano Watson.
Il suo punto debole. Non era mai stato così importante per nessuno, in tutta la sua vita, da essere considerato un qualcosa di irrinunciabile. Non era un insulto. Era una dichiarazione. Era dire: sei così importante che per te morirei. Era il mondo.
Perché ti amo.
Lo amava. James lo amava. John non sapeva se lo amava a sua volta. Sapeva solo che sì, era da sempre stato irreparabilmente attratto da lui: era intelligente, coraggioso, a tratti forse stronzo, e stare con lui nel senso romantico del termine rappresentava vivere perennemente in bilico su un filo sottilissimo. Ma forse era anche per questo che gli piaceva: fin da ragazzo, aveva cercato adrenalina, avventure, pericolo. E James Sholto era il ritratto di tutto questo. Un ritratto che John sarebbe rimasto a contemplare per sempre.
Addio, John.
Credeva fosse un sogno. Credeva che niente di tutto quello fosse reale. Per questo l’aveva lasciato andare. Per questo non si era alzato, non lo aveva fermato e non aveva ripreso a baciarlo e a farci l’amore. Si era detto che quando avrebbe aperto gli occhi si sarebbe trovato nella propria tenda di capitano, pronto per un’operazione da guidare e per un Maggiore da impressionare. Ma al suo risveglio, si era ritrovato nel tendone ospedaliero, con un cadetto dispiaciuto che gli consegnava la lettera del Commando che lo rispediva dritto dritto in Gran Bretagna. Si era vestito in fretta, aveva afferrato il borsone, le poche cose che aveva, e si era preparato ad affrontare le fauci del mondo esterno. Fuori da lì, si era assiepato l’intero reggimento che al suo arrivo si era esibito in un esemplare saluto militare a cui lui aveva risposto con scarso entusiasmo. I suoi occhi avevano subito cercato quelli di James e non aveva impiegato troppo a trovarli, ma per quanto avesse desiderato slanciarsi verso di lui e stringerlo in un abbraccio passionale, si era limitato a stringergli la mano e a lasciare che i suoi occhi si inumidissero appena sotto lo sguardo lucido dell’altro. Troppo tempo sprecato. Troppe questioni taciute. Troppi sentimenti soffocati. Da quella mattina, non l’aveva più rivisto. Era passato un mese ma a lui sembrava un’eternità.
“John Watson! Ehi! Dico a te!”
Si voltò col volto dipinto dallo stupore, stupore che si accentuò ancora di più quando si trovò davanti un uomo sulla quarantina, basso e in sovrappeso. Studiò quel viso con la percezione che lo avesse già visto da qualche parte… ma dove?
“Stamford. Mike Stamford, eravamo insieme alla Barts.”
Stamford? Quello Stamford? Lo Stamford che gli aveva insegnato per la prima volta come abbordare una ragazza? Lo Stamford che a cui aveva passato l’intero compito di biologia all’esame? Lo Stamford che gli aveva presentato quel suo amico per cui poi lui si era preso la prima sbandata gay?
“Ho sentito che ti hanno sparato, che è successo?”
Voleva nascondersi… Nascondersi da quegli occhietti curiosi, da quel naso che aveva la brutta abitudine di ficcarsi sempre negli affari altrui, da quel sorrisetto che la sapeva lunga.
“Mi hanno sparato.” rispose seccamente.
Presero un caffè assieme e si sedettero su una panchina a parlare. O almeno, Mike parlava, John era rimasto in silenzio fin dall’inizio, a lanciare sguardi furtivi all’orologio, nella speranza che il fattore tempo giocasse a suo favore, ma Stamford parlava e parlava, riempiendosi la bocca del passato e dei progetti futuri.
“Resti in città finché non trovi qualcosa da fare?”
“Non posso permettermi Londra con la pensione dell’Esercito.”
“Nah, non sopporteresti di stare da nessun’altra parte. Questo non è il John Watson che conoscevo!”
Ecco. Chi era John Watson? Qual era il John Watson che Stamford conosceva? Era il diciassettenne che cambiava fidanzata continuamente mentre si struggeva per un ragazzo irraggiungibile? Era il medico militare che aveva combattuto e salvato vite in Afghanistan? O era il John Watson che aveva fatto l’amore con James Sholto, che in lui aveva trovato una scialuppa di salvataggio che però gli era stata portata via improvvisamente? Non lo sapeva neanche lui. “Sì, non sono più il John Watson…” Ma la frase gli si spense sulle labbra, mentre la mano sinistra venne scossa da un tremore maligno.
 “Non lo so... perché non ti cerchi un coinquilino, o una cosa del genere?”
“Oh, andiamo. Chi mi vorrebbe come coinquilino?”
Mike ridacchiò appena, scoccandogli un’occhiata divertita. “Sei la seconda persona che me lo dice, oggi.”
E due voci presero a strepitare nella sua mente, in coro, ma con tonalità completamente diverse: una acuta che gli gridava di voltarsi e dimenticarsi di Stamford e del misterioso coinquilino, l’altra, invece, oscura, roca, che sussurrava diabolicamente di fare un tentativo, di provarci. E se non fosse stato così disperato da crogiolarsi ogni giorno nella noia e nella depressione del dopo-Afghanistan, probabilmente si sarebbe limitato ad alzarsi e andarsene, ma invece strinse appena gli occhi e chiese: “Chi è stato il primo?”
 
 
Sherlock Holmes. Consulente investigativo. Unico al mondo, a detta sua. John ancora faticava a capire che cos’era successo. Sapeva solo che era entrato nella vita di questo Sherlock Holmes con la velocità di una fuga dalle fauci dei terroristi. Lo vedeva, il campo di battaglia. Era lì, per le strade di Londra, in una cabina telefonica, nella corsa di un taxi, negli occhi di un senzatetto, tra i graffiti sui muri, al margine di una piscina, dietro lo specchio di una donna… Sherlock Holmes lo aveva trascinato con sé nella sua routine pazza e sfrenata, con la sua insolenza e la sua genialità, con casi, inseguimenti, fughe, tranelli, coperture… Era vita. Forse più vita di quella in Afghanistan. Era passato un anno e mezzo. Un anno e mezzo senza fucili, operazioni, mine, spari. Senza James Sholto. A volte ci pensava ancora, ma il ricordo si era fatto scolorito, come una vecchia fotografia impolverata, persa tra le pagine ingiallite di un album di famiglia. A volte ci pensava ancora, a quella notte, a quel corpo stretto al suo, nel suo, a quei gemiti che avevano dovuto reprimere per non farsi scoprire, a quel senso di soffocamento nel contenere gli annaspamenti, i sospiri, le urla. Solo la lontananza glielo aveva fatto capire: lui amava James Sholto. L’aveva sempre amato, solo che c’era voluto quel brillante consulente investigativo per farglielo capire.
Ogni volta che posava il suo sguardo su quella figura persa nella sua splendida mente, pensava a lui, a quanto si somigliassero, a quanto stronzi potessero entrambi essere, a quanto orgogliosi potessero essere, a quanto meravigliosi potessero essere.
Sherlock Holmes. James Sholto.
Non aveva mai confidato al suo coinquilino il rapporto col suo superiore, perché se da un lato amasse crogiolarsi in quel brandello di ricordo che possedeva di lui, dall’altro si vergognava, credeva che Sherlock potesse cambiare opinione su di lui, allontanarlo, giudicarlo.
Anche quella mattina si era perso a contemplare la figura apparentemente assopita del consulente investigativo. Il cielo fuori era bigio e il sole pulsava appena dietro la cappa di nuvole. Sherlock se ne stava sdraiato sul divano, le mani giunte sotto al mento, gli occhi che, dietro le palpebre, baluginavano come la fiamma di una candela. John, invece, sedeva sulla sua poltrona, alternava sguardi fugaci al coinquilino e sguardi annoiati al telegiornale che stavano trasmettendo proprio in quel momento. La giornalista che conduceva stava esponendo qualche statistica circa il bilancio economico del Paese, ma improvvisamente, si portò una mano all’orecchio, lì dove c’era il microfono in diretto collegamento con lo studio e la sua fronte si corrugò stupita.
“Dobbiamo interrompere l’esposizione dell’andamento economico nazionale perché ci è appena giunta una notizia dal fronte dell’Afghanistan, dove un’operazione condotta dal maggiore James Sholto si è rivelata fallimentare, portando allo sbaraglio il contingente di reclute…”
La voce della donna prese ad illustrare i fatti con le informazioni di cui disponeva, ma John si era già allontanato da quella poltrona, da quel salotto, da quello Stato. Era in Afghanistan, a fianco dell’uomo che amava, lo vedeva guidare quei ragazzotti troppo cresciuti e ancora bambini, lo vedeva esortarli, incoraggiarli, lodarli, e poi lo osservava combattere come una belva per la vita sua e dei suoi ragazzi. Una fottuta imboscata. I ragazzi cadevano uno a uno, i fucili ancora fra le braccia, gli occhi rivolti al cielo folli di paura… E poi c’era James che si ergeva bello e maestoso nel campo di battaglia, mentre contemplava la sua rovina. Un proiettile lo centrò in fronte e lui rovinò a terra senza un lamento.
John serrò gli occhi e scosse forsennatamente la testa. Quando li riaprì, la fotografia del maggiore occupava gran parte dello schermo. Ferito il Maggiore Sholto, incaricato a guidare l’operazione, ricoverato d’urgenza a Kabul, prognosi riservata. Così diceva la scritta che campeggiava sotto l’immagine. John tremava, di paura, la mano sinistra gli formicolava e per un attimo ebbe quasi l’impressione che, facendo un passo, si sarebbe trovato a zoppicare. Era vivo… Grave, ma vivo… Si accorse della presenza di Sherlock solo quando questo gli appoggiò una mano sulla spalla.
“Lo conosci?”
“Io… sì.” si limitò a rispondere mentre la fotografia di James scompariva e apparivano filmati di guerra dell’Afghanistan. John si sentiva inutile. Se ne stava lì, nella bella comodità di Baker Street, con la sua vita che, pian piano, si ricomponeva, mentre l’uomo che amava ora giaceva ferito gravemente su un lettino d’ospedale in un paese dove infuriava la guerra. “Devo andare.”
“Cosa?”
“Devo andare da lui.”
“John, non essere ridicolo. Non puoi andare in Afghanistan, c’è la guerra laggiù, la gente muore…”
“Sì, lo so, Sherlock. Ti ringrazio dell’informazione, ma conosco perfettamente quello che si sta scatenando in quel posto, ci sono passato anche io.”
“Capisco che, essendo un tuo compagno d’armi, tu possa volerlo sostenere, ma da qui a prendere un aereo per andare in Afghanistan c’è differenza.”
“Tu non capisci.” sputò solo John, voltandosi verso il consulente investigativo e rivolgendogli un’occhiata di fuoco. “Lui per me c’è sempre stato, in ogni momento, persino in quella maledetta, ultima notte in cui tutto quello a cui riuscivo a pensare era che la mia vita sarebbe andata a puttane non appena avrei lasciato l’Afghanistan.” Tacque per alcuni secondi. “Io devo esserci, voglio esserci.”
Sherlock ricambiò il suo sguardo e John si pentì di essergli saltato al collo a quella maniera, quando l’unica cosa che il suo amico voleva fare era farlo ragionare. Ma John Watson, quando si trattava di una persona amata, non ragionava più lucidamente ed era disposto a fare tutto. Tutto.
“Parlerò con Mycroft. Partirai il prima possibile e avrai un lasciapassare per andare dal tuo… amico. A patto che possa venire anche io.”
“Grazie, Sherlock e… se è quello che vuoi, puoi venire.”
C’era tristezza in quelle iridi chiare. “E’ quello che voglio, John.”
 
 
Il solo rivedere quell’edificio provocò a John una stilettata all’altezza del petto. Quella terra, che per tanto tempo i suoi piedi avevano calcato con passo militare, lo aveva riaccolto nel suo abbraccio di morte con crudeltà, strappandolo ai rimasugli della sua vita a Baker Street. Sherlock, accanto a lui, osservava tutto quello per la prima volta, con gli occhi di un bambino curioso, e John aveva provato un moto di tenerezza nel vederlo girarsi freneticamente a destra e a sinistra durante la loro traversata dall’aeroporto all’albergo. Avevano lasciato i bagagli al receptionist e avevano noleggiato un auto.
Ed eccoli lì, al cospetto di quell’edificio cupo, butterato da vecchi bombardamenti. Il cuore di John batteva forsennatamente nel suo petto, l’emozione e la paura di rivedere James lo dilaniava e non sapeva se desiderasse rimandare o semplicemente togliersi il dente. Fu Sherlock, col suo portamento da lord, a decidere per lui. Entrò nell’ospedale avvolto nel suo cappotto e scambiò con la ragazza al banco di informazioni qualche parola. Quando ebbe concluso, gli fece cenno di seguirlo.
“Hai parlato il pasthu?”
“Non è poi così difficile, John. Sapevo che non mi sarei potuto fidare delle tue conoscenze linguistiche e così ho dovuto provvedere.”
“In quanto l’avresti imparato?”
“La durata del volo da Londra fino a qui.”
“Sei allucinante…”
Fu lui a guidarlo fino alla terapia intensiva, e fu sempre lui a fermare un medico – italiano – e a chiedergli informazioni circa le condizioni del maggiore Sholto. John ascoltò a sua volta con attenzione le parole del medico e, a quanto pare, James si era già risvegliato dal coma farmaceutico e stavano già provvedendo alla riabilitazione.
“Posso vederlo?”
“E’ ancora molto debole, ma se proprio ci tiene le concedo venti minuti al massimo.”
Ringraziarono il dottore, che li guidò fino alla stanza destinata a James. John avrebbe voluto affacciarsi, prepararsi a quello che di lì a poco avrebbe visto, ma si trattenne, perché la paura era tanta e non voleva mostrarsi, agli occhi di Sherlock, più ansioso di quel che già era. Si chiese se avesse già capito tutto, con quella sua spiccata abilità nell’osservare.
“Io ti aspetto nella hall, quando hai fatto mi trovi lì.”
Guardò la figura dell’amico allontanarsi con passo quasi strascicato, come se sulle sue spalle fosse ricaduto all’improvviso un qualche peso. Si sentiva meschino. Non capiva perché. Era come se la sua presenza lì testimoniasse quanto effettivamente tenesse a James più di quanto tenesse a Sherlock. E non aveva ancora capito se ciò corrispondeva alla realtà, perché sì, amava il suo ex ufficiale come non aveva mai amato nessuno, ma Sherlock era il suo migliore amico ed era intelligente e spiritoso e scontroso e arrogante e saccente… Sherlock era Sherlock. E il solo pensare a lui gli infondeva un senso di sicurezza e di appartenenza. Era solo grazie a lui se era riuscito ad andare avanti e a voltare pagina dopo l’Afghanistan.
Scacciò quel turbinio di pensieri dalla testa e aprì timidamente la porta, infilandosi dentro il meno rapidamente possibile. Quando se la richiuse alle spalle, venne avvolto dall’oscurità che dominava nella cameretta. Nella penombra, lo vide, accasciato su quel lettino, divorato da un male interiore che andava ben oltre quello fisico. Improvvisamente, non fu più sicuro di nulla: si era catapultato in Afghanistan appena saputa la notizia, ma come avrebbe reagito James? E se avesse dimenticato quella notte, quell’amore, e avesse trovato qualcun altro?
“Non sono in vena di visite, voglio riposare.”
La sua voce lo fece tremare, gli scosse le viscere. Era lui. Eppure non era lui. C’era il suo solito orgoglio, ma si percepiva anche un’impotenza sfiancante. Era James ma non era James.
“James…”
Un pigolio appena percettibile. Si diede dello stupido perché sicuramente non era stato udibile, ma subito, nell’oscurità, scorse il capo del maggiore voltarsi di colpo e, anche se non li vedeva, sentì i suoi occhi su di sé.
“John… Dio santo, se è ancora una fottuta allucinazione per la morfina io giuro che…”
John accorse al suo capezzale e cercò la sua mano, quella splendida mano che aveva stretto nella sua durante il loro addio. “Sono io, James, non sono un’allucinazione. Sentimi, toccami, sono qui.”
“John… John… Oddio, John.” Un pianto a fatica represso si diffuse straziante nella stanza, mentre John accarezzava quella pelle ruvida e martoriata dall’esplosione a cui era sopravvissuto. “Ho fatto una cazzata, John… Sono morti tutti, John, tutti… Li ho visti cadere uno dopo l’altro e non ho potuto fare niente… Erano così giovani, così fottutamente giovani…”
“Sssh… Non parlare, adesso.” lo rabbonì lui posandogli un dito sulle labbra divise a metà fra la parte del corpo sana e quella insana. “Appena ho saputo, sono corso quaggiù per vedere come stavi. Cristo, James, quando hanno trasmesso quella notizia mi sono sentito morire, ho pensato che tu… che tu…”
“Baciami, John.”
John lo guardò con amara dolcezza. “James, noi non… non ha senso.”
“C’è qualcun altro nel tuo cuore, adesso?”
Fu un riflesso istintivo il pensare a Sherlock. Non che nutrisse per lui qualunque altro tipo di sentimento oltre all’amicizia o – semmai – alla fratellanza, ma non poteva negare che sì, Sherlock apparteneva al suo cuore, a quella piccola parte che James aveva lasciato libera.
“No, James, nessun altro.”
“E allora baciami, capitano Watson, perché senza di te ho vissuto un Inferno.”
Lo stava supplicando, come se lui fosse il carnefice che di lì a poco lo avrebbe cancellato dalla faccia della Terra. E quelle labbra lo chiamavano, quel continuo martellare che aveva in petto lo chiamava, quel bambino smarrito che lo stava pregando lo chiamava. Così si piegò su di lui e lo baciò delicatamente, timoroso di fargli male, ma presto la lingua di James lo costrinse a schiudere le labbra per lasciargli il possesso della sua bocca. Era tanto bello quanto sbagliato. Si amavano, si desideravano, si appartenevano, ma non c’era futuro per loro. Non ora.
Fu John a staccarsi a fatica, a riacquistare il buon senso, a rimediare l’irrimediabile che si sarebbe potuto scatenare. “Sei impazzito?” lo rimproverò bonariamente scostandogli una ciocca di capelli dagli occhi. “Sei debole e hai bisogno di riacquistare le forze.”
“Sei tu la mia forza, John. E’ bastato l’averti qui per sentirmi meglio e… dimenticare per pochi minuti tutta questa merda da cui sono circondato. E io voglio sperare… voglio sperare in un noi, John. Ora più che mai.”
John non aveva mai neanche contemplato la possibilità di coronare quel sogno d’amore proibito, e i mesi trascorsi a Baker Street, con Sherlock, avevano rafforzato il suo non pensarci. Per un attimo, si figurò in mente quella vita, accanto all’uomo che amava, accanto a James Sholto… E Sherlock? Che avrebbe fatto, Sherlock, senza di lui? Oh, al diavolo Sherlock, per una volta! Perché doveva sempre tirare in ballo Sherlock?
“E’ un po’ presto per pensarci, non trovi?”
“Forse. Ma so aspettare, John.” I venti minuti trascorsero in fretta e presto si affacciò un’infermiera per chiedere a John di lasciar riposare il paziente. Prima di uscire, però, l’ex soldato rubò a James un rapido bacio a fior di labbra. “Quando parti?”
“Domani. Sai, tra il lavoro e tutto…”
“Oh. Quindi è un saluto definitivo, questo?”
“Credo di sì.”
Una risatina amara lasciò le labbra di James. “Il nostro tempo è sempre così poco, cazzo…”
“Magari un giorno sarà diverso.”
“Magari…”
Si guardarono in silenzio per pochi altri secondi, infine, John si volse, ma proprio mentre era sul punto di lasciare la stanza, la voce del maggiore lo paralizzò. “Ti amo, John.”
Sorrise tra sé e sé ripetendosi quelle parole interiormente. Era la seconda volta che le sentiva pronunciate da quell’uomo. Era davvero così facile, per lui, dirlo? Confessarlo? John avrebbe desiderato così tanto avere la sua stessa forza, il suo stesso coraggio, ma quando si trattava dei sentimenti era un po’ come Sherlock. Insicuro. Incasinato. Estraneo.
“Proverò a tornare, domani. Ma non ti assicuro niente.”
“Vuoi torturarmi, John, dicendomi questo?” rispose con una mezza risata James. “Lo sai che adesso non farò altro che aspettarti e quando non verrai… beh, puoi immaginare.”
John abbassò lo sguardo, per poi rialzarlo nuovamente. “Ci vediamo presto, James.”
“Lo spero, John.”
 
 
John sprofondò nel suo letto, perso a contemplare il soffitto e a rimuginare su quell’incontro surreale. James lo amava ancora, lo voleva ancora, aveva addirittura dei progetti per loro, per la loro vita futura. L’acqua della doccia proveniva scrosciante e potente dal bagno dove Sherlock si stava rilassando da ormai mezz’ora. Preferiva un lungo bagno nella schiuma, è vero, ma quando si trattava di gingillarsi sotto un getto d’acqua calda qualunque, era il maestro dell’ozio. Quando il coinquilino uscì dal bagno avvolto nella sua inseparabile vestaglia blu che era stata una delle prime cose che aveva messo in valigia, John si alzò per farsi a sua volta una doccia. Non appena l’acqua lambì la sua pelle, maledisse interiormente l’amico che aveva consumato tutta quella calda. Fu, dunque, questione di un paio di minuti perché uscisse dal box e si assicurasse un asciugamano in vita. Nella fretta di andare in bagno per coricarsi il prima possibile in modo da svegliarsi altrettanto presto per la visita a James, si era dimenticato il cambio nel piccolo borsone che si era portato come bagaglio. Uscì a torso nudo, tremante per il freddo, e prese a razzolare convulsamente in valigia, scosso dai brividi.
“Grazie per aver finito l’acqua calda, eh.”
Attese la replica secca dell’altro, ma quando non arrivò si voltò per vedere se si fosse già chiuso nel Palazzo Mentale. A quello che vide, però, non era preparato. Sherlock lo fissava. Intensamente. Spudoratamente. Percorreva ogni centimetro della sua pelle bagnata senza indugi e senza imbarazzo. Era come se stesse osservando un quadro, un’opera di cui carpire il significato. E John non si mosse. Si lasciò guardare, forse anche ammirare, e un sinistro gorgoglio al petto si palesò timidamente a lui, insieme ad un calore familiare all’altezza del basso ventre. Quando capì quello che stava accadendo, ebbe l’impulso di chiudersi in bagno e accasciarsi a terra, in preda alle dolorose scariche elettriche che percorrevano il suo corpo infreddolito, ma rimase lì, fermo, mentre Sherlock superava il suo letto, scavalcava la sua valigia, e gli si avvicinava con espressione seria. Quegli occhi, ora non più così gelidi come al solito, non avevano ancora smesso di studiarlo, non avevano ancora incrociato i suoi. Sherlock si fermò a un soffio da lui, il suo fiato caldo fece rabbrividire John, ma non solo a livello fisico. Era confuso, completamente confuso, irrimediabilmente confuso. Quel pomeriggio aveva rivisto l’uomo che amava, che aveva amato per un anno e mezzo senza avere sue notizie, che aveva raggiunto non appena saputo del disastro dell’operazione… Ed ora si trovava in quell’angusta cameretta di uno squallido hotel della capitale afghana, insieme al suo coinquilino, nonché migliore amico, ad una distanza imbarazzante, con un altrettanto imbarazzante sfogo verso il suo inguine. Suggestione. Ecco, cos’era. Era semplicemente suggestionato dalla presenza di Sherlock così sfacciatamente dentro i limiti del suo spazio vitale. Provò ad immaginarsi James, lì di fronte a lui. Sostituì i ricci spumosi con un taglio militare, gli occhi acquamarina con un paio verdi, il corpo allampanato con uno prestante e temprato… Eppure qualcosa, in quell’immagine, stonava. Quando sbatté ripetutamente le palpebre e la scena ritornò come doveva essere prima che la sua mente la rimaneggiasse, fu come se tutto fosse di nuovo apposto. E John non capiva. Non capiva e forse non voleva. Non capiva se stesso e non capiva Sherlock. Sherlock che aveva allungato una mano e l’aveva appoggiata sul suo petto. Sherlock che si ostinava a fissarlo come un predatore.
“Sherlock…” biascicò John con la mente annebbiata dalla pericolosa vicinanza del suo coinquilino. “Che stai… che stai-”
“La cicatrice, John.” lo interruppe Sherlock. “Io non… non l’avevo mai vista.”
L’intero corpo di John sembrò sgonfiarsi improvvisamente e se non fosse stato dotato di una sufficiente dose di autocontrollo, si sarebbe lasciato sprofondare a terra. “E’ orribile, vero?”
“No, è… assomiglia alla tela di un ragno.”
“Per me assomiglia più all’incrinatura su un vetro che sta per frantumarsi.”
“Punti di vista.”
“Suppongo di sì.”
Rimasero ancora fermi in quella posizione e, quando Sherlock finalmente rialzò lo sguardo, lui non poté evitare di inumidirsi le labbra con le lingua. Gli occhi del consulente investigativo si strinsero appena di fronte a quel gesto interpretabile in diversi modi – un segno di nervosismo, di disagio, un invito. John, lo stesso John che aveva baciato poco prima il maggiore Sholto, ora si chiedeva come sarebbe stato baciare Sherlock, il suo migliore amico. E no, decisamente non capiva più niente.
“Resterai, non è vero?” La voce dell’altro lo riportò alla realtà. “Resterai per lui.”
“Io… c’ho pensato, sì. Ma non ho ancora preso una decisione.”
“Credo che sarebbe meglio.”
“Per chi?”
“Per tutti.”
“Che vuoi dire?”
Sherlock retrocedette e fu come perdere la bussola durante una tempesta. “Voglio dire che se tu rimanessi faresti un favore tanto per cominciare al tuo… amico o chiunque sia, in secondo luogo faresti un favore a te stesso e infine lo faresti a me, perché non posso lavorare con qualcuno che ha la testa completamente altrove e che sospira ogni tre secondi come un’anima in pena.”
“Io non faccio così!”
“Non ancora, ma sono certo che non ti perdoneresti mai per aver lasciato sola la tua dolce metà.”
John osservò la sagoma del coinquilino sdraiarsi sul letto e non poté negare che era davvero uno spettacolo per gli occhi. “Io e James non… non siamo…”
“Tranquillo, John, risparmiami qualunque tipo di scuse. Non sono minimamente interessato alla tua vita sentimentale e di certo non voglio esserne reso partecipe.”
“Tutto qui?”
“Tutto qui cosa?”
Era come se fossero tornati a quel laboratorio, intenti ad analizzarsi reciprocamente, come due fiere ferite che cercano di capire la pericolosità l’una dell’altra. John non riusciva a spiegarsi il motivo per cui si sentiva così a disagio a parlare con Sherlock di James. Insomma, a Lestrade aveva confidato qualcosa e non aveva avuto problemi a parte una piccola incertezza iniziale, eppure col suo coinquilino ogni logica razionale veniva ribaltata.
“Vuoi che resti?” chiese alla fine.
“Prego?”
“Se mi dirai che non hai bisogno di me e che preferisci che io resti qui ancora qualche giorno, allora ti accontenterò. Altrimenti partirò con te.”
Sherlock ridacchiò. “Sul serio, John? Cosa sono, tua madre? Devi davvero avere la mia approvazione per fare delle scelte?”
“Ti stai comportando da vero stronzo.”
“E allora forse dovresti stare con il tuo James Sholto. Sono certo che non avrebbe alcun interesse nel comportarsi da stronzo, soprattutto se ha intenzione di portarti a letto.”
“Sherlock!” tuonò John allibito. Non riusciva a credere a quelle parole, a quel veleno che trasudava dalla voce del suo amico. “Mi spieghi qual è esattamente il tuo problema?”
“Niente, John, niente. Ho solo capito che non sarei dovuto venire.” sentenziò l’altro voltandosi dall’altra parte e schiacciando l’interruttore della luce.
John rimase a lungo fermo in mezzo alla stanza, ancora col solo asciugamano indosso, ad osservare quella figura a malapena distinguibile nella penombra. Non sapeva neanche quando o perché fosse scoppiata quella lite. Perché avevano litigato, vero? Con Sherlock era sempre tutto così incasinato. Al contrario di James. James lo amava e lui… lui amava James. Che si fottesse quella ragazzina mestruata con cui condivideva l’appartamento e ora la stanza. Quando gli ormoni avrebbero frenato il loro incedere, allora forse sarebbe stato anche in vena di seppellire l’ascia di guerra, ma fino a quel momento se ne sarebbe fregato di lui e di quello che gli passava in quella mente contorta al pari di una giungla. Mentre, però, si rigirava nel letto, incapace di prendere sonno, avrebbe solo desiderato che Sherlock allungasse una mano e lo toccasse come aveva fatto prima. Ma ovviamente, niente di tutto questo accadde.
 
 
I giorni che seguirono furono un misto di gioia e amarezza. Gioia perché ogni volta che si trovava in compagnia di James gli sembrava di poter prendere a calci e a pugni il mondo intero. Tristezza perché la discussione con Sherlock sembrava non volergli dare pace. Il giorno, lo trascorreva a fianco del maggiore, aiutandolo con la riabilitazione e passando le poche ore in cui dormiva in giro per l’ospedale a dare una mano. La notte, osservava il letto vuoto accanto al suo e se lo immaginava occupato da quella figura appallottolata nella sua vestaglia, col broncio, offesa.
Poi, al settimo giorno, arrivò la notizia: le famiglie delle nuove reclute, quelle cadute nel corso dell’operazione guidata da Sholto, si erano riunite e avevano avviato un processo penale a carico di quest’ultimo. Volevano giustizia. E l’avrebbero avuta, in qualche modo, a detta del padre di uno dei ragazzi, un certo Peter Small. Furono giorni difficili, quelli. James ricevette la Victoria Cross per essere sopravvissuto alla battaglia, ma i giornalisti e l’opinione pubblica cominciarono a bombardarlo con insulti e giuramenti di vendetta. Aveva persino rinunciato alla difesa. Si sentiva responsabile della morte di quelle reclute e riteneva che meritava di peggio che una punizione giudiziaria.
In tutto quel marasma, John gli rimase accanto finché poté, cioè finché Sarah non gli comunicò che i suoi giorni di ferie disponibili erano ormai giunti al termine e che avrebbe dovuto rientrare a lavoro il giorno seguente. Trascorsero la notte insieme come circa due anni prima, ma stavolta c’era qualcosa di sbagliato. Quando si accasciarono l’uno sull’altro, ansanti e con la vista annebbiata dal piacere, John avvertì il respiro di James diventare ancora più irregolare e solo quando la sua testa, poggiata sul petto dell’altro, venne scossa dai singhiozzi si rese conto che stava piangendo. Lo stato psicologico del maggiore, in quei giorni, era fortemente instabile a causa del trauma e della fiacchezza dovuta agli antidolorifici. John l’aveva visto spesso crollare, ma quella notte comprese che non aveva niente a che fare con l’operazione fallita, le giovani vite spezzate, la sconfitta subita, l’opinione pubblica inferocita… Comprese che quelle lacrime e quei singulti nascevano da radici ben più profonde, da un secondo addio, una seconda separazione, una seconda flebile speranza di rivedersi.
“Mi hanno congedato dal servizio… Una volta in Gran Bretagna sarò costretto a rintanarmi in casa come un ladro e a rispondere dei miei errori… Chissà, forse un giorno tutto questo finirà e potrò tornare da te senza rischiare di compromettere la tua vita. Sarai lì quando tornerò?”
John lo accarezzò delicatamente, lasciandogli una scia di baci umidi su tutto il volto. “Certo che ci sarò. Ti aspetterò.”
“Promesso?”
“Promesso.”
“Ti amo, John.”
“… Anche io, James.”
 
 
Sherlock lo accolse con un grugnito seccato, senza neanche distogliere gli occhi dal libro che stavano leggendo. John scosse la testa, frustrato, e salì in camera sua dopo aver depositato un rapido bacio sulla guancia della signora Hudson. Sperava che in quei giorni il conflitto fra loro si sarebbe raffreddato come al solito, invece il suo coinquilino sembrava ancora più irritato di quando l’aveva salutato la mattina in cui le loro strade si erano divise.
Quella sera si ritrovarono, contro il loro volere, a cena con la signora Hudson e sua sorella. John non vedeva l’ora di abbandonarsi sul letto e parlare al telefono con James, Sherlock, da parte sua, sembrava avere di meglio da fare che perdere tempo a quel tavolo, a snobbare ogni piatto che gli veniva messo davanti fino alla torta al cioccolato.
“Oh, cielo, Louise, potresti venire ad aiutarmi un istante? Guarda qui che disastro…”
Le due Hudson si chiusero in cucina a scambiarsi opinioni circa il congelatore che aveva sbrinato creando una sottospecie di allagamento di fronte al frigorifero. Nella piccola saletta da pranzo della padrona di casa, rimasero solo John e Sherlock, entrambi con gli sguardi ostinatamente lontani l’uno dall’altro. Inaspettatamente, fu Sherlock a rompere quel pesante ed imbarazzante silenzio.
“Allora, come sta il grande eroe di guerra?”
“Non dirlo come se non sapessi che la sua immagine sta venendo fatta a pezzi dalle famiglie dei ragazzi e dall’opinione pubblica.”
Il consulente scrollò le spalle. “Non dovrebbe curarsi della tua di opinione?”
“Smettila, Sherlock.”
“Di fare cosa?”
“Di atteggiarti da bastardo senza cuore. Sappiamo entrambi che non lo sei e se ti ho fatto qualcosa, ti prego di dirmelo e basta, invece che mettere in mezzo anche James.”
“Oh, dunque non è più il maggiore Sholto? Vuol dire che è riuscito nella sua impresa di scoparti?”
John sbatté entrambi i pugni sulla tavola, facendo tremare le stoviglie sporche sulla sua sommità. Nei suoi occhi c’era rabbia, molta rabbia e incomprensione, perché Sherlock sapeva essere un ragazzino, sì, un acido, sì, uno stronzo, sì, ma quella volta era diversa.
“Quando ti deciderai a tornare in te, fammi un fischio.” sentenziò a voce bassa, ma la smorfia dell’altro gli dimostrò che il volume era stato sufficiente.
Si affacciò alla porta della cucina e salutò sbrigativamente le due anziane sorelle, per poi salire velocemente al piano di sopra. Non si accorse che Sherlock lo stava seguendo, che calcava i suoi stessi passi, che le sue labbra tremavano, indecise tra il chiamarlo o il tacere e lasciarlo andare.
“John.” Ai piedi della scalinata che conduceva alla sua stanza, John si volse lentamente, con cautela, e non poté negare di aver aspettato quel confronto fin dalla loro lite. Voleva chiarirsi con lui, voleva che le cose tornassero a posto, voleva… Cos’era che voleva? Cos’era quel desiderio che si affacciava in lui, scomodo, ossessivo, penetrante…
“John.” ripeté Sherlock, facendolo tremare. “John, io…”
Quanto poteva, il suo nome, risultare così bello e seducente pronunciato da quelle labbra? La verità era che, ora ne era certo, Sherlock lo attraeva in maniera pressoché ineluttabile, fisicamente e mentalmente parlando. In quel momento, John comprese che se Sherlock gli avesse chiesto qualcosa, qualunque cosa – un abbraccio, un bacio o addirittura di più – lui lo avrebbe assecondato, perché nonostante tutto, ne era completamente stregato. Neanche James, sotto quel punto di vista, gli aveva provocato sensazioni simili.
James.
La sua immagine gli svettò di fronte e lo fece impallidire. Che cosa stava facendo? Che cosa stava… pensando? Era assurdo. Lui amava James, non avrebbe mai potuto tradirlo… O forse sì? Forse, con Sherlock sarebbe stato possibile… Che assurdità! Sbatté ripetutamente le palpebre, quasi a voler segregare tutti quei pensieri in qualche cantuccio della sua mente, ma quando incontrò di nuovo lo sguardo del coinquilino vacillò. Cristo, se era bello. Da quando era cominciata quell’attrazione così disturbante? Doveva andarsene al più presto, salvare la sua relazione prima che fosse tardi, perché Sherlock era pericoloso, Dio se era pericoloso…
“Sherlock, sono molto stanco e ho bisogno di-”
“Perdonami, John.” lo interruppe l’altro. “Perdonami perché non ti meriti di essere trattato come ti ho trattato a Kabul e come ti ho trattato anche oggi. Io… non lo so neanche io che mi prende. E’ sono arrabbiato se penso a te e… e a quel tipo insieme. Non lo so che mi prende, John, non lo capisco. Sono confuso quanto te nel sentirmi parlare come ti ho parlato prima.”
Il cuore di John perse un battito. Aspetta, cuore? Il suo cuore risentiva delle parole di Sherlock? Ma lui… Quella fra loro era pura e semplice chimica, niente di più. Ma l’amore non era forse anch’esso una reazione chimica?
“Va tutto bene, Sherlock. Probabilmente sei solo preoccupato che il mio rapporto con James possa compromettere in qualche modo la nostra amicizia, ma ti assicuro che non sarà così. Sei importante per me, sei il mio migliore amico e non ho alcuna intenzione di lasciarti indietro, capito?” Vide l’espressione dell’amico farsi meno incerta.
“Quindi è solo questo? E’ solo paura di perdere la tua amicizia?”
“Credo di sì.”
Sherlock annuì più volte, pensieroso, poi riportò lo sguardo su John. “Lo ami?”
Quella domanda lo colse impreparato. Lo amava? Se l’era chiesto da quella notte e poi, quando aveva conosciuto il detective, se n’era convinto e se l’era ripetuto nel corso dei mesi come un mantra. Ma ora che guardava Sherlock, che Sherlock guardava lui, che quella domanda restava sospesa tra loro senza risposta… dubitò. Osservò le sue iridi, i suoi ricci, i suoi zigomi, le sue labbra, il suo collo. Non era solo attrazione fisica, no, e neanche intellettuale. Sherlock era sia bello che intelligente, ma questo l’aveva sempre saputo, chiunque lo sapeva. E allora cos’era quella spina che, prepotentemente, si faceva sentire quando si alzava la tensione e loro due rimanevano sospesi, fermi a guardarsi, come in attesa di qualche segno divino? Pensò a James, lo rivide su quel lettino d’ospedale, ricordò le lacrime, le interviste alla tv, le lettere di protesta, la promessa che si erano fatti… James aveva bisogno di lui. Più di quanto non ne avesse Sherlock.
“Sì, Sherlock. Lo amo” Ed era più facile dirlo sapendo di mentire. Negli occhi dell’altro sfilò una luce malinconica, che John decise di ignorare deliberatamente.
“Capisco. Allora… beh, direi che ci siamo chiariti su tutto, no?”
“Sì, penso di sì.”
“Bene, ti auguro la buonanotte, John.”
“Buonanotte, Sherlock.”
Quando si richiuse la porta alle spalle, afferrò il telefono ma anziché leggere i messaggi che James, nel frattempo, gli aveva inviato, lo spense. Ne aveva abbastanza per quel giorno. Aveva fatto una scelta, d’accordo, ma era come se qualcuno gli avesse sferrato un cazzotto sulla bocca dello stomaco. Sherlock… Possibile che John si fosse convinto di amare il maggiore Sholto solo per non aprirsi a quel meraviglioso consulente investigativo? Per proteggersi? Qualunque cosa fosse successa e stesse succedendo in lui, ormai aveva scelto e niente avrebbe potuto cambiare le cose.
 
 
Fu orribile. Semplicemente orribile. Fu come sprofondare nuovamente nella melma dei campi di battaglia in Afghanistan, come ritornare bloccato in quell’accampamento, con la spalla dolorante, fu come rivivere l’esperienza vissuta assieme a James.
Su tutti i giornali, in prima pagina, la foto di Sherlock con la scritta Impostore affissa sulla sua testa. Colonne e colonne di inchiostro erano dedicate a come il brillante consulente investigativo di Londra avesse inscenato ogni omicidio e mistero, solo per risolverlo e guadagnare popolarità. Moriarty era diventato un attore assunto per interpretare la parte del super cattivo, come in un film della Marvel. E John… John era semplicemente l’uomo che adesso vagava latitante assieme al bugiardo in questione. Sherlock era passato al laboratorio, da Molly, ma lui non aveva idea di che cosa avessero discusso. Era ritornato col volto corrugato in un’espressione insicura e sofferente, come di un condannato a cui mancavano poche ore di vita per giungere alla forca. Insieme, si chiusero in una delle tante stanze vuote al Barts, e lì rimasero per un po’ in silenzio.
John si concesse alcuni istanti per prendere il cellulare e leggere i messaggi che gli erano arrivati.
 
John, ho saputo. Se avete bisogno di un posto dove stare raggiungimi a questo indirizzo. –James
 
In allegato, una posizione su Google Maps. Non era neanche troppo distante da lì. Sarebbero stati relativamente al sicuro, con un ex soldato, in un luogo a Moriarty sconosciuto.
“James ci ha offerto di andare da lui.”
“Potrebbe essere una trappola di Scotland Yard.”
“Non mi tradirebbe mai.”
“Se ti amasse come dice di fare allora lo farebbe.”
John corrugò la fronte, confuso nell’udire quelle parole. “E perché?”
“Perché scappando con me, John, hai praticamente dichiarato al mondo intero di essere un mio complice, il complice di un impostore.”
“Ma non lo sei.”
“Alla gente non importa. Moriarty ha ormai architettato il piano perfetto per distruggere agli occhi del mondo e delle persone a me care la mia immagine. E’ questione di tempo prima che mi dia il colpo di grazia.”
“Sarò sempre dalla tua parte, qualunque cosa accada. Lo sai, questo, vero?”
Sherlock lo guardò, un misto di gratitudine e insofferenza sul suo volto. “Forse non dovresti.”
“Forse no.” concordò John sedendoglisi di fronte. “Ma è ciò che voglio.”
“James è ciò che vuoi.”
“Vedo che il tirarlo in ballo è diventata un’abitudine.” osservò con un mezzo sorriso, senza allegria né malizia. Contemplava Sherlock, il suo Sherlock, quell’espressione malinconica, quegli occhi feriti, quel capo sconfitto. Era come avere di fronte il fantasma dell’uomo che aveva conosciuto. E quella visione era troppo, semplicemente troppo per John che allungò un braccio in modo da prendergli una mano. Sherlock alzò di scatto gli occhi, confuso, emozionato, impaurito. Fra tutte quelle emozioni, John riuscì anche a leggervi sollievo. Sapeva perfettamente di essere l’unico in grado di calmarlo, di risollevarlo da terra. “Voglio crederti, Sherlock. Voglio sconfiggere Moriarty con te. Voglio dimostrare a tutti che si sbagliano su di te. E voglio tornare alla nostra vita insieme. Sherlock, io…”
Voglio te. Ma era troppo difficile da dire, perché era vero e non era una menzogna come quando gli aveva detto di amare James.
“John, se questa fosse l’ultima notte insieme, l’ultimo momento insieme, che cosa faresti?” chiese il detective con voce flebile.
John ridacchiò, sporgendosi appena verso di lui. “Probabilmente una sciocchezza.”
“Perché una sciocchezza?”
“Perché ho troppa paura di perderti per fare quello che voglio.”
“Ma mi perderesti comunque: sarebbe l’ultima notte, ricordi?”
Gli occhi del medico si inumidirono appena a quella prospettiva. Perché Sherlock gli parlava in quel modo? Che cosa stava cercando di dirgli? “Ma questa non è la nostra ultima notte, vero?”
Il coinquilino esitò e rafforzò maggiormente la presa sulla sua mano. “No, John. Ti prometto che non sarà la nostra ultima notte.”
John si aprì in un sorriso a quelle parole. “Bene, adesso che me l’hai promesso… voglio darti una ragione per restare o per tornare, a seconda dei punti di vista.” Una risatina amara spezzò le sue parole, ma quando sfumò, lasciò solo una pesantezza di piombo. Si avvicinò al viso dell’altro lentamente, dandogli la possibilità di scansarsi, di salvarsi, di salvare lui e James, di salvare la loro amicizia… Si avvicinò e dentro di sé pregava che non si scansasse. “Se questa fosse la nostra ultima notte, Sherlock, ti amerei con tutto me stesso come in ogni altro giorno non potrei fare.” sussurrò a un soffio dalle sue labbra, frenando l’avanzata. “Se questa fosse la nostra ultima notte, allora ti chiederei di amarmi, Sherlock, con tutto te stesso come non ti permetterei di fare in ogni altro giorno. Amami, Sherlock, solo per stanotte.”
Sherlock gli afferrò il volto e lo tirò a sé con forza e disperazione. John scoprì cosa voleva dire baciare il suo migliore amico e non poté negare che fosse anche migliore di quello che era in tutti i film che si era fatto in testa. Accarezzò gentilmente le labbra di Sherlock con la lingua, muta richiesta di andare oltre, e quando trovò una porta aperta al posto della sua bocca, si permise di osare, di assaggiare appieno il sapore dell’altro, di scavare a fondo in quel palato. Le loro lingue si intrecciarono assieme, si accarezzarono, si provocarono con una danza sensuale.
“John” mugolò il detective senza interrompere il contatto fra loro. “voglio appartenerti e voglio che tu appartenga a me.”
Ecco la richiesta che John aspettava da tempo, da due anni. La richiesta che avrebbe assecondato nonostante tutto. La richiesta che avrebbe soddisfatto senza esitare. Morse il labbro inferiore del coinquilino che mugugnò appena di dolore, ma che subito dopo sospirò, inebriato dagli umidi baci che l’altro gli stava lasciando sul collo, sulla mandibola, sul pomo d’Adamo. Senza smettere di graziare il detective con piccoli morsi sulla pelle bollente, il medico lo prese fra le sue braccia senza alcuno sforzo e depositò il suo corpo slanciato su uno dei tavoli bianchi della stanza, tra provette e becher, e presto si portò a cavalcioni sulle sue cosce, le mani che avevano preso a slacciare convulsamente la camicia bianca dell’amico – o forse amante?
“Spogliati, John.” ansimò Sherlock tra un bacio e l’altro mentre John gli leccava la pelle nivea del petto glabro e magro. Senza troppe cerimonie, il medico si concesse qualche istante per sbottonarsi la camicia e ammirare l’opera di perfezione che aveva sotto di sé, e quando anche l’ultimo bottone fu fuori dall’asola, lanciò l’indumento lontano, con uno sbuffo impaziente che fece ridere Sherlock.
C’era una lacrima al lato dell’occhio destro del consulente investigativo. John la raccolse con le labbra, ne saggiò il sapore e con la punta del naso accarezzò quella palpebra dolcemente socchiusa in un’espressione malinconica. “Non piangere, amore mio.”
“Non piango per la tristezza, piango per la gioia.”
Ripresero a baciarsi, a respirare l’uno nella bocca dell’altro, i bacini che stridevano silenziosamente, finché John, accaldato e senza fiato, cominciò a borbottare un: “Via, via, via.”
Si liberarono di ogni altra barriera e fu solo questione di tempo prima che gemiti sempre più udibili risuonassero per la stanza, perdendosi fra gli strumenti e i banchi dell’aula. Un sospiro più lungo degli altri lasciò le labbra di John, il cui corpo era ormai un tutt’uno con quello di Sherlock che dopo pochi istanti lanciò, a sua volta, un gemito liberatorio. Il loro corpi caldi, sudati, fusi, rimasero allacciati insieme, finché John non si sollevò facendo forza sulle braccia ai lati della testa di Sherlock, timoroso che quest’ultimo potesse sentire più dolore di quanto fosse necessario. Passarono minuti interminabili, fatti di dolci carezze e baci umidi.
“Mi hai marcato per bene.” scherzò il detective contemplando solo alcuni dei numerosi succhiotti che costellavano la sua pelle lattea.
“Così il resto del mondo saprà che sei già di proprietà di qualcuno.” rispose il medico lasciandogli un bacio dolce su uno dei morsi sul collo, come a volersi scusare.
“Devo ricordarti che anche tu eri di proprietà di qualcuno quando abbiamo fatto l’amore?”
John sospirò e puntò lo sguardo sul soffitto. “Non potevo continuare a mentire a me stesso, Sherlock. Quando finirà tutta questa maledetta storia dell’impostore e di Moriarty, chiamerò James e gli dirò la verità.” Si volse verso il coinquilino, rivolgendogli un’occhiata dolce. “Voglio che tutto il mondo sappia che sono tuo e che posso averti quando e come voglio, anche in una squallida auletta come questa.”
Sherlock ridacchiò. “Effettivamente, questo posto non è tra le prime posizioni della lista dei posti più romantici in cui fare l’amore.” John scoppiò a ridere a sua volta e si sollevò per strappargli un bacio caldo e passionale come quelli che si erano scambiati fino a poco fa. “Cristo, John, staccati o mi farai andare in giro zoppicante.” A quelle parole, John davvero non riuscì più a trattenersi e si lasciò cadere sulla scrivania, con due lacrime agli occhi per le risa. Quando riaprì le palpebre, nel suo campo visivo comparve il volto di Sherlock che lo fissava con dolcezza. “Sbaglio o prima… mi hai chiamato amore mio?”
Il medico strinse le labbra ed ebbe la paura folle di essersi spinto troppo oltre, di aver bruciato le tappe, ma quelle parole gli erano sfuggite così vere e sentite dalle labbra. “Io… Ecco, io non… Forse non avrei-”
“Sei davvero adorabile quando non farnetichi cose senza senso, amore mio.”
E nonostante fosse stata pronunciata con una punta di arrogante ironia, quella parola risultò così bella alle orecchie di John che circondò il corpo di Sherlock con le braccia e lo premette al suo. “Sono felice, Sherlock. Per la prima volta, dopo tanto.”
“Anche io, John.” I ricci di Sherlock gli solleticarono il viso, suscitando in lui un moto di ilarità e tenerezza, ma la frase che seguì lo fece raggelare. “Dio, fa che questa non sia davvero la nostra ultima notte.”
 
 
Lo fissava. Non distoglieva lo sguardo. Pregava. Lo guardava ergersi maestosamente terrificante su quel maledetto parapetto, bellissimo come al solito, disperato, in lacrime. E John se ne stava là, sulla terraferma, ad osservare impotente il suo Sherlock barcollare tra la vita e la morte. Se solo non se ne fosse andato, se solo non avesse risposto a quella finta chiamata, se solo non fosse corso a quell’indirizzo che gli aveva spedito James, solo per trovare un edificio in rovina in cui lo aspettavano un paio di poliziotti. Nessuna traccia di lui. La forza della disperazione e dell’amore gli avevano dato la forza di opporsi, di ribellarsi, e l’addestramento militare aveva fatto il resto. Mentre balzava sul primo taxi disponibile, sapeva che ci sarebbero state delle ripercussioni, ma non gli importava. Aveva lasciato Sherlock da solo e Dio solo sapeva cosa avrebbe architettato quel serpente di Moriarty. Era sceso, aveva risposto alla chiamata di Sherlock e si era fermato su quel marciapiede. L’unica cosa che fu in grado di fare, fu ascoltare le parole tremanti dell’uomo che amava. Le sue menzogne.
“Questa chiamata è… ehm… E’ il mio biglietto. E’ quello che le persone fanno, no? Lasciano un biglietto.”
John scosse la testa, mentre il cuore dentro di lui sembrava volergli scoppiare, e avrebbe dovuto urlargli ti amo, non lasciarmi, ho bisogno di te, non lasciare che quella che abbiamo condiviso sia la nostra ultima notte
Ma l’unica cosa che fu in grado di dire fu: “Lasciano un biglietto quando?”
“Addio, John.”
“No, non…” Lo vide gettare via il telefono, spalancare le braccia e… “SHERLOCK!”
 
 
Corri verso quella figura scomposta che stenti a riconoscere. Un nugolo di gente si è già assiepata attorno a lui. Lui. Scansi quelli che ti impediscono di vedere, crolli in ginocchio con la mano protesa verso quello che rimane dell’uomo che ami. Cerchi il battito, lo cerchi disperatamente, fingi per un attimo di avvertirlo sotto i polpastrelli tremanti, ma tutto tace.
Dio, no… Gesù, no…
I suoi occhi. I suoi occhi vuoti. Ne hai visti di occhi cristallizzati a causa della morte, ma i suoi… Cristo, sembrano ancora vivi. Vorresti stringere il suo corpo tra le tue braccia, scoppiare a piangere, urlargli il tuo amore, chiedergli perdono per non essergli stato abbastanza accanto. Ma lui è morto. Che senso ha fare tutto questo? Te lo strappano dalle braccia, una sconosciuta ti tira a sé, e mentre se lo portano via, ripensi a quelle lacrime che ha versato prima di dirti addio.
Non piangere, amore mio.
 
 
Tremava, aveva gli occhi iniettati di sangue, le mani strette attorno alla stoffa dei pantaloni. Aveva inviato un sms, uno soltanto:
 
Dimmi dove sei realmente.
 
E la risposta non tardò troppo ad arrivare.
Impiegò dieci minuti a piedi per raggiungere quella maestosa dimora bianca attorniata da un modesto giardino. Pigiò con insistenza il campanello e il cancello si aprì dopo poco, lasciandolo passare. Percorse a passo svelto il vialetto che conduceva alla porta di ingresso che ora si stava lentamente spalancando, rivelando una figura, quella figura. Gli fu addosso in pochi secondi. Lo sbatté al muro, un braccio premuto contro la gola, lì dove c’era la trachea.
“PERCHE’?” urlò fuori di sé mentre la vista gli si offuscava a causa delle lacrime. “PERCHE’ CAZZO L’HAI FATTO, EH?”
James era un ex soldato, era stato un ufficiale, conosceva perfettamente la tattica per liberarsi da quella presa serrata, i riflessi avrebbero addirittura agito da soli se la persona che lo stava intrappolando non fosse stata John. “L’ho fatto per te.”
“PER ME? Lo sai per chi cazzo l’hai fatto, invece? PER JAMES MORIARTY! E’ lui che hai aiutato, non me!”
“Volevo salvarti da lui.”
“Da lui? Vuoi dire da Sherlock? Dal mio migliore amico, dalla persona migliore che conosca, dall’UOMO CHE AMO?”
James si paralizzò, ogni singolo muscolo rigido. I suoi occhi scrutavano quelli dell’altro con orrore e, sebbene avesse dovuto, John non si sentì affatto in colpa per quello sguardo. Sì, l’aveva tradito e sì, era innamorato di un altro che, probabilmente, amava dal primo momento, eppure non riusciva a ritenersi un miserabile. La sua mente ripercorreva ancora e ancora e ancora quel maledetto salto, quel corpo a terra, quel cuore muto…
“Da quanto va avanti la vostra storia?”
Alzò gli occhi arrossati dalle lacrime e dalla rabbia. “Non va avanti. Non c’è mai stata una storia, non ne abbiamo avuto il tempo! Non gli ho neanche detto che lo amavo, non ho neanche provato a raggiungerlo su quel cazzo di tetto! Come può essere considerata una storia un’unica notte? La nostra ultima notte?” Urlava e mentre sputava le parole si accasciò a terra, accompagnato dalle braccia forti e, ormai, rigide di James. “Perché, James… Perché?”
Il maggiore si chinò su di lui e lo avvolse in un abbraccio a cui John cercò di ribellarsi, ma la solitudine lo attanagliava, il ricordo di Sherlock e del suo pianto lo percuotevano con cattiveria. “Perché volevo salvarti, John. Mi è arrivata la telefonata di un uomo che mi ordinava di fare tutto quello che mi avrebbe detto di fare se volevo salvarti. E io… John, non potevo sapere…”
“Sherlock…” singhiozzò John soffocando le lacrime contro il petto di James. “… Sherlock… Sherlock… Sherlock…”
 
 
Ti avvicini a quel marmo nero. Quanto è appropriato, per l’uomo di cui porta il nome. Sei a un passo dal perdere tutto, lo sai, forse hai già perso tutto, ma prima devi affrontare quel nome e cognome, quelle date, quella lapide. Lo amavi e lo ami ancora. Raccogli il coraggio, fai un bel discorsetto, simile a quello che hai tenuto al funerale, perché mentire, come sempre, ti risulta più facile. Dentro di te, invece, solo verità e dolore. Ti chiedi perché l’abbia fatto, perché abbia cercato di convincerti del suo essere un impostore, perché si sia gettato proprio dal luogo in cui vi siete conosciuti e in cui il vostro amore ha trovato sbocco.
Non ti bastavo?
E pensi a Richard Brook alias Moriarty. Pensi a quella vipera di giornalista. Pensi a tutti quegli sciacalli che ancora oggi si ostinano a sputtanare sulla magnificenza dell’uomo che ami. Pensi alla vostra ultima notte. Pensi alle ultime parole di Sherlock proferite in quell’aula.
Fottiti, Dio, perché hai lasciato che fosse davvero la nostra ultima notte.
Sherlock è morto. Ne hai preso atto? Forse no. Forse, in te, c’è ancora un rimasuglio di speranza: la follia, il rifiuto… Ma Sherlock è morto e questo non puoi cambiarlo. La vedi la lapide? Guardala. Guardala bene. Perché è qui che ti farai seppellire quando arriverà anche la tua, di ora. Farai di tutto per essere sepolto vicino all’uomo che ami e che amerai tutta la vita.
Perché l’hai fatto, Sherlock? Avresti potuto lottare insieme a me per provare la tua innocenza.
Accarezzi meccanicamente il marmo freddo come la sua pelle quando hai cercato, inutilmente, il polso. Le tue labbra blaterano parole a caso, il tuo cuore strepita lacerato.
Non ti bastava avere me per vivere? Per lottare? Contavo davvero così poco?
E improvvisamente sei arrabbiato con te stesso, con James, con la signora Hudson, con Mycroft, con Lestrade, con Moriarty e sì, anche con lui. Ti volti, vuoi fingere di lasciarti quella lapide alle spalle, di non portartela dietro, nel tuo cuore, fino a Baker Street, per poi lasciarla sulla poltrona nera di fronte alla tua. Il solo perdere il contatto visivo con quelle lettere che per te hanno rappresentato il mondo, t’infonde un senso come di annegamento. Così ti rivolgi di nuovo alla tomba, stavolta cuore e labbra connettono.
Un ultimo miracolo, Sherlock, per me. Non essere morto.
Sherlock… Sherlock… Amore… Morto…
Potresti, solo per me, smettere? Smettila…
Piangi, soldato. Piangi e amalo con tutto te stesso. Perché la morte è venuta e il tuo cuore è ormai libero di piangere e amare.
 
 
Due anni. Due lunghi anni. Era cambiato tutto. John si era trasferito, aveva lasciato quelle mura, quella strada. Non poteva più accettare di sentire il suo violino risuonare ancora, di udire i suoi passi, di trovare la cucina in disordine dopo un esperimento, di vederlo disteso sul divano, perso nel suo Palazzo Mentale. Aveva conosciuto una donna, un’infermiera biondina graziosa e simpatica. Avevano fatto sesso dopo qualche bicchiere di vino di troppo e da allora la loro storia era andata avanti.
John non l’amava. Non poteva più amare. Sherlock era morto. Chi restava da amare? Il maggiore Sholto era stato costretto a cambiare casa, città, numero di telefono a causa delle ingenti minacce da parte delle famiglie dei ragazzi morti. Non lo vedeva dal funerale di Sherlock. Non sapeva se voleva vederlo. Ormai il rancore si era dissipato, lasciando posto al desiderio di rivederlo, di rivedere quelle somiglianze che aveva riscontrato tra lui e l’uomo che amava.
Mary, la biondina in questione, era perfetta, perfetta per la vita che John aveva intenzione di condurre. Non aveva niente a che fare con James né tanto meno con Sherlock, ma a lui andava bene così. Non avrebbe potuto sopportare di incontrare qualcun altro come loro – bello, orgoglioso, intelligente, a tratti arrogante, straordinario. Andava bene, si ripeteva John. Andava bene così. Poi, però, passava in cimitero, si fermava di fronte a quella lapide e pensava che no, non andava bene per niente, perché lui non c’era più e questo non sarebbe cambiato.
Mary gli aveva proposto di lasciarsi crescere i baffi, lui però si era opposto: a Sherlock non sarebbero piaciuti, lo avrebbe schernito benevolmente, magari l’avrebbe definito un vecchietto… Sherlock. Ci aveva provato a cancellarlo, se non dalla sua vita, almeno dal suo cuore, ma gli incubi erano tornati, la zoppia andava e veniva, la mano a volte tremava… Niente era più lo stesso. Senza lui, c’era qualcosa che aveva davvero senso?
 
 
Era una sera come le altre. Aveva un appuntamento con Mary in un ristorante di lusso davvero bello – aveva dovuto prenotare con due settimane di anticipo. Alla fine, però, aveva disdetto tutto, scusandosi con la fidanzata dicendo di non stare bene e di essere molto provato dal lavoro. Era stanco, sì. Decisamente stanco. Afferrò le vecchie chiavi che teneva sempre a portata di mano e se le infilò in tasca. La metro, a causa della ormai tarda ora, era semivuota, fatta eccezione per qualche impiagato di ritorno dal lavoro o qualche individuo dall’aria circospetta, attaccato al cellulare con frenetico nervosismo. Sherlock avrebbe di certo dedotto tutta la vita di quelle persone in un battito di ciglio, poi lo avrebbe guardato e avrebbe atteso il suo straordinario! Se Sherlock ci fosse stato…
Arrivò al 221B avvolto nella fresca aria serale, infilò le chiavi nella toppa e, notando il battacchio completamente dritto, decise di spostarlo verso destra, com’era solito fare il suo coinquilino. Quando si richiuse la porta alle spalle, osservò quelle scale, quei diciassette gradini, quell’entrata che conduceva alla loro casa. Non dovette aspettare molto perché la signora Hudson si affacciasse alla porta e lo guardasse confusa.
Dovette sorbirsi il terzo grado, ovvio. Se lo meritava, forse. Ma mentre la sua vecchia padrona di casa sosteneva inviperita che avrebbe potuto chiamarla, venirla a trovare qualche volta, prendere un caffè insieme, tutto quello a cui John riusciva a pensare era l’appartamento sopra alla sua testa, intonso stando a quanto diceva la signora Hudson.
Salirono insieme, fuori la notte stava scendendo inesorabilmente. L’appartamento era esattamente come se lo ricordava, forse più polveroso, ma riconosceva il disordine, il teschio, il violino, lo smile giallo sulla parete perforata da alcuni colpi di proiettile. Una vita intera racchiusa fra quelle pareti. La signora Hudson gli chiese come gli andavano le cose, se c’era qualcuno nella sua vita, ma John si limitò a dire che sì, c’era qualcuno ma che no, non era niente di serio e che probabilmente presto avrebbe messo lui stesso un punto. Perché tornare a Baker Street era stato il passo decisivo. Decise che si sarebbe nuovamente trasferito, perché era quello che Sherlock avrebbe voluto. Decise che avrebbe continuato ad aiutare Scotland Yard, per quanto a lui possibile stando alle sue capacità. Decise che avrebbe ripreso in mano la vita che Sherlock gli aveva porto con la sua mano ormai fredda a causa della morte.
“Posso rimanere a dormire qui, stasera?”
“Ma certo, caro. E’ pur sempre casa tua. Ti preparo la camera di sopra?”
“Quella di Sherlock l’ha toccata?”
“No, è così come… come l’ha lasciata.”
“Andrà benissimo quella, allora.”
Si stese sul morbido materasso che un tempo aveva ospitato il candido corpo dell’unico consulente investigativo al mondo. Chiuse gli occhi e cercò il suo odore, il calore del suo corpo, la morbidezza dei suoi ricci. Non avrebbe dormito, quella notte, già lo sapeva. Tese una mano verso la parte del letto vuota, immaginandosi di accarezzare quella schiena perlacea punteggiata qua e là da piccoli nei.
“Sherlock…” sospirò premendo il volto sul cuscino e stringendo le dita attorno al lenzuolo freddo, vuoto.
All’improvviso, un grido. La signora Hudson stava urlando. Scattò in piedi e cercò di raccogliere le idee, ma non aveva portato la sua pistola con sé. A cosa gli sarebbe servita durante una visita di cortesia alla sua vecchia padrona di casa e all’appartamento che aveva condiviso con l’uomo che amava? Corse in cucina e afferrò una padella, brandendola come fosse un arma. La signora Hudson ora gridava frasi sconnesse, John poteva persino udire una seconda voce, coperta, però, dagli strepiti di lei. Scese le scale cercando di risultare il più silenzioso possibile, saltò gli ultimi due della prima rampa per essere più veloce, e praticamente quasi non sfiorò nemmeno la seconda.
Quello che gli si parò davanti, però, fu semplicemente impossibile. Quel cappotto. Quei ricci. Quel volto d’alabastro. Quegli occhi. Occhi che ora lo guardavano. Occhi colmi di gioia e amore.
“John…”
La sua voce. Cazzo, la sua voce. A John sembrò di essere svuotato di ogni energia. Dunque, era questo il giochetto di Baker Street? Illuderlo, farlo impazzire, proiettargli di fronte immagini inesistenti. Era solo un sogno. Solo un sogno. “Sherlock.” Ma non c’era stupore in quel sussurro, solo rabbia, perché non gli importava di avere di fronte la proiezione dell’amore della sua vita, non gli importava di avere di fronte la proiezione di Sherlock Holmes, perché Sherlock Holmes era morto. Suicida. L’aveva abbandonato. E la rabbia, lentamente, montava, maligna, incontrollabile. “Lieto di rivederti, bastardo.” ringhiò prima di assestargli un colpo preciso alla nuca con la padella. Lo vide crollare, il corpo di Sherlock Holmes. La signora Hudson emise un gridolino di stupore.
“John…”
“Va tutto bene, signora Hudson. Tanto fra un po’ mi risveglierò e andrà tutto a posto.”
“Ma che dici, John?” La donna gli si avvicinò e, con forza quasi brutale, gli pizzicò una guancia. John gemette di dolore e si ritrasse massaggiandosi il punto interessato.
“Ma è impazzita?”
“Non è un sogno, John. E’ reale. Lo dico perché darmi un pizzicotto è stata la prima cosa che ho fatto quando l’ho visto.”
Lui sgranò gli occhi e si rese conto che, diavolo, non era un sogno per niente. Si chinò su quel corpo così simile a Sherlock, fottutamente uguale a Sherlock, e quando le sue dita si chiusero attorno al polso di quel corpo, fu come rivivere il salto, il sangue, il cadavere, il freddo, il dolore. Batté ripetutamente le palpebre per scacciare quelle immagini. Ovviamente era vivo, non era così stupido da creare un trauma cranico con una padellata.
“Mi aiuti, signora Hudson. Posso adagiarlo sul suo divano?”
“Ma certo caro, vieni.”
John si caricò in spalla quel tizio, desiderando solamente di riempirlo nuovamente di colpi di padella, ma trattenne quell’istinto e lo sistemò con quanta grazia la rabbia gli consentì sul divano della donna. Passò circa una mezz’ora prima che il nuovo arrivato aprisse gli occhi e si guardasse intorno smarrito, una mano a massaggiarsi la nuca, lì dove, probabilmente, gli era spuntato un bernoccolo. Quando i suoi occhi incontrarono quelli del medico, inarcò un sopracciglio. “Diciamo che non era esattamente il tipo di accoglienza che mi prospettavo.”
“Adesso basta.” tuonò John rivolgendogli uno sguardo carico di odio. “Dimmi chi sei e perché cazzo sei uguale al mio migliore amico.”
Migliore amico? Mi sembra un po’ riduttivo, non credi, John?”
“Cos’è, un altro dei gloriosi piani di Moriarty? Magari dei suoi tirapiedi visto che lui è morto. Ti sei sottoposto alla chirurgia plastica in modo da rendere il tuo aspetto uguale a quello di Sherlock Holmes?”
L’uomo sbuffò e scosse la testa. “Non essere assurdo… Dio, che mal di testa. Era davvero necessaria quella padellata?”
“Sono io che faccio le domande.” ringhiò di rimando il medico.
“Mi è sempre piaciuto il tuo portamento da soldato, ti confesso che amo quando fai il duro e mi dai gli ordini.”
John sgranò appena gli occhi, ma si impose di rimanere lucido. “Chi sei?”
“Sono io, John. Io. Per quanto miracolosa, la chirurgia plastica non sarebbe in grado di riprodurre tanto perfettamente le fattezze di qualcuno. Guardami, John.” L’uomo si alzò in piedi, avvicinandosi a lui, che, però, si ritrasse, inorridito. “John, ti prego, guardami… Non mi riconosci? Non riconosci l’uomo che amavi?”
“Quell’uomo è morto.” replicò con tono basso il medico.
“Quell’uomo è qui. Sono io, John, toccami, guardami, sentimi.” continuò lo sconosciuto e gli prese una mano, portandosela al viso, al petto, alle spalle, alle labbra.
John non riusciva più ad elaborare alcun pensiero. Sentiva la rabbia scemare, lasciando il posto alla disperazione, perché non poteva essere lui. Aveva visto il cadavere, il sangue, sentito il polso muto, freddo, parlato al funerale, alla lapide… Aveva pianto e ricordato e sognato e sperato per poi piangere nuovamente. Ed era proprio quello che stava facendo ora: piangere, scuotere forsennatamente il capo, trattenere a stento le lacrime.
“No, tu non… Non può essere…”
Sherlock… No, non Sherlock, l’uomo uguale a Sherlock gli si avvicinò ancora di più, gli prese il viso tra le mani, poggiò la fronte contro la sua. “Non piangere, amore mio…”
E quella frase rappresentò la crepa decisiva su un telaio di incrinature su un vetro. Quel vetro si spezzò e John cadde a terra, in ginocchio, singhiozzando quel nome, quello splendido nome. Il suo corpo venne avvolto dalle braccia forti e magre di Sherlock, di Sherlock.
“Tu eri morto… eri morto…”
“Va tutto bene, John, sono qui ora…”
“No, tu hai saltato da quel tetto, mi hai abbandonato…”
Le labbra dell’altro gli depositarono un bacio fra i capelli. “Dovevo salvarti, John. Dovevo proteggerti. Ma per farlo avevo bisogno di farti credere che tutto quello fosse vero. Perdonami…”
“Mi hai fatto soffrire, bastardo… Mi hai fatto male…”
“Lo so, lo so, ma ti giuro che rimedierò, John. Se mi ami ancora, rimedierò a tutto, te lo prometto.”
John, finalmente, trovò la forza di staccarsi da lui e di guardarlo con gli occhi arrossati dal pianto. “Se ti amo ancora, Sherlock? Cosa credi che abbia fatto per tutto questo tempo?”
Sherlock sorrise dolcemente, asciugandogli un paio di lacrime con i pollici. “Mi ami ancora, John? Davvero?”
“Non ho mai smesso, lurido bastardo. Mai.”
E nonostante fosse arrabbiato e avesse voglia di prenderlo a pugni, a testate, a padellate, lo baciò. Lo baciò con passione e col suo peso lo costrinse a terra, dove continuò a baciarlo ancora e ancora, perché niente di tutto quello poteva essere vero, perché quella poteva essere la loro ultima notte, perché il giorno dopo Sherlock avrebbe potuto salire sul tetto del Barts e togliersi la vita… Perché lo amava. Dopo e nonostante tutto. Amava Sherlock Holmes. Dopo e nonostante le menzogne, la morte, la resurrezione, l’assenza, la comparsa. Amava Sherlock Holmes. E lo avrebbe amato per sempre, come se ogni notte fosse stata l’ultima.
 
 
La sala era piena di invitati che si servivano al buffet chiacchierando allegramente, avvolta da un’atmosfera ovattata, felice. Sherlock si guardava attorno con cipiglio scuro, squadrava ogni singolo ospite, la maggior parte dei quali presente per John, e cercava di capire chi arretrare a conoscenze occasionali. John lo osservava da un po’ sorridendo, e lui era l’unico che voleva dedurre, anche se non c’era davvero bisogno di alcuna deduzione, visto che conosceva quell’uomo meglio di quanto conosceva se stesso. Finalmente, Sherlock si volse verso di lui e, incrociando il suo sguardo, si avvicinò, passandogli un braccio attorno alla vita.
“Non dovresti prestare più attenzione alle entrate che allo sposo?”
“Lo sposo è molto più interessante di chiunque altro.”
“Ecco, io questa cosa non la direi in sua presenza.”
John sorrise e si alzò sulle punte dei piedi per scoccargli un bacio casto sulla guancia. “Ti annoi?”
“Sto cercando di contenermi dallo sparare contro una parete.”
“Pazienza, Sherlock. Aspetta di arrivare in albergo e vedrai che la noia passa.” rispose mordicchiando al suo sposo un lobo.
“John, dannazione, la noia è contenibile quello che mi stai facendo tu un po’ meno. Regolati, se non vuoi che ti prenda qui e subito.”
“Potresti sempre dire che mi stai perquisendo per un caso molto importante e che devi mettere le mani un po’ dappertutto... ma proprio ovunque…”
Sherlock gli si allontanò, massaggiandosi una tempia, e John ridacchiò malizioso a quella visione. Gli piaceva giocare con suo marito – suo marito – in quel modo. Improvvisamente, gli occhi di Sherlock si spalancarono, catturati da qualcosa, e quando lui seguì quello sguardo, incontrò la figura di James avvolta nella sua divisa militare.
“E’ qui… E’ venuto!” esclamò allora avviandosi verso il maggiore e accogliendolo con un rigido saluto militare. Si guardarono in silenzio per alcuni istanti, infine fu John a prendere la parola. “Ho saputo che le accuse nei tuoi confronti sono finalmente decadute.”
“Sì, infatti.” assentì James con un timido sorriso che conteneva anche dell’amaro.
“Sono felice per te. Finalmente potrai ricominciare da capo, come volevi.”
“Già, come volevo… Diciamo che dovrò rivalutare un po’ i piani originali…” Gli occhi di James erano malinconici, nostalgici, fissavano John come a voler trovare una traccia di qualcosa. “La verità è che c’ho impiegato troppo e tu, giustamente… ti sei stancato di aspettarmi.”
John abbassò lo sguardo. “Mi dispiace per come sono andate le cose, James…”
“A me no. Oddio, sì, fa un po’ male essere qui e guardare l’uomo che amo unirsi ad un’altra persona, però mi chiedo se sarei stato capace di renderti felice come ti rende lui.”
“Già, beh… la verità è che stare con lui è un casino, perché è lagnoso, pignolo e pigro, però mi ama e non perde mai occasione di dimostrarmelo.” Scoccò un’occhiata allusiva a Sherlock che, per tutta risposta, aggrottò la fronte, confuso. “Ad ogni modo, sono certo che presto ti rifarai una vita, James, dimenticherai la guerra e le accuse sollevate nei tuoi confronti… incomincerai a vivere davvero e troverai una persona con cui condividere l’immenso peso che ora sei costretto a sopportare da solo.”
Gli occhi di James tradirono una luce amara. “E’ più o meno quello che ti ho detto…”
“… la notte prima del mio congedo, sì.”
“Alla fine avevo ragione, eh?”
“Direi proprio di sì.”
Il maggiore arricciò le labbra e distolse tristemente lo sguardo, perso in chissà quali pensieri. “Spero davvero che valga anche per me.”
“Sarà sicuramente così.”
James annuì un paio di volte e finalmente tornò a guardare John, un sorriso dolce e nostalgico sulle labbra. “Abbi cura di te, capitan Watson.”
“Anche lei, maggiore Sholto.”
E si congedarono col saluto militare.
 
 
Quella notte, in hotel, Sherlock si perse a contemplare le stelle dall’ampio balcone che si affacciava sull’immenso giardino che abbracciava l’edificio. John uscì dal bagno avvolto solo dall’accappatoio fornito dall’albergo, e quando lo trovò fuori, con lo sguardo rivolto alle stelle e alle tenebre, gli si avvicinò silenziosamente, cingendogli da dietro la vita con le braccia.
Sotto quel tocco, Sherlock sospirò e inclinò la testa in modo tale da lasciare a John lo spazio per ricoprirlo di candidi baci sul collo. “E’ questa la felicità, John?”
“Credo di sì, Sherlock.”
“Ed è possibile piangere di gioia?”
Solo in quel momento John si accorse che gli occhi di Sherlock si erano fatti umidi. “E’ possibile, sì.”
Il detective tirò su col naso, ancora intento ad ammirare la natura che si apriva sotto il loro terrazzo, infine si voltò, allacciando le braccia al collo del marito. “Me lo sono ripetuto così tante volte, in missione. Ogni volta che la solitudine mi dilaniava, ogni volta che il tuo ricordo si scoloriva un po’ di più, ogni volta che mi rendevo conto di aver perso un dettaglio di te nonostante il mio Palazzo Mentale… mi ripetevo quella frase, John.”
John sorrise e annuì consapevole. Se l’era ripetuta così tanto anche lui, sperando che l’anima del suo amato avesse potuto sentirlo, chissà dove. “Te l’ho ripetuta anche quel giorno, sai?” sussurrò. “Dentro di me, io… io te l’ho detto.”
Sherlock sorrise e prese a baciarlo, lentamente, passionalmente, con amore. “Se questa fosse la nostra ultima notte insieme, che cosa faresti?”
John rispose al bacio, serrando le dita attorno a quei fianchi magri che amava stringere, e lo attirò in un abbraccio possessivo, quasi stesse proteggendo un tesoro prezioso. “Se questa fosse la nostra ultima notte insieme, Sherlock, allora ti amerei con tutto me stesso e ti chiederei di amarmi, Sherlock, con tutto te stesso.”
Caddero sul letto, ancora abbracciati, le lacrime di Sherlock inumidirono appena i capelli di John. “Dimmelo, John. Dimmelo ora.”
“Non piangere, amore mio.”
   
 
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